lunedì 11 giugno 2018

Sense8: Amor vincit omnia

21:44
Ho aspettato qualche giorno a guardare l'episodio finale di Sense8 perché sapevo che, una volta visto, l'avrei finito davvero, e per sempre. Non ero pronta, e non lo sono manco ora, a salutare i Sensate, ma l'episodio alla fine l'ho guardato.
Ed è stato, naturalmente, magnifico.


SPOILERS!

Faccio fatica a stare sui social, ultimamente. Ci sto lo stesso, ma sempre arrabbiata.
Con l'attuale governo chiunque era dotato di pensieri sporchi, intolleranti e deviati si sente ancora più legittimato ad esternarli, questi pensieri, con ancora più imbecille convinzione.
In questo panorama desolante e imbruttito, Sense8 si conferma un faro. Uno splendido faro alto, generoso di luce e chiarezza, in un cielo oscurato da chi vuole, con la sua cieca rabbia, far passare per sbagliato chi conserva la sua umanità.

Sarebbe troppo facile dire che è così perché ci sono i ghei e le lelle che fanno il sesso brutto contronatura.
Eh no, mica si ferma lì.
In questo finale dolcissimo la serie più bella della storia del mondo continua ad insegnarci il valore dell'individualità. Ogni personaggio ha un ruolo fondamentale nella risoluzione del 'caso', e se anche uno solo di loro fosse stato un briciolo diverso da quello che è, nessuno si sarebbe salvato.
Se Kala non fosse stata indecisa tra due uomini loro non avrebbero collaborato per salvarla. Se Hernando non fosse stato insegnante d'arte non avrebbero avuto il loro cavallo di Troia. Se Capheus non fosse stato un pilota esperto e soprattutto un'artista dei pullman colorati, col cavolo che avrebbero avuto il furgone della polizia. E ancora Lito, con le sue doti attoriali, Riley e le sue conoscenze giuste, Dani e il passato burrascoso, Will e Nomi con le loro competenze.
Ma soprattutto, se Sun non fosse il Personaggio Migliore di Sempre non avremmo avuto le spettacolari scene di botte da orbi che ci hanno accompagnato dal primo episodio.

Ognuno di noi conta, ognuno di noi ha un valore preciso.
A volte facciamo fatica a vederlo, o a tirarlo fuori, e ci sembra di essere inutili. Eppure c'è, o ci sarà prima o poi, un momento in cui la nostra unicità sarà importante. Potrà essere un momento, un bisogno, o una persona, a tirarlo fuori, ma ci sarà. E forse riconosceremo se quel valore lo abbiamo noi, allora devono averlo tutti. Magari non tutti salveremo cucciolini che annegano, o ribalteremo un politico inadeguato (ma che qualcuno lo faccia, ve lo chiedo per favore), o inventeremo un portentoso medicinale contro il ciclo mestruale doloroso. Magari aiuteremo solo una vecchina con una borsa, o avremo una buona idea, o una parola giusta al momento giusto, ma ce l'avremo, quel momento lì.
Riconoscere che gli altri hanno la nostra stessa importanza non è solo un segno di bontà e apertura verso il prossimo.
Dovrebbe essere la norma.
Con la riappacificazione tra Nomi e la madre ci mostra che a volte basta davvero una piccola spinta per uscire da quella zona di comfort dietro la quale ci nascondiamo quando chiudiamo fuori gli altri. Con questo non intendo dire che dobbiate tutti fare uso di droghe leggere (cosa che evidentemente non volete altrimenti avreste votato diversamente) (adesso potrei aver finito col governo) per uscire dai vostri limiti, per l'amor del cielo. Cioè se volete ok, ma non è dovuto.
La sola cosa che è dovuta è il rispetto, l'apertura, l'abbraccio verso ciò che non capiamo ma che esiste a prescindere dalla nostra comprensione.
Sense8 è questo, un enorme abbraccio globale che include colori, profumi, baci, fuochi d'artificio, passione strepitante, risate di cuore e un amore immenso, verso la vita, l'universo e tutto quanto. Per davvero.

Salutare personaggi di finzione che ci hanno donato così tanto è un colpo al cuore atroce. I Sensate sono una famiglia incredibile da cui non si vorrebbe uscire mai, sono sempre, e questo finale non fa altro che confermarlo, un vortice di emozioni quasi tangibili da cui bisogna essere strappati a forza per tornare alla vita reale. Li lascio avendoli visti diventare uno dopo l'altro persone migliori grazie alla presenza del cluster. I criminali sono diventati uomini di cuore immenso, che hanno abbandonato alle loro spalle la virilità forzata. Le donne algide e glaciali si sono aperte al più tenero dei sentimenti. Le donne timide e pie hanno scoperto lati di sè inesplorati. I giovani e poveri autisti di bus si sono lanciati in politica per il bene del loro popolo.
Avrebbero avuto ancora moltissimo da dirci e lo avrebbero fatto nel modo straordinario a cui ci hanno abituati, e questo non fa che rendere peggiore il saluto.
Ma quella scena finale lì, che ci riporta alla forza del loro legame, ad un gigantesco abbraccio che prende tutto il mondo, è il finale migliore che potessimo sperare.

This is the morning of our love,
This is the dawning of our love.

sabato 26 maggio 2018

Accabadora, Michela Murgia

11:29
Al di là della fama che la precede, ho fatto la conoscenza diretta di Michela Murgia guardandola nel programma di Augias. In particolare, aveva fatto un intervento sul fumetto e il suo ruolo nell'editoria e nella cultura che avevo trovato perfetto, e da quel momento ho iniziato a seguirla sui social e ad adorarla.
Raccomando, in particolare, su Twitter, la sua rubrica #tuttimaschi, dove sottolinea come le prime pagine dei nostri quotidiani abbiano firme femminili quasi solo in casi di articoli di moda e tendenze e culi. Giusto per non farvi venire il fegato d'acciaio come viene a me.
Per completare il quadro mancavano i suoi libri e ho deciso di iniziare da quello che forse è ancora il suo più famoso: Accabadora.


Maria è l'ultima di quattro sorelle, figlia di una madre povera e vedova.
Quando Bonaria Urrai, una vecchia sarta del paese, la chiede come figlia dell'anima, quindi, la madre accetta senza pensarci troppo. Un figlio dell'anima è, come descritto due volte, un bambino nato due volte: dalla povertà di una donna e dalla sterilità dell'altra. Un'adozione senza contratti, enti, e marche da bollo.
Di notte Bonaria esce spesso, e Maria sembra non farsi troppe domande. Il suo 'lavoro' è quello di accabadora, ovvero di accompagnare alla morte le persone in condizioni gravissime. Un ruolo che non può che influenzare il rapporto con la bambina.

Ero certa che avrei trovato Michela Murgia bravissima. Ero molto meno certa che mi sarebbe interessato il tema, invece.

Per me Accabadora è stato fulminante. Divorato in poche ore, lascia dietro di sè la scia di sensazioni fortissime date dalla capacità della Murgia di trasportarci nel cuore di una terra anche le persone che, come me, non la conoscono.
Senza alcuna forzatura, con la semplicità tipica di chi non deve sforzarsi per riuscire bene in quello che fa, la narrazione è intensissima di sentimenti e atmosfera. Si respira l'aria del soffritto che Maria, arrabbiata e confusa, cucina, si vede lo sguardo combattuto di Bonaria, si sente il vomito di Andrìa e si prova il dolore di Nicola. Tutto è forte e vivissimo, descritto con un'efficacia che ha del miracoloso e che solo in lavori come quello della Ferrante avevo visto prima.
I rapporti mi sono sembrati così familiari, così noti, che li ho vissuti come fossero i miei. Bonaria e Maria si abbracciano poco e mai, a volte nemmeno si parlano, ma comunicano con i gesti e la fiducia e l'amore pulito e forte che nasce tra chi non ha legami di sangue ma solo di scelta.

Non è una lettura, è un'esperienza. Come entrare in una sala da tè profumatissima, e lasciarsi coinvolgere dalle storie di chi ci circonda. Come entrare in una chiesa di paese, riconoscerne l'odore di incenso anche dopo anni di lontananza, e sedersi tra le credenze e il folklore delle donne di una volta che accendono ceri e pregano per gli amati.
Certe espressioni della Murgia sono quasi un incanto: parla di 'emigrazione da sè' quando parla del suicidio di un emigrato o di 'furto dell'abito da sposa' quando parla di un matrimonio mai celebrato, per esempio.

La colpa è mia e solo mia, che finisco sempre involontariamente per snobbare la narrativa italiana senza una e una sola motivazione reale. La Murgia è una scoperta stupenda, alla faccia del mio snobismo.
E poi dicono che i social non servono a niente.

mercoledì 23 maggio 2018

Philip Roth

14:56
Non sarò mai brava abbastanza per dire quanto valesse Philip Roth.
Oggi, quindi, per mandargli un saluto colmo di gratitudine, copio il mio brano preferito di Pastorale Americana, perché le sue parole sono immense ed eterne, e se c'è qualcosa che ce lo fa tenere qui ancora un po', sono solo quelle, le parole.
Quando le ho lette per la prima volta ho capito che la mia frustrazione, la mia incapacità di avere a che fare con le persone, non sono solo mie. Sono un malessere diffuso, condiviso, che nessun altro, però, è riuscito a dire così.
Lotti contro la tua superficialità, la tua faciloneria, per cercare di accostarti alla gente senza aspettative illusorie, senza un carico eccessivo di pregiudizi, di speranze o di arroganza, nel modo meno simile a quello di un carro armato, senza cannoni, mitragliatrici e corazze d'acciaio spesse 15 centimetri; offri alla gente il tuo volto più bonario, camminando in punta di piedi invece di sconvolgere il terreno con i cingoli, e l'affronti con larghezza di vedute, da pari a pari, da uomo a uomo, come si diceva una volta, e tuttavia non manchi mai di capirla male.Tanto varrebbe avere il cervello di un carro armato. La capisci male prima d'incontrarla; mentre pregusti il momento in cui l'incontrerai; la capisci male mentre sei con lei; e poi vai a casa, parli con qualcun altro dell'incontro, e scopri ancora una volta di avere travisato. Poiché la stessa cosa capita, in genere, anche ai tuoi interlocutori, tutta la faccenda è veramente una colossale illusione priva di fondamento, una sbalorditiva commedia degli equivoci. Eppure, come dobbiamo regolarci con questa storia, questa storia così importante, la storia degli altri, che si rivela priva del significato che secondo noi dovrebbe avere e che assume invece un significato grottesco, tanto siamo male attrezzati per discernere l'intimo lavorio e gli scopi invisibili degli altri? Devono, tutti, andarsene e chiudere la porta e vivere isolati come fanno gli scrittori solitari, in una cella insonorizzata, creando i loro personaggi con le parole e poi suggerendo che questi personaggi di parole siano più vicini alla realtà delle persone vere che ogni giorno noi mutiliamo con la nostra ignoranza? Rimane il fatto che, in ogni modo, capire bene la gente non è vivere. Vivere è capirla male e male e poi male e, dopo un attento riesame, ancora male. Ecco come sappiamo di essere vivi: sbagliando. Forse la cosa migliore sarebbe dimenticare di avere ragione o torto e godersi semplicemente la gita. Ma se ci riuscite...Beh, siete fortunati.


Ciao, Philippone. 
 

lunedì 21 maggio 2018

Non-Geek Guide: Deadpool 2

14:24
Ieri ho visto Mad Max: Fury Road per la prima volta. Serve che vi dica cos'è? Il mio post sarebbe tutto scritto a versi tipo: ooooooo ppppuuummm sbbbaaaaaaammm e emoji delle bombe.
Oggi, quindi, parliamo di un cretino con la tuta rossa.

Temo che questa cosa ormai abbia bisogno di un suo nome e di diventare una rubrica a tutti gli effetti: una riunione di tutti i post in cui parlo di cose della cultura geek con uno sguardo che più esterno e ignorante non si può.
Questa rubrica è tutta per voi, amici e amiche che venite trascinati in sala a guardare di gente con le tutine, navette spaziali e ragnatele lanciate dai polsi.
Se voglio che il moroso guardi con me Dogman devo fare la mia parte, e questa settimana la mia parte è stata Deadpool 2.


Io lo dico prima della trama così ci togliamo il pensiero: a me Deadpool piace da matti, non so cosa farci. Non mi riconosco nemmeno.

Il tutino in questione è Ryan Reynolds.
Nei primi minuti del film gli succede una cosa tremenda, inimmaginabile, e quello che noi vediamo sullo schermo è quello che succede nella sua vita dopo il fattaccio.

Trama che non dice assolutamente nulla, ora che la rileggo, ma va bene così, perché di questo film non vi dovete rovinare NIENTE.
Niente trailer, niente recensioni (ehm), niente foto dal set. Statene lontani ed entrate al cinema vergini di informazioni. L'espressione che viene sulla faccia di tutti a due minuti dall'inizio è impagabile.

Perché Deadpool è diverso dagli altri e soprattutto perché voi, compagni della squadra Non-Geek, non avete niente da temere?
Perché fa spaccare dal ridere.

Mi piacerebbe avere migliori proprietà di linguaggio per esprimere un concetto così semplice, ma non ce n'è per nessuno: Deadpool fa fare proprio quelle risate grasse da tenersi la pancia, e ad un certo punto del film l'infilata di cagate esilaranti è tanta e tale che non si riesce nemmeno più a ridere, si guarda allibiti lo schermo cercando di capire fino a che punto Reynolds e tutta la squadra possono spingersi nel prendere così selvaggiamente per il culo tutto quello che è arrivato prima di loro.
Intendo TUTTO, arrivare fino alla fine per credere.

Io, i miei DVD di Truffaut presi in biblioteca per guardarli con gli speciali, la mia borsa hipster del New Yorker e la mia bici da uomo possiamo prendere il nostro snobismo e infilarcelo nel borsello da galera (wink wink), perché non se ne esce indenni. Nemmeno l'ironia scoreggiona nella quale inevitabilmente a volte Pool finisce ci possono fare storcere il naso. Ci sono le parolacce, i genitali, la pipì e le chiappe, il pacchetto American Pie al completo.
Eppure funziona, perché le sue vittime non sono gli spettatori, che quando vanno a vedere un film di Deadpool sanno esattamente cosa aspettarsi e non sono presi per i fondelli, ma il mondo intero dei supereroi, nelle loro versioni cartacee e cinematografiche, nei loro strafalcioni e nel loro crederci sempre un pelo troppo. Non si salva nessuno.

Deadpool 2 ha fallito completamente nel trovare in me il minimo coinvolgimento emotivo: non mi sono emozionata per nulla per la tragedia iniziale (per il finale un pochino sì, bisogna riconoscerlo), e con me è un miracolo perché piango sempre.
Ha lasciato fuori la testa e il gusto per i film impegnati e impegnativi, ha dimenticato di prendermi il cuore, ma la pancia, e quel divertimento crasso che mi dimentico spesso quanto bene mi faccia, se li è presi e maciullati.

E siccome oggi sono così easy e giovane e guardo i film di supereroi, il modo per definire sto film è uno solo.
Che figata.



mercoledì 16 maggio 2018

Consapevolezza alimentare: The China Study

16:29
Qualche mese fa ho pubblicato un post, che trovate qua, nel quale parlavo di alcuni documentari a tema alimentare che mi ero sparata in un tentativo di convincermi a mettere giù le patatine fritte ora e per sempre.
La ricerca di motivazione continua, questa volta con un libro: il tanto famigerato The China Study.



Premessa obbligatissima: la comunità scientifica non dà alcun valore allo Studio Cina. Non è riconosciuto, non viene preso in considerazione come riferimento.
Insomma, è fuffa.
La cosa mi dà immensa gioia perché io, sto libro, l'ho odiato.

Partiamo dalle cose positive, perché non sembra che io stia scrivendo un post avvelenato per pura antipatia personale.
Il volume è bellissimo. Lo so, non conta niente ed è un discorso da feticisti della carta stampata che non ha alcun valore, ma lo amo. La dimensione, la copertina flessibile, la carta riciclata, i grafichetti. Sembra un libro scolastico e io i libri scolastici li venero come divinità della conoscenza.
La seconda cosa positiva è che offre sinceramente molti stimoli. Io mi nutro da cani. Mangio malissimo. Mi sforzo, ci provo, ma sono un disastro. La verdura mi fa quasi tutta schifo e la frutta è la mia nemesi. Non ci capiamo, non ci siamo mai avvicinate, è un rapporto che non è mai nato e finora era sempre andata bene così.
Risultato: sono ciccia, quindi forse così bene non è andata.
The China Study, oltre ai disastri di cui parleremo dopo, parla talmente tanto e talmente bene di queste meraviglie che la natura ci offre che io questo mese ho iniziato a mangiare i pomodori.
Non tutti, solo quelli oblunghi croccantini, ma è qualcosa.


Per quanto riguarda i disastri, invece, mettetevi comodi, sarà un lungo post.

Partiamo dalla presentazione che il libro dà di sè e del suo contenuto:
Lo studio più completo sull'alimentazione mai condotto finora
Un testo monumentale che sta sollevando un vero polverone intorno alla medicina convenzionale di tutto il mondo.
Il più importante testo epidemiologico mai realizzato
Wow.

Non è come quando l'editore decide di mettere sul retro o sulla copertina frasi da recensioni di scrittori famosi o di grandi testate. Qua è tutta materia del gentile professor Campbell. Al massimo del suo editore.
Leggendo però il tono tronfio, egoriferito e pomposo con cui il galantuomo parla di sè, non mi stupirei se tutte queste lodi fossero già scritte nella bozza mandata all'editor.
Si tratta nientemeno di 400 pagine di autoelezione di sé come il più grande, il migliore, l'unico che dice la verità, il Solo Portatore di Autorevolezza e Realtà nel marcio ed evidentemente volto all'estinzione della specie mondo della medicina convenzionale.

Migliaia di medici in tutto il mondo, ricercatori sottopagati, infermieri dispettosi, smascherati da Lui: T. Colin Campbell.
Inchiniamoci alla sua volontà.

Ci prova spesso, in mezzo alle pagine, a dire che bisogna eliminare tutto ma non farsene ossessionare, che è un percorso, che ci si arriva, ma la sua arroganza è snervante. Quello che più di tutto ho trovato snervante è il tono con cui apre il volume: l'adolescenza in fattoria, con gli animali, tutta la carne mangiata da tutti. Per tutto il romanzo, poi, si porta appresso questo tono da 'io ci sono passato, vi capisco, è dura', che gioca su una faciloneria insostenibile.

Si arriva a fare dichiarazioni che sono di una pericolosità gravissima.
Parliamo di malattie, e Campbell dice che i tumori possono avere origine genetica ma che possono anche essere 'stimolati', passatemi il termine per nulla scientifico, dal modo in cui ci nutriamo.
Io non ho competenze mediche, leggo e cerco di imparare qualcosa, quindi questa nozione la prendo e la metto nel bagaglio che sto cercando di costruire.
Dopo, però, si dice che l'alimentazione ha un ruolo fondamentale nella cura della malattia.
Questo non va bene.
Se scrivi un libro che chiaramente nasce per essere popolare e diffuso tra tutti, perché non si tratta di un articolo di settore pubblicato in riviste specializzate, gli dai quel tono familiare per avvicinare il lettore a te e alla tua storia e al tuo immenso lavoro, non lo freghi così. Non lo metti in un angolo con affermazioni micidiali e pericolosissime.
Se io fossi malata sarei disperata. Qualcuno riesce a mantenere lucidità e consapevolezza, io no. Io agonizzo a letto per qualche linea di febbre, con un tumore sarei annientata. Leggere una frase del genere mi farebbe campare di insalata mangiata direttamente dalla busta. Non va affatto bene, pare del miserabile complottismo antifarmaceutico che non fa il bene di chi dell'industria farmaceutica ha bisogno per vivere.

Esempio molto meno grave di un tumore: mia madre ha il diabete.
Segue una dieta e una cura farmacologica, che le permettono, insieme, di non sentire il calo di zuccheri, di andare in bicicletta senza essere affaticata, e di vivere una vita normale.
Dirle, domani: mamma, non prendere più le pastiglie di potassio che ti aiutano a stare in piedi, mangia come ti dice questo libro e passerà tutto da sè, significa innanzitutto che mia madre mi lancerebbe una seggiola e anche il libro, e poi che il giorno dopo la troverei sul divano incapace di muoversi perché le sue gambe non la sostengono.
Non. Va. Bene.

Ci mettiamo anche la fettina animalista?
Mettiamocela.
Uno studio intero, durato 30 anni, per giungere alla conclusione che gli animali non vadano mangiati condotto come? Sui topi.
Sembra Deodato che dice che facciamo schifo perché pur della fama (concedetemi la semplificazione) siamo disposti a tutto poi macella animali per un film.
Non fraintendetemi: io credo di essere a favore della sperimentazione animale in ambito medico.
Però puzza un po'.

Non ho competenze medico-scientifiche nemmeno per errore. So alcune cose sul mio corpo e basta, giusto perché ci devo abitare dentro. Non mi permetto, quindi, di dare giudizi sulle conclusioni a cui giunge, ma da cittadino comune mi devo fidare della comunità scientifica.
Qualcosa non va in questo studio, e su questo paiono essere tutti concordi.

Bisogna mangiare più frutta e verdura?
Siamo tutti d'accordo, soprattutto Studio Aperto nei mesi tra maggio e settembre.
Bisogna leggere questo libro per farlo?
Anche no.

Se però voleste approfondire l'aspetto scientifico dello Studio Cina e delle sue criticità, vi linko un blog, che ne parla in diversi post molto interessanti: https://deniseminger.com/the-china-study/


 
 

giovedì 10 maggio 2018

The Hitchbook: Vertigo

12:48
Ricominciare a parlare di cinema con un Capolavoro Di Quelli Grandi® è forse una mossa suicida.
Ma ieri Vertigo ha compiuto sessant'anni, e anche se può sembrare assurdo sia così vecchio, va celebrato.


Io penso che il pericolo spoiler possa considerarsi annullato dopo sessant'anni.

Hitch è in un periodo d'oro: è iniziata la serie Alfred Hitchcock presenta per la tv, che gli ha portato (ancora più) successo e soldi, e nel decennio dal '55 al '65 butta fuori film immensi uno dopo l'altro come se fosse la cosa più naturale del mondo.
Nel '58 è la volta della storia di Scottie e Madeleine.
Il personaggio di Stewart inizia come uno di quegli uomini buoni e bravissimi che interpretava di solito. Ex poliziotto traumatizzato dalla perdita di un collega in circostanze traumatiche, eccetera eccetera. Viene assoldato da un vecchio amico come investigatore privato, nella speranza che si possa far luce sul comportamento misterioso della moglie Madeleine.
Siccome Hitch, però, detestava che la gente sapesse cosa aspettarsi, ecco che Stewart resta l'uomo virtuoso che conosciamo e aspettiamo solo per metà film.
Questo perché Vertigo è la storia di una discesa verso l'inferno, verso l'ossessione e la pazzia. E Stewart incarnerà tutte queste caratteristiche deliziose in un modo indimenticabile.

Mai, nella storia del cinema, titolo fu più azzeccato. Vertigo è davvero un vorticoso viaggio verso il peggio della mente umana, declinato in sfumature diverse in ogni personaggio.
Il povero Scottie, per cominciare. Incanto d'uomo nella prima parte di film, viene talmente colpito dalla morte dell'amata da trasformarsi in un ossessionato necrofilo privo di ogni forma di rispetto verso le donne e colmo di un egoismo esplosivo. Esiste immagine più agghiacciante di quella di un uomo che concia la nuova compagna per farla somigliare a quella precedente, morta? No, e infatti la scena di Judy che lentamente torna ad essere Madeleine era quella che più mi aveva colpito alla prima visione, anni fa. Tatuata in fronte, fastidiosa come una zanzara di notte in estate, disturbante (hhhh, ho usato la parola proibita con la D!) e inquietante.
Judy, dal canto suo, talmente colma di questo amore malato da farsi fare qualunque cosa, invece che dire semplicemente la verità sulla sua identità.
Infine, Galvin Ester, l'assassino. L'omicida della moglie che intavola un piano perfetto e riesce a farla franca, rovinando la vita di Scottie e godendosi la propria, in Europa.

Vertigo è un thriller in cui niente va come dovrebbe andare in un thriller: l'omicidio riesce alla perfezione, l'assassino resta impunito e fugge lontano, la storia d'amore tra il detective e la sua bella finisce per essere un amore malato e disposto a tutto, il protagonista non solo esce sconfitto ma distrutto (non una, due volte, una beffa enorme dopo il danno).

Non ha mai avuto paura di scombinare le carte in tavola, Hitch. Confondere i generi, riscriverli, adattare le storie a suo piacimento e, nel mentre, fare la Storia.
Che dono immenso, il coraggio.

giovedì 3 maggio 2018

Sto per tornare

17:33
'E sticazzi?' vi chiederete, giustamente.
Ho imparato però nel corso del tempo che quando perdo il blog è perché sto perdendo tutto il resto, quindi per ricominciare ricomincio da qui.


A quanto pare l'ho detto fin troppo, ma questo 2018 è iniziato per me malissimissimo.
Conseguenza di questo su e giù emotivo è che ho perso il controllo delle cose.
Ho sempre bisogno di controllare tutto in modo ossessivo altrimenti non so gestire la vita e mi perdo per la strada.
Tra le cose perse in questo periodo ci sono state i contenuti, la voglia di trovarli, e le cose da dire.
Quindi, zittito tutto, con qualche ricomparsa qua e là per convincermi che non stavo davvero lasciando tutto andare.
Ma devo riprendere in mano le cose, e la Redrumia è il posto da cui ricominciare.
Non voglio darmi programmazioni o piani che tanto so non rispetterò, voglio solo riprovare a scrivere qualcosa e vedere se sono ancora capace. Ammesso poi che lo sia mai stata, ma tant'è.

Sarà anche solo un blog, ma è il mio blog, è la mia cosa preferita e per ripartire devo ripartire da lui.
E che sia la volta buona.

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