lunedì 30 settembre 2019

Horrornomicon: A Xenomorph Extravaganza

17:47
SPOILER SU TUTTI QUANTI I FILM.

Ci sono volte in cui le Cose Grandi nascono da una sola grande, sfolgorante idea. Un'epifania, un'illuminazione, un colpo di genio.
In altre circostanze per creare una Cosa Grande servono tante teste, un milione di idee e tanto tempo.
La ricetta prevede anche di fare qualche cambio tra le teste, mixare tra loro le idee e aprire la strada anche a quelle idee nuove che convincevano poco, scovare cose nuove in giro per il mondo.
Sembra rischioso, ma qualche volta funziona.
E quando funziona, succede qualcosa come Alien.


Per parlare della nascita del film di Scott a fondo dovremmo tirare in ballo Mario Bava (e di lui abbiamo appena parlato qui), Walter Hill, Lo squalo, Roger Corman, dei gremlin durante la seconda guerra mondiale, Star Wars e anche Jodorowsky.
Io davvero vorrei stare a tavola una sera a cena con questo mix.
Non posso entrare nei dettagli perché in questo post parleremo di tutto il franchise che è nato dopo il 1979, ma un minimo accenno a come è nata la leggenda lo dobbiamo fare, per dovere morale.
Per chi volesse invece qualcosa di più dettagliato, invece, si trova su Youtube un documentario che si chiama The Beast Within: the making of Alien che vi racconta per bene cosa è successo.

La storia inizia con l'incontro tra due persone: Dan O'Bannon e Ronald Shushett. Entrambi scrivono film ed entrambi hanno un'idea: O'Bannon ha in mente quello che sarà Alien mentre Shushett stava lavorando ad Atto di forza. Il loro rapporto fa una pausa quando O'Bannon va a lavorare con Jodorowsky al suo Dune. Il film va in nulla ma in quell'occasione incontra H.R. Giger, un pittore svizzero. E aggiungiamo un altro tassello al puzzle. La sceneggiatura viene consegnata alla casa di produzione che insieme ad altri aveva aperto Walter Hill e iniziano i contatti con la 20th Century Fox. Infine, a sto film andava trovato un regista. Girano diversi nomi ma si finisce su Ridley Scott, che prima di allora si era fatto notare con I duellanti. Scott si innamora perdutamente del lavoro di Giger, e così chiudiamo il cerchio. Abbiamo in una stanza le 4 teste principali che metteranno in piedi il baraccone Alien, influenzate da tutti quei nomi citati sopra ma soprattutto con un budget raddoppiato rispetto a quanto messo a disposizione all'inizio. Il baraccone non si ferma ad un solo film, ma crea una saga: ci sono i quattro capitoli della cosiddetta Alien Anthology, ci sono i recenti prequel (se così si può dire, ne parliamo dopo) e i due episodi della saga di Alien vs Predator.

Prima di tutto ciò, però, Alien vede la luce, ed è diverso da qualsiasi cosa ci si potesse aspettare.
La gente aveva appena avuto Guerre Stellari, che è intrattenimento nella sua forma più genuina, e ora aveva qualcosa di sconvolgente. Aveva un monster movie in cui il monster non sappiamo nemmeno che faccia abbia per metà film e anche dopo lo vediamo pochissimo. Si parla di uno screen time dello xenomorfo di 4 minuti, il film ne dura 117. Ma quando lo vediamo...
Io lo capisco, Ridley Scott. Ha visto il dipinto di Giger, che si chiama Necronomicon IV, e ha deciso che quello lì era il suo alieno punto e basta. E aveva ragione lui, perché parte della ragione per cui 40 anni dopo stiamo ancora qui a parlare del suo film è perché la creatura è quanto di più bello si potrebbe immaginare. Io ancora non me ne faccio una ragione. Sono straordinari, sti xenomorfi, non hanno solo un design straordinariamente azzeccato con il tono e l'aspetto generali del film, sono proprio magnifici, delle creature magistrali che fanno una paura del demonio. Io non so disegnare nemmeno una o con il bicchiere, e il talento delle persone che sanno farlo non finirà mai di sorprendermi. Giger, poi, era un personaggio particolarissimo e con una fisicità e un aspetto che non sarebbero stonati a loro volta in un film. Le sue opere non potevano che essere così. Iconiche. Lo xenomorfo lo vediamo attraversare le diverse fasi della crescita e non per questo diventa meno spaventoso, anzi: ogni sua manifestazione è peggiore della precedente, fino all'esplosione di terrore che è rappresentata dalla sua forma adulta.

Ricapitoliamo, allora. A rendere Alien il culto che è ci sono: una bella (bella) storia, sceneggiata da chi sa davvero cosa sta facendo, un design iconico, non solo delle creature, ma della Nostromo, delle divise, di tutto quello che vediamo, ma soprattutto un regista che ha trasformato queste cose nella più tesa, cupa e alienante esperienza di cinema di fantascienza che abbia mai benedetto le nostre vite e che soprattutto ci ha rapiti tutti quanti e resi suoi sudditi fedeli.
Sedersi a cena con l'equipaggio della Nostromo è appassionante ogni volta come la prima, e l'amore per quei personaggi lì è tanto e tale da illuderci ogni volta che oltre a Jonesy e Ellen si salvi qualcun altro.

Posso solo provare a immaginare la soggezione che James Cameron può avere provato, qualche anno dopo, quando ha pensato bene di mettersi alla regia di Aliens, Scontro Finale, primo sequel del film di Scott.
O forse no, non lo posso nemmeno immaginare, perché quella soggezione lì Cameron l'ha presa e ne ha fatto un film enorme. Io la trasformerei in mal di pancia, la tensione, lui l'ha trasformata in uno dei più grandi film d'azione di sempre. Ammetterò di non avere grande esperienza nel campo dell'azione (come se nel resto ne avessi granché), e di conseguenza ammetterò una cosa che mi costerà il defollow di qualcuno: Aliens non è un film di facile fruizione. E lo so che di solito queste cose si dicono dei grandi film d'autore o del cinema estremo, ma io lo dico con lui e ora mi spiego, o almeno ci provo. Aliens è proprio un film d'azione vera. Dimenticate il clima di quiete prima della tempesta del suo predecessore, qua di calmo non ci sono manco i primi minuti. Ripley si faceva i fatti suoi nel sonno criogenico, l'hanno trovata, svegliata apposta e rispedita a combattere, tanti saluti a casa, ché tanto son passati 50 anni e a casa non c'è più nessuno. Quindi abbiamo: una tragica storia di una maternità perduta (che dolore per la mia adorata), un trauma enorme, e poi di nuovo botte da orbi. Ma stavolta botte da orbi sul serio, perché a conoscere gli xenomorfi non è stato mandato un gruppo di persone inconsapevoli. Stavolta sono partiti dei marines armati fino ai denti e con nessuna intenzione di morire.
Il risultato è un film pieno di fuoco, fiamme, urla, spari. Un film veloce (ma non frenetico), agitato, un film che, appunto, non è di facilissima fruizione, almeno per quelli che sembrano essere i miei occhi da signorina. Però ci sono gli xenomorfi che escono dalle fottute pareti, e c'è il cinema come lo sa fare James Cameron, e allora io e i miei occhi da signorina ci sediamo in un angolo con un quaderno per gli appunti e impariamo come si fa.

Sapete chi altro avrebbe tanto voluto insegnare come si facevano le cose per bene?
David Fincher.
Il quale, con poca esperienza ma tanta voglia di fare, si lancia in un franchise composto da due cose grandi come il mondo e deve cercare di emergere, per non farcisi affossare dentro. E ha rischiato grosso, perché Alien3 è un pasticciaccio brutto. Non tanto per il risultato finale del film, che in ogni caso a me ha tanto divertito, ma per colpa di quel poema epico che è stata la sua genesi. Sceneggiature passate attraverso troppe mani, anche un po' confuse, la sua idea di quello che un terzo Alien avrebbe dovuto essere, e infine un passaggio di taglia e cuci che lo ha trasformato in un film completamente diverso da quello che avrebbe dovuto essere.
Il risultato è che Fincher si è arrabbiato come un matto (dagli torto) e oggi del suo lavoro non ne vuole più sapere, e i fan sono molto divisi. Alien3 ha dei fan e io ne faccio parte: la prigione e i suoi abitanti sono stati un bel luogo in cui portare gli xenomorfi, e anche se abbiamo dovuto rinunciare alla bellissima dinamica Ripley/Newt, la banda di tremendi criminali che ci è toccata in sorte è divertentissima.

Rifacciamo il gioco delle domande.
Sapete chi invece non ha alcun fan?
Alien Resurrection.
E questo è perché Alien Resurrection è proprio un brutto film.
Lo dico ora e vale anche per dopo: una volta mi divertiva parlare dei brutti film. Ora non più, perché se io avessi una macchina da presa in mano la cosa che saprei fare è riprendere il mio cane per ore, accorgermi che non stavo girando e in qualche modo romperla. Quindi criticare gli altri dal mio divano è troppo facile.
Però il quarto capitolo della saga è proprio sbagliato: riportare in vita Ripley non si doveva fare. Era morta in un modo che mi piaceva anche, combattendo la sua nemesi, poteva andare bene così. Leggevo da qualche parte che ipotesi su un nuovo capitolo riguardavano la figlia di Ripley, Amanda, e la sua ricerca della madre. Avrei adorato.
E invece no, siccome Alien è sinonimo di Sigourney Weaver (bravissima adoratissima niente da dire) allora pur di fare il quarto film con lei dentro la cloniamo. Facciamocelo andare bene.
Il problema è che qui la Weaver non ci voleva stare, e ha trovato il modo di farcelo vedere in ogni scena. In qualche modo riesce ad essere una delle sue performance peggiori, affiancata da certi signori qui molto amati che iniziano per R e finiscono per Onperlman che sono caricature di quello che avrebbero potuto essere.
Un enorme occasione sprecata.
Se usiamo un tema come la clonazione apriamo le porte a grandissime riflessioni su cosa renda umani o meno, per esempio. Tutto al vento, un peccato enorme.
E davvero, quel neonato ibrido biancastro io non credo di essere in gradi di perdonarlo, nè ora nè mai.

Una cosa positiva, però, poi è successa: Ridley Scott ha spostato tutti un attimino da parte, si è arrotolato le maniche della camicia e ha detto a tutti che ce lo faceva vedere lui, come si faceva.
E infatti, 15 anni dopo la fine della saga originale, ritorna e lo fa con Prometheus.
Io non ho le capacità per fare grandissime analisi di cinema, me ne rendo conto e infatti condivido con voi giusto le mie impressioni, le mie emozioni. Le mie emozioni dicono che quando Ridley Scott fa fantascienza è in un terreno a lui affine, dove si sente a suo agio, dove da il meglio possibile. E infatti Prometheus è un gran film.
Non aveva bene le idee chiare su cosa farsene, di questo cosone qua. Prequel di Alien? Sì, no, forse. Ha cambiato idea un po' di volte ignorando forse il fatto che contasse molto poco. Prometheus parla di esplorazioni spaziali e di umanità e lo fa con la solita intensità a cui ci ha abituati il suo regista, che fosse o meno collegato al primo titolo di questa saga conta fino ad una certa. Mancano gli xenomorfi, e quando non ci sono io ne avverto sempre la mancanza, ma c'è tutta la vita del mondo dentro, e allora forse va bene così.

Poi c'è stato Alien: Covenant.
E in questo caso le idee erano più chiare: sì, siamo i prequel di Alien e adesso vi facciamo vedere come.
Solo che a me il come non ha entusiasmato quanto vorrei e quindi sono un po' frustrata a parlarne, perché Prometheus aveva messo belle basi per continuare a parlare della vita e delle sue origini e secondo me ho caricato il suo sequel di troppe aspettative.
Per me una conclusione un po' sottotono, anche se quando dirige Ridley noi siamo sempre i suoi sudditi.

Di mezzo, però ci sono stati gli zarrissimi Alien Vs Predator. 
Più tamarri di Fast and Furious Tokyo Drift, più seri di Mentana durante le maratone, sono poco ma sicuro giocattoloni divertenti per chi vuole una seratina con la birra e la pizza nel cartone, non starò qui a fare la snobbettina. Ci sono botte spaziali, gli xenomorfi e i predator, tutto insieme, in mezzo ai ghiacci prima e in mezzo alla civiltà poi. Acido che scioglie le maschere, uncini che trapassano le persone, armi fatte di pelle (??), non manca nulla. Se si accetta di uscire completamente dal canone e si è di bocca buona, vanno da dio. Io li ho trovati scritti male, recitati ancora peggio e se proprio voglio fare la mari supercritica che quella roba lì porti il nome (e la faccia) dei miei adorati xenomorfi è quasi un insulto. Però Erre, meno spaccaballe di me, si è divertito come un matto e questo non glielo toglieranno certo i miei occhi da signorina di cui sopra.
Una volta superato lo scoglio di veder recitare Raoul Bova il primo è tutto in discesa.
Del secondo vorrei dire qualcosa di più approfondito, ma mi annoiava a morte e mi sono distratta su Twitter. Triste ma vero. Ho provato a guardare un po' di scene ma era tutto TALMENTE SCURO che pareva una puntata dell'ottava stagione del Trono di Spade, e non c'è, nè ci sarà mai, occasione al mondo in cui questa frase possa avere una connotazione positiva.








giovedì 19 settembre 2019

Di Euphoria e deliri vari sull'adolescenza

22:09
Ogni tanto HBO si ricorda che deve tenere testa ai due giganti Netflix e Prime Video quindi si impegna e tira fuori le bombe che smuovono il web. Quest anno in più doveva farsi perdonare di quell'involontario orrore che è stata l'ultima stagione di GoT e quindi ha tirato fuori dal cilindro Euphoria, ormai considerato dal'internet che conta il miglior teen drama di sempre.
Io ho delle cose da dire, e spero davvero non vengano prese come le opinioni di una che vuole fare la bastian contraria a tutti i costi, giuro che non è così.


Quella di Euphoria è la storia di un gruppo di adolescenti alle prese con droga, sesso, relazioni malate e famiglie complesse. La protagonista è Rue, che conosciamo appena uscita da una rehab. Con l'inizio del nuovo anno conoscerà Jules, che la motiverà a diventare la miglior versione possibile di se stessa.

Partiamo dalle cose oggettivamente vere: è una bella serie, con colori, fotografia, alcune interpretazioni e colonna sonora che sono spettacolari. Zendaya è una piccola perla che dobbiamo custodire gelosamente e i temi trattati sono di fondamentale importanza. Revenge porn, body positivity, droga, violenza (sessuale e non), molestie, aborti, disforia di genere...è importante che se ne parli sempre ma forse un pochino di più che se ne parli in una serie rivolta ad un pubblico teen. Non siamo ancora pronti a smettere di parlarne e temo che non lo saremo ancora per un po', quindi benvenga. Parliamone fino a che ce ne sarà bisogno e io sarò qui a sottolinearne l'importanza.

Però ho dei però e ne vorrei parlare un pochino, e per farlo temo finiremo in SPOILER.

La mia prima considerazione è soggettiva, quindi non vuole per forza essere una critica alla serie ma ai miei gusti: io sarei anche un pochino piena di quella rappresentazione qua dei giovani. Esistono i giovani tossicodipendenti, esistono i giovani violenti e squilibrati e disagiati. Ci sono quindi va bene che se ne parli. Capisco anche (e so per certo) che certe situazioni si attirano a vicenda, quindi è facile che il tossico esca con quello che ha la famiglia problematica che a sua volta esca con quella inquieta e così via. Lo capisco, mi sta bene.
Ma se in tutta la serie tv non c'è un personaggio che sia uno che faccia un chilo io mi faccio due domande. Il solo personaggio senza drama è Lexi, che infatti è ritratta come un secondario poco interessante a fronte dei grandi problemoni degli altri. Perdonatemi questo tono sarcastico, non so bene come esprimere quello che vorrei. Mi sembra scritto in modo pigro, ecco.
La cosa che mi dispiace di più è questa: le riflessioni che fa spesso Rue, che è la narratrice, le ho riconosciuti come mie. Sono un linguaggio universale che riflette dubbi e fragilità di chiunque abbia avuto 17 anni. Anche di quegli adolescenti che fanno vite più apparentemente banali. L'intensità di pensiero e dei sentimenti sono i medesimi. Solo, è più facile raccontarli se sono associati a vite piene di drammi. Una famiglia disfunzionale o dei problemi con la droga sono senz'altro difficili da raccontare, ma portano con sè molti più eventi, e il fluire della vicenda è più facile. Mi sbaglio io? Mi sembra solo che infilandoci tutte queste cose (e sono davvero tantissime, non c'è un'anima che abbia una vita senza tanti problemi immensi) se ne perda un po' il senso.
Prendiamo Cassie ad esempio. Cassie la conosciamo come vittima di revenge porn. Problema 1. Oltre alle voci e alla fama arriva il futuro da pattinatrice troncato. Problema 2, solo accennato. Poi la madre alcolizzata. Problema 3. Il padre si allontana dalla famiglia e diventa tossicodipendente. Mi sento di classificarli come problemi separati, 4 e 5. Infine, la gravidanza indesiderata e l'aborto. Problema 6. Considero questo insieme di problemi realistico? Sì, assolutamente, ci sono situazioni degradate dove è la norma. Lo considero pigro dal punto di vista narrativo? Sì. Potevamo scegliere uno dei problemi e approfondirlo come avrebbe meritato. Ma come, direte, se hai detto che è realistico perché togliere qualcosa? Perché la vita vera non dura 8 episodi da un'ora. Se hai questo tempo cerca di far passare al meglio che puoi un messaggio, persino il veterinario del mio cane dice che chi fa troppe cose le fa tutte male. Così si finisce che l'aborto è una scena in cui piangi un po' e in una successiva in cui rispondi a qualche domanda. Magari fosse così nella vita reale. Le cose sono un po' più complicate.
Mi è sembrato che ogni episodio fosse un elenco ordinato di tutti i problemi che rendono i personaggi quello che sono e non è il mio modo preferito di scrivere una serie tv. 
Ciò detto, se esiste una serie tv che ritrae giovani meno estremi ma in grado di esprimere con efficacia problemi e dolori dell'età, vi chiedo di farmelo sapere, la guarderei con estremo piacere. Nel dubbio continuo The Office.

Un'altra cosa che proprio non ho amato è stato il modo in cui ci viene raccontato il rapporto tra Rue e Jules. Le due si conoscono, diventano amiche da subito. Poi quasi improvvisamente il rapporto diventa intensissimo, e infine qualcosa di più che amicizia. Il mio problema con questa cosa è semplice: viene più raccontata che mostrata. Le scene tra le due sono poche e fatte prevalentemente di sguardi e silenzi e notti passate insieme a dormire e se un paio di occhiate intime bastassero a far nascere un amore folle i non vedenti non avrebbero alcuna chance di trovare l'amore. Non ho empatizzato, non mi sono emozionata, non ho provato nulla. Le scene tra le ragazze sono spesso flashback o ricordi, sono raramente 'dirette' e si è assistito troppo poco allo sviluppo di questo rapporto per poterne veramente godere a pieno. Un gran peccato, soprattutto perché Jules è il personaggio che ho trovato scritto meglio. Una giovane ragazza trans che a causa del suo trascorso difficile ora ha comportamenti masochisti ed estremi. Non c'è bisogno di grandi dialoghi sulla faccenda disforia, che avrebbero potuto finire per essere ridondanti e già sentiti, bastano poche immagini a cogliere il suo disagio e il suo dolore, e il suo bisogno di sfogarli. Non capisco perché per lei siano riusciti così bene mentre con altri no. 
Nate, altro grande esempio. Questo ha una famiglia che definire problematica è fargli un complimento, una relazione sentimentale malsana e una tendenza alla minaccia che sfocia nella violenza vera e propria. Eppure, non si va mai a fondo con lui. Non si scava più di tanto, si accumulano informazioni su informazioni che restano lì, come un elenco della spesa da spuntare. Sessualità confusa? Check. Daddy issues? Check. Bisogno di violenza? Svariati check. Fragilità? Al primo posto. 

Infine, ma non per importanza, il ritratto della sessualità che viene fatto in Euphoria è desolante. Ci sono adulti che fanno sesso violento con ragazzini e ragazzine fuori dalle mura domestiche, del sesso con la moglie non abbiamo informazioni, la purezza del talamo nuziale è intatta. C'è del sesso interrotto, violento, cattivo, doloroso. Si usa come sfogo, come ricatto, come punizione. Spesso c'è solo un grande squallore e soprattutto porta un casino di guai: foto, video, insicurezze, gravidanze indesiderate.
In una serie destinata ad un pubblico giovane questo non può essere l'unico esempio mostrato. Non c'è mai sentimento, mai divertimento, mai nulla di piacevole. Non va mica bene così, lo facevano negli slasher degli anni '80 e a loro perdoniamo ogni cosa, ma da una serie fresca e giovane mi aspetto altro.

Per me un gran peccato.
Guarderò comunque la prossima stagione sperando mi dia qualcosa che qua non ho avuto, e probabilmente se l'avessi vista a 17 anni me ne sarei innamorata. 
Oggi, però, chiedo qualcosa di più.


venerdì 6 settembre 2019

It: Capitolo 2 e di gente al cinema

11:17
Festa Nazionale in Redrumia!
Pennywise è tornato e lo aspettavamo da due anni che sono sembrati giusto 27.
Serve un post dedicato.


La storia è quella dei Perdenti adulti che, richiamati da Mike, tornano a Derry 27 anni dopo gli eventi del primo film, perché It è tornato. Fine di quello che vi dirò sulla trama.

Una volta Neil Gaiman (sempre sia lodato) ha detto che nel booktour di Coraline gli era diventato chiaro quanto adulti e bambini abbiano percezioni diverse e quindi paura in modo diverso. I bambini non erano preoccupati per Coraline: lei era l'eroina e senza dubbio ce l'avrebbe fatta. Gli adulti, invece, consideravano la storia inquietante e spaventosa, preoccupati per l'anima giovane e in pericolo.
Ecco, per me It è stata la stessa cosa. La prima parte, quella del 2017, mi aveva fatto una paura che non ve la raccomando (e invece forse sì, che qua si parla pur sempre di orrore). I Losers sono un gruppo strepitoso di ragazzini coraggiosissimi, e il film aveva reso loro giustizia in modo quasi insperato. Però erano i miei bambini, no? Ero preoccupata per loro e il film era più spaventoso del suo sequel. Questa volta ho avuto meno paura, ma il cuore straripante di emozioni.

Il ritorno a Derry è stato emozionante e commovente, il ritrovo di amicizie perdute ma mai dimenticate è sempre delizioso da vedere e questi attori sono stati i Perdenti che volevo. Il cast dei bambini era perfetto nel primo film e si conferma tale, ma quello degli adulti non ha temuto il confronto, non solo per quel McAvoy e quella Chastain che sono la conferma che al mondo c'è qualcosa di buono e porta i loro nomi, ma per l'insieme, l'affinità che traspare, l'affetto palpabile, le battute sulla mamma grassa dopo 30 anni.
Tutto è come prima e niente lo è.
Nemmeno It.
Il più spaventoso dei clown smette di essere solo un pagliaccio e diventa la materializzazione di un trauma terrificante, diventa paura concreta in forme diverse, diventa la forma fisica di un terrore durato trent'anni, che sembrava dimenticato e invece stava sempre lì, nascosto ma pronto a rifarsi vivo. Cambiano le sue sembianze, a volte, ma non cambia l'effetto che ha sui ragazzi, paralizzati dal terrore eppure, passato il peggio, pronti a tutto, pronti soprattutto a scherzarci su. E quel comic relief lì, che è presentissimo e che funziona da dio (mi sono divertita un sacco) non è servito solo ai Perdenti, ma anche a noi, perché va bene che ho detto che il film spaventa meno del primo, ma il mio vicino al cinema ha fatto un paio di salti sulla sedia che non so come ha fatto a sopravvivere fino alla fine.
It è spaventoso e magnifico al tempo stesso e Skarsgard il migliore che si potesse chiedere per dargli il volto.

I puristi del libro avranno mille cose da recriminare alla fine di questa storia, e va anche bene così. Però Muschietti è riuscito nelle cose più importanti: farci un paurone dell'accidenti ed emozionarci tantissimo, come solo chi ha molto amato il libro avrebbe potuto fare. E quindi non solo va bene così, va esattamente come avrei voluto andasse. Ed è magnifico.
Io mi rileggo pure il libro, che mi mancano già, maledetti Losers.

Dicevamo, il mio vicino. Si è fatto proprio la cacca addosso, porello. Come lui, buona parte della sala. Come lo so, vi chiederete. Perché quando la gente ha paura parla. E ride, fa caciara, sgomita. Deve alleggerire la tensione. Mica fanno sto casino quando vanno a vedere altro, di solito, è proprio l'horror che tira fuori quell'aspetto qua, l'horror estivo magari leggero ma che comunque fa strizzare le chiappe.
Ecco, io prima ero pronta ad entrare in sala col lanciafiamme. Pago il biglietto, entro in sala, mi voglio godere il mio benedetto film. Ieri sera ero carica, avrei soffocato quello dietro di me con il mio sacchetto unto di caramelle, porco cane non ha taciuto un minuto. Ti ringrazio per avere letto a voce alta il contenuto dei biglietti dei biscotti della fortuna, sei una gioia ma non solo siamo tutti alfabetizzati, i personaggi stanno già facendo da soli, tu non servi, taci, prendi fiato, strozzati nella tua saliva.
Poi però sono uscita dalla sala ed ero esaltata. Avevo visto una cosa che aspettavo da tempo, non vedevo l'ora di vederlo, mi è piaciuto tanto ed ero tutta uno scodinzolio. E alla fine, forse, quel tizio logorroico là l'ho perdonato.
Eri contento, tatone, perché a volte il cinema fa anche quelle cose qua, e a me l'horror gasa (che termine vintage) tanto quanto stava gasando te. Sei comunque uno stronzo irrispettoso, ma siccome ti capisco sorrido un po', se ci penso.
E ti perdono.
Guarda te Muschietti che effetto mi fa.

martedì 3 settembre 2019

Notte Horror 2019: Society - The Horror

23:15
Ultimamente questo blog sta in piedi per miracolo. Gli eventi della blogosfera li salto quasi a priori perché so che non ci starei dietro come vorrei e pur dispiacendomene preferisco non fare nulla piuttosto che fare qualcosa ma farlo con i piedi.
Però, però, però.
Alla Notte Horror non si scappa, sono pur sempre una donna di sani principi.
E quindi eccoci qua, anche quest anno.


Prima o poi anche Society doveva arrivare da queste parti.
Sta lì, su Prime Video, comodo comodo per riguardarselo ogni volta che ci si sente giovani ribelli contro il sistema, bello sporco e ruvido come piace a noi.
Society - The Horror è un film pazzesco. Se leggete un blog di cinema dell'orrore come vorrebbe essere questo è chiaro che il film di Yuzna lo avete già visto, magari anche più di una volta, ma ne riparliamo insieme, perché è sempre un bel parlare.

Cominciamo come una bella storia teen di quelle che a me divertono sempre un casino. Ragazzi belli e abbronzati che giocano a basket in cortile, litigi con le fidanzate, feste esclusive a cui non si è invitati, armadietti scolastici...il kit base 'adolescente americano' c'è tutto e viene esposto come in un catalogo.

Però Society non è un horror adolescenziale qualsiasi, quindi non ci sono assassini seriali mascherati, niente fantasmi, niente case nei boschi, niente di quello che conosciamo (e amiamo). In Society i cattivi sono i ricchi, quelli che fanno gli ingressi in società, i giudici, i ragazzi più popolari della scuola, l'élite. E sono cattivi davvero, ché se dobbiamo fare una bella e sensata critica alla società allora ci mettiamo il carico da mille. Non parlo solo del famigerato finale, che se è così famoso avrà i suoi buoni motivi per esserlo, ma di tutto quello che succede prima: la crudeltà risiede proprio in famiglia, nel luogo sicuro, nel terapeuta, in chi dovrebbe aiutarti. L'adorato e lussureggiante nido domestico è in realtà la sede del più grande dei tradimenti, e del più sconvolgente degli amplessi.
Videocassette magicamente modificate, morti, scomparsi e matti che mangiano i capelli: Society non lesina su niente.

Ci butta dentro l'incesto, le alte cariche dello Stato,  una dose di splatter da levarsi il cappello e anche un ritratto ben poco felice delle forze dell'ordine. Non manca niente, non ha paura di niente.
Noi, invece, di quella società qua un pochino di paura faremmo meglio ad averla.
Mica lo dico io, ci mancherebbe.
Ci pensa Yuzna.

venerdì 30 agosto 2019

Horrornomicon: Operazione Paura

17:23
In un momento in cui la tecnologia ci aiuta ad avere film iper realistici e in cui siamo sopravvissuti alla fase del torture porn, una scena ha abitato nei miei incubi per settimane, ed è una scena girata nel 1960.
Siamo ai primi minuti de La maschera del demonio, e una tale Barbara Steele viene accusata di stregoneria. Le mettono una maschera piena di spuntoni, e gliela martellano in faccia. Basta, nient'altro. Mi sento male solo a pensarci.
In onore di quella singola scena, e di tutte quelle che sono venute dopo, oggi parliamo dei due Bava, Mario e Lamberto, al cospetto dei quali è cosa buona togliersi il cappello e farsi il segno della croce.


Mario fa paura. Fa paura perché ha il fascino di quei grandi che fanno soggezione, perché lo amano tutti quello che lo hanno incrociato e perché ha lasciato un'eredità difficile da riassumere in un solo post. Ma soprattutto perché ha inventato tutto lui.
Per lo slasher? Suonare Bava.
Il primo horror italiano moderno? Ok, chiedete di Freda ma guardate che poi vi passa Bava.
Per il giallo all'italiana? Sentite Mario, ne sapeva qualcosa.
E scordatevi pure di Alien, senza Mario Bava.

La faccia di chi sta al Bar Italia a giocare a briscola col lambrusco

Ora, è chiaro che le cose sono sempre molto più articolate di così, ma quello che è stato Mario Bava nel cinema italiano è una sorta di miracolo. Noi lo abbiamo capito?
No, e infatti siamo noti per mandare tutto in vacca quando serve per poi svegliarci sempre troppo tardi. Mi perdonerete, quindi, se questo post sarà un'ennesima ripetizione di cose che ormai sono già note, ma per rimediare a tutte le volte che Bava è stato ignorato di post così non ce ne saranno mai abbastanza.

Tralasciando la poco utile critica al nostro Paese, torniamo a quello che ci interessa davvero, perché i geni non restano nascosti a lungo e il nome Bava, che nel frattempo aveva il meritato successo all'estero, adesso ha il prestigio che come minimo gli dobbiamo, se non altro per il modo incivile e barbaro in cui è stato trattato.
Non aveva un soldo, non aveva tempo, non aveva possibilità. Ma aveva una testa piena rasa di risorse, e ce le ha regalate tutte quante. Dopo anni a fare manovalanza per altri (non artigianato, che era una parola che non gli piaceva mica tanto), imparando dal padre, ha messo le sue sconfinate capacità al servizio della persona più importante, se stesso, e quando hai un cervello grande e una creatività ancora di più, i soldi contano un pochino meno.
E quindi, dicevamo, La maschera del demonio.
Una sola attrice, quella sconosciuta Barbara Steele che dopo aver conosciuto Bava diventerà l'icona che conosciamo oggi, una storia tratta da un racconto russo e tanto, tanto amore per l'orrore. La ricetta perfetta, un mix mortale che ha permesso ad un signore italiano con due lire in tasca di girare una scena (una tra le tante, ma converrete con me che quell'inizio lì non lascia scampo) che mangia in testa a tutti quelli che sono venuti dopo. Tutto il film è il capolavoro che sappiamo, ma siccome quella scena lì è da annali della storia del cinema allora continuo a citarla, sia mai che convinco uno solo di voi a mollare il mio piccolo blog e andare a vedere La maschera del demonio, il più grande gotico italiano mai girato.

Da lì in poi è stato un viaggio pieno di deviazioni. Bava ha fatto un giro nel peplum (no, non l'ho visto Ercole al centro della Terra, ma si dice che anche quello sia un miracolo di economia), nel western, nella fantascienza, nel giallo e nella commedia. Quando hai una testa grande così non c'è nulla che tu non possa fare.
Ma non solo puoi fare quello che esiste già, ti inventi pure grossomodo l'inventabile.
Perché se tiri fuori qualcosa come Reazione a catena, il più onesto e crudele ritratto della malvagità umana, poi è normale che la gente ti dica che lo slasher lo hai creato tu. Non è solo questione di uccidere tante persone in modo creativo, cosa che peraltro da queste parti apprezziamo sempre tanto, è che mentre lo fai ci parli dell'umanità, e il ritratto che ne esce non è esattamente lusinghiero. E oltretutto ci metti quel finale lì...
Eppure, con il reverenziale rispetto che una come me deve a uno come te, Reazione a catena non è il mio preferito. Io il cuore l'ho lasciato su Operazione Paura. Il folklore, le credenze popolari, le tue adoratissime finestre con le facce dentro...sarà che parla di un mondo rurale e credulone che conosco bene e che mi è familiare, ma l'angoscia della maledizione cittadina mi è rimasta dentro, e Melissa Graps popola le mie notti insonni.

Io lo so che credere che un film del '63 possa fare paura oggi fa storcere il naso quelli che vanno al cinema a vedere solo roba tipo Escape Room (nessun giudizio, a me piacciono da morire gli horror adolescenziali anche quando sono scemotti). Questo accade quando non si è visto I tre volti della paura, uno dei primi horror antologici, presentato da Boris Karloff in persona, che parte con una storia interessante, con qualche richiamino lesbo neanche troppo velato per sconvolgere le signorine perbene, prosegue con i vampiri che stanno bene su tutto come il nero, e si conclude con La goccia d'acqua, film tra le altre cose in 4d, perché la goccia scorrerà anche a voi, e sarà la pipì addosso che l'episodio vi farà fare dalla paura.
(è un caso che i Black Sabbath - titolo americano del film - siano l'unico gruppo metal che mi piace? crediamo di no)

La meraviglia però non si conclude con questi, che sono i film più famosi. Gli orrori del castello di Norimberga è un ritorno al gotico se vogliamo, che pur meno efficace del mitologico La maschera del demonio, è pur sempre una gioia per gli occhi. Bava nasce direttore della fotografia, e se anche internet non ce lo avesse detto lo avremmo capito, da quanto sono proprio belli i suoi film. Io lo so che 'bello' è l'aggettivo più odiato della storia, perché vago e poco argomentativo, ma i colori, i benedettissimi zoom, e la messa in scena dei film di Bava non sono altro che belli. Potrei stare qua a cercare turboparoloni da cinefilo dell'internet (gran pagina facebook, quella) ma son proprio piccoli quadri che rendono belle e aggraziate anche le morti più truculente. Lisa e il diavolo, il film del Nostro con la storia più infelice (violentato dal produttore per farlo somigliare a quel tale film uscito nel 73 con una bambina posseduta, forse l'avete sentito nominare) ma che nella sua versione originale era interessantissimo. Schock, invece, ve lo dovete guardare. Ma proprio tutto, dall'inizio alla fine, perché nonostante la Daria Nicolodi, che insomma non è la mia preferita, ha il miglior finale della filmografia del signor Mario Bava.
Ed è tutto dire.

Non di solo Mario, però, è fatta la famiglia Bava. Dopo nonno Eugenio e babbo Mario è arrivato anche Lamberto.
Ora, se tuo padre è uno di quelli che farà la storia del cinema italiano, e tu lo sai perché lavori a stretto contatto con lui da sempre (il maggior culo che potesse capitare ad una persona), ti tocca farti su le maniche e dimostrare che anche tu sai bene il fatto tuo. Lamberto, infatti, vuole fare l'orrore anche lui. Va benissimo, unisciti a noi, più siamo più ci divertiamo. Inizia con Macabro. E Macabro è un film di quelli che non ti dimentichi più.
Inizia con una tragedia dopo l'altra, prosegue con disperazione e follia e dolore e crudeltà e finisce con una mattata sovrannaturale che mette proprio la ciliegina sulla torta che è questo film. Ha proprio messo il carico da mille, Lamberto: bambini morti, necrofilia, disabilità, menti bruciate dal dolore. Non ha avuto paura nè di fare un mappazzone (che comunque non fa) nè di esagerare. Sono il figlio di Mario Bava e faccio come cazzo mi pare.
Vagli a dare torto.

La faccia da organizzatore di Festa dell'Unità

Ora, la strada di Lamberto è meno perfetta di quella del padre, ci sono incidenti di percorso più o meno rilevanti (quello Shark: Rosso nell'oceano che anche a L. stesso non piace facciamo che non è mai successo, ti amiamo molto comunque) che verranno sempre e comunque perdonati in onore della cosa migliore mai uscita dalle santi mani del Figliol Santo: Fantaghirò.
Non era mica una battuta. Io sono figlia degli anni 90, son venuta su a pane e Fantaghirò a Natale. Era il fantastico domestico, e gli sono molto affezionata.
Certo, poi c'è Demoni, e Demoni è tutto un altro paio di maniche...
Un film sporchissimo, cattivo da morire, gore, con effetti (di Stivaletti, non quello dell'ultimo banco) adorabili, e con la colonna sonora migliore di tutti i film dell'orrore italiani.
Demoni ha più di 30 anni e non ne sente nemmeno mezzo, un fumettone insanguinato che non ha perso un solo briciolo di fascino.

Io il cinema horror di oggi lo amo. Amo Flanagan e Aster, ho amato la prima parte degli anni 2000 con i loro West e McKee e non ho mai creduto alla crisi dell'orrore.
Però ci sono giorni in cui sento bisogno di qualcuno come Mario, di mantelli e colori sgargianti e di quell'eleganza nella regia che chi lo snobbava se la può solo sognare.
Altre volte ho bisogno di facce deformate e insanguinate, di sangue a fiotti e parolacce e versi animaleschi. E in quel caso Lamberto è lì che mi aspetta, a braccia aperte.
Che vita pazzesca deve essere, la sua.
E la mia, che posso continuare a divertirmi così.

martedì 13 agosto 2019

Usare i social per l'informazione

10:30
Questa cosa dell'uscire fuori tema non diventerà un'abitudine, lo giuro. Solo che siamo in tempi brutti come la fame, e se posso anche solo condividere una volta ogni tanto qualcosa di utile, cerco di farlo in quello spazietto qua, che trascuro così tanto.


Questo post non sarà altro che un elenco di persone, link, app e chi più ne ha più ne metta, che uso quotidianamente per informarmi e crescere. Non solo sulla politica e l'attualità, ma sul complesso di cose che mi interessano. Vivo incollata al cellulare, non ne vado fiera ma è così, e cerco almeno di trarne qualcosa di utile.

Partiamo quindi da Instagram, dove seguo un bel po' di donne interessanti e competenti, che rendono l'informazione rapida e alla portata di tutti.

  • @grand_erre: Rachele collabora col sito Bossy, di cui vi ho parlato spesso, e tiene sul suo profilo delle mini rassegne stampa, in cui con la velocità delle stories instagram (e della igtv) parla delle ultime notizie. Molto schierata, ovviamente, ma rapida e chiarissima. 
  • @martine.ce: Martina si occupa di cooperazione internazionale. Se vi interessa conoscere (per davvero) la questione migranti e tutte le sue implicazioni, compresi degli interessantissimi approfondimenti su ogni singolo stato e la sua storia, è la persona da seguire. Nelle sue storie in evidenza ci sono Sudan, Iran, Libia, Arabia Saudita, Algeria, e tanto, tanto altro. Da scoprire.
  • @imenjane: Imen si occupa di economia. Ha seguito (e continua a seguire) da vicino la questione Brexit, tiene una rassegna stampa quasi quotidiana e rende un argomento a me così ostico come l'economia alla portata di tutti.
  • @belledifaccia: un bellissimo progetto che si occupa di body positivity e grassofobia in un modo sensato. Lo so che sembra scontato, ma non lo è.
  • @sofiabronzato: è un medico nutrizionista. Non una nutrizionista e basta, proprio un medico. Quotidianamente dà informazioni importantissime sul cibo, su come bilanciarlo in modo equilibrato e su come avere con l'alimentazione un rapporto sano. Dà esempi di pasti bilanciati senza propinare diete assolute, parla di salute con la competenza che solo un medico può avere. In più pubblica un sacco di ricette, punto in più.
  • @carotilla: Camilla Mendini ha anche un canale Youtube, dove si occupa tra le altre cose di moda sostenibile (ha anche lanciato un proprio brand, Amorilla) e ambiente. Propone soluzioni, brand, esempi. La seguo sempre con grande piacere anche se per la maggior parte la moda sostenibile è, con mio enorme rammarico, fuori dal mio budget.
Youtube è pieno di porcheria, siamo tutti d'accordo. Più cresco, poi, meno trovo contenuti che incontrino il mio interesse, ma ci sono le dovute eccezioni.

  • Breaking Italy: sarà anche banale ma Alessandro Masala è il mio preferito. Bravo, competente, interessante da seguire. Da recuperare ad ogni costo l'episodio del suo podcast in cui intervista Michele Boldrin. Meglio di ogni episodio di talk show che potrete mai vedere in tv.
  • Cucina Botanica: sto cercando di ridurre il consumo di carne. Lei è l'unica vegana al mondo che vale la pena seguire.
Podcast, di cui forse vi ho già parlato ma non si sa mai:
  • LaMoka: due ragazzi che ogni domenica commentano l'attualità. Sì, mi piace sentire anche le stesse notizie da voci diverse, e poi loro sono simpaticissimi.
  • I due podcast del Post: Konrad, che esce dopo le plenarie del Parlamento Europeo, e il Weekly Post, che ogni settimana approfondisce una delle notizie più importanti. Il Post è il mio luogo preferito del web, adesso anche da ascoltare.
  • Con una matita è un prodotto nuovo, per ora ha un solo episodio, che però è strepitoso. Se continuano così possono fare delle cose eccezionali.
Le newsletter sono spesso fastidiose e invadenti. Alcune, però, sono perle.
  • Ghinea fa parte del bellissimo progetto Inutile, una rivista culturale del web. Oltre al nome che invidio moltissimo, si occupa di femminismo in modo serio. Profonda, intelligente e di grande intrattenimento, è tra le mie cose preferite al mondo.
  • Medium è una gigantesca piattaforma del web in cui milioni di persone scrivono milioni cose. Può confondere e far passare la voglia. Ecco, quando ci si iscrive però si selezionano gli argomenti desiderati e questo sito dei sogni ti invia gli articoli che potrebbero interessarti per mail. La tecnologia è una cosa meravigliosa.
L'unica app che vi aggiungo in postilla a questo infinito post che spero possa essere utile a qualcuno è Feedly, gratuita. Ve la scaricate e inserite tutte le riviste (virtuali o fisiche) che vi interessano: Internazionale, il Post, Open, ma anche i grandi portali di cinema per esempio (IndieWire per dirne uno), o siti singoli (io seguo quello di Civati per dire), o grandi e note piattaforme tipo Minima e Moralia, il New Yorker, Gli Stati Generali. Tutto quello che volete racchiuso in una sola app che consultate come se fosse il sito di un singolo giornale. Sta tutto lì. Comodo da morire. Chiaramente la gratuità degli articoli dipende dalle politiche del singolo sito, ma è tutto magnificamente ordinato e in un posto solo. Un sogno.


Sì, lo so, sono invecchiata. Meno di due anni fa il telefono lo usavo solo per Snapchat e Telegram, quasi. Oggi sono il tormento dei vecchi che dicono che i giovani stanno sempre al telefono.
Ci sto più di una quindicenne.


mercoledì 7 agosto 2019

La quinta stagione, N.K.Jemisin

13:57
Siccome il blog è l'unico posto in cui ancora non l'ho detto, piccolo aggiornamento sulla mia vita: ho preso un cane. Un grosso cane nero che sembra Sirius Black e che è buono come un angelo. Mai una pipì, mai un dispetto, non so nemmeno come abbaia. Mi ha fatto un unico danno da quando lo abbiamo preso al canile: si è portato il mio lettore ebook sul suo cuscinone. Solo che con i suoi denti da fatina me lo ha scassato, portandoselo in giro. Risultato: non ho più il mio migliore amico (il lettore! Il cane è ancora qua) e mi tocca comprarmi i libri in copia fisica spendendo patrimoni.
Ebbene, fatevi un favore. Prendete 15 euro dal vostro portafoglio e comprate La quinta stagione.
Se siete più furbi di me su Amazon ci sta tutta la trilogia in inglese, perché io son stata cretina ho preso solo il primo e adesso che non ho il seguito la mia vita ha smesso di avere significato.


Dare un'idea della trama di questo romanzo è quasi impossibile, ma cercherò di essere breve e vaga il giusto. In un mondo devastato da un clima ostile (l'Immoto) le persone vivono in città costruite col solo intento di sopravvivere. Tra gli abitanti di queste città si distinguono gli orogeni, umani che nascono con il dono di controllare la terra e gli elementi climatici. Essere orogeni, però, non è un dono. Le persone con queste capacità sono disprezzate dalla società e la loro presenza viene denunciata dalla stessa famiglia fin dalla tenera età. I bambini orogeni vengono portati al Fulcro, luogo in cui viene insegnato loro come controllare i propri poteri per essere utili alla società. Protagoniste del romanzo sono tre donne, tutte e tre orogene.

La quinta stagione è il vincitore dell'Hugo Award del 2016. Il suo seguito lo ha vinto nel 2017, il terzo volume della saga nel 2018. Non solo la Jemisin è la prima autrice afroamericana a vincerlo, ha deciso di portarselo a casa per tre anni di fila con tutti i volumi della saga. Un piccolo miracolo che l'edizione italiana, opera di Mondadori, ha deciso di celebrare con fascetta di elogi e quattro facciate (quattro) di stralci di recensioni entusiaste. Io scettica come la morte, secondo me per colpa della copertina che proprio non mi piace.
Ebbene, sono felice di dire che sono una cretina e che avevo torto marcio, perchè La quinta stagione è un romanzo strabiliante e io sono qui con un post entusiasta a cercare di dirvi perché.

Questo romanzo è un capolavoro di world building, e questo è il motivo per cui non vi voglio parlare più a fondo della trama. Il mondo in cui ha luogo, l'Immoto, è costruito con tale precisione che le nozioni si dispiegano per tutto il romanzo, fino all'ultima pagina. Non ci sono spiegoni iniziali che ci aiutino ad entrare nell'ottica di quello che leggeremo, anche se potrebbe sembrare sia così. Esattamente come se dovessimo spiegare l'Italia ad una persona straniera: conosci talmente bene quella realtà lì che non puoi dire tutto subito, ci sono dettagli e sfumature che escono per forza con il tempo e nel libro questo allargarsi della conoscenza è così coerente e ben fatto che per spiegare fatti anche molto complessi all'autrice bastano due frasi ben fatte. Non so come si faccia, a creare una realtà tutta nuova in un modo così preciso, ma la Jemisin lo ha fatto in un modo straordinario, che non perde fascino nemmeno di fronte ad un colpo di scena piuttosto prevedibile.

Forse, però, un'idea ce l'ho, su come abbia fatto: ha guardato alla nostra, di realtà. Il primo volume de La terra spezzata parla di diversità, di odio, di crescita, di fuga, di paura e di amore. Di senso di appartenenza e di senso di inadeguatezza. E lo fa parlando di tre donne, tre donne che per lo stesso motivo vengono allontanate dalla società e che devono convivere con una condizione di diversità che non possono nascondere. Lo fa descrivendo una società che le teme e quindi le detesta, le isola, le ripudia. Sono donne grazie alle quali la Jemisin parla della complessità del nucleo familiare, dell'amore materno, della paura e della solitudine. Di bambine coraggiose e adulte spaventate, di quanto siano diverse e uguali al tempo stesso.

La fantascienza di questa saga rientra in questo nuovo filone di narrativa 'ecologica' se così si può dire, anche se non ci sono riferimenti che colleghino per certo l'Immoto alla Terra. I collegamenti però sono inevitabili, e la possibilità che la nostra Madre Terra buona diventi un Padre Terra crudele che detesta i suoi figli è oggi più che mai credibile. Talmente tanto che il romanzo si è rivelato la lettura più immersiva dell'anno, e quest anno aveva rivali non da poco. Tra Nabokov, Dostoevkij, la Ginzburg e Buzzati, la Jemisin zitta zitta mi ha preso per mano e portato altrove, in una storia in cui sembra succeda poco e invece succede la vita, quella reale che si riesce a trovare anche in mezzo a pagine di fantascienza.

Un libro strepitoso, che ho finito da un paio di ore e già mi manca.

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