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mercoledì 8 giugno 2016

#CiaoNetflix: The Breakfast Club

20:52
Negli ultimi giorni una serie di sfortunati eventi mi ha portato a pensare con più frequenza di quanta mi piaccia alla mia adolescenza. Non ci penso mai, cerco di archiviarla nei lati oscuri della memoria sperando che se ne vada nel luogo in cui vanno le cose che scordo quando vado a fare la spesa.
Invece no, è una maledetta angoscia costante da cui alla soglia (si fa per dire) dei 26 ancora non mi sono liberata. La analizzo, la viviseziono, cercando di capire da quali strabenedetti problemi fossi afflitta, ma ancora la risposta la saluto da lontano.
Allora ho guardato The breakfast club, sperando che i giovani anni 80 fossero più svegli di quelli della decade successiva.
Non è così.
Deficienti sempre.

I cinque adolescenti che conosciamo ricoprono talmente bene i ruoli convenzionali che sarebbero stati benissimo in uno slasher: l'atleta, la più popolare della scuola, la disagiata, il secchione e il bullo/criminale. Si ritrovano insieme a scuola il sabato perché sono tutti in punizione, per motivi diversi. Hanno il compito di scrivere un tema con un argomento un po' del cavolo, qualcosa del tipo chi ti credi di essere?
Non lo sanno gli adulti, saggi e formati, figuriamoci quanto un quindicenne possa rispondere a una domanda del genere.
Loro ci si avvicinano, alla risposta. Non per iscritto, ma ci si avvicinano.


DA QUI SPOILER PER TUTTI QUELLI NATI DOPO IL 1990 CHE STO FILM NON L'HANNO VISTO

Quando è comparso John Bender l'ho odiato. Sbruffoncello del cavolo tieni le manacce maledette a casa tua e smettile di spostare tutte le cose perché ti picchio con un libro grosso. Ti picchio. Con un libro. Grosso.
Poi succede che, con il suo modo, racconta agli altri di quanto la sua famiglia faccia schifo. Ed è vero, fa schifo. A 16, 17 anni la vita brutta così non la devi vedere, non è giusto. Succede, ma non è giusto. Nonostante questo, l'ho odiato ancora per un po'.
Ah sì, John? Hai la brutta vita? E in quale parte del tuo cervello sta scritto che questo ti dà il diritto di rompere i coglioni agli altri? Perché non è così.
Mi sono tanto arrabbiata con lui, per aver usato la sua tragica situazione come scudo per tutelarsi del fatto di essere uno stronzetto come migliaia di altri.
Poi l'ho rivalutato un po'. Perché, mi sono chiesta, se lui non ha il diritto di comportarsi come vuole, perché io ho il diritto di giudicarlo? Un pochino a dire la verità ce l'ho, perché comprendo cose che non vorrei comprendere, ma ho pensato, a fine film, che nel mio giudizio mi sono comportata esattamente come il professore. Anche io, come lui, ho dato una mia opinione su un ragazzo e me la sono tenuta, anche quando lui mi ha mostrato la sua debolezza, le sue umane fragilità.
Ho avuto un'opinione su tutti, a dire la verità. Ho visto Allison e ho pensato che fosse pazza. Ho visto Brian e ho immaginato subito che fosse nel club di fisica.
Su quelli belli, popolari ed atletici, però, mica me la sono fatta, l'opinione. Li ho accettati come tali.
Da adolescente, poi, li avrei guardati rosicando selvaggiamente.
Quindi, se Bender non ha il diritto di comportarsi come più gli aggrada, a me quello di giudicare chi l'ha dato?

Perché quando avevo l'età dei protagonisti di The breakfast club (cioè tipo l'altro ieri) facevo la stessa cosa che credevo gli altri facessero nei miei confronti: giudicavo. (Come avete visto, lo faccio ancora.)
Giudicavo ma tremavo al pensiero di essere giudicata, e questo creava in me (e suppongo anche in tutti i giovani dell'universo) un circolo vizioso capace di creare solo quello che i ragazzi del film denunciano come un problema che li accomuna: la pressione.
Devo essere bravo, altrimenti . . .
Devo essere intelligente, altrimenti . . .
Non devo essere vergine, altrimenti . . .
Altrimenti che? Non sarebbe morto nessuno, se Brian non avesse recuperato il brutto voto, ma Brian non lo sapeva, e quindi voleva essere lui, quello a morire. Perché gli era venuta meno l'unica certezza che aveva, il suo cervello.
Se non ho questo cos'ho?
Se non sono il più vincente della squadra, chi sono?
Se non mi amano i miei genitori, chi lo farà?

Ognuno di loro, ognuno di noi, ha avuto (e forse ha ancora) un bisogno viscerale di un'identificazione, che ci aiuti a costruire quello che siamo, o quello che vorremmo essere. Che ci faccia sentire al sicuro quando sentiamo tutto il resto vacillare.


Chissà se il Breakfast club si è più riunito, dopo quel sabato. Probabilmente sono tornati quelli di prima, ognuno con le proprie radicate certezze a tenerli in piedi.
Oppure no, amiconi.
Oppure ancora, una via di mezzo. Ognuno per la sua strada, con gli amici di sempre e la maschera protettiva sul volto di sempre. Ma con una consapevolezza in più, quella di essere molto più di quello che serve mostrare.
Beati loro, che si sono incontrati e si sono aiutati.
Beati noi, che con un film abbiamo riabbracciato per un po' quello che eravamo, forse facendo un passo in più verso quella distaccata tenerezza che serve per guardare al nostro passato smettendo, per una volta, di giudicarci.
Volendoci un po' più bene.





mercoledì 25 maggio 2016

#CiaoNetflix: Into the wild

19:12
Solita intro infarcita di fattacci miei, perdonatemela.
Un mesetto fa sono stata a Praga. Era il mio Sogno da Visitare Numero 2, la aspettavo da tempo, e prevedibilmente quando sono tornata non sono stata la stessa per un po'.
Mi è presa una frenesia senza precedenti, una voglia di mollare tutto e andare, perché se tutto il mondo è così bello io non posso stare qui sul divano a sentirlo respirare a distanza. L'amore per i viaggi l'ho sempre avuto (ostacolato da un'insormontabile paura di volare), ma da un mese a questa parte lo sento incontenibile.
Mi sembrava un buon momento per guardare Into the wild.

Sbagliato, non è mai un buon momento per Into the wild, perché Into the wild è un film del cavolo che mi ha fatto perdere più di due ore in cui avrei potuto dormire, per raccontarmi di un povero deficiente. Prima di offendervi perché sto per insultare il vostro personaggio del cuore suppersuppercult, per favore, finite di leggere e poi proseguite con il defollow.
Mi calmo e andiamo con ordine.

Ho deciso insindacabilmente che Christopher fosse un deficiente al minuto 55.
(Chiarimento per evitare discussioni: parlo del protagonista del film. Non ho sufficiente conoscenza della VERA storia del VERO Christopher per poterne parlare.)
Chris, il grande sognatore pieno di ideali, vede un kayak e decide che adesso vuole andare col kayak, lui che fino a una settimanina prima aveva paura dell'acqua. Va a chiedere informazioni, gli dicono in soldoni che non può navigare sul fiume e lui chiaramente piglia il due e lo fa a fare.
Il grande ribelle si lancia nel fiume nonostante il funzionario (che è OVVIAMENTE un fannullone che sul lavoro telefona per i cazzi suoi, non sono tutti così? brutti cattivi corrotti fannulloni capitalisti) gli abbia detto di no. Stato malvagio che blocchi la libertà individuale e non ci fai andare sui fiumi. Stronzo. E io allora ci vado lo stesso.
Capito la ribellione? Capito lo spirito libero? Capito come ci si gode la vita vera?


Oh, Christopher. Siediti, parliamo un po'.
Io un po' ti capisco. Ogni tanto ho sentito, e sento ancora, il bisogno di scappare via. Di non dover aver a che fare con nessuno, di prendere un paio di libri e di rifugiarmi in una spiaggia, da sola, con solo il mare a farmi compagnia. Ogni tanto lo sento il peso di questa vita che ci viene imposta, di questi modelli tradizionali a cui dobbiamo guardare per prenderne ispirazione: scuola, poi lavoro, il posto fisso, e poi trovare la persona giusta, prima sposarsi, poi vivere insieme, poi fare almeno due bambini e vivere felici fino alla vecchiaia.
Ma sai, cosa, Chris? Mica lo sento solo io.
Ce li hanno tutti, questi desideri di fuga, ogni tanto. E magari qualcuno (non io, almeno per ora) lo fa pure, per un po'. Erasmus, anni sabbatici, ferie prolungate, viaggi avventurosi...
Qualcuno, quindi, guardando il film sulla tua gloriosa avventura in giro per l'America, potrebbe pensare a che eroe tu sia, a quale coraggio tu abbia avuto, a quale vita straordinaria tu abbia vissuto, scuoiando alci e rubando passaggi.
A me, invece, sei stato in culo. Avevi una vita che non piaceva, come ce l'hanno chissà quanti altri poveri cristi al mondo e hai deciso che la cosa migliore da fare fosse mollare tutto ed andare. Comodo, eh, gigione?
Ma sono le persone come te a far sì che quel sistema lì, quello che tu odi così profondamente, non cambi mai. Se ti fa così schifo il mondo in cui vivi, se ti annienta il pensiero di quella mediocre borghesia a cui la tua famiglia ti ha costretto, sai cosa potevi fare? Potevi cambiare strada. Se i tuoi genitori non ti hanno cresciuto nel modo in cui avresti voluto, sai quale sarebbe stato il riscatto più grande? Diventare il genitore che loro non sono stati per te.
Se la società non ti piace agisci nel tuo piccolo per cambiarla. Io odio l'evasione fiscale, mi fa salire i cinque minuti, e quindi nel bar in cui lavoro batto gli scontrini per ogni singolo caffè. Non ne salto uno. E se nei locali non me lo fanno, lo chiedo. Non sono mica un eroe, faccio la mia piccola normalissima parte. Perché la società siamo noi cittadini, e, perdonami la banalità che sto per dire, se facessimo tutti come te? Se mollassimo il mondo civile per il sogno della libertà assoluta che hai inseguito tu, chi resterebbe a mettere la benzina nelle auto a cui tu per primo hai chiesto l'autostop? Chi guiderebbe quel treno che tu stesso hai usato per farti dare un passaggio clandestino?
E allora, mio amato idiota, lo vedi che la civiltà ti serve? Perché a tutti, me per prima, ogni tanto piacerebbe dichiararsi totalmente indipendenti da quei meccanismi che tanto a volte ci fanno infuriare. Ma non lo siamo. Le persone stanno intorno a noi per un motivo, chissà se te lo sei ricordato mentre correvi con i cavalli e per questo ti sentivi tanto tanto cool. Non sei un cavallo, Chris, non credo sia necessario che te lo ricordi io gioia santa. E alla sera, quando ti chiuderai nel tuo furgone da solo, dopo una splendida giornata a spellare alci e sparare agli scoiattoli, non avrai nessuno con cui condividerla, questa libertà. Non vorrai un cavallo accanto a te, vorrai una persona. E non parlo necessariamente di un amore. Sarai lì, in una tenda, senza un volto amico, senza l'abbraccio di tua sorella, senza il sorriso di tua madre, perché la TUA libertà era più importante di tutto il resto.
Perché chissà se ti è mai passato per la testa, maledetto egoriferito, che a casa qualcuno soffriva per te. Chissà se dietro ai quei profondissimi ed intensissimi monologhi che Penn ha fatto dire a tua sorella, o a te, usati come sottofondo per quelle bellissime immagini che avete usato, c'è anche della sostanza, dietro alle belle parole. Chissà quanto hai sofferto TU, quando, alla fine, hai realizzato quella banalissima verità sulla felicità condivisa. Quanto ho detestato la tua presa di coscienza finale. Pensa, vogliamo tutti qualcuno accanto quando stiamo male. E quando sono gli altri, a soffrire?


Pensavo che ti avrei preso a schiaffoni, Christopher, ma forse quelle lacrime versate sul finale sono state una punizione sufficiente.

venerdì 13 maggio 2016

#CiaoNetflix: American History X

19:01
È così facile essere razzisti, in Italia, oggi.
Abbiamo un equilibrio così precario che ogni variazione ci fa vacillare, ogni piccola crepa nella nostra immaginaria perfezione ci fa dimenticare anni di consapevolezze, siamo così fragili da non avere più una mente elastica: è rigida, fatta di cemento, e la prima palla da demolizione che la colpisce la abbatte completamente, per costruirci su da zero.
Lo sono stata anche io. Camminavo per la strada guardandomi alle spalle, perché se fosse passato uno straniero l'avrei visto e mi sarei potuta tenere la borsa un po' più vicina, perché me l'avrebbe potuta rubare. 
Per questo il razzismo lo comprendo. Non lo posso condividere, ma lo capisco. È facilissimo ascoltare quello che ti dice il tiggì delle 8, che guardi mentre ceni con la tua famiglia, e spaventarti per il terribile scenario a cui ci mette davanti. È di certo più facile quello che non prendersi il tempo di andare a fondo alle cose. Spesso il tempo la gente manco ce l'ha. Accende la tv e si gode il piatto pronto e caldo. È esattamente come comprare i 4 salti in padella: economici, veloci e il gusto non è proprio da buttare. Ma la pasta vera è quella fatta in casa, come te l'ha insegnata la nonna, con il sugo fatto con i pomodori freschi, con il basilico vero e non chimico, con il profumo di ragù per casa. 

American History X parla delle conseguenze del non volersi mai fare la pasta in casa. Dell'accontentarsi di parole che ci sembrano convincenti, di frasi fatte composte ad hoc per darci motivo di credere che la ragione ce l'abbiamo noi. Parla di un uomo, Derek, ferito per la morte del padre, che deve dare un responsabile a questo dolore, e che per tutta risposta ne causa dell'altro, creando intorno a sè una spirale di sofferenza per la quale pagherà le conseguenze per sempre. 
Parla di un fratello minore, Danny, che, privato di ogni altro riferimento prende quello sbagliato, fidandosi ciecamente di chi non era degno della sua fiducia. 


Parlando concretamente, parla di Danny Vinyard, il cui fratello maggiore Derek sta per uscire dalla prigione in cui stava per aver ucciso due ragazzi di colore. Derek era un filonazista dalle tremende idee razziste, pronto ad esibire le sue convinzioni come un trofeo, orgoglioso della propria ottusità, talmente pieno di sè da avere preso la mente del fratello minore e da averla modellata a propria immagine e somiglianza senza nemmeno essersene reso conto.

È un potente esame di coscienza, uno specchio che ti riflette la parte peggiore di te, che ti costringe a ricordare ogni tuo comportamento sbagliato e te lo risbatte in faccia. Siamo tutti stati Derek, prima o poi, per i motivi più sbagliati. Se non lo siete mai stati avete tutta la mia ammirazione. L'importante, però, è che sappiamo tutti riconoscere di dover diventare come il Derek post galera.
C'era un rischio che il film correva, nel proporre una storia di 'redenzione': quello di diventare un fastidioso polpettone morale utile solo a farsi mandare a cagare. E invece no, Derek non diventa mai la figura angelica salvatrice dei popoli. Si redime, di sicuro, comprende quanto terribile fosse prima, ma mica lo fa per apparizione magica della madonna. Ci ha dovuto sbattere il muso, pesantemente, nel peggiore dei modi. Sia nel suo passato in carcere, che durante quella che per noi è la scena finale.
Di certo non è stato solo l'aver incontrato un negro simpatico. 


Come avevo già detto per Requiem for a dream, anche questo è un film che avrei voluto vedere a scuola. Vorrei che ogni scuola lo vedesse, che i professori ci sputassero in faccia che l'odio ci sta corrodendo, che stiamo perdendo l'umanità, che siamo delle bestie. Invece l'ho scoperto grazie a mio fratello, classe 1999, cresciuto fin dall'asilo in classi multirazziali e che oggi, grazie a questo, è la persona più lontana dal concetto di razzismo che conosco. E che per questo, nonostante i costanti scontri che ho con lui che in fondo è una testina di cazzo, mi fa nutrire nei suoi confronti una profonda ammirazione.

mercoledì 9 marzo 2016

#CiaoNetflix: The Grudge

16:20
Questo paradisiaco servizio un difetto doveva avercelo. Lo amo a sufficienza da lasciar correre, ovviamente, ma il suo catalogo horror per il momento fa piangere.
Siamo intorno alla trentina di titoli, tutti grossomodo famosi, Saw, Silent Hill, The Ring. . .il filone per ora è quello.
Si trovano anche cosine più intriganti, eh, c'è quella preziosa valle di lacrime che risponde al nome di The Orphanage, ci sta Existenz, e pure Sharknado. Ma siamo lontani dalla sufficienza per ora. SO che col tempo cresceremo insieme, io e Netflix-.

Per dimenticare le faccette della Judith di cui parlavamo ieri mi sono messa a rivedere un horror uscito nei miei anni del liceo, pieno periodo in cui ogni titolo era remake di qualcosa altrimenti non lo facevano uscire.
The Grudge forse è uno dei più famosi, uno di quelli che hanno visto anche i sassi.

Se voi non apparteneste alla specie minerale, mi tocca raccontarvi che è la storia di Sarah Michelle Gellar e Max di Roswell, Lei è un'assistente sociale, grossomodo, va a fare una visita a domicilio ad un'anziana. In casa ci stanno i fantasmi.
Tutto chiaro?
So che è complesso, ma fate uno sforzo.


No, dai che scherzo, non c'è niente di meno complesso di The Grudge.
In un altro momento lo avrei liquidato come FDC, ma in realtà non è riuscito a farmi antipatia.
Ci prova a ricalcare i suoi amici orientali, ma a parte parecchi occhi a mandorla, un paio di fantasmi che più classico di così c'è solo il lenzuolino con i buchi, di jappo ci riesce proprio pochino. Non che io mi consideri un'intenditrice, sia chiaro.
Ma qui è tutto troppo patinato e sbrigativo per riuscire a suscitare anche solo un po' di inquietudine, ci prova lui, povero, ma non gli riesce.
Secondo me è anche colpa del cast di canidi, che sembra spaventato tanto quanto il mio gatto quando parte la centrifuga della lavatrice. Stesso livello di timore, un saltino leggero e fine, livello di consolazione necessaria: rumore della scatola dei croccantini.
Quando le persone parlano dei cliché degli horror tendo ad innervosirmi, ma se ne volete un breve compendio, vi è servito su di un piatto d'argento, tiè, prodotto da Raimi. Il pacchetto comprende anche lo spaventino finale che tanto ci aggrada.

E no, stavolta non mi sono emozionata, nemmeno con la triste sorte dell'amore non ricambiato, non c'è stato verso di prendermi in alcun modo.


Ribadisco, voglio un po' di bene a tutta la faccenda, al periodo a cui è legata, alle colline che hanno ancora gli occhi, ai fantasmi giappo che però sono americani, alle telefonate che ti diagnosticano i tuoi ultimi 7 giorni e al fatto che fossero praticamente tutti dei filmacci tremendi ma che in fondo gli volessimo un po' di bene, perché vederli ci faceva sentire delle femmine toste.
A quell'età, certo.
Anche perché rivisto oggi The Grudge ci regala uno dei peggiori personaggi femminili che si ricordino, in confronto a questa Gellar siamo tutte delle Sigourney Weaver.

domenica 28 febbraio 2016

#CiaoNetflix: Miss Violence

16:05
Ieri sera ho guardato l'ultimo episodio di Love, sulla nostra piattaforma streaming preferita (onestamente, fatevi Netflix). Dieci episodi di brillantezza forzata e poco frizzante incoronati da un titolo di una presunzione imbarazzante.
Mi serviva un polpettone, allora ho chiamato il mio amico, il solito Netflix, gli ho chiesto cosa passasse il convento e lui mi fa:
'Toh, prova questo!'

Che dovesse mai venire un accidenti a lui, a chi gli ha consigliato il film e a me cretina che non mi informo a sufficienza.

La blogosfera un paio di anni fa è impazzita per sto Miss Violence, volevo mettermi in pari, ma non sono andata a rileggermi i post dei colleghi, NON SIA MAI che qui si parte preparate, noooo, qui ci facciamo investire da autobus emotivi per restarne azzoppati a vita.

Al minuto due di Miss Violence un'undicenne si suicida.
Non è sufficiente? Una bambina, una bellissima bambina dai capelli biondi e dal vestito candido che scavalca una ringhiera, ci guarda dritti negli occhi, sorride, e si lascia cadere giù.
Non è comprensibile il suicidio di un'anima così piccola. La mia mente già al minuto due aveva le balle girate: i bambini non si ammazzano.
Ma toh, Mari, è il mondo reale. A volte sì, i bambini si ammazzano.
Nel tuo mondo bucolico fatto di arcobaleni, giornate assolate, tanti libri ed Harry Potter non sarà così, ma in questo universo scapestrato invece sì.


E perché mai una bimba dovrebbe buttarsi giù?
Perché quello che avrebbe trovato restando si sarebbe rivelato molto peggio della morte.
Avrebbe trovato la disperazione più miserabile, l'umanità più marcia, i mostri sotto al letto che prendono vita e rendono infernale la vita di chi non credeva nemmeno nella loro esistenza.
Lei, quindi, si salva, morendo.
Noi no.
Noi siamo vivi e vegeti, a guardare con gli occhi affamati di curiosità quello da cui lei è scappata, quello che l'avrebbe privata del candore, quello che aveva già distrutto ogni persona intorno a lei. E non avrei voluto vederlo. È un filmone, questo Miss Violence, una elegantissima ballerina di bianco vestita che si muove molto lentamente ma tenendo un coltello in mano, per farti sempre più male ad ogni passo. Immagini statiche e un bianco quasi disturbante per accompagnarci nel nero dell'anima. Ma no che non ve lo consiglio, io mi sento come se mi fossero passati sopra con la macchina.
C'è la violenza vera, quella che causa una rabbia cieca in chi la osserva e soltanto sottomissione in chi la subisce.
Il dolore, tutto quanto, è talmente enorme che nessuno si ferma a piangere la morte di una bambina.

DA QUI IN POI DUE RIGHE DI SPOILER, OCCHIO CHE VI VEDO.

Oggi finalmente ho capito qual'è il filo conduttore che collega le cose che mi sconvolgono di più. Sono terrorizzata dai film di possessione demoniaca, sebbene porti con orgoglio la bandiera del mio ateismo, e nello stesso tempo non riesco a tollerare le scene di violenza sessuale. Quella psicologica mi turba molto, mi fa soffrire, ma quella sessuale proprio non la riesco a guardare.
E quindi, ho fatto due più due.
Non c'è niente di più MIO del corpo che abito. Forse è la sola cosa nell'universo su cui posso davvero avere pretese di possessione esclusiva. Il pensiero che qualcun altro (umano o demone) lo prenda e ne faccia quello che vuole mi disturba in un modo che non credevo possibile.
Poi certo, le ovvietà: lo stupro è una cosa terrificante a prescindere, e i film demoniaci FANNO PAURA A TUTTI, però io ne esco sempre a pezzi.
La pedofilia, poi, è una di quelle cose (pochissime, tbh) di cui nemmeno riesco a parlare.
Immaginate come posso stare dopo avere visto quell'unica, massacrante, scena di sesso che ci sta nel film. Ho avuto bisogno di una boccata d'aria, per non picchiare violentemente lo schermo. Continuavo a implorare nella mia mente di smettere, ho provato un odio cieco che quasi mi ha spaventata. Questo padre, questo nonno, e quella porta chiusa, mi hanno fatto venire voglia di vomitare.
Che gran luogo comune, eh? I pedofili mi fanno venire il vomito.
E allora, se da un lato la parte razionale di me promuove l'educazione anzichè la punizione e blablabla, quella più emotiva, dall'altro lato, vorrebbe solo vomitare addosso a queste persone che persone non sono, che sono il MALE, quello grande, quello in caps lock, Privarli di ogni parvenza di umanità.
Se ti serve un corpo da smerciare usa il tuo, feccia.


Perdonatemi, è solo che ho appena preso un grosso e doloroso pugno nello stomaco.
Guardatelo, ma con cautela.

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