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martedì 10 gennaio 2017

#CiaoNetflix: Sherlock, S4E2, The lying detective

13:46
Chissà come mai i prodotti di finzione ci coinvolgono così profondamente. Non succede sempre e non succede a tutti, ma quando succede è un fenomeno incredibile, chiederò delucidazioni alla mia amica psicologa. Penso abbia a che fare con l'empatia, o qualcosa del genere.
C'è qualcuno, però, che lo sa molto meglio di me, ed è Steven Moffat, creatore della serie e autore dell'ultimo episodio andato in onda, The lying detective. 


COME AL SOLITO SPOILERISSIMI, CULO CHI LEGGE SENZA AVER VISTO L'EPISODIO

In questa puntata un nuovo Magnussen è sceso su di noi: risponde al nome di Culverton Smith, noto filantropo. Sherlock intuisce la sua natura di serial killer, ne diventa come suo solito ossessionato, e troverà il modo per riprendere con sè John nelle indagini., anche se entrambi stanno ancora elaborando il lutto per la scomparsa di Mary.

Empatia, dicevamo.
Quando scrivi di una grande perdita e di un grande dolore, hai due possibili scelte: o ce ne parli direttamente, riempiendoci gli occhi di immagini spezzacuore e di musica di Alessandra Amoroso, oppure li mostri. Per mostrarli senza parlarne devi essere molto, molto bravo sia in fase di scrittura che nella recitazione effettiva. È inutile che mi ripeta, tutti e tre gli attori che ruotano intorno a questo lutto sono straordinari e ci rendono il coinvolgimento semplicissimo da raggiungere. Quello che è meno scontato è che Moffat abbia scritto del dolore in un modo bellissimo, se questo fosse possibile.
John va in terapia, sembra non cavarsela male, ma vede Mary. La vede, la sente, le parla. Eppure non solo lui stesso è lucidissimo (non sta perdendo la testa per il dolore, non sta impazzendo), ma la visione stessa di Mary lo riporta costantemente con i piedi per terra, ricordandogli che lei non è altro che un prodotto della sua mente. Io non so quanto il fatto che quella lì fosse davvero sua moglie (o almeno che lo fosse al tempo, ora sono separati) abbia influenzato sulla performance di Freeman. C'è uno sguardo, in particolare, che mi ha annientata: John e Mrs Watson sono di fronte al video che Mary ha fatto per Sherlock. Quando la si sente dire, per la prima volta, 'Save him, save John Watson' la camera è fissa su di lui, e lui se ne esce con un'espressione che è un po' un sorriso, un po' un ghigno disperato, un po' il tentativo di non esplodere, ed è INCREDIBILE. Una scena da un secondo eppure una delle più alte di tutto l'episodio. Questo è lo Sherlock che ricordavo, una scena scura e minimale che è un proliferare di sentimenti.

E Sherlock?
Sherlock non è in sè, è Shezza, è tornato lo Sherlock tossicodipendente. Non che le droghe gli siano mai estranee del tutto, ma è tornato nel pieno del suo consumo. E anche se la trama ci dice che il suo consumo era volto anche al caso del serail killer, noi sappiamo che non è solo così. Non risponde di sè, lo vediamo toccare il suo punto più basso, urlare, scalpitare. Siamo abituati ad un aplomb diverso, raramente ha perso il controllo, raramente ha espresso i suoi sentimenti. Questo, però, vale solo a parole. Come la straordinaria Mrs Hudson ci ha fatto notare, Sherlock è molto più emotivo di quanto vuole far trasparire: spara, colpisce, accoltella quello che gli sfugge. Non tollera di perdere e di non capire, e non c'è niente di più umano di questo. È di Sherlock la battuta migliore dell'intero episodio, nella scena (che al momento in cui scrivo ho visto quattro volte), del confronto con John:
'In saving my life she conferred a value on it, in a currency I don't know how to spend.'

E per la prima volta, Sherlock sembra soffrire davvero. Sembrava fermo anche quando stava prendendo una manica di mazzate da John, nella scena che a me ha spezza il cuore più di tutte. Ma qui, quando ha lo sguardo perso nel vuoto nell'ammettere che c'è qualcosa che non sa, è devastante. Vorrei dire che mi sono fatta forza, che non ho pianto, invece mi sono prosciugata. Subito dopo, la confessione di Watson alla moglie, all'immagine che ha di lei. Il tradimento (mai consumato), i pensieri, l'averla trascurata. Nemmeno il momento leggero in cui si ritira in ballo Irene Adler è stato sufficiente ad abbassare l'esplosivo impatto emotivo del momento.

Mary, in tutto ciò, è strabiliante. Buffa, allegra, intelligente, curiosa come sempre. C'è un quarto di secondo in cui rivolge uno sguardo orgoglioso al suo uomo, gli sussurra 'Attaboy' con una dolcezza che hanno causato pelle d'oca costante. Per tutto l'episodio fa quella cosa che John le attribuisce nell'ormai citato confronto con Sherlock: tira fuori il meglio di lui. Lo spinge ad andare oltre, a chiedere informazioni, ad approfondire. Ad un certo punto dice un semplice 'JOhn, do better' che è la summa del suo comportamento per tutto l'episodio. Ed è quello che gli lascia alla fine, quando sembra pronta a lasciarlo andare, incitandolo ad essere sempre l'uomo che lei credeva lui fosse.

Mrs Watson finalmente smette di essere l'ochetta che credevamo, sappiamo da sempre che ha molto più carattere di quanto ci sia mostrato, perchè sappiamo del suo passato. Qui è la figura materna di cui i due uomini avevano bisogno: è determinata ed estremamente protettiva, il suo confronto con il sottovalutatissimo Mycroft è esemplare. Mycroft, dalla sua, non è male come viene rappresentato. È lui quello realmente incapace con gli umani, non possiamo mica fargliene una colpa.

In conclusione, il caso: brillante. I serial killer sono i preferiti di Sherlock, lo sappiamo dal primo episodio ('It's Christmas!'), e lo vediamo dalla passione con cui ci si butta. Il suo cervello torna ad essere al massimo delle sue capacità, portandolo, come sempre, due passi avanti agli altri (o due settimane, dipende dai punti di vista).
Il finale è stato soprendente: sapevamo dai rumors che in questa stagione il terzo Holmes avrebbe fatto capolino e conoscendo lo stile di scrittura della serie sappiamo che le pistole di Cechov non sono certo una novità, quindi se inseriscono qualcosa o qualcuno di nuovo questo deve colpire. Io, però, che sono nata e morirò babba, non avevo capito un cdn e quindi ho AMATO il finale.

Scusate per il fiume di parole fuori programma. Mi prudevano le dita, non avrei mai potuto aspettare sabato a parlarne.


sabato 7 gennaio 2017

#CiaoNetflix: Sherlock, S4E1, The six Thatchers

13:44
Prima di Lost, prima di Friends (questa è pesante, ma bisogna guardare la realtà), prima di Sense8, nel mio cuore c'è sempre stata lei, Sherlock. La mia serie tv preferita. 
L'ho detto.
E no, smettetela, non è (solo) per Cumberbatch.
Da ANNI soffrivo come un cane nell'attesa di questa stracavolo di quarta stagione che lo stracavolo di Moffat, portatore di delizie e sofferenze, mi faceva aspettare. E ora è qui, ed è l'ultima. Soffro atrocemente al pensiero che tra due settimane sarà tutto finito, e per sempre. Ma ora è il momento della gioia, Sherlock is back!


In questo primo episodio vediamo Holmes avere a che fare con il ritorno presunto di Moriarty, nemesi storica. Quando quindi un caso apparentemente semplice si rivela più articolato del previsto, il pensiero andrà subito a Moriarty.

Se mi lasci in sospeso per un tempo così lungo innanzitutto meriti di essere sfanculato in tempo record. Mi trattengo per un momento, dandoti il tempo di dimostrarmi che questa attesa ne è valsa la pena. 
MA NON È COSì PORCA MISERIA LADRACCIA MALEDETTA
Cosa è successo, BBC? Ti sei stancata? Non volevi più fare Sherlock ma il finale della scorsa stagione ti ha vincolato? SONO AFFARI TUOI io quelle transizioni lì che mi pareva di guardare un fotoromanzo di GrandHotel non le voglio vedere maimaimai più. Giurami che nel prossimo episodio la smettiamo con questo trash e ci riprendiamo la sobria eleganza che ti ha contraddistinto fino ad ora. Siamo d'accordo? Non posso stare qua a guardarti mandare in vacca la serie tv più bella che sia mai stata realizzata senza fare niente. Ti faccio due scatole sui social che mi faccio denunciare per stalking. La testa di Cumberbatch che si fonde con il mare deve scomparire dal web e dobbiamo tutti scordarci che è esistita.
Le immagini non le ho riconosciute come familiari, mi sono sembrate davvero scadenti e non sono cose che posso accettare da un prodotto di questo tipo. Mi fa malissimo il cuore.
Chiariamo, l'episodio non mi è dispiaciuto. Ma a me le immagini interessano tantissimo, sono per me fondamentali, e non riesco a credere che la BBC non potesse fare meglio. Persino la scena di Lestrade fuori dalla porta di Sherlock con la ragazza di cui non ricordo il nome: concordiamo che c'è qualcosa nell'inquadratura di quella scena che non ha niente a che vedere con lo stile a cui siamo stati abituati?
Per il resto abbiamo: un'inconsueta lentezza, uno script un po' sottotono e casi poco pungenti.

Leggendo alcune critiche in giro, però, e mi riferisco in particolare a quella di Wired, mi sono trovata in forte disaccordo sulle argomentazioni. 
Partiamo da una: l'articolo rimprovera l'assenza di Moriarty, e lo fa anche ripetutamente. Ma davvero, dopo la super conclusione della stagione 3, ci aspettavamo che la questione Moriarty venisse bruciata nel primo episodio? Davvero? Non era più probabile che invece Moriarty in questa stagione tirasse fuori la sua vera natura, ovvero non quella di nemesi reale di Sherlock, quanto piuttosto di sua ossessione? Moriarty non è importante in quanto pericoloso criminale, ma in quanto mette in dubbio le sue capacità, in quanto diventa il suo chiodo fisso. Tutto l'episodio è PIENO di Moriarty, non come presenza fisica (cosa che credo non avverrà nemmeno nei prossimi episodi) ma in quanto pensiero ossessionante, che è la sola cosa che conta del personaggio. La sola esistenza di Moriarty mette Sherlock in crisi costante, che lui sia presente o meno. Il solo ipotizzare un suo ritorno è elemento di caos e confusione. Che ci si potesse aspettare altro mi incuriosisce. 
Altre cose che io ho trovato positive: l'ennesima conferma di Martin Freeman come attore più sottovalutato della sua generazione. Qualcosa nello sguardo di Freeman colpisce drittissimo nei sentimenti, è intenso da morire e MAI, MAI che risulti esagerato o mascherina. È credibile, in ogni istante, anche quando guarda il suo riflesso nel vetro di un bus e torna con i piedi per terra. Senza fare spoiler mi riesce difficile argomentare ancora di più, quindi continuiamo sotto l'alert.

DA QUI SPOILER CHE POI SE LEGGETE SONO AFFARI VOSTRI

Lo stesso articolo di Wired, che sto usando per sviluppare la mia, di argomentazione, parla - male - della morte di Mary. La definisce fan service. Ma il canone è stato letto? Mary è stata uccisa da Conan Doyle, mica da Moffat. E il personaggio era stato inserito nella vicenda talmente bene e in modo talmente unico (non è la moglie che porta via l'uomo al suo amico, ma è parte integrante della vicenda e delle indagini e, soprattutto, è amatissima da Sherlock stesso) che nessuno si sarebbe auspicato la sua dipartita per riuscire ad ottenere di nuovo la bromance tra i due uomini. Avremmo potuto risparmiarcelo, nella serie? Sì, certo, ma perchè? Perchè non inserire un elemento di disturbo, perchè non sfruttare la cosa che ci avrebbe finalmente e definitivamente eretto Sherlock a quello che è: un umano?
Ora, non guardando Doctor Who mi sento di poter parlare solo in parte, ma a me pare che a Moffat e compagnia piaccia assai prendere personaggi che non hanno niente di umano per poi esplorare la loro umanità. Se Sherlock ha scoperto l'affettività con la presenza di John prima e Mary poi, il dottore ha sempre bisogno di una companion. In che modo questo è un male? Non sono stati snaturati i personaggi, sono solo evoluti, e alla quarta stagione un po' di evoluzione non solo non fa male, ma è naturale.

Tirando le somme del primo episodio: inizio poco brillante, dopo una simile attesa chiedevo tanto, tanto di più. I tre volti protagonisti si sono confermati attori straordinari, e, come mi era successo anche con quella cosa tremenda che è stata Gilmore girls vA year in the life, il solo respirare l'atmosfera dei luoghi e dei volti familiari è stato bellissimo.

Il prossimo, comunque, è scritto d Moffat.
Steven, sorprendimi.

sabato 24 dicembre 2016

#CiaoNetflix: Sense8 Christmas Special

17:03
Vedere Sense8 è stata una delle esperienze più intense dei tempi recenti. Io non sono una grande amante di serie tv, ne guardo poche e di solito più son trash più le amo.
Poi è arrivato Netflix, creatore di piccoli miracoli, e mi ha regalato la più totalizzante, potente, emozionante delle visioni recenti. Staccarmene è stato difficilissimo.
Per questo ho accolto l'arrivo di uno speciale di Natale con qualche perplessità: avrei resistito ad averne solo una dose?
Spoiler: NO.
Ridatemi Sense8, che a fattanza qua sto peggio di Will.


Nell'episodio natalizio non succede un granchè, lo possiamo dire?
Riprendiamo in mano i nostri Sensate esattamente da dove li avevamo lasciati: una in prigione (la mia preferita, Sun ti amo), uno a confrontarsi con l'outing, una a nascondersi, eccetera. Nello speciale li vediamo semplicemente proseguire con le loro esistenze, lontane ma vicinissime, e con gli eventi che abbiamo seguito nel corso della prima, incantevole, stagione.

La sensazione di familiarità è intoccata, con mio gigantesco sollievo. L'episodio si apre con una bellissima scena, come al solito contornata da una colonna sonora per fet ta, in cui riprendiamo in mano il concetto di Sensate, ci viene ricordato come funziona il legame dei ragazzi, e di nuovo noi finiamo incastrati in un fluire libero e agile di sensazioni, odori, sentimenti. Se Wolfgang nuota, ci stiamo bagnando tutti.

Con movimenti morbidi come quelli del tedesco in acqua passiamo ad una scena che ha del meraviglioso. Vi racconto una cosa: io per Lito ed Hernando ho un affetto smisurato. Sono, molto semplicemente, quella che ai miei occhi è la coppia perfetta: oltre ad essere entrambi di una bellezza imbarazzante (Hernando soprattutto, parliamone), i due attori sembrano avere una chimica incredibile. L'attrazione è fortissima e divertita, la coppia si lascia andare a giochi continui, maliziosi e non, ed è un incanto starli a guardare. Poi arrivano i momenti difficili, sia nella stagione che nell'episodio, e li vedi diventare un tutt'uno, uno scudo di testuggine contro il mondo, loro e quella croce e delizia della loro amica Dani. Hanno un'ammirazione sconfinata l'uno per l'altro (ricordate la conversazione al museo tra Nomi e Lito? O quella all'incontro di wrestling? Io commossa all'inverosimile) Sono la coppia più bella rappresentata sullo schermo in tempi recenti, quasi non riesco a descriverli.

Per tutto l'episodio si alternano momenti più intensi, con Lana Wachowski che si diverte a prendersi gioco dell'empatia di chi guarda, a momenti più leggeri e scanzonati, utilissimi in uno speciale di due ore ad alleggerire la tensione. La tenerissima Kala e la sua ingenuità sono un toccasana. La scena del compleanno è di un bello da brividi, la battaglia con le palle di neve è dolcissima.
Poi, ovviamente, le batoste: Will col padre, Lito e la madre, Sun e il figliondrocchia del fratello. Ed ogni volta che uno di loro è in difficoltà, ecco la protezione degli altri, i suggerimenti all'orecchio, la consolazione, la forza, le botte da orbi. E vederli insieme da sempre senso di potere assoluto.

Anche stavolta, Sense8 conferma quello che era stato il suo pregio incredibile nella stagione uno: guardare la serie riuscendo a mantenere una distanza da quello che si vede è letteralmene impossibile. Le persone ritratte entrano nel cuore, diventano cari amici (e vi garantisco che se ne sente moltissimo la mancanza). Lo scambio tra Sun e Van Damme, che si rivedono dopo che lei gli ha salvato la vita, è semplicissimo ma scalda il cuore, perchè ci coinvolge ad un punto altissimo, perchè beneficiamo anche noi della totale apertura mentale dei Sensate, siamo anche noi all'interno di quel legame potentissimo che li unisce, lontani ma vicinissimi.
E questa dovrebbe essere 'solo' una serie tv.

martedì 4 ottobre 2016

#CiaoNetflix: Amanda Knox

15:40
La nostra splendida Costituzione dice (all'articolo 27) che si è considerati innocenti fino a condanna definitiva.
La nostra (a volte) miserabile popolazione dice che se compari in tv associato ad un omicidio, allora sei colpevole. E se ti assolvono è colpa della giustizia e dei poteri forti e delle scie chimiche.
Amanda Knox, per la quale nessuno di voi necessiterà di alcuna introduzione, mi è sempre stata di un'antipatia allucinante. E sì, anche io a volte sono scaduta nella trappola del 'È stata sicuramente lei'. Ma quanto mi ha affascinato il suo essere eletta super paladina delle vittime del sistema negli Stati Uniti! Arriva il documentario su Netflix, mi ci fiondo perché i documentari di Netflix > tutto il resto.


L'inizio è folgorante. La Knox, su sfondo grigio dice questa cosa che trovo pazzesca, e ve la riassumo: se sono colpevole faccio paura, perché non vi aspettereste che una così sia un'omicida, se sono innocente significa che tutti siamo vulnerabili. Quindi o sono una psicopatica o una di voi.
Qualunque sia la sua posizione, ha ragione da vendere perdio.

Prima di entrare nel merito del caso specifico, però, diciamo la solita cosa: Netflix ha una cura nel realizzare documentari che è impareggiabile. Sono quasi tutti medio-brevi (si parla di un'ora, massimo un'ora e mezza ciascuno), intensi, curati, appassionanti. Solo per questo varrebbe la pena di fare l'abbonamento. Le immagini sono quasi cinematografiche, e i toni non sono mai melò nè pedagogici. Splendidi e basta.

Torniamo al caso Kercher.
Il doc si propone semplicemente di raccontarlo, dall'inizio alla fine. Con chiarezza e completezza hanno preso tutta la vicenda e l'hanno completamente vivisezionata sotto i nostri occhi, partendo dalla tesi che ha dato a lungo Knox e Sollecito come colpevoli, arrivando alla sentenza di assoluzione definitiva, e spiegandocene le motivazioni. Come al solito non si prendono parti, si ascoltano le persone coinvolte, si leggono i giornali, si ascoltano i notiziari, si analizzano i documenti ufficiali. E la conclusione è che sì, a dispetto dell'opinione pubblica pare proprio che i due siano innocenti. La storia finisce così.

Quello che è successo nel frattempo, però, è che due vite ne sono comunque uscite rovinate (non parleremo di Meredith perché anche il documentario in questo è molto elegante e non si sofferma su qualcuno che non può dire la sua): i giornali di tutto il mondo hanno perlustrato vite private anche in quegli ambiti che ci piace tenere chiusi a chiave, il bigottismo universale si è palesato in tutta la sua gloria, rovinando l'immagine di una donna la cui sola colpa è stata, pensate un po', fare tanto sesso con tante persone.
E allora brutta Amanda, non sei seria, sei una zoccola (ma anche cagna ci piace tanto dirlo, vero?), devi per forza essere stata tu con quella mente da piccola pervertita che voleva fare il sesso strano e la povera Meredith non voleva e allora l'hai ammazzata. Trovato il nomignolo, l'umiliazione era ormai pronta e calda da essere servita. (Ma ci pensate se tutto il mondo vi chiamasse con il nick che vi eravate messi su social preistorici? Fuori allora i vostri nomi su Netlog, Myspace, 2.0, MSN, chè secondo me rideremmo tutti un po')

L'Italia non ne esce benissimo, va detto. Ci sono certe scene di perculo che mi hanno ferita, perché questo Paese lo amo tanto anche se a volte lo picchierei selvaggiamente. Credo che, alla luce di come si sono conclusi gli eventi, Giuliano Mignini (pubblico ministero colpevole di aver accusato la coppia) abbia fatto una bella figura a comparire nel documentario. È un uomo che ha sbagliato, e il cui errore ha causato sofferenza, ma che piuttosto che nascondersi e difendersi ha preferito comparire e dire le sue ragioni, con calma e consapevolezza.

Un tremendo lato dell'umanità si palesa, in Amanda Knox: i malefici media, rappresentati dalla ripugnante personalità di Nick Pisa. Questo, per tutto il tempo, parlando di una tragedia in cui, ricordiamolo, un essere umano ha perso la vita e altri due hanno fatto anni di carcere da innocenti, RIDEVA. Lo stavano intervistando su un caso storico di cronaca, su una pagina poco gradevole di storia, e questo sghignazzava, perché 'siamo fatti così', perché 'vedere il tuo articolo in prima pagina è bello quanto il sesso', perché 'è così che funziona il mondo delle notizie'. Ovviamente, non mi metterò a fare la stessa cosa che Pisa stesso ha fatto, ovvero la pubblica gogna. Il web ci sta già pensando da sè. Lui è parte di un sistema più grande, per cui se lui ha bisogno di questo per sopravvivere come giornalista (e se quindi la testata ha bisogno di lui) è perché noi, miserabili, di queste cose ci campiamo. Perchè siamo curiosi fino alla nausea, perché crediamo di avere il diritto di sapere, perché ne siamo lontani, e allora siamo dispiaciuti ma non ci fa male. E mi ci metto anche io, che mi sono guardata il documentario a pochi giorni dall'uscita, perché ne ero affascinata.

In ogni caso, fossi in voi lo guarderei comunque. Se non altro per imparare che ogni caso di cronaca con così tanta risonanza non è mai solo quello che sembra.

mercoledì 8 giugno 2016

#CiaoNetflix: The Breakfast Club

20:52
Negli ultimi giorni una serie di sfortunati eventi mi ha portato a pensare con più frequenza di quanta mi piaccia alla mia adolescenza. Non ci penso mai, cerco di archiviarla nei lati oscuri della memoria sperando che se ne vada nel luogo in cui vanno le cose che scordo quando vado a fare la spesa.
Invece no, è una maledetta angoscia costante da cui alla soglia (si fa per dire) dei 26 ancora non mi sono liberata. La analizzo, la viviseziono, cercando di capire da quali strabenedetti problemi fossi afflitta, ma ancora la risposta la saluto da lontano.
Allora ho guardato The breakfast club, sperando che i giovani anni 80 fossero più svegli di quelli della decade successiva.
Non è così.
Deficienti sempre.

I cinque adolescenti che conosciamo ricoprono talmente bene i ruoli convenzionali che sarebbero stati benissimo in uno slasher: l'atleta, la più popolare della scuola, la disagiata, il secchione e il bullo/criminale. Si ritrovano insieme a scuola il sabato perché sono tutti in punizione, per motivi diversi. Hanno il compito di scrivere un tema con un argomento un po' del cavolo, qualcosa del tipo chi ti credi di essere?
Non lo sanno gli adulti, saggi e formati, figuriamoci quanto un quindicenne possa rispondere a una domanda del genere.
Loro ci si avvicinano, alla risposta. Non per iscritto, ma ci si avvicinano.


DA QUI SPOILER PER TUTTI QUELLI NATI DOPO IL 1990 CHE STO FILM NON L'HANNO VISTO

Quando è comparso John Bender l'ho odiato. Sbruffoncello del cavolo tieni le manacce maledette a casa tua e smettile di spostare tutte le cose perché ti picchio con un libro grosso. Ti picchio. Con un libro. Grosso.
Poi succede che, con il suo modo, racconta agli altri di quanto la sua famiglia faccia schifo. Ed è vero, fa schifo. A 16, 17 anni la vita brutta così non la devi vedere, non è giusto. Succede, ma non è giusto. Nonostante questo, l'ho odiato ancora per un po'.
Ah sì, John? Hai la brutta vita? E in quale parte del tuo cervello sta scritto che questo ti dà il diritto di rompere i coglioni agli altri? Perché non è così.
Mi sono tanto arrabbiata con lui, per aver usato la sua tragica situazione come scudo per tutelarsi del fatto di essere uno stronzetto come migliaia di altri.
Poi l'ho rivalutato un po'. Perché, mi sono chiesta, se lui non ha il diritto di comportarsi come vuole, perché io ho il diritto di giudicarlo? Un pochino a dire la verità ce l'ho, perché comprendo cose che non vorrei comprendere, ma ho pensato, a fine film, che nel mio giudizio mi sono comportata esattamente come il professore. Anche io, come lui, ho dato una mia opinione su un ragazzo e me la sono tenuta, anche quando lui mi ha mostrato la sua debolezza, le sue umane fragilità.
Ho avuto un'opinione su tutti, a dire la verità. Ho visto Allison e ho pensato che fosse pazza. Ho visto Brian e ho immaginato subito che fosse nel club di fisica.
Su quelli belli, popolari ed atletici, però, mica me la sono fatta, l'opinione. Li ho accettati come tali.
Da adolescente, poi, li avrei guardati rosicando selvaggiamente.
Quindi, se Bender non ha il diritto di comportarsi come più gli aggrada, a me quello di giudicare chi l'ha dato?

Perché quando avevo l'età dei protagonisti di The breakfast club (cioè tipo l'altro ieri) facevo la stessa cosa che credevo gli altri facessero nei miei confronti: giudicavo. (Come avete visto, lo faccio ancora.)
Giudicavo ma tremavo al pensiero di essere giudicata, e questo creava in me (e suppongo anche in tutti i giovani dell'universo) un circolo vizioso capace di creare solo quello che i ragazzi del film denunciano come un problema che li accomuna: la pressione.
Devo essere bravo, altrimenti . . .
Devo essere intelligente, altrimenti . . .
Non devo essere vergine, altrimenti . . .
Altrimenti che? Non sarebbe morto nessuno, se Brian non avesse recuperato il brutto voto, ma Brian non lo sapeva, e quindi voleva essere lui, quello a morire. Perché gli era venuta meno l'unica certezza che aveva, il suo cervello.
Se non ho questo cos'ho?
Se non sono il più vincente della squadra, chi sono?
Se non mi amano i miei genitori, chi lo farà?

Ognuno di loro, ognuno di noi, ha avuto (e forse ha ancora) un bisogno viscerale di un'identificazione, che ci aiuti a costruire quello che siamo, o quello che vorremmo essere. Che ci faccia sentire al sicuro quando sentiamo tutto il resto vacillare.


Chissà se il Breakfast club si è più riunito, dopo quel sabato. Probabilmente sono tornati quelli di prima, ognuno con le proprie radicate certezze a tenerli in piedi.
Oppure no, amiconi.
Oppure ancora, una via di mezzo. Ognuno per la sua strada, con gli amici di sempre e la maschera protettiva sul volto di sempre. Ma con una consapevolezza in più, quella di essere molto più di quello che serve mostrare.
Beati loro, che si sono incontrati e si sono aiutati.
Beati noi, che con un film abbiamo riabbracciato per un po' quello che eravamo, forse facendo un passo in più verso quella distaccata tenerezza che serve per guardare al nostro passato smettendo, per una volta, di giudicarci.
Volendoci un po' più bene.





mercoledì 25 maggio 2016

#CiaoNetflix: Into the wild

19:12
Solita intro infarcita di fattacci miei, perdonatemela.
Un mesetto fa sono stata a Praga. Era il mio Sogno da Visitare Numero 2, la aspettavo da tempo, e prevedibilmente quando sono tornata non sono stata la stessa per un po'.
Mi è presa una frenesia senza precedenti, una voglia di mollare tutto e andare, perché se tutto il mondo è così bello io non posso stare qui sul divano a sentirlo respirare a distanza. L'amore per i viaggi l'ho sempre avuto (ostacolato da un'insormontabile paura di volare), ma da un mese a questa parte lo sento incontenibile.
Mi sembrava un buon momento per guardare Into the wild.

Sbagliato, non è mai un buon momento per Into the wild, perché Into the wild è un film del cavolo che mi ha fatto perdere più di due ore in cui avrei potuto dormire, per raccontarmi di un povero deficiente. Prima di offendervi perché sto per insultare il vostro personaggio del cuore suppersuppercult, per favore, finite di leggere e poi proseguite con il defollow.
Mi calmo e andiamo con ordine.

Ho deciso insindacabilmente che Christopher fosse un deficiente al minuto 55.
(Chiarimento per evitare discussioni: parlo del protagonista del film. Non ho sufficiente conoscenza della VERA storia del VERO Christopher per poterne parlare.)
Chris, il grande sognatore pieno di ideali, vede un kayak e decide che adesso vuole andare col kayak, lui che fino a una settimanina prima aveva paura dell'acqua. Va a chiedere informazioni, gli dicono in soldoni che non può navigare sul fiume e lui chiaramente piglia il due e lo fa a fare.
Il grande ribelle si lancia nel fiume nonostante il funzionario (che è OVVIAMENTE un fannullone che sul lavoro telefona per i cazzi suoi, non sono tutti così? brutti cattivi corrotti fannulloni capitalisti) gli abbia detto di no. Stato malvagio che blocchi la libertà individuale e non ci fai andare sui fiumi. Stronzo. E io allora ci vado lo stesso.
Capito la ribellione? Capito lo spirito libero? Capito come ci si gode la vita vera?


Oh, Christopher. Siediti, parliamo un po'.
Io un po' ti capisco. Ogni tanto ho sentito, e sento ancora, il bisogno di scappare via. Di non dover aver a che fare con nessuno, di prendere un paio di libri e di rifugiarmi in una spiaggia, da sola, con solo il mare a farmi compagnia. Ogni tanto lo sento il peso di questa vita che ci viene imposta, di questi modelli tradizionali a cui dobbiamo guardare per prenderne ispirazione: scuola, poi lavoro, il posto fisso, e poi trovare la persona giusta, prima sposarsi, poi vivere insieme, poi fare almeno due bambini e vivere felici fino alla vecchiaia.
Ma sai, cosa, Chris? Mica lo sento solo io.
Ce li hanno tutti, questi desideri di fuga, ogni tanto. E magari qualcuno (non io, almeno per ora) lo fa pure, per un po'. Erasmus, anni sabbatici, ferie prolungate, viaggi avventurosi...
Qualcuno, quindi, guardando il film sulla tua gloriosa avventura in giro per l'America, potrebbe pensare a che eroe tu sia, a quale coraggio tu abbia avuto, a quale vita straordinaria tu abbia vissuto, scuoiando alci e rubando passaggi.
A me, invece, sei stato in culo. Avevi una vita che non piaceva, come ce l'hanno chissà quanti altri poveri cristi al mondo e hai deciso che la cosa migliore da fare fosse mollare tutto ed andare. Comodo, eh, gigione?
Ma sono le persone come te a far sì che quel sistema lì, quello che tu odi così profondamente, non cambi mai. Se ti fa così schifo il mondo in cui vivi, se ti annienta il pensiero di quella mediocre borghesia a cui la tua famiglia ti ha costretto, sai cosa potevi fare? Potevi cambiare strada. Se i tuoi genitori non ti hanno cresciuto nel modo in cui avresti voluto, sai quale sarebbe stato il riscatto più grande? Diventare il genitore che loro non sono stati per te.
Se la società non ti piace agisci nel tuo piccolo per cambiarla. Io odio l'evasione fiscale, mi fa salire i cinque minuti, e quindi nel bar in cui lavoro batto gli scontrini per ogni singolo caffè. Non ne salto uno. E se nei locali non me lo fanno, lo chiedo. Non sono mica un eroe, faccio la mia piccola normalissima parte. Perché la società siamo noi cittadini, e, perdonami la banalità che sto per dire, se facessimo tutti come te? Se mollassimo il mondo civile per il sogno della libertà assoluta che hai inseguito tu, chi resterebbe a mettere la benzina nelle auto a cui tu per primo hai chiesto l'autostop? Chi guiderebbe quel treno che tu stesso hai usato per farti dare un passaggio clandestino?
E allora, mio amato idiota, lo vedi che la civiltà ti serve? Perché a tutti, me per prima, ogni tanto piacerebbe dichiararsi totalmente indipendenti da quei meccanismi che tanto a volte ci fanno infuriare. Ma non lo siamo. Le persone stanno intorno a noi per un motivo, chissà se te lo sei ricordato mentre correvi con i cavalli e per questo ti sentivi tanto tanto cool. Non sei un cavallo, Chris, non credo sia necessario che te lo ricordi io gioia santa. E alla sera, quando ti chiuderai nel tuo furgone da solo, dopo una splendida giornata a spellare alci e sparare agli scoiattoli, non avrai nessuno con cui condividerla, questa libertà. Non vorrai un cavallo accanto a te, vorrai una persona. E non parlo necessariamente di un amore. Sarai lì, in una tenda, senza un volto amico, senza l'abbraccio di tua sorella, senza il sorriso di tua madre, perché la TUA libertà era più importante di tutto il resto.
Perché chissà se ti è mai passato per la testa, maledetto egoriferito, che a casa qualcuno soffriva per te. Chissà se dietro ai quei profondissimi ed intensissimi monologhi che Penn ha fatto dire a tua sorella, o a te, usati come sottofondo per quelle bellissime immagini che avete usato, c'è anche della sostanza, dietro alle belle parole. Chissà quanto hai sofferto TU, quando, alla fine, hai realizzato quella banalissima verità sulla felicità condivisa. Quanto ho detestato la tua presa di coscienza finale. Pensa, vogliamo tutti qualcuno accanto quando stiamo male. E quando sono gli altri, a soffrire?


Pensavo che ti avrei preso a schiaffoni, Christopher, ma forse quelle lacrime versate sul finale sono state una punizione sufficiente.

venerdì 13 maggio 2016

#CiaoNetflix: American History X

19:01
È così facile essere razzisti, in Italia, oggi.
Abbiamo un equilibrio così precario che ogni variazione ci fa vacillare, ogni piccola crepa nella nostra immaginaria perfezione ci fa dimenticare anni di consapevolezze, siamo così fragili da non avere più una mente elastica: è rigida, fatta di cemento, e la prima palla da demolizione che la colpisce la abbatte completamente, per costruirci su da zero.
Lo sono stata anche io. Camminavo per la strada guardandomi alle spalle, perché se fosse passato uno straniero l'avrei visto e mi sarei potuta tenere la borsa un po' più vicina, perché me l'avrebbe potuta rubare. 
Per questo il razzismo lo comprendo. Non lo posso condividere, ma lo capisco. È facilissimo ascoltare quello che ti dice il tiggì delle 8, che guardi mentre ceni con la tua famiglia, e spaventarti per il terribile scenario a cui ci mette davanti. È di certo più facile quello che non prendersi il tempo di andare a fondo alle cose. Spesso il tempo la gente manco ce l'ha. Accende la tv e si gode il piatto pronto e caldo. È esattamente come comprare i 4 salti in padella: economici, veloci e il gusto non è proprio da buttare. Ma la pasta vera è quella fatta in casa, come te l'ha insegnata la nonna, con il sugo fatto con i pomodori freschi, con il basilico vero e non chimico, con il profumo di ragù per casa. 

American History X parla delle conseguenze del non volersi mai fare la pasta in casa. Dell'accontentarsi di parole che ci sembrano convincenti, di frasi fatte composte ad hoc per darci motivo di credere che la ragione ce l'abbiamo noi. Parla di un uomo, Derek, ferito per la morte del padre, che deve dare un responsabile a questo dolore, e che per tutta risposta ne causa dell'altro, creando intorno a sè una spirale di sofferenza per la quale pagherà le conseguenze per sempre. 
Parla di un fratello minore, Danny, che, privato di ogni altro riferimento prende quello sbagliato, fidandosi ciecamente di chi non era degno della sua fiducia. 


Parlando concretamente, parla di Danny Vinyard, il cui fratello maggiore Derek sta per uscire dalla prigione in cui stava per aver ucciso due ragazzi di colore. Derek era un filonazista dalle tremende idee razziste, pronto ad esibire le sue convinzioni come un trofeo, orgoglioso della propria ottusità, talmente pieno di sè da avere preso la mente del fratello minore e da averla modellata a propria immagine e somiglianza senza nemmeno essersene reso conto.

È un potente esame di coscienza, uno specchio che ti riflette la parte peggiore di te, che ti costringe a ricordare ogni tuo comportamento sbagliato e te lo risbatte in faccia. Siamo tutti stati Derek, prima o poi, per i motivi più sbagliati. Se non lo siete mai stati avete tutta la mia ammirazione. L'importante, però, è che sappiamo tutti riconoscere di dover diventare come il Derek post galera.
C'era un rischio che il film correva, nel proporre una storia di 'redenzione': quello di diventare un fastidioso polpettone morale utile solo a farsi mandare a cagare. E invece no, Derek non diventa mai la figura angelica salvatrice dei popoli. Si redime, di sicuro, comprende quanto terribile fosse prima, ma mica lo fa per apparizione magica della madonna. Ci ha dovuto sbattere il muso, pesantemente, nel peggiore dei modi. Sia nel suo passato in carcere, che durante quella che per noi è la scena finale.
Di certo non è stato solo l'aver incontrato un negro simpatico. 


Come avevo già detto per Requiem for a dream, anche questo è un film che avrei voluto vedere a scuola. Vorrei che ogni scuola lo vedesse, che i professori ci sputassero in faccia che l'odio ci sta corrodendo, che stiamo perdendo l'umanità, che siamo delle bestie. Invece l'ho scoperto grazie a mio fratello, classe 1999, cresciuto fin dall'asilo in classi multirazziali e che oggi, grazie a questo, è la persona più lontana dal concetto di razzismo che conosco. E che per questo, nonostante i costanti scontri che ho con lui che in fondo è una testina di cazzo, mi fa nutrire nei suoi confronti una profonda ammirazione.

mercoledì 9 marzo 2016

#CiaoNetflix: The Grudge

16:20
Questo paradisiaco servizio un difetto doveva avercelo. Lo amo a sufficienza da lasciar correre, ovviamente, ma il suo catalogo horror per il momento fa piangere.
Siamo intorno alla trentina di titoli, tutti grossomodo famosi, Saw, Silent Hill, The Ring. . .il filone per ora è quello.
Si trovano anche cosine più intriganti, eh, c'è quella preziosa valle di lacrime che risponde al nome di The Orphanage, ci sta Existenz, e pure Sharknado. Ma siamo lontani dalla sufficienza per ora. SO che col tempo cresceremo insieme, io e Netflix-.

Per dimenticare le faccette della Judith di cui parlavamo ieri mi sono messa a rivedere un horror uscito nei miei anni del liceo, pieno periodo in cui ogni titolo era remake di qualcosa altrimenti non lo facevano uscire.
The Grudge forse è uno dei più famosi, uno di quelli che hanno visto anche i sassi.

Se voi non apparteneste alla specie minerale, mi tocca raccontarvi che è la storia di Sarah Michelle Gellar e Max di Roswell, Lei è un'assistente sociale, grossomodo, va a fare una visita a domicilio ad un'anziana. In casa ci stanno i fantasmi.
Tutto chiaro?
So che è complesso, ma fate uno sforzo.


No, dai che scherzo, non c'è niente di meno complesso di The Grudge.
In un altro momento lo avrei liquidato come FDC, ma in realtà non è riuscito a farmi antipatia.
Ci prova a ricalcare i suoi amici orientali, ma a parte parecchi occhi a mandorla, un paio di fantasmi che più classico di così c'è solo il lenzuolino con i buchi, di jappo ci riesce proprio pochino. Non che io mi consideri un'intenditrice, sia chiaro.
Ma qui è tutto troppo patinato e sbrigativo per riuscire a suscitare anche solo un po' di inquietudine, ci prova lui, povero, ma non gli riesce.
Secondo me è anche colpa del cast di canidi, che sembra spaventato tanto quanto il mio gatto quando parte la centrifuga della lavatrice. Stesso livello di timore, un saltino leggero e fine, livello di consolazione necessaria: rumore della scatola dei croccantini.
Quando le persone parlano dei cliché degli horror tendo ad innervosirmi, ma se ne volete un breve compendio, vi è servito su di un piatto d'argento, tiè, prodotto da Raimi. Il pacchetto comprende anche lo spaventino finale che tanto ci aggrada.

E no, stavolta non mi sono emozionata, nemmeno con la triste sorte dell'amore non ricambiato, non c'è stato verso di prendermi in alcun modo.


Ribadisco, voglio un po' di bene a tutta la faccenda, al periodo a cui è legata, alle colline che hanno ancora gli occhi, ai fantasmi giappo che però sono americani, alle telefonate che ti diagnosticano i tuoi ultimi 7 giorni e al fatto che fossero praticamente tutti dei filmacci tremendi ma che in fondo gli volessimo un po' di bene, perché vederli ci faceva sentire delle femmine toste.
A quell'età, certo.
Anche perché rivisto oggi The Grudge ci regala uno dei peggiori personaggi femminili che si ricordino, in confronto a questa Gellar siamo tutte delle Sigourney Weaver.

domenica 28 febbraio 2016

#CiaoNetflix: Miss Violence

16:05
Ieri sera ho guardato l'ultimo episodio di Love, sulla nostra piattaforma streaming preferita (onestamente, fatevi Netflix). Dieci episodi di brillantezza forzata e poco frizzante incoronati da un titolo di una presunzione imbarazzante.
Mi serviva un polpettone, allora ho chiamato il mio amico, il solito Netflix, gli ho chiesto cosa passasse il convento e lui mi fa:
'Toh, prova questo!'

Che dovesse mai venire un accidenti a lui, a chi gli ha consigliato il film e a me cretina che non mi informo a sufficienza.

La blogosfera un paio di anni fa è impazzita per sto Miss Violence, volevo mettermi in pari, ma non sono andata a rileggermi i post dei colleghi, NON SIA MAI che qui si parte preparate, noooo, qui ci facciamo investire da autobus emotivi per restarne azzoppati a vita.

Al minuto due di Miss Violence un'undicenne si suicida.
Non è sufficiente? Una bambina, una bellissima bambina dai capelli biondi e dal vestito candido che scavalca una ringhiera, ci guarda dritti negli occhi, sorride, e si lascia cadere giù.
Non è comprensibile il suicidio di un'anima così piccola. La mia mente già al minuto due aveva le balle girate: i bambini non si ammazzano.
Ma toh, Mari, è il mondo reale. A volte sì, i bambini si ammazzano.
Nel tuo mondo bucolico fatto di arcobaleni, giornate assolate, tanti libri ed Harry Potter non sarà così, ma in questo universo scapestrato invece sì.


E perché mai una bimba dovrebbe buttarsi giù?
Perché quello che avrebbe trovato restando si sarebbe rivelato molto peggio della morte.
Avrebbe trovato la disperazione più miserabile, l'umanità più marcia, i mostri sotto al letto che prendono vita e rendono infernale la vita di chi non credeva nemmeno nella loro esistenza.
Lei, quindi, si salva, morendo.
Noi no.
Noi siamo vivi e vegeti, a guardare con gli occhi affamati di curiosità quello da cui lei è scappata, quello che l'avrebbe privata del candore, quello che aveva già distrutto ogni persona intorno a lei. E non avrei voluto vederlo. È un filmone, questo Miss Violence, una elegantissima ballerina di bianco vestita che si muove molto lentamente ma tenendo un coltello in mano, per farti sempre più male ad ogni passo. Immagini statiche e un bianco quasi disturbante per accompagnarci nel nero dell'anima. Ma no che non ve lo consiglio, io mi sento come se mi fossero passati sopra con la macchina.
C'è la violenza vera, quella che causa una rabbia cieca in chi la osserva e soltanto sottomissione in chi la subisce.
Il dolore, tutto quanto, è talmente enorme che nessuno si ferma a piangere la morte di una bambina.

DA QUI IN POI DUE RIGHE DI SPOILER, OCCHIO CHE VI VEDO.

Oggi finalmente ho capito qual'è il filo conduttore che collega le cose che mi sconvolgono di più. Sono terrorizzata dai film di possessione demoniaca, sebbene porti con orgoglio la bandiera del mio ateismo, e nello stesso tempo non riesco a tollerare le scene di violenza sessuale. Quella psicologica mi turba molto, mi fa soffrire, ma quella sessuale proprio non la riesco a guardare.
E quindi, ho fatto due più due.
Non c'è niente di più MIO del corpo che abito. Forse è la sola cosa nell'universo su cui posso davvero avere pretese di possessione esclusiva. Il pensiero che qualcun altro (umano o demone) lo prenda e ne faccia quello che vuole mi disturba in un modo che non credevo possibile.
Poi certo, le ovvietà: lo stupro è una cosa terrificante a prescindere, e i film demoniaci FANNO PAURA A TUTTI, però io ne esco sempre a pezzi.
La pedofilia, poi, è una di quelle cose (pochissime, tbh) di cui nemmeno riesco a parlare.
Immaginate come posso stare dopo avere visto quell'unica, massacrante, scena di sesso che ci sta nel film. Ho avuto bisogno di una boccata d'aria, per non picchiare violentemente lo schermo. Continuavo a implorare nella mia mente di smettere, ho provato un odio cieco che quasi mi ha spaventata. Questo padre, questo nonno, e quella porta chiusa, mi hanno fatto venire voglia di vomitare.
Che gran luogo comune, eh? I pedofili mi fanno venire il vomito.
E allora, se da un lato la parte razionale di me promuove l'educazione anzichè la punizione e blablabla, quella più emotiva, dall'altro lato, vorrebbe solo vomitare addosso a queste persone che persone non sono, che sono il MALE, quello grande, quello in caps lock, Privarli di ogni parvenza di umanità.
Se ti serve un corpo da smerciare usa il tuo, feccia.


Perdonatemi, è solo che ho appena preso un grosso e doloroso pugno nello stomaco.
Guardatelo, ma con cautela.

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