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venerdì 1 dicembre 2017

Alias Grace

16:45
Volevo lasciar passare qualche giorno tra la mega chiusa che ho fatto ieri pomeriggio e il post su Alias Grace, la nuova serie Netflix tratta dal romanzo di Margaret Atwood. Principalmente perché mi servirà ancora qualche giorno per digerirla del tutto e poi perché è il quarto post in quattro giorni, e io faccio o troppo o niente.
Per stavolta vada per il troppo, la Atwood si merita questo e altro.



La Grace del titolo è una donna irlandese, emigrata in Canada da ragazzina, che deve scontare una pena in carcere per omicidio. Il dottor Jordan viene assunto per farle una valutazione psichiatrica, in modo da poter tramutare la sua pena in una diagnosi di isteria, in modo da farla scarcerare. Inizia così una serie di incontri in cui Grace si racconta al medico, dal momento del suo arrivo in Canada fino al giorno degli omicidi di cui è accusata.

Più di una cosa scritta da Margaret Atwood all'anno è autolesionismo. Se The Handmaid's Tale mi aveva lasciata ad un ameba informe di sofferenze, qua non siamo caduti tanto lontano. La narrazione è intima ed emotiva e il percorso di vita di una donna dell'800 è tutto tranne che delizioso intrattenimento. Mettiamoci il carico da mille, però: rendiamola un narratore inaffidabile.
La deliziosa Grace, che dai flashback appare creatura mite e pudica, ignara della malizia del mondo e profonda credente, a noi che la sentiamo parlare non appare proprio così. La comprendiamo corrotta dal manicomio prima e dal carcere dopo, e tanti cari saluti alla ragazzina che si prendeva cura dei suoi fratelli come se fossero figli suoi. La Grace che parla con il dottore è misurata e furba, sa quello che il dottor Jordan vuole sentirsi dire e perché, sa come dirlo e quando dirlo, e quando la situazione si fa più intrigante ecco sopraggiungere la sua lieve stanchezza, che le impedisce di proseguire. È scaltra e anche un'ottima attrice, con i suoi grandi occhioni celesti spalancati sul dottore che ormai ha l'ormone ballerino e se la figura in romantiche immagini sognanti.
Qual è la vera Grace? Quella che noi vorremmo fosse, l'innocente anima candida sporcata da una vita infelice o una donna crudele, indurita dalla vita e colpevole di un omicidio tremendo? L'ultimo episodio, da pelle d'oca e anche un filino di pauricchia di quella che si sente nelle viscere, dà risposte e allo stesso non ne dà, aprendosi ad almeno un paio di interpretazioni.

Le sue protagoniste hanno amiche che inevitabilmente ci spezzeranno il cuore. Laddove la Bledel che urla sul furgone ancora me la sogno la notte, è Mary che questa volta mi ha annientata. Mary la frizzante, Mary folle e libera, leggera come l'aria. La sua fine è stata un incubo. Dolorosissima, attualissima.
Le donne della Atwood non sono mai imbecilli. Magari sono ingenue, con uno sguardo infantile sul mondo, magari sono troppo fiduciose. Neanche tutte, in realtà. Ma ad un certo punto si svegliano, e non sono più cazzi per nessuno. Soprattutto per un motivo: sono spesso e volentieri complici. Non generalizziamo, ci sono le donnacce tremende che le vorresti fare fuori a pedate (ciao Anna Paquin, lo sai che parlo di te e anche a prescindere dalla parte) esattamente come nella vita reale. Ma non è un caso che i personaggi migliori siano quelli che fanno squadra. Le ragazze si consigliano, si mettono in guardia, si aiutano, si adorano. Fanno squadra e quando ci riescono diventano imbattibili.
Prendete esempio.

Se però non potete fare a meno di ammazzare una persona, tranquille: ci pensa Cronenberg a tirarvi fuori di galera.


sabato 21 ottobre 2017

Mindhunter

20:58
Sto malissimo in sti giorni. Vado a lavorare la mattina, all'una sono a casa e passo il resto del pomeriggio febbricitante e pronta a scrivere le mie ultime volontà dal letto in cui ormai ho lasciato la forma.
Netflix ha capito. Spiandomi dalla webcam del mio pc come tutti i veri e grandi poteri forti ha captato la mia necessità: un binge watching serratissimo.
Ha voluto però anche punire la mia pigrizia, infliggendomi una serie da scombussolamento cerebrale.
Parliamo di Mindhunter.


L'agente Ford lavora per l'FBI. Si occupa di gestire gli uomini che prendono ostaggi e rischiano stragi, quindi è solito avere a che fare con un lato più psicologico che con le armi, ma desidera fare di più, allargare le sue conoscenze, ampliare il suo ambito di competenza. In particolare, è affascinato dalle menti dei grandi criminali, quelli celebri, colpevoli di omicidi plurimi efferatissimi. Il suo interesse e la sua lingua lunga porteranno quello che era solo un esperimento condotto di nascosto da lui e il suo partner a diventare un ramo innovativo del Bureau.

Messa così potremmo confonderla con un procedural qualsiasi. Netflix, invece, si diverte tantissimo a prendere le cose e renderle il meno ovvie possibile. Mindhunter non è solo il racconto della risoluzione di alcuni casi. È la storia di una rivoluzione.

Siamo nel 77. Le parolacce sono sconvolgenti fonti di scandalo, l'apparenza nei confronti della propria comunità era fondamentale, e soprattutto, i criminali erano pezzenti sacchi di merda da umiliare e punire, fine della storia.
40 anni dopo (QUARANTA): le persone vengono squalificate dal Grande Fratello perché bestemmiano (in uno stato che dovrebbe essere laico), dell'apparenza non voglio nemmeno iniziare a parlare, e per quanto riguarda i criminali vi invito a fare un giro tra i commenti su fb ad ogni link condiviso da La Repubblica.
Lo vedete, vero, cosa fa Netflix? Ci prende tutti quanti per i fondelli, e fa di un bene che non riesco neanche a dirlo.

In questo momento in cui ancora urliamo alla giustizia privata, agli squadrismi, alla tortura, una serie come Mindhunter è fondamentale. Riporta all'attenzione il fatto che ogni persona, anche una che commetta atti terrificanti, abbia bisogno prima di tutto di comprensione. Senza quella abbiamo perso ogni scopo.
Non sono pazza, quando sento di certi crimini il mio primo istinto è sempre una rabbia cieca. Stasera la tv mi ha quasi fatto sputare sangue. Però prima di uscire per la strada e massacrare di mazzate chiunque rubi una mela al mercato, mi fermo a pensare. E Ford applica questo concetto, che dovrebbe essere basilare, a fenomeni ben più ampi della mia povera mela del mercato. Affronta assassini e stupratori con calmissima lucidità, quasi dimentico del reato di fronte alla sua spiccata curiosità per quello che al reato sta dietro.
La mente.
In mezzo a colleghi che vedono la risoluzione del caso come una realizzazione personale, lui vede oltre e deve combattere contro i mulini a vento per impedire che l'efferatezza di quello che viene sollevato oscuri l'altezza del suo ideale. Chissà se questa frase è comprensibile. Il punto è che tutti gli altri coinvolti, nella serie, non vedono l'ora di sbattere il mostro in cella. Non che a lui questo non importi, tutt'altro, ma non si può fermare lì. Una mente in grado di rapire e uccidere molte donne deve avere qualcosa che vale la pena comprendere. Chi comprende può affrontare, chi si limita al giudizio finisce per non risolvere nemmeno il caso.
Entrare nel vivo di menti così deviate, però, non può essere senza conseguenze. Le vite di tutti i coinvolti non possono scorrere come se fosse la normalità. Questo aspetto, in Mindhunter, arriva con un moto lentissimo ma costante, ed è doloroso. Non si può toccare il male senza sporcarsi.

Mindhunter mi è sembrata coraggiosissima nel tirare in ballo criminali ancora in vita, riportando in discussione i loro terrificanti omicidi e spiattellandoli sulla piattaforma più vista del mondo, come se niente fosse. Il rispetto per le vittime, però, considerato che alcuni familiari potrebbero essere ancora in vita, non è mai mancato. Sembrava facilissimo commettere un passo falso.

Un lavoro consì intenso e importante ci arriva con una confezione deliziosa. Questi anni 70 sono pieni di colori grigi e abiti da uomo mai della misura perfetta, sigarette continue e cabine del telefono, grandissime scritte bianche riempischermo e una colonna sonora strepitosa.
Tiè, siccome è sabato sera e non tutti starete in casa come me, una canzone che vi carichi per la serata:



sabato 29 luglio 2017

#CiaoNetflix: Fino all'osso

08:50
Oh Netflix guarda, c'è un argomento spinoso!
Benissimo, che dite, ne facciamo un film?
Com'è come non è, Netflix butta fuori una storia sull'anoressia, completa di disclaimer per le
immagini forti e tutto il resto. Decido di guardarla.



Lily Collins è Ellen, una ventenne che soffre di anoressia da tempo. Nessuna terapia tradizionale sembra funzionare con lei, quindi Susan, la seconda moglie del padre, contatta il dottot Beckham, un medico che della tradizione se ne è sempre fregato.

Partiamo subito col renderci antipatiche e dire che a me sti personaggi che vogliono fare i diversi, gli speciali, quelli che capiscono veramente i cciovani, stanno tendenzialmente sulle balle. Non venitemi neanche a parlare de L'attimo fuggente perché mi viene un prurito fastidioso. I carismatici, di solito con posizioni di 'potere' tipo medico, o insegnante per restare a Robin Williams, ed è bene che siano di ispirazione. Parola chiave, l'ispirazione. Questi personaggi che vogliono a tutti i costi essere particolari, imprevedibili, che tendenzialmente ad un certo punto del film si ritrovano a strillare in mezzo alla strada, o in classe, o in un museo, a fare cose assurde come salire sui tavoli o portare della gente sotto una specie di cascata artificiale o quello che è. Il mio non vuole nemmeno essere un elogio della normalità, nella vita reale mi piacciono le persone che non hanno paura di essere diverse, è proprio nei film che mi fanno venire il latte alle ginocchia.
Keanu Reeves, in questi film, è l'EMBLEMA di questo tipo di personaggi che detesto. Come si cura quella voce nella testa che ti dice che mangiare farà cascare il mondo?
Ma la si manda a fanculo, chiaramente.
È proprio una scena del film. Lui che dice ai ragazzi di dire 'fuck you' alla loro malattia.
Ma perché anni di studi? Ricerca, gente ammassata nei laboratori e sui libri a farsi un culo quadro a studiare medicina, quando la soluzione era dire una brutta parola cattiva alla malattia? Che spreco di denaro pubblico, mi verrebbe da dire.
Mi rendo conto che quando ho questo atteggiamento risulto poco simpatica, e me ne dispiaccio, ma ogni volta che vedevo la faccia di Reeves speravo di sentirlo blastato da Roberto Burioni.

Ciò detto, il film ha anche dei pregi interessanti. Non cerca una causa alla malattia. Ci si prova, per un po', a dire che la famiglia disastrata può aver contribuito a creare in Ellen un disagio, ma si molla presto la presa sulle cause per pensare alle soluzioni, ed è un atteggiamento che a me piace parecchio. Nessuno meglio di Lily Collins sa che l'anoressia, come quasi tutte le malattie, è l'emblema della democrazia: che tu venga da una famiglia perfetta o che tu venga dall'inferno in terra, ti puoi ammalare. La Collins e la sua Ellen vengono da realtà ben differenti, eppure eccole lì, malate entrambe.
In generale, però, ho trovato il tutto un po' troppo addolcito. Sì, Ellen è magra in modo impressionante, ma le storie degli altri ragazzi residenti nella casa del dottor Beckham sono solo accennate per lasciare spazio all'inevitabile storiella d'amore che un po' mi ha innervosito. Sarebbe stato interessante vedere come una stessa malattia colpisce persone diverse in modi diversi, sarebbe stato forse anche utile vedere una persona fare un percorso positivo.

Netflix, tu hai i soldi e le idee, un mondo di possibilità. A volte va benissimo, a volte meno, e va bene così. Ti voglio bene lo stesso.

lunedì 17 luglio 2017

XX

13:42
Le emozioni più genuine sono quelle scaturite da piccoli dettagli colti in giro per l'esistenza. È lunedì, il giorno del post dell'orrore, e avevo deciso di guardare quell'XX che stava nella mia lista Netflix da un po'.
Lo accendo, parte il primo corto (che è poi il mio preferito), la famiglia accende la tv, il film che guardano è La notte dei morti viventi. Per cinque secondi mi sono sentita presa in giro. Ma come, karma? Proprio oggi? Proprio oggi che piangiamo George Romero?
Poi ho pensato che invece è proprio così che voglio vederlo ricordato. Omaggiato, citato, mostrato negli horror di oggi che a lui devono così tanto. Diamo spazio ai giovani (e alle giovani), ma continuiamo con i nostri altari dedicati a chi ci ha reso quello che siamo.



XX è un progetto antologico composto da 4 cortometraggi horror girati da altrettante registe donne. Donne sono anche le protagoniste, ritratte sempre in mezzo agli affetti più cari. Ci sono famiglie, amici, figli, vicini di casa. Eppure, alla fine, le protagoniste si trovano sempre sole a gestire le tragedie che accadono loro.

The Box

Nel primo corto, che come vi dicevo è il mio preferito, una madre è in metro con i due figli. Il più piccolo si mette a fare due chiacchiere con l'uomo seduto accanto, che porta una grossa scatola rossa. Il bambino chiede di vederne il contenuto e, una volta accontentato, qualcosa accade. Il bambino smette di mangiare, rifiuta il cibo con calma fermezza. Nessuno sa cosa abbia visto, fino a che il bambino non ne parla con la sorella.
A me queste cose senza risposta, che non hanno bisogno di coccolare lo spettatore, a volte innervosiscono a volte piacciono. In questo caso mi è piaciuto perché, diciamocelo: nessuna risposta avrebbe saziato. King in Danse macabre parla molto bene di quanto sia giusto mostrare per non deludere le aspettative (dato che la nostra mente va sempre al peggio possibile) e secondo me Jovanka Vuckovic ci riesce benissimo.
C'è anche da dire che come io leggo il nome di Jack Ketchum mi chiudo a riccio e parto con paura preventiva, ma tant'è.

The Birthday Party

Altro episodio bellissimo. È il compleanno di Lucy e la sua mamma Mary ha organizzato per lei una festa incredibile. Niente può rovinare la festa della bambina, nemmeno l'improvvisa morte del padre.
Anche stavolta, una donna si trova a dover gestire un grosso problema familiare. Mary ha l'aggravante del dover salvare la facciata. La sua ansia materna è quasi tenera se non fosse folle e sconsiderata. L'episodio, girato da quella che credo essere la morosa di Kristen Stewart, è brillante e grottesco, mi ha colpita molto.

Don't fall

Potevano mancare gli amici in vacanza? No, infatti.
Ecco quindi quattro ragazzi in esplorazione di una zona montuosa, con tanto di panorama mozzafiato e pitture rupestri. Chiaramente non finisce bene, ma nemmeno il corto, visto che a me è sembrato insipido e facilmente dimenticabile.

Her Only Living Son

Ah, questo stupendo. Cora e il figlio diciottenne Andy hanno un rapporto travagliato. Andy la preoccupa molto, e non accetta aiuto.
Il corto della regista di Jennifer's body e del ben migliore The Invitation è dolce e intenso, con un finale straziante.

Riconosco di non essere oggettiva a causa del mio amore per gli antologici, ma insomma, questo è bellino. Se dovete scegliere un modo indiretto per salutare George, eccovelo.

sabato 15 luglio 2017

#CiaoNetflix: Holy Hell

11:38
Per qualche motivo siamo (plurale maiestatico) attratti dalle cose cupe, macabre, malsane. Serial killer, casi irrisolti, sette, luoghi infestati. Il mondo è pieno di gente affascinata da queste cose e io vorrei dire che non lo sono, ma mentirei sapendo di mentire. Perdo le serate a leggere di storie come quella di Cicada 3301, o sulle creepypasta, o sulle leggende metropolitane, come un quindicenne.
Le sette sono quelle che attraggono la parte più 'adulta' di me. Il modo in cui umani normalissimi vengono circuiti completamente da altri umani quasi normalissimi è per me fonte di incredibile curiosità. Netflix lo sa, e quindi mi propone Holy hell.

il trash di questa foto è quasi ammirevole
Buddhafield è stata una setta, attiva indicativamente per una ventina d'anni, guidata da Michel Rostand. A girare il documentario è uno dei membri che ha lasciato la comunità alla luce di terribili rivelazioni sulla guida spirituale a cui tutti si sono affidati così a lungo.

Ora, lo 'spoiler' non credo nemmeno sia tale. Se avete un minimo di conoscenza base sul mondo delle sette sapete che il sesso è uno degli elementi che per primi vengono ridiscussi. La sessualità non è quasi mai serena e convenzionale, ma diventa uno strumento, e Buddhafield non è certo da meno. Il passato di Michel è senz'altro più divertente, ma quando si parla della comunità tutto si fa più inquietante.

Buddhafield ha trovato nei suoi seguaci una folta comunità di persone dalla fortissima fede religiosa. Come spesso accade si è attaccata come una malattia tra chi ha avuto un vissuto complesso (il regista, per esempio, era stato cacciato di casa dai genitori perché omosessuale) e finisce per rovinare definitivamente menti già fragili. La cosa sconvolgente è quanto all'inizio Michel abbia sfruttato in un modo sporchissimo la fede di chi non aveva altro che quella. Ora, io non credo, ma so quanto la religione sia importante per chi ha una fede onesta. Lo so che pare strano credere esistano veri credenti, ma esistono eccome. Prendere un lato così forte della vita di qualcuno e sfruttarlo in modo così sfacciato, proponendo reali incontri con dio per esempio, è stata la manovra più subdola di Michel. Quello che accade dopo è una conseguenza di questo becero sfruttamento e del lavaggio del cervello che ne è seguito.
Le persone come Michel mi intrigano sempre per quello che riescono a fare a chi li circonda. Io non sono capace di convincere il mio moroso ad iniziare Sense8, questo convinceva degli sconosciuti a lasciare le loro vite per entrare nella sua, di esistenza. Ha convinto estranei ad idolatrarlo, a fare di lui la divinità che lui stesso ha sempre creduto di essere. Per me è una capacità incredibile. Ingiustificabile, ma incredibile.

Come spesso accade, il documentario è realizzato montando interviste alle persone scappate dalla setta e filmati reali della vita di Buddhafield, e se da un punto di vista 'tecnico' non mi ha colpito particolarmente, è senz'altro molto intenso. Buddhafield ha cambiato la vita di centinaia di persone, che ne porteranno i segni per sempre. E tutto per mano di una persona sola.

sabato 8 luglio 2017

#CiaoNetflix: Okja

13:07
Non mi sono mai sentita particolarmente vicina alle tematiche animaliste. Ho due gatti che amo incredibilmente, ho sempre avuto gatti da che ho memoria, e sbatterei ai lavori forzati quelle bestie che usano violenza sugli animali perché non c'è niente che mi faccia più girare i cosiddetti della gratuità del male. Eppure mi tengo volentieri alla larga da quelli che 'I cani sono meglio delle persone' o da quelli che trattano meglio il loro animale rispetto alle persone di cui sono circondati (e il mondo di quella gente qui ne è pieno).
Okja, però, non è un cane, è un maiale. Un maialone dalle dimensioni esorbitanti, più simile ad un Totorone che ad un suino, dalle vaghe fattezze ippopotamesche, e non sono stata in grado di resisterle, anche alla luce delle recensioni entusiaste che sono girate sul web.


Okja è, come vi dicevo, un maiale. La sua razza è stata creata in laboratorio con lo scopo apparente di risolvere i gravi problemi di fame nel mondo. Alcuni esemplari sono stati spediti in giro per il mondo, da piccoli fattori che avevano il compito di crescere i super maiali. Noi conosciamo la storia del maiale spedito in Corea e cresciuto da una bambina, Mija, e da suo nonno. Quando la multinazionale tornerà in Corea per riprendersi Okja, la bambina non sarà disposta a lasciarla andare così facilmente.

Poteva essere uno di quei filmettini della mutua sul rapporto con i nostri amici animali (Paul, Beethoven, Io e Marley...) e causare in me quell'irritazione che il mio snobismo conosce così bene. Avrei potuto interromperlo a metà, presa dalla noia.
Invece mi sento come quando guardo un film dello Studio Ghibli: affascinata, commossa, piena di buoni sentimenti da un lato e incazzata nera con l'umanità dall'altro.
Okja ricorda un po' Nausicaa della valle del vento se vogliamo, nel modo in cui prima ti trascina in un mondo favolesco e poetico per poi prenderti per mano e mostrarti che non è vero niente, che anche gli idealisti possono essere degli stronzi, che una piccola buona azione non può surclassare il male che gli altri fanno, che i buoni non esistono, che sì Jake Gyllenhal fa tanto ridere ma alla fine è il più fetente di tutti.
Con il grottesco fa inorridire, in un modo che con me pochi altri hanno ottenuto.
In mezzo a tutto questo, alla denuncia, allo scoprire lo squallore di un sistema sbagliato in ogni suo aspetto, il barlume di luce che sta negli occhi di Mija. Mija non molla un cazzo. Vuole il suo maiale e se lo va a prendere, e vi voglio proprio vedere a fermarla. È stata tradita più volte, è stata ingannata, è stata arrestata, ma non sia mai che qualcosa la allontani dal suo sogno: tornare alla semplicità della sua vita con il suo maiale e il suo nonno. Combatte con i denti per la più umile delle esistenze, senza pretese nè lamentele, semplice e dolcissima. Non si è mai fermata a piangere in un angolino, come facciamo noi ogni giorno quando vediamo i documentari su come vengono trattati gli animali negli allevamenti intensivi per poi condividere la notizia su fb, scambiarci le reazioni tristi e poi tornare alla nostra grigliata del primo maggio. È una storia di amicizia straordinaria.

Badate bene che mangio pochissima carne ma non sono vegetariana. Ogni tanto, però, mi capita di pensarci, a cosa alimento grazie alla mia alimentazione (sorry not sorry), e di cercare di fare decisioni più ponderate.
Oggi, però, ci penso un po' di più.

sabato 20 maggio 2017

#CiaoNetflix: Trollhunters

17:10
Vediamo: Netflix che crea una serie animata che ha evidentemente a che fare con i troll firmata da Guillermo Del Toro.
Evasione in massa da questo post (che arriva in ritardo colpevolissimo) per andare a vederla, suppongo, perché non mi vengono in mente combo più felici.
Rischio: non totale oggettività, GDT è pur sempre il mio grande amore. Però vi garantisco che Trollhunters è splendido davvero.



Il protagonista è Jim, un ragazzino normalissimo, forse un po' sfigatino, che un giorno viene scelto  da un amuleto per diventare il protettore dei troll buoni, per difenderli da quelli meno buoni. Il trollhunter, appunto.

Ma allora, perché il titolo è al plurale?
Ah, mettetevi comodi, perché è stupendo.
Jim mica sa niente dei troll. Come noi, nemmeno sapeva che esistessero. Poi, di punto in bianco, un amuleto, e una vita rivoluzionata. Mica solo quella di Jim, però, perché Jim non è solo. Toby, il suo migliore amico, diventa la spalla che serve ad ogni eroe. Barbara, la mamma, nota che il figlio, fino ad un momento prima così adulto e responsabile, improvvisamente diventa un misterioso adolescente dal comportamento un po' troppo strano. Claire, la belloccia della scuola, viene derubata del fratellino minore...la vita di tutta la città di Arcadia è messa sottosopra.
Ed è qui che inizia il bello. Il trollhunter si circonda di anime amiche, di sostenitori ed aiutanti, di consiglieri e protettori, e il ruolo che fino ad allora era stato ricoperto da un solo troll alla volta ora è un lavoro di squadra, di trollhunterS, appunto.
La squadra di amici, umani e troll, è solo uno dei vari modi in cui Del Toro usa la serie per parlare di famiglia. Jim è stato abbandonato dal padre e vive con una madre un po' troppo impegnata col lavoro ma comunque molto presente, i genitori di Toby sono morti, le famiglie troll cercano per i mondi sotterranei i loro membri, Claire combatte i mostri per riprendersi il fratellino, Draal teme di deludere il padre...
La famiglia diventa più o meno direttamente il movente di ogni azione, di ogni combattimento, di ogni scelta. Anche la famiglia che non ha vincoli di sangue. E lo diventa senza bisogno di scene madri con bambini straziati e piagnistei inutili. Conservando un'ironia adorabile (e da Del Toro non mi sarei mai aspettata le risate scorreggione), soprattutto in quel Tobias che è un personaggio perfetto, si toccano picchi altissimi di approfondimento, emozione ed avventura. Sì, anche emozione, perchè mi sono commossa pure in un cartone sui troll, maledetto messicano.

Ma d'altronde, chi si sarebbe mai aspettato qualcosa di meno, da lui?

domenica 14 maggio 2017

#CiaoNetflix: Il lato positivo

15:09
Un sabato pomeriggio di riposo!
C'è anche il sole! Usciamo, facciamo un giro in bici, andiamo a vedere un museo, andiamo a dar da mangiare agli asinelli!
No, dormimo fino alle 4 e poi attacchimoci al pc, perché sprecare la vita è sport olimpico.


Il lato positivo è la storia di Patrick, appena uscito dall'ospedale psichiatrico in cui era stato ricoverato dopo che il suo disturbo bipolare era emerso. Una volta uscito il suo unico scopo è riconquistare la moglie, e per farlo chiederà l'aiuto di Tiffany, una conoscente. Tiffany, però, chiede un favore in cambio.

Quando dico che i film d'amore non mi piacciono in realtà mento sapendo di mentire. Diciamo che non sono la prima cosa che cerco quando vado al cinema, ma credo che la colpa sia anche del fatto che sono molto molto esigente. Quando mi emoziono piango per giorni, ma prima di trovare coinvolgimento dalle storie d'amore ce ne passa. Il mio snobismo mi fa dire che è molto presuntuoso voler parlare d'amore, è follia chiedere a due persone di fingere di amarsi e soprattutto è quasi impossibile trasmettere il sentimento a chi stia fruendo del prodotto.
Però ci provo, ogni tanto, perchè quando trovo un film d'amore che mi emoziona mi conquista in modo totalizzante.
È il caso di Silver Linings Playbook?
Eh, mi sa di no.

DA QUI ANTICIPAZIONI ROVINATRAMA, COME SE CI FOSSE QUALCOSA CHE NON SIA INTUIBILE ANCHE SOLO DALLA LOCANDINA

Partiamo dal dire cosa cerco: la cosa che preferisco della rappresentazione dell'amore è vederlo nascere. Cioè quello che preferisco è il prima. Outing: quando avevo 16 anni e leggevo Twilight (eh, oh), lo adoravo perché nel romanzo buona parte del rapporto tra i due è ritratta prima della nascita della storia. Edward e Bella si pizzicavano, si provocavano, si divertivano. Non alla Mulder e Scully che ci hanno messo 10 anni, ma insomma è stato bello per me vedere la lenta crescita di qualcosa oltre l'amicizia. È sempre bello per me, mi coinvolge e quando arrivo alla definizione della relazione sono già emozionatissima.
Niente, qua non mi ha toccato niente. Ci stava quasi riuscendo, con le scenate in giro per la città e i due che si rincorrevano per le strade, c'eravamo quasi. Poi hanno preso a ballare e niente, è morto tutto. E non è che io odi le scene di danza, ve lo ricordate vero che uno dei miei film della vita è Dirty Dancing?
Però Bradley, ti prego, sei bello come il sole, la finisci di ballare? Stai fermo, come la statua greca che ricordavi prima di diventare un mortadellino, e lasciaci sognare.
Il suo personaggio non mi conquistata nemmeno per un istante, non so se sia colpa del fatto che BC è tanto bello poco bravo. Anche Jennifer Lawrence mi ha lasciata freddina, ma c'è anche da dire che non sono una sua particolare ammiratrice.

Tutto sommato non è che il film sia brutto, scorre veloce e abbastanza piacevole, ma coinvolgimento da parte mia meno venticinque.
Lo troverò il film d'amore della mia vita, a costo di metterci vent'anni.

sabato 6 maggio 2017

#CiaoNetflix: Sense8, stagione 2

13:49
Io ieri ho pure guardato Paterson, che è un film incantevole.
Il problema è che l'ho guardato mentre refreshavo Netflix nell'attesa di Lei, Nostra Signora Seconda Stagione Di Sense8. 
Qualcuno di voi si ricorderà lo sconvolgente stravolgimento emotivo che la prima stagione di quella che è per me una delle serie migliori di sempre mi aveva causato. Ora sono reduce da una maratona della seconda stagione, e il coinvolgimento non solo non è calato, è cresciuto ulteriormente.


Avevamo lasciato i Sensate nello speciale di Natale, li abbiamo visti proseguire nelle loro vite cercando di sopravvivere a chi vuole dare loro la caccia. Non credo sia necessario raccontare quello che accade, perché è un viaggio eccezionale nelle emozioni umane che va vissuto in prima persona.

La prima stagione ci aveva presentato i Sensate, le loro vite all'inizio della connessione, il loro rapporto agli inizi e soprattutto le loro personalità. Il loro presentarsi nelle vite degli altri al bisogno, il loro essere condivisione di conoscenze e di sentimenti, è stato di grande, grandissimo impatto sullo spettatore. (O se non altro, su di me)
Li ritroviamo in questa stagione un anno dopo. La loro connessione è sempre lì, con nostra grande gioia. Se c'è da picchiare qualcuno arriva Sun, servono informazioni e Nomi ha già il pc in mano, servono bislacche quanto funzionali performance attoriali e si presenta Lito, in una scena davvero esilarante. Ci sono ancora le scene di gruppo, quelle più intense che si infilano nella memoria come se fossero ricordi personali. Ci sono le scene di sesso (delle quali mi è capitato di chiedermi l'utilità, ma in effetti c'è un momento in cui le sensazioni sono più amplificate? La loro connessione è fisica, tattile, emotiva. Forse davvero il sesso è il momento che rende meglio), quelle festose, quelle riflessive, le crisi. I momenti alla 4NonBlondes della scorsa stagione.
Seriamente, riuscite ancora a collegare quella canzone lì a qualcosa che non sia quel capolavoro di scena della prima stagione? Io no.

Ma quindi, è cambiato qualcosa dalla prima stagione?
Oh, eccome.
Sono diventati amici.
No, non amici nel senso che al sabato si prendono una birretta in vari locali sparsi per il mondo, amici nel senso in cui lo intendo io quando parlo dei miei, di amici. Amici nel senso di famiglia. Tengono l'uno all'altro, sono pieni di affetto e premure, la loro comunicazione è affinata dal bene che si vogliono. Giocano, ballano, si aiutano, si scambiano confidenze. Non è più solo un legame dato dalla loro condizione, i loro rapporti crescono e sono più sofisticati, profondi.
In questa seconda stagione c'è grande attenzione nel far comunicare tutti con tutti. È chiaro che Riley e Will magari passano più tempo insieme, ma ci sono molte scene con i Sensate presi a coppie, o a gruppi di tre, in assortimenti magari trascurati nella prima stagione, e si approfondiscono relazioni che altrimenti, senza il dono di cui sono stati omaggiati, non sarebbero mai nate e che si rivelano salvifiche. Non solo perché devono salvarsi le chiappe da chi li cerca, ma anche nella quotidianità distinta di ciascuno di loro.

Sun è ancora la mia preferita. Lei inizia a combattere e io esulto come allo stadio, poi riguardo la scena ed esulto di nuovo. Algida, rigidissima, forte come una roccia, implacabile, imbattibile, senza paura. Wolfgang può dare pugni ad un sacco finchè gli pare ma lei con due dita gli spezzerebbe il collo. Adoro che ci sia fatto credere che la sua caratteristica fosse il combattimento ma che in questa stagione lei compaia sempre alle persone sperdute. Riley, Kala, Lito. Quando uno dei Sensate perde il controllo sulla propria vita, è la calma e apparentemente fredda Sun a comparire. È un personaggio stupendo, la adoro.
E quando è Sun a stare male, non basta un Sensate ad aiutarla, ci vuole un fronte comune, in una scena splendida splendida splendida. C'è una scena che non lo sia?
Spoiler: no.
Mi è solo dispiaciuto che non fosse dato lo stesso spazio alla mia coppia del cuore, Lito ed Hernando, che nella prima stagione mi avevano emozionato come poche altre coppie di finzione. Lito, in compenso, diventa il vero divertissement della serie. Mi ha spaccata, con quel pigiamone blu da bambino. Che bene che gli si vuole.
Infine, sono stata molto contenta di vedere Kala assumere una personalità ben più definita, da cerbiatto dei boschi a donna di potere, con conoscenze e carattere utilissimi alla causa.

È troppo facile nelle serie tv farci piangere. Vediamo protagonisti a lungo, ci affezioniamo, cerchiamo di empatizzare, quindi quando succedono scene alla Not Penny's Boat finiamo a pezzi. Ho pianto singhiozzando come una dannata quando è morto il mio Charlie, lo amavo appassionatamente. Aveva fatto un percorso bellissimo e poi me lo hanno sacrificato così, è stata una morte ingiusta. Però facile.
Quello che fa Sense8 non è farci piangere. (Cioè io ho pianto sempre, ma riconosco sia un mio problema.) È coinvolgere in maniera equilibrata ogni sentimento, coinvolgendoci in ciascuno in ugual misura. Uscirne indenni è impossibile.
Se sopravvivete con qualche emozione rimasta da questo ultimo episodio, sediamoci a parlarne. Ora c'è il lutto della fine, e con Sense8 è un po' più difficile del solito.
Mi mancano già.

lunedì 24 aprile 2017

Under the shadow

10:06
Io e l'horror, mio compagno fedele dai tempi dell'infanzia, siamo stati per un po' in rotta. Nel periodo di lontananza da internet non ho visto niente, letto niente, scritto di niente. Siamo stati così, un po' lontani l'uno dall'altra, nella speranza che lo storico amore che ci lega ci riavvicinasse.
Non so niente delle novità, non ho ancora tempo di leggere altri blog come invece vorrei e quindi mi sono ritrovata, il giorno di Pasqua, a bazzicare per Netflix (ma va?) senza idea di cosa guardare.
Spunta Under the shadow. (O meglio, spunta L'ombra della paura ma noi fingiamo che il titolo italiano non esista).
Vi racconto una cosa: come tutti, mi piace l'idea di passare la vita a viaggiare. Ma se ci sono luoghi che mi fanno palpitare dall'attesa, che sogno ardentemente di visitare, sono i paesi del Medio Oriente. Mi rendo conto di dover aspettare un po', ma a me l'idea di visitare Israele, Iran e Iraq, la Turchia, tiene sveglia la notte. Eccoci allora al perché della scelta del film: Under the shadow ha una produzione tutta mediorentale. L'ultima volta che ci era piombato addosso un film di quelle parti c'era andata di lusso, il film era A girl walks home alone at night.


Siamo in una Teheran degli anni '80. Un medico viene convocato in battaglia, e lascia sole a casa la moglie e la figlia. Occupate a vivere la vita tra un bombardamento e l'altro, si troveranno ad affrontare una presenza che sembra avere scelto tempi e luoghi ideali per un'infestazione.

Messa giù così la faccenda sembra velocemente riconducibile ad una banalotta ghost story con l'aggravante della guerra. Non è così, ma proprio per niente niente niente. È un film che, non dimendicandosi di mettere qualche momento molto teso in giro tanto per non farci ammosciare sul divano (cosa che sarebbe impossibile in ogni caso, ma non si sa mai), prende due milioni e mezzo di tempi di un'importanza fondamentale e li mette in pellicola.
Al che ti chiedi, giustamente, se non ne sia uscito un minestrone. No, affatto.
Partiamo dall'inizio e vediamoli.
Shideh, la madre, è un'ex attivista politica. Dalla parte sbagliata, però, perché adesso la sua passione civile le impedisce di inseguire il sogno di sempre: diventare un medico. Le viene impedito di riprendere gli studi, distruggendo ogni speranza. Torna a casa, dove la aspetta una bimba, Dorsa. Il padre della bambina è a sua volta un medico, che se all'inizio sembra comprensivo nei confronti della moglie, con lo scorrere del film diventa più teso e severo.
Lui viene convocato in guerra e le donne di casa restano sole. Dorsa inizia a percepire una presenza, e se all'inizio Shideh dà la colpa alle storie spaventose che le vengono raccontate dagli amici, non passa molto prima che le visioni della bambina si facciano più invadenti.

Ora, io non sono una cima a cogliere le metafore. Cioè magari vedo un film, per qualche motivo lo apprezzo, poi finisco a leggere qualche articolo a riguardo, mi vengono aperti gli occhi su simbolismi e similitudini allora io faccio «Aaaaaaaaaahhhh, ecco!» e poi vado avanti con la mia vita.
Qua, insomma, mi pare tutto piuttosto palese. La quotidianità delle due viene lentamente smantellata. Se iniziamo 'solo' con finestre scotchate e corse in cantina, finiamo con il vedere frammenti della loro routine che vengono lentamente portati via. Verrebbe naturale pensare che la prima cosa a saltare sia la serenità, ma vi rassicuro: noi la serenità non la vediamo proprio. Inizia il film ed è già tutto un disastro, la presenza peggiora solo cose già messe male.
Spariscono cose più piccole solo in apparenza: una videocassetta, una bambola, un libro. Cose piccole, ma solo in apparenza. Cose che ci rendono normali, che rendono la nostra vita come quella di tutti gli altri, che ci restituiscono quel briciolo di umanità in un Paese che l'umanità la sta perdendo. Il tutto per condurre ad una scena finale, in quella cantina-rifugio, da pelle d'oca, con due donne ricoperte da un immenso chador. Questa sono riuscita a leggerla persino io, di metafora.

Non ho nemmeno parlato di tutti i risvolti femministi del film, perché ci hanno pensato i signori del Guardian: trovate l'articolo qui.
Da troppo tempo ero lontana dal genere che ha fatto nascere questo posto. Senza la fretta che ho avuto in questi anni mi rimetterò in carreggiata. Dopo questo infatti ho visto Hellions che è un bellissimo film TUTTO ROSA. Splendido.

sabato 15 aprile 2017

Cosa guardare su Netflix se a Pasquetta piove

11:34
Lunedì è Pasquetta è per una serie di fortunatissimi eventi io non lavorerò.
Mettiamo che anche voi abbiate questa straordinaria fortuna ma all'orizzonte si stagli la possibilità di non avere programmi. Mettiamo anche che abbiate un divano, un pc, una connessione internet, una ciotola di patatine alla paprica. Deve essere un chiaro segno del destino: s'ha da fa la maratona Netflix.
Ora, ci sono alcune serie tv sulla piattaforma più bella della storia del mondo che vanno recuperate ad ogni costo, meritevoli di farvi saltare qualche pasto che tanto mangiare è sopravvalutato (Sherlock, Friends, Sense8, Lost, tanto per fare qualche nome sconosciuto), ma oggi parliamo di film.
Cercherò con i miei soliti precisissimi criteri casuali di dividere i film in categorie. Se il titolo del film è scritto in blu cliccateci sopra per finire al trailer, o a qualche scena.
Questo è un post aperto, perchè non è che posso avere visto tutti i film del catalogo anche se mi piacerebbe. Nei commenti si accettano postille, correzioni e aggiunte!

Sempre sia lodato

I famosissimi, quelli che se non li avete visti siete dei cinefili farlocchi!!11!1

Qua c'è da sbizzarrirci. Mettetevi comodi.
Voglia di western? Perfetto, c'è il Programma Leone pronto per tenervi occupati una giornata: C'era una volta il westC'era una volta in AmericaPer qualche dollaro in piùIl Buono, il Brutto, il Cattivo. Solo per citare i più famosi. Se riuscite a farveli di fila il Sergione D'Oro vi verrà recapitato direttamente a casa.
Point Break, che sta lì da secoli quindi ho il timore che scadrà tra poco.
Tutte quelle cose supericoniche che basta nominare metà titolo e tutti le conoscono ci sono: Scarface, Donnie Brasco, La sottile linea rossa, Il buio oltre la siepe, Schindler's list...Per una Pasquetta culturale.

Musica!

Lo sapete ormai che io con i musical ci perdo la testa. Accade che Netflix ospiti due dei miei preferiti di sempre: lo strabiliante, vertiginoso, provocatorio e irresistibile The Rocky Horror Picture Show. Avete presente quanto la gente sta facendo venire le palle quadre all'internet perché di Pennywise ce n'è uno solo ed è Tim Curry? Immaginate la rivolta popolare se venisse confermato un remake del Rocky Horror. Il film è da guardare solo previo spostamento di mobili in casa, c'è da ballare il Time Warp.
Moulin Rouge! è l'altro barocco splendore a cui dedico le mie preghiere prima di dormire. Una delle colonne sonore migliori di sempre (qui l'album su Spotify), per un pomposo e ridondante film che vi lascerà agonizzanti sul divano. E Ewan McGregor bello così non lo è stato più.
Footloose poverino rispetto ai due Signori qua sopra passa un po' in secondo piano, ma lo adoro.

Come non ridurre i bambini ai soli film Disney

Vi posso concedere due cartoni Dreamworks, che sono due miei grandi amori: Dragon Trainer, un film che crede di parlare di draghi e invece parla di gatti, e Shrek, una delle mie cose preferite di sempre. Mi spacca dal ridere, che ci posso fare.
Poi però si deve passare all'artiglieria pesante, che non è che li possiamo viziare sti bambini: Monster House, che secondo me la sua dose di strizza la dà eccome, e infine Lei, Coraline.
Se fanno i bravi e non frignano a metà dalla paura, vanno gratificati, con uno dei film d'animazione più belli che siano mai stati fatti, Wolf Children.

Che l'orrore sia con voi e con voi rimanga sempre

Netflix ha ampliato i suoi orizzonti sul genere horror con calma. Come un diesel, appena acceso arrancava un po', invece oggi, pur non avendo le prestazioni di un benzina, si difende bene. Titoli culto? Halloween, da cui si va in pellegrinaggio almeno una volta l'anno, Scream, così se poi vi piace (e vi piace) avete già pronta in canna la serie tv, Lo Squalo, che vi garantisce un'altra maratona a tema perchè ci sono tutti fino al 27.
Meno mainstream ma amatissimi da chiunque abbia visto più di 5 film di genere: The descent, che è indimenticabile perchè un po' fa un paurone e un po' spezza i cuori, The orphanage, che spezza i cuori e basta, ma lo fa con un twist che vi rovinerà la vita, Drag me to hell, che è praticamente Sam Raimi che corre per la strada sventolando bandierine fatte di vomito cantando I'M BACK BITCHEEEEESSSS.
Infine, ma non per importanza, uno dei finali più sconvolgenti della storia, inserito in un monster movie bello come pochi: The mist.
Ah, ci sono anche Evil dead e The final girls. Non fatemi nemmeno cominciare su questi, di corsa a guardare.

Documentari femministi

Netflix ha dato alla parola documentario un significato tutto nuovo, alleggerito della spocchia e della pesantezza che gli si attribuiva (o forse ero solo io).
Se tutto il catalogo è infarcito di cose davvero interessantissime, di ogni tipo e genere, oggi vi elenco solo quelli a tema femminista. Sono importanti, oggi e sempre, e sono impegnativi nel tema ma mai nella trattazione.
Audrie & Daisy The hunting ground parlano di violenza, nel primo caso riguardo a due casi specifici e nel secondo del problema enorme degli stupri nei campus universitari degli Stati Uniti.
She's beautiful when she's angry, che racconta della seconda ondata del femminismo statunitense, degli anni '60 e infine Miss Representation.
Ecco, mi raccomando. Una camomilla prima di partire con questa fila. Alla fine sarete incazzate nere. Ma è un'incazzatura necessaria, anche per Pasquetta.

Quelle due comedy in croce che mi piacciono

Non amo le commedie e nemmeno le stand up comedy. Se vi piacciono, però, Netflix è pieno anche di quello.
Delle poche che adoro, però, sul sito ci sono JunoColazione da Tiffany, e Clerks.
Insieme a loro, tonnellate di quelle cose con Jennifer Lopez o Schwarzy insieme a dei bambini, e un numero francamente inaspettato di roba italiana. Più i vari American Pie, Scarie Movie e compagnia briscola.

Alcuni tra i miei film preferiti della vita 

American History X, una batosta come poche altre ne ho prese.
Fight Club, e credo di non dovervi dire nient'altro.
Gone girl, un thriller eccezionale e con un finale incredibile.
E infine Lui, il Re dei film che abitano il mio cuore: Il labirinto del Fauno. Aprite Netflix, fate partire il film, e lasciate che Del Toro vi porti altrove. Tornerete diversi.

Cosa c'è che devo recuperare assolutamente? Potrei giusto avere una mattina di Pasqua da passare al pc...

giovedì 13 aprile 2017

Non solo cinema: Ano Hana

20:04
La cultura giapponese non mi appartiene. Non leggo manga (o almeno, non li ho letti fino ad ora), non guardo anime, ho provato a leggere persino Murakami Haruki ma non mi è piaciuto. Per qualche motivo che non so spiegarmi lo Studio Ghibli fa eccezione, ma non è di Loro che voglio parlare oggi.
È del mio primo esperimento manga: Ano Hana, consiglio di mio fratello che della cultura nipponica ne sa molto più di quanto ne saprò mai io.


La storia è quella di un ragazzo che si è chiuso in se stesso, ha fallito l'esame d'ingresso in un prestigioso liceo della città, e ha perso gli amici dopo la morte di un membro del gruppo, Menma.
Il fantasma dell'amica scomparsa inizierà a fargli visita, intenzionato ad esaudire un proprio desiderio con l'aiuto dell'amico.

Il collegamento con la recente e ancora fissa in testa visione di 13 reasons why è immediato anche se un po' superficiale: una morte, un ragazzo ossessionato da questa morte, un gruppo di altri ragazzi che gli gira intorno. Se la serie Netflix mi aveva però completamente conquistata in nome di uno stile molto affine a quelli che sono i miei gusti, con Ano Hana il mio apprezzamento è arrivato con calma.
Il manga è composto di soli tre volumi che si leggono alla velocità della luce, motivo per cui ho scelto di iniziare da lui, e si prefigge di raccontarci l'elaborazione di un lutto così profondo. La cosa all'inizio mi aveva fatto storcere il naso.
Insieme a questo, la traduzione atroce e l'uso francamente offensivo della punteggiatura mi avevano fatto voglia di prendere i volumi e lanciarli dal balcone. Non sono miei quindi mi sono trattenuta. Non hanno aiutato nemmeno le espressioncine kawaii che a me fanno venire i brividi freddi.
Col tempo però è successo qualcosa.
Quello che all'inizio mi dava l'impressione di essere un drammone melò scritto con toni e riferimenti che non comprendo, pagina dopo pagina si è rivelato altro. Il fantasma di Menma non è comparso con lo scopo dolcissimo e strappalacrimissime di riunire gli amicy nel gruppo mitico dell'infanzia.
Se succede, è un effetto collaterale. Lei ha semplicemente fatto una promessa (che riconosco essere profondamente frignona e che quindi ammetto avermi fatto storcere il naso) e la vuole mantenere. In poche pagine si riesce a trattare il tema del lutto e dell'amicizia (insieme a quello, enorme e a mio parere trattato meglio), senza troppi fronzoli, andando dritti al sodo e con la voglia di dimostrare quelle che sono le cose che contano davvero. E poichè i miei amici sono la mia famiglia, direi che con me ha vinto facilissimo. La crescita, vista sia mentre avviene che grazie al confronto con i protagonisti bambini, è genuina e onesta, ho rivisto molte cose della Mari di qualche anno fa sparse per diversi personaggi. Ribadisco, in tre volumi si è riusciti a creare personaggi che pur essendo lievemente caricaturali sono riusciti e, se ridimensionati, credibilissimi.

Come primo approccio al mondo, direi che Ano Hana è stato un successo. Non ho in programma di diventare un otaku con il Giappone come solo scopo nella vita, e state tranquilli che non mi vedrete mai ad una fiera del fumetto conciata come un personaggio di finzione, ma sono uscita dalla solita comfort zone ed è stato bello.
Datemi bello e finisco per recensirvi Checco Zalone.

sabato 8 aprile 2017

#CiaoNetflix: 13 reasons why

11:12
Netflix è tornato, sia lodato Netflix!
Connessione nuova fiammante e il mio servizio preferito di nuovo in funzione che ho voluto onorare con un binge watching come non ne facevo dai tempi di Stranger Things. 



13 reasons why è una serie che temevo fosse la Pretty Little Liars del 2017. Mi sbagliavo, perché da Netflix non ci lavorano dei babbi.
Parla di Hannah, una diciassettenne che si è tolta la vita. Prima di suicidarsi, però, ha deciso di registrare 13 cassette nelle quali confidare i motivi del suo gesto, e di farli girare tra alcuni compagni di scuola, tutti in parte responsabili della sua decisione.

Alle superiori ci siamo andati tutti quanti e ne siamo bene o male sopravvissuti. Se la vita sociale di un liceo americano è molto diversa da quella di un istituto italiano (almeno per come l'ho vissuto io), ci sono enormi e tristi somiglianze tra quello che i media ci mostrano delle famose high school statunitensi e la vita di paese, soprattutto se come me si vive in paesini che si aggirano intorno alle 3000 anime. Tutti conoscono tutti, anche quando non ci si conosce affatto, tutti sanno tutto di tutti (o almeno credono, ma non è questo quello che conta), e soprattutto tutti giudicano tutti.

Indicativamente al minuto 5 abbiamo capito tutti dove sarebbe andata a finire la serie. Quale sarebbe stato l'evento scatenante, la famosa goccia traboccavasi. E va bene così, non è il reveal il punto. Il punto è che 13 reasons why va preso così com'è e fatto girare in ogni scuola. Anche già dalle medie, va benissimo. Perchè si parla di qualcosa di cui è fondamentale parlare sempre, ma la cosa più importante è come ci si arriva.

SPOILERS ARE COMING.
tante parolacce pure.

Fin dal primo episodio Hannah, che ricordiamolo è morta, viene riempita di accuse. Bugiarda, attention whore...intuiamo subito che i nastri contengono qualcosa di grosso, ma ci arriviamo col tempo, passando per una serie di molestie che tutte le donne almeno una volta nella vita hanno provato e che sembrano meno rilevanti.
Hannah è stata presa in giro da un ragazzo che le piaceva, una sua foto è stata diffusa contro la sua volontà e sottoposta al pubblico giudizio. Chi è stato mal giudicato in quel caso? Lui? Il ragazzo bello e popolare? Ma no, chiaramente. Quella da prendere in giro era lei. Inizia tutto così, da una foto fatta girare per la scuola. Si prosegue con accuse di essere una ragazza facile, perchè la serie ci ricorda chiaramente che un maschio può fare il gran cazzo che gli pare ma non sia mai che una si diverta. Zitte mute in un angolino. Non datela a nessuno, così poi vi chiamano fighe di legno. Oppure datela a qualcuno tanto per, e siete zoccoloni da combattimento.
Il fatto che Hannah facile non lo fosse non conta poi granchè. Era quello che la gente pensava, e tanto bastava a renderle la vita un inferno.
Siccome la gente ha iniziato a parlare, allora, altri ragazzi della scuola credono sia opportuno infilarle la mano in mezzo alle gambe al primo, idiotissimo, appuntamento. Tanto te la dà, no?
Passiamo poi per lo stalking, per la vita colma di paranoia di qualcuno che si trova un pazzo che ti fotografa sotto la finestra.
In mezzo a tutta questa spazzatura, amicizie false e che si rompono, la solitudine di chi non ha nessuno a cui rivolgersi e l'ipocrisia di chi ti si dichiara amico per poi contribuire alla tua rovina.
Infine, lo stupro. Prima all'amica, poi a lei. Come dicevo, quasi lo aspettavamo. Lo stupro che in questo caso è anche un pretesto per parlare di quello che succede intorno alle vittime, più che alle vittime stesse. Certo, qua una si dà all'alcool e l'altra si ammazza, quindi credo sia piuttosto evidente la vita di una vittima. La macchina che si muove intorno a loro, però, è quella cosa di cui dobbiamo parlare. La vittima la dobbiamo aiutare, ma il contorno lo dobbiamo denunciare.
Abbiamo insegnanti incapaci di gestire una violenza, figuriamoci una vita spezzata. Il pensiero principale è non perdere il lavoro, mantenere la facciata di scuola attenta ai suoi studenti e che non si lascia scappare niente, ma nessuno ad accorgersi che una studentessa è arrivata a scuola ubriaca. Nessuno ad accorgersi che un coglioncello (che poi si rivelerà più pericoloso dei suoi ben più temuti compagni) gira per la scuola scattando foto a persone ignare. Ma paghiamo fior fiore di avvocati per coprire la nostra facciata di professionalità.
Hai voglia poi a farti vedere a piangere.
Abbiamo ragazzi che coprono l'amico stupratore accampando motivazioni che pur facendo riflettere non sono e non saranno mai sufficienti, abbiamo un branco di adolescenti che pur di proteggere il proprio futuro decide di spalare merda su qualcuno che un futuro non ce l'avrà a prescindere. È allarmante, e lo è ancora di più il fatto che nemmeno per un istante io fossi sorpresa.
Di fianco a queste cose incredibilmente grandi e terribili, ci sono violazioni più piccole: l'amica che parla male di te per coprire la sua omosessualità, il collega che pubblica di nascosto un tuo lavoro dimostrando la sensibilità di un piede quando si addormenta, l'altra che ti schiaffeggia perchè pensa che tu le voglia rubare il ragazzo.
Statisticamente, che tutte queste cose accadano ad una sola persona è improbabile. Non impossibile, ma quantomeno complesso. Ma non è questo l'importante. Il ritratto della società adolescenziale che ne esce è tremendamente fedele, ed è spaventoso.
Per farvi un esempio, quando ero adolescente, quindi fino a tipo 5 minuti fa, nel mio paese c'era questa moda: se una ragazza andava con tanti ragazzi per prenderla in giro si diceva che aveva una squadra. Che ne so, di calcio, di basket. La squadra si chiamava con le iniziali della ragazza in questione. Il tono di perculo con cui queste ragazze (ne ho in mente in particolare due) venivano chiamate oggi mi fa accapponare la pelle. Chissà se allora mi rendevo conto di quanto disgustoso fosse.
È per questo che serie come 13 reasons why andrebbero proiettate nelle scuole, mostrate in circoli, associazioni giovanili, ovunque. Che siano uno spunto di comunicazione, di insegnamento, di riflessione.

Se pensate che la visione di 13 reasons why mi abbia reso incattivita, dovreste vedermi quando parlerò di Suffragette.

lunedì 16 gennaio 2017

#CiaoNetflix: Sherlock s4e3 - The final problem

21:15
Oggi niente post sull'orrore. Oggi è il giorno in cui Sherlock finisce, e non esiste che si parli di altro.
Chiedo scusa per la monotonia recente del blog, ma capirete che ho aspettato 3 benedecti anni per questi episodi. Questo, un altro post sull'argomento che esce sabato e poi, davvero, è finita.
Qui sul blog, almeno, chè nella mia testa c'è materiale per i prossimi sei mesi.
E poi inizieranno revisioni, maratone, ricerche su tumblr, lacrime...


OVVIAMENTE DICO TUTTO E CREDETEMI CHE NON VOLETE SPOILER.

Ci siamo lasciati con uno sparo e una rivelazione gigantesca: la terapista di John era in realtà Eurus, sorella degli Holmes completamente rimossa dai ricordi di Sherlock a causa di un grande, gigantesco trauma. Eurus era imprigionata nel carcere di massima sicurezza di Sherrinford (che evidentemente non era il terzo fratello come tutti sospettavamo), ma l'abbiamo vista fuori, nel secondo episodio.

L'inizio mi aveva spaventato: non mi stava piacendo per niente. La sceneggiata a casa di Mycroft per farlo confessare e fargli sputare la realtà sulla sorella mi aveva un po' messo su il grugno insoddisfatto, ma John mi ha rimessa cheta cheta in un angolino, sfoderando la battutona fan service che ho amato perchè SONO UNA FANGIRL OK?

There's a place for people like you, the desperate, the terrified, the ones with nowhere else to run.  221B Baker Street.
E io lì a fare la ola sul divano, estasiata. Il fatto che si vivesse la questione della sorella ricomparsa con grande leggerezza mi aveva confusa, ma non rispondo dei miei sentimenti.
Mycroft, quindi, diventa cliente. Sottopone la sua storia alla coppia e la trasforma in un caso. Non è la prima volta che membri della famiglia vengono declassati a clienti, ogni volta che ripenso a His last vow e rivedo John indicare la sedia a Mary mi sento lo stomaco sussultare.
Ora, non so bene che opinione avere sul fatto che Sherlock abbia completamente rimosso la sorella, non so quanto sia scientificamente possibile e non so se mi interessa, perchè voglio mantenere inalterata la mia sospensione dell'incredulità, e perchè chi si ricorda dei casi canonici sa che la logica rigidissima non è sempre stata la regola.
Facciamo l'indiretta conoscenza di Eurus bambina attraverso i ricordi che iniziano a farsi spazio e a tornare (bellissima la bambina e adorabile che Mycroft sia cicciotto come il Mycroft grasso del mind palace di Sherlock) e la sorella si palesa subito come estremamente brillante, la migliore dei tre, ma pericolosa. Proprio mentre si chiarisce che Eurus non può essere scappata, ecco che un drone con una granata entra nel 221B.
Quello che c'è ora è uno degli scambi più belli dell'episodio: i tre uomini sono immobili, in cerchio, e parlano con i volti immobili. Il dialogo tra i fratelli è splendido, e l'interferenza di Watson è leggera e adeguata. Il 'good luck boys' di Sherlock è carinissimo e stringe il cuore. Cumberbatch è quasi un ventriloquo, perdio. È in questa scena che, finalmente, si inizia la rivalutazione di Mycroft. Amiamo Sherlock e Watson dall'inizio perchè sì, la serie è la loro. Mary arriva e si fa amare dalla prima comparsa. Mrs Hudson ha un cambio tardivo ma ormai inesorabile (scena dell'aspirapolvere, che ve lo dico a fare), mancava giusto Mycroft. Bravissimo Gatiss (a quanto pare più a recitare che a scrivere) e meravigliose tutte le sue scene in questo ultimo episodio. Umano, passibile di errore, molto più sentimentale di quanto ci sia mai stato detto.
Questo mette una pietra sopra al cinismo: abbiamo salvato Sherlock, ammesso che ci fosse qualcosa da salvare, ora è toccato a Mycroft. Noi sentimentali abbiamo il controllo del mondo e dalla nostra parte ci sono le menti più geniali del pianeta. Non c'è niente che possiate fare per fermarci.

Proseguiamo con l'episodio, e altri due mostri sacri fanno la loro comparsa: Eurus e Moriarty.
Di Moriarty voglio uno spin off. PAZZESCO. Entrata in scena, occhialetti, movenze, voce. È un figo incredibile e ha lasciato un segno enorme nell'episodio. E sì, c'entra anche il mio problema con i Queen.
Eurus, finalmente.
Imo, stupenda pure lei. Inquietante al punto giusto, disperatamente commovente poi, un ingresso in scena fulmineo. Redbeard ci ha accompagnato fin dalla prima stagione e ora che è diventato un qualcosa di reale è stato una palata in testa, anche se le teorie del web avevano ipotizzato qualcosa. Diventiamo tutti peggio dei complottisti pentastellati quando si parla di sto telefilm.
Dolcissima la carezzina sul capo finale, che sembra tanto messa lì a strappare lacrime apposta, ma che con me ha funzionato al 100% e che fa subodorare che i rumors avessero ragione: niente s5.
Onestamente se finisse così andrebbe bene.
Non ho trovato questo episodio al pari di altri, perchè questa serie ha toccato picchi esplosivi, di pura elegantissima perfezione. Alcune cose non mi sono affatto piaciute (la reazione dei genitori Holmes alla scoperta che la figlia era viva? tremenda e recitata con i piedi), altre mi sono entrate dentro e resteranno nel mio cervello a macerare a lungo, come è sempre stato.
Ora Sherlock è finito, forse per sempre. Ogni volta che finisce un prodotto di finzione così potente è un colpo al cuore, la nostalgia è reale io credo che sentirò la mancanza di questi due molto a lungo. È una serie invasiva e invadente, entra nel cervello e nei sentimenti e ci resta per settimane, monopolizzando i pensieri. Ma è un monopolio straordinario.

Vi lascio qui la sigla, per tornare a sentirla quando avrete voglia di un sorrisino con stretta allo stomaco.



Se non avete mai visto Sherlock fatevi questo immenso regalo.
Buona fortuna per i vostri sentimenti.
I miei sono già perduti.

sabato 14 gennaio 2017

#CiaoNetflix: Indiana Jones e i predatori dell'arca perduta

17:33
Se voglio che Erre mi accompagni al cinema fino all'uscita (credo imminente) di The conjuring 37 devo anche io guardarmi il suo cinema ogni tanto, quindi, complice il sempre amatissimo Netflix, è stata la volta di Indiana Jones. Ho avuto di recente la preoccupazione di doverlo consolare per la dipartita della Sua Principessa, non voglio nemmeno provare ad immaginare il giorno in cui dovrò dirgli che Harrison Ford ci ha lasciati. Capace che si toglie la vita.

Un invito per le donne all'ascolto
Indiana Jones è un archeologo che a tempo perso va in giro per il mondo a recuperare tesori perduti. Per questo motivo viene assoldato dall'intelligence, che gli chiede di recuperare l'Arca dell'Alleanza, che è nel mirino dei nazisti, e niente finisce bene se ci sono di mezzo i nazisti.

Se siete capaci di trovarmi un bambino che da piccolo non voleva fare l'archeologo vi pago una birra. Ma di quelle sottomarca dell'eurospin che sono povera.
È una fase attraverso la quale per qualche motivo siamo passati tutti, c'è qualcosa nello scavare per terra e trovare cocci d'argilla che ci ha affascinati tutti.
Ah, no, che scema. Dei cocci d'argilla non è mai fregato niente a nessuno, noi volevamo scavare e trovare tesori impolverati, volevamo misteri sulle antiche civiltà (preferibilmente gli egizi che erano i preferiti di tutti, anche se la faccenda era geograficamente impossibile), volevamo stare nel fango fino al collo per poi estrarre come per magia il dente di un dinosauro o un antico medaglione dorato che nascondeva una maledizione.
Suona familiare? Perchè a me sembra che Indiana Jones sia esattamente quello che tutti avremmo voluto essere da piccoli. Vai poi tu a spiegare in giro perchè ha fatto soldi a palate, a me pare palese.
Ah, sì, poi c'è anche il fatto che sia un film d'avventura pazzesco, in grado di piacere anche a me, che guardo film in cui i personaggi sono lenti come la quaresima (zombie, fantasmi, villain degli slasher...tutti LENTI). Ho riso come una dannata.
Indiana è uno sbruffoncello pieno di cultura (l'uomo ideale? non mi sento di dissentire), bello da matti, che va in giro per luoghi tropicali a recuperare tesori nascosti e misteriosi, forse un po' paranormali.
Rileggete la frase sopra e ditemi se non è la definizione perfetta del film PER TUTTI.
Bambini avventurosi e bambine altrettanto, persone romantiche e sognanti e gente che ama i cazzotti, ricercatori di violenza, partigiani, amanti del mistero, appassionati dell'ironia intelligente e persone che, molto semplicemente, vogliono un film passatempo che intrattenga davvero. A costo di ripetermi, dirò di nuovo quello che penso di Lucas e che ho già detto parlando di Star Wars: ha capito esattamente cosa vogliamo quando entriamo al cinema, cosa ci serve per ricordarci che va bene fare i radical chic di stoc., io per prima, ma che ogni tanto ci servono le botte da orbi e le grasse risate e i bauli dorati con dentro un gran tesoro. Non solo ci servono, le bramiamo. 
E se bisogna farlo, bisogna farlo bene, quindi ok l'avventura divertente, ma che sia fatta come dio comanda.
Infatti eccoci qua, più di 35 anni dopo.
Funziona.

martedì 10 gennaio 2017

#CiaoNetflix: Sherlock, S4E2, The lying detective

13:46
Chissà come mai i prodotti di finzione ci coinvolgono così profondamente. Non succede sempre e non succede a tutti, ma quando succede è un fenomeno incredibile, chiederò delucidazioni alla mia amica psicologa. Penso abbia a che fare con l'empatia, o qualcosa del genere.
C'è qualcuno, però, che lo sa molto meglio di me, ed è Steven Moffat, creatore della serie e autore dell'ultimo episodio andato in onda, The lying detective. 


COME AL SOLITO SPOILERISSIMI, CULO CHI LEGGE SENZA AVER VISTO L'EPISODIO

In questa puntata un nuovo Magnussen è sceso su di noi: risponde al nome di Culverton Smith, noto filantropo. Sherlock intuisce la sua natura di serial killer, ne diventa come suo solito ossessionato, e troverà il modo per riprendere con sè John nelle indagini., anche se entrambi stanno ancora elaborando il lutto per la scomparsa di Mary.

Empatia, dicevamo.
Quando scrivi di una grande perdita e di un grande dolore, hai due possibili scelte: o ce ne parli direttamente, riempiendoci gli occhi di immagini spezzacuore e di musica di Alessandra Amoroso, oppure li mostri. Per mostrarli senza parlarne devi essere molto, molto bravo sia in fase di scrittura che nella recitazione effettiva. È inutile che mi ripeta, tutti e tre gli attori che ruotano intorno a questo lutto sono straordinari e ci rendono il coinvolgimento semplicissimo da raggiungere. Quello che è meno scontato è che Moffat abbia scritto del dolore in un modo bellissimo, se questo fosse possibile.
John va in terapia, sembra non cavarsela male, ma vede Mary. La vede, la sente, le parla. Eppure non solo lui stesso è lucidissimo (non sta perdendo la testa per il dolore, non sta impazzendo), ma la visione stessa di Mary lo riporta costantemente con i piedi per terra, ricordandogli che lei non è altro che un prodotto della sua mente. Io non so quanto il fatto che quella lì fosse davvero sua moglie (o almeno che lo fosse al tempo, ora sono separati) abbia influenzato sulla performance di Freeman. C'è uno sguardo, in particolare, che mi ha annientata: John e Mrs Watson sono di fronte al video che Mary ha fatto per Sherlock. Quando la si sente dire, per la prima volta, 'Save him, save John Watson' la camera è fissa su di lui, e lui se ne esce con un'espressione che è un po' un sorriso, un po' un ghigno disperato, un po' il tentativo di non esplodere, ed è INCREDIBILE. Una scena da un secondo eppure una delle più alte di tutto l'episodio. Questo è lo Sherlock che ricordavo, una scena scura e minimale che è un proliferare di sentimenti.

E Sherlock?
Sherlock non è in sè, è Shezza, è tornato lo Sherlock tossicodipendente. Non che le droghe gli siano mai estranee del tutto, ma è tornato nel pieno del suo consumo. E anche se la trama ci dice che il suo consumo era volto anche al caso del serail killer, noi sappiamo che non è solo così. Non risponde di sè, lo vediamo toccare il suo punto più basso, urlare, scalpitare. Siamo abituati ad un aplomb diverso, raramente ha perso il controllo, raramente ha espresso i suoi sentimenti. Questo, però, vale solo a parole. Come la straordinaria Mrs Hudson ci ha fatto notare, Sherlock è molto più emotivo di quanto vuole far trasparire: spara, colpisce, accoltella quello che gli sfugge. Non tollera di perdere e di non capire, e non c'è niente di più umano di questo. È di Sherlock la battuta migliore dell'intero episodio, nella scena (che al momento in cui scrivo ho visto quattro volte), del confronto con John:
'In saving my life she conferred a value on it, in a currency I don't know how to spend.'

E per la prima volta, Sherlock sembra soffrire davvero. Sembrava fermo anche quando stava prendendo una manica di mazzate da John, nella scena che a me ha spezza il cuore più di tutte. Ma qui, quando ha lo sguardo perso nel vuoto nell'ammettere che c'è qualcosa che non sa, è devastante. Vorrei dire che mi sono fatta forza, che non ho pianto, invece mi sono prosciugata. Subito dopo, la confessione di Watson alla moglie, all'immagine che ha di lei. Il tradimento (mai consumato), i pensieri, l'averla trascurata. Nemmeno il momento leggero in cui si ritira in ballo Irene Adler è stato sufficiente ad abbassare l'esplosivo impatto emotivo del momento.

Mary, in tutto ciò, è strabiliante. Buffa, allegra, intelligente, curiosa come sempre. C'è un quarto di secondo in cui rivolge uno sguardo orgoglioso al suo uomo, gli sussurra 'Attaboy' con una dolcezza che hanno causato pelle d'oca costante. Per tutto l'episodio fa quella cosa che John le attribuisce nell'ormai citato confronto con Sherlock: tira fuori il meglio di lui. Lo spinge ad andare oltre, a chiedere informazioni, ad approfondire. Ad un certo punto dice un semplice 'JOhn, do better' che è la summa del suo comportamento per tutto l'episodio. Ed è quello che gli lascia alla fine, quando sembra pronta a lasciarlo andare, incitandolo ad essere sempre l'uomo che lei credeva lui fosse.

Mrs Watson finalmente smette di essere l'ochetta che credevamo, sappiamo da sempre che ha molto più carattere di quanto ci sia mostrato, perchè sappiamo del suo passato. Qui è la figura materna di cui i due uomini avevano bisogno: è determinata ed estremamente protettiva, il suo confronto con il sottovalutatissimo Mycroft è esemplare. Mycroft, dalla sua, non è male come viene rappresentato. È lui quello realmente incapace con gli umani, non possiamo mica fargliene una colpa.

In conclusione, il caso: brillante. I serial killer sono i preferiti di Sherlock, lo sappiamo dal primo episodio ('It's Christmas!'), e lo vediamo dalla passione con cui ci si butta. Il suo cervello torna ad essere al massimo delle sue capacità, portandolo, come sempre, due passi avanti agli altri (o due settimane, dipende dai punti di vista).
Il finale è stato soprendente: sapevamo dai rumors che in questa stagione il terzo Holmes avrebbe fatto capolino e conoscendo lo stile di scrittura della serie sappiamo che le pistole di Cechov non sono certo una novità, quindi se inseriscono qualcosa o qualcuno di nuovo questo deve colpire. Io, però, che sono nata e morirò babba, non avevo capito un cdn e quindi ho AMATO il finale.

Scusate per il fiume di parole fuori programma. Mi prudevano le dita, non avrei mai potuto aspettare sabato a parlarne.


sabato 7 gennaio 2017

#CiaoNetflix: Sherlock, S4E1, The six Thatchers

13:44
Prima di Lost, prima di Friends (questa è pesante, ma bisogna guardare la realtà), prima di Sense8, nel mio cuore c'è sempre stata lei, Sherlock. La mia serie tv preferita. 
L'ho detto.
E no, smettetela, non è (solo) per Cumberbatch.
Da ANNI soffrivo come un cane nell'attesa di questa stracavolo di quarta stagione che lo stracavolo di Moffat, portatore di delizie e sofferenze, mi faceva aspettare. E ora è qui, ed è l'ultima. Soffro atrocemente al pensiero che tra due settimane sarà tutto finito, e per sempre. Ma ora è il momento della gioia, Sherlock is back!


In questo primo episodio vediamo Holmes avere a che fare con il ritorno presunto di Moriarty, nemesi storica. Quando quindi un caso apparentemente semplice si rivela più articolato del previsto, il pensiero andrà subito a Moriarty.

Se mi lasci in sospeso per un tempo così lungo innanzitutto meriti di essere sfanculato in tempo record. Mi trattengo per un momento, dandoti il tempo di dimostrarmi che questa attesa ne è valsa la pena. 
MA NON È COSì PORCA MISERIA LADRACCIA MALEDETTA
Cosa è successo, BBC? Ti sei stancata? Non volevi più fare Sherlock ma il finale della scorsa stagione ti ha vincolato? SONO AFFARI TUOI io quelle transizioni lì che mi pareva di guardare un fotoromanzo di GrandHotel non le voglio vedere maimaimai più. Giurami che nel prossimo episodio la smettiamo con questo trash e ci riprendiamo la sobria eleganza che ti ha contraddistinto fino ad ora. Siamo d'accordo? Non posso stare qua a guardarti mandare in vacca la serie tv più bella che sia mai stata realizzata senza fare niente. Ti faccio due scatole sui social che mi faccio denunciare per stalking. La testa di Cumberbatch che si fonde con il mare deve scomparire dal web e dobbiamo tutti scordarci che è esistita.
Le immagini non le ho riconosciute come familiari, mi sono sembrate davvero scadenti e non sono cose che posso accettare da un prodotto di questo tipo. Mi fa malissimo il cuore.
Chiariamo, l'episodio non mi è dispiaciuto. Ma a me le immagini interessano tantissimo, sono per me fondamentali, e non riesco a credere che la BBC non potesse fare meglio. Persino la scena di Lestrade fuori dalla porta di Sherlock con la ragazza di cui non ricordo il nome: concordiamo che c'è qualcosa nell'inquadratura di quella scena che non ha niente a che vedere con lo stile a cui siamo stati abituati?
Per il resto abbiamo: un'inconsueta lentezza, uno script un po' sottotono e casi poco pungenti.

Leggendo alcune critiche in giro, però, e mi riferisco in particolare a quella di Wired, mi sono trovata in forte disaccordo sulle argomentazioni. 
Partiamo da una: l'articolo rimprovera l'assenza di Moriarty, e lo fa anche ripetutamente. Ma davvero, dopo la super conclusione della stagione 3, ci aspettavamo che la questione Moriarty venisse bruciata nel primo episodio? Davvero? Non era più probabile che invece Moriarty in questa stagione tirasse fuori la sua vera natura, ovvero non quella di nemesi reale di Sherlock, quanto piuttosto di sua ossessione? Moriarty non è importante in quanto pericoloso criminale, ma in quanto mette in dubbio le sue capacità, in quanto diventa il suo chiodo fisso. Tutto l'episodio è PIENO di Moriarty, non come presenza fisica (cosa che credo non avverrà nemmeno nei prossimi episodi) ma in quanto pensiero ossessionante, che è la sola cosa che conta del personaggio. La sola esistenza di Moriarty mette Sherlock in crisi costante, che lui sia presente o meno. Il solo ipotizzare un suo ritorno è elemento di caos e confusione. Che ci si potesse aspettare altro mi incuriosisce. 
Altre cose che io ho trovato positive: l'ennesima conferma di Martin Freeman come attore più sottovalutato della sua generazione. Qualcosa nello sguardo di Freeman colpisce drittissimo nei sentimenti, è intenso da morire e MAI, MAI che risulti esagerato o mascherina. È credibile, in ogni istante, anche quando guarda il suo riflesso nel vetro di un bus e torna con i piedi per terra. Senza fare spoiler mi riesce difficile argomentare ancora di più, quindi continuiamo sotto l'alert.

DA QUI SPOILER CHE POI SE LEGGETE SONO AFFARI VOSTRI

Lo stesso articolo di Wired, che sto usando per sviluppare la mia, di argomentazione, parla - male - della morte di Mary. La definisce fan service. Ma il canone è stato letto? Mary è stata uccisa da Conan Doyle, mica da Moffat. E il personaggio era stato inserito nella vicenda talmente bene e in modo talmente unico (non è la moglie che porta via l'uomo al suo amico, ma è parte integrante della vicenda e delle indagini e, soprattutto, è amatissima da Sherlock stesso) che nessuno si sarebbe auspicato la sua dipartita per riuscire ad ottenere di nuovo la bromance tra i due uomini. Avremmo potuto risparmiarcelo, nella serie? Sì, certo, ma perchè? Perchè non inserire un elemento di disturbo, perchè non sfruttare la cosa che ci avrebbe finalmente e definitivamente eretto Sherlock a quello che è: un umano?
Ora, non guardando Doctor Who mi sento di poter parlare solo in parte, ma a me pare che a Moffat e compagnia piaccia assai prendere personaggi che non hanno niente di umano per poi esplorare la loro umanità. Se Sherlock ha scoperto l'affettività con la presenza di John prima e Mary poi, il dottore ha sempre bisogno di una companion. In che modo questo è un male? Non sono stati snaturati i personaggi, sono solo evoluti, e alla quarta stagione un po' di evoluzione non solo non fa male, ma è naturale.

Tirando le somme del primo episodio: inizio poco brillante, dopo una simile attesa chiedevo tanto, tanto di più. I tre volti protagonisti si sono confermati attori straordinari, e, come mi era successo anche con quella cosa tremenda che è stata Gilmore girls vA year in the life, il solo respirare l'atmosfera dei luoghi e dei volti familiari è stato bellissimo.

Il prossimo, comunque, è scritto d Moffat.
Steven, sorprendimi.

martedì 3 gennaio 2017

I am the pretty thing that lives in the house

13:39
Quanto tempo poteva passare prima che io guardassi un film horror sui fantasmi firmato da Netflix, dotato tra le altre cose di un titolo incantevole e di una locandina altrettanto bella?
Poco, infatti.



Lily è una giovane infermiera che viene assunta per badare ad un'anziana signora, che da giovane faceva la scrittrice di romanzi horror di scarsa qualità. Nella casa della signora succedono cose strane, ma discrete: non sbattono le porte e nessuno viene posseduto (con mio discreto sollievo). Solo che ci sono dei passi, della strana muffa sulle pareti, degli strani atteggiamenti della padrona di casa, che si ostina a chiamarla Polly..vuoi vedere che Polly esiste davvero?
Eh.

All'inizio del mio rapporto con Netflix amavo tutto quello che usciva dalle loro manine. Vuoi perchè ho iniziato con i loro splendidi documentari, vuoi perchè la prima serie di cui ho goduto è stata Sense8, le mie aspettative erano alle stelle, complici anche le recensioni entusiaste del web.
Sono rimasta delusa? NO, NO, NO.
I am the pretty thing that lives in the house è una storia semplice ma intensa, divisa su due epoche storiche (alla cui datazione risaliamo solo attraverso i dettagli) che sono, ognuna a modo suo, intriganti e visivamente bellissime. Perchè se la trama non è niente di sconvolgente sono le immagini a farla da padrone. Tutto è bianco, spoglio, minimale e lentissimo, i colori sono pochissimi e tenui, persino i movimenti sembrano appena accennati. E quando si parla di fantasmi è facile farsi prendere dalla frenesia e fare tutto veloce e pauroso. Qua le scene di spaventi sono generalmente un po' telefonate e convenzionali, eppure sono sinistre e goticheggianti. Sono accenni, frecciatine, strizzate d'occhio, fatti con una lentezza che può sembrare frustrante. (A me, però, è piaciuta tanto.)
Questo per noi spettatori, chiaramente, perchè la povera Lily se la fa sotto dalla paura e l'attrice (Ruth Wilson, a me sconosciuta) è stata BRAVISSIMA nel rendere questa paura. Secondo me poi la paura è la sensazione più difficile da rendere perchè in un attimo si sembra macchiette, lei invece è stata spontanea e credibilissima, tanto da passare paura per induzione a chi la guarda. Non c'era bisogno di vedere il fantasma (bellissimo madonna che bellissimo) per esserne spaventati: Lily ci trasmetteva da sè una paura incredibile.
In generale il film se la tira un bel po', ma a me quelli che se la tirano con ottimi motivi piacciono, fanno una gran simpatia.
E allora tiratela pure, cosa carina che stai nella casa, perchè sei bello assai, e ne hai tutte le ragioni del mondo.

sabato 24 dicembre 2016

#CiaoNetflix: Sense8 Christmas Special

17:03
Vedere Sense8 è stata una delle esperienze più intense dei tempi recenti. Io non sono una grande amante di serie tv, ne guardo poche e di solito più son trash più le amo.
Poi è arrivato Netflix, creatore di piccoli miracoli, e mi ha regalato la più totalizzante, potente, emozionante delle visioni recenti. Staccarmene è stato difficilissimo.
Per questo ho accolto l'arrivo di uno speciale di Natale con qualche perplessità: avrei resistito ad averne solo una dose?
Spoiler: NO.
Ridatemi Sense8, che a fattanza qua sto peggio di Will.


Nell'episodio natalizio non succede un granchè, lo possiamo dire?
Riprendiamo in mano i nostri Sensate esattamente da dove li avevamo lasciati: una in prigione (la mia preferita, Sun ti amo), uno a confrontarsi con l'outing, una a nascondersi, eccetera. Nello speciale li vediamo semplicemente proseguire con le loro esistenze, lontane ma vicinissime, e con gli eventi che abbiamo seguito nel corso della prima, incantevole, stagione.

La sensazione di familiarità è intoccata, con mio gigantesco sollievo. L'episodio si apre con una bellissima scena, come al solito contornata da una colonna sonora per fet ta, in cui riprendiamo in mano il concetto di Sensate, ci viene ricordato come funziona il legame dei ragazzi, e di nuovo noi finiamo incastrati in un fluire libero e agile di sensazioni, odori, sentimenti. Se Wolfgang nuota, ci stiamo bagnando tutti.

Con movimenti morbidi come quelli del tedesco in acqua passiamo ad una scena che ha del meraviglioso. Vi racconto una cosa: io per Lito ed Hernando ho un affetto smisurato. Sono, molto semplicemente, quella che ai miei occhi è la coppia perfetta: oltre ad essere entrambi di una bellezza imbarazzante (Hernando soprattutto, parliamone), i due attori sembrano avere una chimica incredibile. L'attrazione è fortissima e divertita, la coppia si lascia andare a giochi continui, maliziosi e non, ed è un incanto starli a guardare. Poi arrivano i momenti difficili, sia nella stagione che nell'episodio, e li vedi diventare un tutt'uno, uno scudo di testuggine contro il mondo, loro e quella croce e delizia della loro amica Dani. Hanno un'ammirazione sconfinata l'uno per l'altro (ricordate la conversazione al museo tra Nomi e Lito? O quella all'incontro di wrestling? Io commossa all'inverosimile) Sono la coppia più bella rappresentata sullo schermo in tempi recenti, quasi non riesco a descriverli.

Per tutto l'episodio si alternano momenti più intensi, con Lana Wachowski che si diverte a prendersi gioco dell'empatia di chi guarda, a momenti più leggeri e scanzonati, utilissimi in uno speciale di due ore ad alleggerire la tensione. La tenerissima Kala e la sua ingenuità sono un toccasana. La scena del compleanno è di un bello da brividi, la battaglia con le palle di neve è dolcissima.
Poi, ovviamente, le batoste: Will col padre, Lito e la madre, Sun e il figliondrocchia del fratello. Ed ogni volta che uno di loro è in difficoltà, ecco la protezione degli altri, i suggerimenti all'orecchio, la consolazione, la forza, le botte da orbi. E vederli insieme da sempre senso di potere assoluto.

Anche stavolta, Sense8 conferma quello che era stato il suo pregio incredibile nella stagione uno: guardare la serie riuscendo a mantenere una distanza da quello che si vede è letteralmene impossibile. Le persone ritratte entrano nel cuore, diventano cari amici (e vi garantisco che se ne sente moltissimo la mancanza). Lo scambio tra Sun e Van Damme, che si rivedono dopo che lei gli ha salvato la vita, è semplicissimo ma scalda il cuore, perchè ci coinvolge ad un punto altissimo, perchè beneficiamo anche noi della totale apertura mentale dei Sensate, siamo anche noi all'interno di quel legame potentissimo che li unisce, lontani ma vicinissimi.
E questa dovrebbe essere 'solo' una serie tv.

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