mercoledì 24 febbraio 2021

I 200 di Rue Morgue: L'arcano incantatore

15:37

 Ho scritto fino alla nausea su questo blog che quelli di Pupi Avanti sono horror che porto nel cuore, eppure ancora mi mancava L'arcano incantatore, che guarda caso sta in mezzo alla lista di film che la rivista Rue Morgue consiglia di recuperare.

Non solo la rivista lo consiglia, ma lo fa con una mini intervista a Guillermo del Toro, che come sapete è il grande amore della mia vita. E non solo di nuovo, perché del Toro, parlando del film, cita una frase di un altro mio grande amore filmico: pare che Edgar Wright, quel benedetto tatone che non è altro, abbia definito L'arcano incantatore (titolo pazzesco) un "Barry Lyndon del cinema dell'orrore". 

Chi sono io per smentire quei due qua. Loro hanno sempre ragione.




Siamo nel '96, sono passati più di dieci anni dall'ultima volta in cui Avati ha girato un horror (l'ultimo era stato Zeder). Per tornare in carreggiata decide di raccontare una storia che contiene tutti i suoi temi più cari, che sono quelli che me lo fanno amare.

Siamo sugli Appennini bolognesi nel '700. Giacomo, un giovane seminarista, è costretto a lasciare Bologna per aver conosciuto una donzella in senso biblico e per averla poi costretta ad abortire. Per non subire le tremende punizioni della Chiesa chiede aiuto ad una donna misteriosa che lo manderà a lavorare come aiutante di un ex monsignore, allontanato dalla Chiesa e dalla società per passati interessi verso il mondo dell'occulto. L'ultimo aiutante del monsignore, Nerio, è da poco defunto in circostanze misteriose e Giacomo è deciso a fare luce sulla faccenda.


Ma quanto piace, ad Avati, parlare della Chiesa? Un casino. I legami tra religione ed occulto, e soprattutto il loro essere così sottili, sono onnipresenti nella sua filmografia (almeno in quella dell'orrore, a meno che ci sia da qualche parte un film in cui Silvio Orlando fa il papa con strani intrallazzi di cui non sono a conoscenza). Credo che il motivo per cui questi film io li amo così tanto stia proprio qui. La Chiesa cattolica, che ho conosciuto da vicino e frequentato per decenni, è oggi per me fonte di grande inquietudine. L'immaginario cattolico, l'estetica cattolica, le credenze, popolano i miei incubi. Avati è straordinariamente bravo a sfruttare proprio questo. Gli abiti, le ambientazioni, le luci delle candele, i movimenti delle benedizioni, le croci, l'estremismo delle credenze popolari, il folklore. Non solo riconosco come "miei" i luoghi in cui ambienta le storie, ma sento vicine le cose tra cui sono cresciuta e vederle sfruttate a dovere per un film dell'orrore mi fa saltellare di gioia per poi nascondermi gli occhi dietro le mani. La piccola chiesetta che si vede in questo film è uguale a tutte le altre piccole chiesette sperdute padane che circondano le vie in cui abito. La foschia della sera è la stessa che vedo tutte le sere, innesca in me un meccanismo di attaccamento al film immediato. 

Forse li amerei così anche se fossero ambientati in Toscana, o in Abruzzo, ma il fatto di sentirli così vicini è solo l'ennesimo punto in più a favore di storie che hanno tutto quello che amo. La lentezza dell'inquietudine sottile che non ha bisogno di gran fragori, i pochi dialoghi e i tantissimi sguardi, le luci, i colori. L'occulto che non si manifesta solo nelle persone che attivamente lo ricercano ma anche in quelle che, standogli intorno, ne parlano in ogni momento: le donne, Giacomo che fa mille domande, le persone del paese, il monsignore che lo ricorda. Nerio è protagonista per tutto il film solo per quanto ne parlano gli altri. Non c'è, ma è il più presente di tutti. 

E pian piano, tra una domanda e l'altra, tra un mistero e l'altro, finisci avviluppato in questo film così lento e così intrigante, con i suoi personaggi così ambigui, con i suoi finali che ormai conosciamo ma che non per questo amiamo meno. 

Sono tanto affezionata, ad Avati. Talmente tanto che, quando è venuto al mio paesello per un'iniziativa che nemmeno ricordo, non sono riuscita a dirgli nulla e sono scappata via ad intervista finita. Che polla.

giovedì 18 febbraio 2021

I 200 di Rue Morgue: L'abominevole dr. Phibes

21:36

 Questo percorso nei 200 (abbondanti) film dello speciale di Rue Morgue è sempre più divertente. Mi porta fuori dalle mie consuetudini e mi fa recuperare cose famosissime ma che per qualche motivo io ancora non avevo guardato. Se non sapete di cosa sto parlando, l'intro al progetto è qui.

Anche questo film, come Abby di cui abbiamo parlato la scorsa settimana, si trova facilmente su Youtube in lingua originale.




Anton Phibes, celebre organista, ha perso la moglie in un incidente stradale. Tutti considerano anche lui scomparso nell'infelice evento, ma non solo Phibes è vivo, è anche incazzato nero. Dopo l'incidente la moglie era stata sottoposta ad un intervento chirurgico, estremo tentativo di salvarle la vita, che purtroppo è finito male. Phibes non ha perdonato, ed è pronto a vendicarsi di chi gli abbia portato via la sua amata Victoria.


Questo è davvero un portento, un film bellissimo. 

Riesce, con un equilibrio raffinatissimo, ad alternare morti grottesche (di cui parliamo dopo) a scene strazianti di dolore puro. Del resto Phibes è Vincent Price, a cui qua dentro pensiamo sempre con un affetto infinito, e solo lui, anche se privato quasi sempre della caratteristica voce, poteva dare a Phibes un'intensità così spiccata. Il suo è un personaggio distrutto dal dolore, il modo in cui si ferma a guardare l'immagine della moglie scomparsa è da cavarsi il cuore con le mani, e allo stesso un sadico bastardo che si compiace dei suoi tremendi omicidi. 

Basta aprire un link a caso online per vedere paragonato questo capolavoro di creatività a quella robaccia che risponde al nome di Saw. Non lasciatevi ingannare, se per caso ancora non aveste visto il film di Robert Fuest. I due non hanno niente a che spartire e se cortesemente Jigsaw volesse con la sua maledetta arroganza sedersi in un angolo ad imparare come si fa, grazie. 

Phibes organizza i suoi omicidi basandosi sulle bibliche piaghe d'Egitto, e le rende modi molto scenografici di togliere la vita alle persone. Parlo di locuste calate dal soffitto su facce riempite di roba che sembra melassa, di maschere a forma di rana e teste di unicorno, di pipistrelli affamati e topi sugli aerei, ma che ne sa quello sul triciclo. La scelta e la messa in scena di queste morti, poi, sono da applausi a scena aperta, ma quanto sono estetici? Che scelte incredibili ha fatto, una dopo l'altra, Fuest? 


Il film, poi, sarebbe anche senza queste morti, una meraviglia di colori. Quelli che sanno di arte e architettura più di me lo chiamano art decò, io, ignorante, lo chiamo "Ma quanto sei bello?".

Le pareti dell'ospedale verdi, la casa del dottor Vesalius, i vestiti, ogni cosa. L'estetica di questo film ripulisce le cornee anche dallo smog. Ogni inquadratura l'avrei screenshottata per stamparmela in casa. 

In questo goduriosissimo insieme di morti succulente e immagini da rivista di interior design, non passa mai in secondo piano la storia di un uomo ferito. Per questo parlavo dell'equilibrio, prima. Si mettono insieme cose che all'apparenza sembrerebbero così lontane e che invece si rivelano, insieme, miscelate alla perfezione.


Guardatela, se non l'avete già fatta, la storia di un Vincent Price fatto a pezzi dalla vita e dalla strada che si prende la sua vendetta. Già solo con questa descrizione ne varrebbe la pena.

venerdì 12 febbraio 2021

The Office è finito, lunga vita a The Office

16:37

 Tecnicamente è finito da 8 anni, The Office Us, ma per me è finito oggi, e questo è un tipo di tristezza a cui l'università della vita non ti prepara.

Abbiamo provato a centellinarlo, ci siamo anche fatti una pausa dopo che Michael se n'è andato, per provare a prolungare la visione, ma è giunto il giorno in cui abbiamo lasciato la Dunder Mifflin e devo scrivere un post per salutarla come si deve.


mi mancano già 


POST PIENO DI SPOILER


Per chi non sapesse di che cosa sto parlando: The Office è una (ormai mitologica) serie tv, di 9 stagioni, adattamento statunitense di una serie originale inglese di BBC. È un falso documentario sulla vita lavorativa, e non solo, dei dipendenti di un'azienda che rivende carta nella sede di Scranton, in Pennsylvania. 

Ed è una meraviglia.


Premessina di fatti miei?

Ma chiaro.

Io sono una rompiscatole che non ama la comicità, in particolare quella basata sul cringe, e sono anche una che considera il black humor l'etichetta del cazzo dietro cui ci si nasconde per sentirsi liberi di dire quello che si vuole insultando gli altri. Aggiungo anche che detesto con tutta l'intensità di cui sono capace Ricky Gervais, che della serie è produttore. Così, per chiarire che sono sempre l'anima della festa. 
Eppure, per qualche ragione inspiegabile, una serie che doveva essere l'unione di tutto quello che odio è diventata sgomitando una delle mie preferite di sempre. The Office ha tante di quelle cose sbagliate che non posso nemmeno iniziare ad elencarle. Ma è stata capace di infiltrarsi tra le maglie del mio guardarla con sospetto e si è presa una fetta di cuore larghissima. Mi mancherà un sacco.


Quando ho guardato per la prima volta Friends per intero ero nel target perfetto. Non l'ho visto da bambina in tv, ma da ventenne, quando quel gruppo di amici lì ce l'avevo anche io. Ho anche io amici che sono con me da almeno un decennio e identificarsi in quelle dinamiche era così semplice che Friends è stato a lungo una fetta enorme del mio modo di parlare. Vedevo praticamente la mia vita su schermo. 

Ora che sono un po' cresciuta, è in The Office che trovo ritratta la mia quotidianità. (Di Friends prima o poi parliamo, forse). Magari non negli scherzi di Jim a Dwight, magari non nelle idee folli in cui Michael trascina i colleghi, magari non in Creed. Di sicuro però nelle coppie che nascono senza le grandi scene epocali dei film d'amore ma che nascono dall'amicizia, nei momenti in cui ci si sente fuori posto, negli attimi di piccola condivisione del proprio spazio e del proprio tempo con persone che non sempre si è scelto e che nostro malgrado diventano parte di quello che siamo. 

The Office ha l'immenso pregio di fare il più dolce ritratto delle relazioni umane che ho mai visto in una sit com. Accanto a momenti esagerati e caotici ci sono scambi di sguardi che dicono tutto, piccoli gesti che non passano inosservati, pacche sulle spalle, abbracci e sorrisi. La Dunder Mifflin li ha uniti per caso e loro sono diventati una famiglia. In quanto tale si distruggono di dispetti, si odiano a tratti, fanno cose completamente crudeli uno verso l'altro, si maltrattano e se serve si picchiano anche. Poi in altri momenti, però, cantano insieme, si aiutano (possibilmente senza che il destinatario dell'aiuto lo sappia), si supportano, condividono piccole cose quotidiane che sono quelle che più di tutte ti vincolano l'uno all'altro. Per 7 stagioni sono stati tutti esasperati, imbarazzati, disturbati quotidianamente da quell'incredibile personaggio che risponde al nome di Michael Scott. Quando se n'è andato, però, è stato dolore vero. (Non parlo di me. No no. Io l'ho superata benissimo. Non mi ha affatto lasciato affranta in un mare di sofferenza ad accogliere la sua sostituzione con lo stracavolo di DeAngelo). Le persone più improbabili sono messe insieme per caso e le situazioni di ogni giorno le hanno rese amiche. Pam e Dwight? Senza dubbio l'amicizia migliore della serie. Oscar e Angela? Nati per essere amici. Stanley e Phyllis? Adorabili.


In mezzo a scene esilaranti di adulti che cercano di stare al passo con i più giovani (parlo del parkour? parlo del parkour.), di giovani inabili alla vita (una Erin che è un miracolo sia arrivata all'età adulta), di personaggi caricaturali ed estremi, con Michael come capitano di tutte e tre le squadre, ci sta la vita vera. Quello che ho capito di me è questo: mi conquistano completamente quelle serie in cui è la quotidianità che parla meglio dei suoi personaggi. Guardo tante cose, di tanti generi diversi, ma sono i momenti di intimità che viviamo ogni giorno senza rendercene conto che mi prendono e mi portano via il cuore. In tutte le serie che oggi considero le mie preferite di ogni tempo sono i piccoli momenti di condivisione della vita che alla fine conservo come ricordi preziosi. Il volersi bene ogni giorno, il conoscersi così a fondo che ogni piccola abitudine, ogni vizio, ogni tic, sono noti e detestati e quindi, insieme, amatissimi. 

Ho proprio un punto debole, io, per le famiglie per scelta e non di sangue. Il sentirsi parte di qualcosa di più grande, essere un puntino che insieme ad altri puntini così uguali e così diversi formano un disegno sempre unico, sempre diverso. Gli inside jokes, gli sguardi complici, i ricordi. Sono proprio qualcosa che parla alla mia emotività.


E detto così sembra che The Office sia una sit com seria. Non lo è. The Office è oltre il concetto di demenziale. Non c'è un solo personaggio che sembri una persona normale. Eppure, non appena ci si affeziona a loro, e per quanto mi riguarda ci ho messo un po' di tempo, sono le persone più normali di questo mondo. Con le loro follie e i loro estremi. Sarà difficile accettare di non avere più del nuovo Kevin da vedere. Il mio compagno vivrà la fine di The Office come un lutto solo per il fatto di non avere più Dwight. E io, debole romantichina che so essere, sentirò la mancanza di Jim e Pam come fossero amici miei. Lo so che Jim è un personaggio molto discusso online, e giuro che la mia opinione non è falsata dal fatto che abbia la faccia di 💖John Krasinski💖. Lo so che all'inizio sembra un bulletto con Dwight (non che quest'ultimo non si prenda le sue rivincite quando vuole), e so anche che nell'ultima stagione fa per buona parte delle puntate il verme egoriferito, però ho proprio un debole per loro, la più adorabile coppia delle serie tv di sempre. Lui alza l'asticella dello standard della carineria troppo in alto per i comuni mortali. 

Poi certo, nell'ultima stagione se ne fotte di mettere in completa difficoltà la moglie per InSeGuIrE I sUoI SoGnI, incurante di quelli di lei, e alla fine a cedere è lei per via dei sensi di colpa, questo lo riconosco. Riconosco anche che un video sia un po' poco per farsi perdonare. Però insomma, una stagione negativa su nove mi pare un buono standard. 

Proseguo il mio voler fare la romantichella a tutti i costi perché The Office ha un modo splendido di ritrarre l'amore, sempre. Tutte le coppie che nascono (e che finiscono bene, ovviamente, questo non vale per Michael e Jan o Angela e Andy) hanno una cosa in comune: si divertono. Non importa mai di mostrare la chimica, l'affinità intellettuale, i dialoghi sui massimi sistemi. Jim e Pam, ma anche Michael e Holly, come anche Erin e Pete verso la fine, sono persone che insieme se la godono un sacco, ridono sempre, hanno lo stesso senso dell'umorismo. Angela stessa, la più rigida dell'ufficio, per stare con Dwight si lascia andare e finisce per sposarsi dentro al buco della sua stessa tomba ridendo come una matta. E questo è la cosa più simile alla mia vita reale che ho mai visto ritratta in tv. 


Lo so che The Office ha costruito gran parte della sua ironia intorno ad un personaggio che è sempre sbagliato. Michael Scott non ha detto una cosa giusta in 7 stagioni in cui c'è stato. Tranne gli insulti a Toby, quelli erano sempre meritati. Eppure ha sempre cercato di correggersi, migliorarsi, farsi amare comunque.

E c'è riuscito, perché non si resiste al world's best boss. 

E non si resiste alla Dunder Mifflin. Quello in The Office è un viaggio divertente come nessun altro, e che alla fine lascia col cuore pieno di cose belle. 


Oggi per me è stata una giornata strana. Ho avuto una notizia molto bella, e una molto brutta, e nel mentre ho finito The Office. Forse non me lo sono goduto bene, questo finale.

Forse la ricomincio.


martedì 9 febbraio 2021

I 200 di Rue Morgue: Abby

16:06

Questo blog è stato per quasi un decennio orientato quasi solo alla cultura occidentale. Non solo cinema dell'orrore, ma anche cinema tutto, prodotti seriali, libri. Non solo la mia cultura è particolarmente lacunosa, è anche molto escludente. Non ne vado fiera. 

Quello che mi rendo conto dovrei fare è ampliare il mio sguardo, uscire dalla comfort zone, conoscere e aprirmi a quello a cui finora, più o meno inconsapevolmente, non mi ero ancora aperta. Horror orientali qui si contano sulle dita di una mano, per non parlare di produzioni africane o anche solo afroamericane. È ora di smetterla, o almeno di provarci.

Cominciamo quindi con Abby, horror demoniaco del 1974, che Wikipedia mette in quel controverso insieme che è la Blaxploitation. Nello specifico, questo film ha un regista bianco (lo stesso di Grizzly) ma un cast quasi completamente nero. 



Abby è la storia di una felice neosposina, quella che dà il titolo al film, che poco dopo il traferimento in una nuova casa che la parrocchia ha dato al suo marito pastore, comincia a presentare sintomi inusuali. Il tutto sembra collegarsi a Eshu, il potente demone della religione del popolo Yoruba, che il suocero di Abby rievoca per sbaglio durante una spedizione in Nigeria. 


Saltiamo subito al lato più noto del film: la Warner Bros, offesa che proprio pestava i piedi per terra dal nervoso, gli ha fatto causa e lo ha fatto rimuovere da tutti i luoghi del globo terracqueo. Perché? Perché è uscito nel '74, e l'anno prima un altro cinemino poco noto aveva parlato grossomodo di argomenti simili. Insomma, ad Abby non hanno perdonato di essersi ispirati al più grande film dell'orrore di tutti i tempi e quindi, anche se il film di Girdler stava andando benissimo in sala, arrivederci e grazie. 

Oggi, per fortuna, si trova facilmente su Youtube, in inglese. 


Dico per fortuna perché per quanto mi riguarda Abby è una visione divertentissima, molto fresca (paradossalmente, vista l'età), e di grande intrattenimento. Posto che a quel film là ci si sono ispirati poi quasi tutti, e non è difficile immaginare la ragione, secondo me in questo caso si fanno delle scelte azzeccatissime. Abby non è una ragazzina, è una donna adulta, alle prese con la quotidianità e i problemi di una persona adulta, è già un punto di vista diverso. In più, la possessione non avviene in una famiglia laica, al contrario. Il marito è un pastore e la stessa Abby è una grande credente. La fede, qui, non solo non viene mai messa in discussione ma è un grande collante e il punto di forza e unione della famiglia. Il marito corre per la città a riprendersi la moglie diventata affamata di sesso, e immediatamente si rivolge al padre quando le difficoltà sono ormai oggettive. La madre della povera posseduta è presente fin dalle prime scene, e quello che si crea è un clima familiare molto intimo, nonostante la tragedia che incombe sui protagonisti. 

L'ispirarsi al film di Friedkin è inevitabile: il modo in cui gli esorcismi vengono rappresentati al cinema è ormai quasi sempre identico a se stesso, e personalmente ho smesso di inorridire per la mancanza di una presunta originalità da tempo. 

Di Abby ho amato molto l'ambiente familiare, la rappresentazione dell'intimità, il volersi bene, e solo dopo la parte riguardante quello che ho letto in giro definito come il "disco esorcismo" (che sogno). 

È un film dalla sorte infelice ma breve, che scorre veloce, diverte, sa usare in modo intelligente il concetto di "ispirazione" e sta gratis su Youtube. Serve altro?

domenica 7 febbraio 2021

Una new entry in casa Redrumia

17:32

 Da 9 anni quella che era la cameretta rossa e che adesso è diventata la Repubblica di Redrumia è stata dominio esclusivo della sinceramente vostra. 

Quando però si incontrano persone con cose interessanti da dire la condivisione di uno spazio è sempre un beneficio. Il mio bloggettino, quindi, oggi si apre ad una mano in più.

La mia amica Martina avrà una rubrica tutta sua, in cui parlerà di libri e di tutto quello che le passerà per la testa. Però siccome io sono di parte e il mio giudizio su di lei è di parte perché le vb, lascio che sia direttamente lei a presentarsi!


Foto di NeONBRAND su Unsplash


Mesdames et Messieurs; è giunto, per me, il momento di presentarmi. Mai compito fu più arduo…

Proviamoci.

Mi chiamo Martina, ho – quasi – 24 anni e sono un’amica di Marika. Da oggi, divento una sua “collaboratrice” qui sul blog, sperando di non far dei danni, come mio solito. In un futuro, chissà, diventerò anche la sua editor e correttrice di bozze – Mari, tu che dici?

(Sì, lo sai che lo diventerai! M.)

Al momento, lavoro a tempo pieno come impiegata commerciale e – in sincro – sto cercando, a fatica, di laurearmi. Tempo libero ne ho poco e, di solito, lo impiego a leggere libri, stilare liste di libri che vorrei leggere, studiare in autonomia il mondo dell’editoria… In realtà, oltre a ciò, tento di mantenere una vita sociale – poca, al momento – e una vita sentimentale (Ale, mi stai leggendo? Sei in un articolo!). Sogno ad occhi aperti (ma anche chiusi) di potermi tuffare – di pancia – nel torbido mondo dell’editoria.

Ho grandi progetti che, spero, non rimarranno solamente tali. Marika mi sta aiutando a muovere i primi passi. Per questo motivo, mi dà l’enorme possibilità di avere una mia rubrica all’interno del suo sito – Martina Malcontenta. Chissà a cosa ci saremo ispirate… Ma dal magico mondo di Harry Potter, non potevamo ricavare un nome più sobrio per la mia rubrica? Decisamente no, e per diversi motivi. Un po’ perché, tutto sommato, suona anche bene. Un po’ perché sono veramente malcontenta; o meglio, lo ero. Quando ero piccolina, facevo lo stesso verso di lamento di Mirtilla… Non poteva calzare meglio di così. Un’altra possibilità era La Martina Strillante, probabilmente perché – in particolare quando rido – lo faccio in modo molto silenzioso, mantenendo come obiettivo principale quello di non attirare l’attenzione.

Non ho idee ben precise su come gestirò questa mia rubrica. Ho solo una certezza, che mi acceca come i fanali delle macchine che mi vengono incontro alle sei del pomeriggio in una giornata d’inverno dopo otto ore di fila al computer: bene, anche se meno. Con questo, intendo dire che non cercherò di affollare il mio spazio con ogni minima cosa che mi passa per la testa, in modo da pubblicare spasmodicamente e, magari, pure male. Lavorerò ad articoli carini – cerco di volare basso, considerando che non sono una master blogger – e pensati bene, a costo di pubblicarne uno in meno.

Completato questo sproloquio, di seguito i primi aggettivi che mi vengono in mente, se devo parlare di me: un po’ petulante, spesso felice, molto sensibile, a volte rumorosa. Mi sembra giusto ricordarne un ultimo: nata pigra. Lo giuro, solo in ambito sportivo…

Allora, cominciamo questa Rubrica Malcontenta!

P.S. potete chiamarmi Marti.






giovedì 4 febbraio 2021

Classici del femminismo: Il secondo sesso

11:25

 Rieccoci alla consueta rubrica "La Mari apre mille rubriche e ne porta avanti la metà".

Mesi fa avevo iniziato una rubrica dedicata ai classici del femminismo. La rubrica in questione consta di ben un solo post, su Una donna di Sibilla Aleramo. Dopo quella lettura, che già mi aveva messa alla prova perché è un libro straziante, ho pensato che studiando i classici non sarei potuta scappare a lungo dal loro capostipite. Il classico dei classici. Il Guerra e pace dei testi femministi. E se da una cosa non si può scappare, meglio farla subito. Quindi eccomi qua, quasi un anno dopo, stanca e riportante ferite di guerra, a parlare di quel mastodontico capolavoro imprescindibile che è Il secondo sesso, di Simone de Beauvoir.



Scritto nel 1949, il testo più famoso della filosofa francese ha preso la storia dei femminismi e l'ha rivoluzionata. Leggerlo una settantina di anni dopo è un'esperienza, come dire, interessante. Immaginare la mole di lavoro che sta dietro la stesura di un testo del genere fa girare la testa. Del resto SdB parla per le donne e per farlo ha parlato, letto e studiato, un sacco di noi. Il libro, per tutta la sua imponente mole, è pieno di brani, citazioni, esperienze, testimonianze. Le note sono parte integrante della lettura, un Infinite Jest dell'esistenzialismo. 


Ma come si legge, oggi, Il secondo sesso? Questo non è un testo "attivista", per stessa ammissione della sua autrice. Le quasi ottocento pagine che lo compongono sono un approfondito saggio di natura filosofica, che solo nella sua parte finale, quella delle conclusioni, propone azioni concrete. Per tutto il corpo del testo, però, troviamo la donna vivisezionata. Prima da un punto di vista biologico, poi spirituale, poi sociale, poi storico, poi artistico. Non un solo aspetto viene lasciato fuori, la ricerca fatta è a 360 gradi. L'esplorazione passa dalle bambine, alle adolescenti, alle giovani donne, all'anzianità. Tocca le donne sposate, le innamorate, le prostitute, le sole, le vedove, le lesbiche. Se mai ho visto un esempio completo di rappresentazione, signori, è in Simone de Beauvoir. 

Quello che fa è molto semplice: prende ogni singolo aspetto della vita di una donna e la mette al confronto con quella di un uomo. Emergono le inevitabili differenze, che ci sono e guai a negarle, ed emerge insieme ad essere la totale inadeguatezza delle differenze sociali. Nessun tipo di distinzione tra i generi giustifica la differenza delle vite, mai. E credetemi se vi dico che di esempi ne prende, e tanti. 


La lettura, fatta oggi, e quantomeno per me, è davvero impegnativa. Il primissimo motivo è che, e qui faccio un mea culpa, non tocco un testo filosofico dalla fine del liceo. Amavo tantissimo la materia ma per qualche motivo l'ho lasciata andare ed è un modo di affrontare il mondo e il pensiero a cui devo semplicemente riabituarmi. Per questo l'ho trovato a tratti impegnativo e ho dovuto forzarmi di andare avanti e resistere alla tentazione di abbandonarlo per riprenderlo in un momento più "favorevole". La seconda è che leggerlo da donna è una continua bastonata sui denti. Pagina, dopo pagina, dopo pagina, per ottocento benedette pagine, la narrazione di soprusi, violenze, sopraffazioni, calpestamenti, logora dentro come un veleno. Quello che la donna subisce (presente voluto) dal momento in cui nasce a quello in cui se ne va è una costante sberletta in faccia, e il libro ne ripercorre ogni aspetto. Non è certo un page turner, anzi. Ogni tanto serve una boccata d'aria di sollievo.


Se oggi ho il mio bloggettino in cui posso dire tutto quello che mi pare e piace e ho un lavoro e posso convivere senza essere sposata lo devo indubbiamente a tutte quelle che sono venute prima di me e ne sono grata, ma leggere un testo di 70 anni e vedere quanto i cambiamenti siano stati superficiali se vogliamo, è angosciante. Toglie il fiato. Il capitolo sull'aborto avrebbe potuto essere scritto ieri, è terrificante. 

Dopo una battaglia per arrivare alla fine, sono giunta alle conclusioni. In queste, e in generale nella parte finale del testo, SdB sostiene che le donne siano quello che sono per il modo in cui la società le ha formate, e che sia per questo compito della donna trascendere le limitazioni che le sono imposte. Sto ovviamente semplificando un concetto molto più ampio. Nel 2021 è chiaro che questa visione sia privilegiata (consapevolmente, de Beauvoir era socialista e conscia della sua posizione borghese e di potere) ed escludente, che a moltissime donne del mondo non è concesso di "prendersi i propri spazi" o imporsi. Il movimento di liberazione della donna non può passare solo attraverso la scelta, per quello che lo desiderano, di una relazione aperta o di un lavoro che renda autonome. Si tratta di un processo ben più ampio della nostra lussuosa sfera occidentale (dove abbiamo comunque tantissimo ancora da fare e spesso poche possibilità di farlo), e oggi per fortuna ne siamo più consapevoli.

Questo di certo non annulla il valore immenso del libro, che ha travalicato i decenni ed è arrivato a noi ancora spaventosamente attuale. Il femminismo moderno ha nei confronti di de Beauvoir un debito immenso, e dal libro questo è cristallino.


Quello che è altrettanto cristallino, però, è che Il secondo sesso non è una lettura che consiglio a cuor leggero, e che forse io stessa avrei dovuto affrontare preparandomi di più. È intenso, assorbe energie e pensieri, richiede una concentrazione e un'attenzione che io non sempre in questo periodo, e per tutti gli scorsi mesi, ho avuto. Mi sarebbe piaciuto studiarlo a scuola, leggerlo insieme a qualcuno che da più giovane mi accompagnasse attraverso le infinite cose che si imparano. 

Chissà che prima o poi non si arrivi anche a questo, nelle scuole italiane.

lunedì 1 febbraio 2021

Un weekend con Stephen King

10:44

 Per una cassiera essere in ferie significa tante cose, ma soprattutto significa poter passare tutto un weekend con la propria famiglia. Un weekend intero! Due giorni di fila! Sia sabato sia domenica! Un sogno, forse una favola.

E siccome durante la settimana non sempre riesco a vedere quanti film vorrei, approfitto del weekend per fare la cosa che amo di più: trasfigurarmi da umano a cuscino del divano mentre in tv passano film a rotazione. Se poi riesco a trovare un collegamento tra tutto quello che guarderò, meglio ancora. Il tema di questo weekend lo ha scelto Erre: film tratti da storie di Stephen King. Chi sono io per dire di no al Re. E quindi eccoci qua.




Poiché volersi bene è un concetto sopravvalutato, siamo partiti con Cujo.

Consueta parte di fatti miei: fino a qualche anno fa avevo una discreta paurella dei cani grandi. Poi un giorno sono entrata in un canile, un pastorone belga nero bello come il sole mi si è buttato addosso elemosinando coccole e io anziché scappare dall'altra parte del globo me lo sono portata a casa. Ho ancora un po' di ansia con i cani degli altri ma con il senno di poi ho capito che è dei padroni che non mi fido, non dei loro cani.

Se avessi visto Cujo prima, oggi al 100% non avrei Augusto con me, perché è la materializzazione del terrore che le persone possono avere dei cani. Cujo è un cane grande e grosso, che si becca la rabbia e diventa una massa irragionevole e spietata. In questo King, come sempre, è efficacissimo: conosce la paura, tutta quanta, e la sa portare in scena (tra le pagine e, quando siamo più fortunati, sullo schermo) come pochi altri e funziona sempre. Non funziona con tutti, chiaramente, perché il mio compagno che ama i cani da sempre non ha avuto paura per un secondo, ma funziona con chi la conosce, e questo è un sintomo chiarissimo di quanto lui conosca benissimo la sensazione e la sappia applicare in mille modi diversi. 

Il vero problema di Cujo, però, è che fa un gran male al cuore. Perché Cujo è un cagnone bravissimo e meraviglioso e gli succede una cosa brutta e diventa il cattivo ma non si riesce mai a smettere di provare pena per lui. Un essere umano con un minimo di cuore non la regge mica, sta visione. Il lento deteriorarsi dell'amato cagnone è un gran dolore e dio solo sa se King, prima ancora di essere il maestro del terrore, quando vuole sa essere quello dei sentimenti. Quella di Cujo è una storia triste e meravigliosa, con tutti gli elementi che ormai sono parte del canone del suo autore: uomini feccia (con l'eccezione del meraviglioso rapporto tra Vic e Tad), forze dell'ordine inutili se non dannose, donne che devono fare ricorso a risorse che nemmeno sapevano di avere, ritratti autentici dell'infanzia, gioco perfetto sulle paure delle persone, sentimenti messi in subbuglio. Il film gli rende giustizia in ogni aspetto, conosce bene il suo autore di partenza e lo omaggia degnamente.

Però che maledetto mal di cuore povero Cujo.

Ho dovuto coccolarmi Augustone per ore e ancora non l'ho mandata giù, la fine infelice di quel cagnone.


Eravamo emozionalmente compromessi a questo punto, non ce la sentivamo di affrontare altre cose dolorose. Abbiamo guardato Christine

Ci è dispiaciuto anche per la macchina? Ma certo, perché qua a posto mai.

Quella tra Carpenter e King non poteva che essere un unione felicissima. Anche Christine, come Cujo, affronta alcuni dei temi che per il Nostro sono sacri. In questo caso: genitori raccapriccianti, istituzioni assenti, bullismo, adolescenti, prime cotte. Sono il suo pane quotidiano, queste tematiche, e Carpenter le ha abbracciate con entusiasmo. Sebbene si possa considerare Christine un film minore tra quelli del suo regista, riesce ad essere entusiasmante, coinvolgente e soprattutto davvero inquietante. E, voglio dire, parla di una macchina. Eppure funziona,  persino con me che sono completamente indifferente all'argomento automobili. Mi sento particolarmente sensibile al tema del bullismo, è un tipo di violenza che fatico a guardare anche solo sullo schermo, e qua è bello presente, viscido e angosciante. I genitori del protagonista, Arnie, sono la materializzazione di un incubo, e la scrittura è tale da renderci non solo comprensibile, ma anche quasi ambito, il suo cambiamento. va beh, c'è quel piccolo dettaglio dell'ossessione per la macchina, e degli omicidi, ma è tutto talmente costruito bene che l'unione delle due cose è perfettamente fluida e coerente. La macchina non tira fuori il peggio, ad Arnie. Si arriva ad un lento degenero finale, ma per tutto il film quello che lui fa è solo prendere maggior consapevolezza, migliorare la sua autostima e aprirsi al mondo. Christine è, per lui, un toccasana. Poi uccide le persone, ma tutto sommato il fine giustifica i mezzi. (Scherzo, scherzo.)

Un finale che più kinghiano di così si muore, una storia appassionante e, come di consueto, un perfetto ritratto della giovinezza, Christine è una bella storia in mano ad uno dei Grandi. E quindi si finisce che sì, alla fine dispiace pure per una macchina.


La domenica volevamo riprenderci. Dopo gli scossoni del giorno prima c'era da rilassarsi. Scorriamo quindi il catalogo Prime, alla ricerca di qualcosa del Nostro che fosse disponibile e, potendo, leggera. Siamo finiti su quel pattume che è Cell

Ora, io lo sapevo che questo film era brutto, la sua fama lo precede e la community di Letterboxd è stata spietata con lui. Però cosa vuoi mai, agli zombie non so resistere. Sarebbe stata sufficiente la presenza di John Cusak a farmi capire che era roba brutta davvero, ma ci siamo intestarditi. 

Siccome questo è un po' meno popolare dei suoi predecessori, un accenno di trama: in un giorno qualunque tutte le persone che in un momento preciso erano al cellulare vengono colpite da un misterioso morbo che li rende molto simili ai ritornanti. I pochi che si sono salvati si uniscono per cercare di sopravvivere. 

Ora, io del libro ho ricordi molto vaghi, non mi ci metto nemmeno, a fare dei confronti. Però la bruttezza di questo film è pari solo alla sua lentezza. Noiosissimo, interpretato davvero con i piedi, senza scopo. Non potrei trovare una cosa positiva nemmeno a chiedergliela per piacere, i suoi personaggi sono facilmente sostituibili uno con l'altro e nessuno si accorgerebbe della differenza, non ci si è nemmeno sforzati troppo di fare zombie interessanti, la scrittura è pigra e inconsistente. 

Ad un certo punto, per non saper né leggere né scrivere, si è deciso di far sparare su gente che era già in fiamme. Così, per dare frizzantezza alla situazione già drammatica. Gli sceneggiatori de Gli occhi del cuore 2 avrebbero potuto fare di meglio. 

Se non si sono impegnati loro a fare qualcosa di almeno decoroso, non posso sforzarmi io di dire più di così. Cell è proprio una roba indegna.


Per riprenderci da questo scempio, quindi, c'era da vedere un classico. Il Carrie di De Palma è un inside joke tra me e il mio compagno da 9 anni, eppure lui ancora non lo aveva mai visto. C'era da rimediare. Io, oltretutto, non lo rivedevo da anni, era ora di rinfrescarlo. Carrie è un film portentoso, potentissimo e indimenticabile. Dopo tutto questo tempo, ancora lo ricordavo scena per scena, è incredibile. Se la storia è proprio la base della poetica del suo autore, il film lo eleva ancora di più se possibile, complici interpretazioni stratosferiche e una messa in scena che è entrata nel mito. 

Anche qua King (e De Palma di conseguenza) ci sferza certi colpi dritti dritti nello sterno che fanno perdere l'equilibrio (che frase da cinefilo dell'internet, vè?), con quelle che sono forse le peggiori scene di bullismo del cinema dell'orrore, con una rappresentazione così intensa della donna, e così onesta dei più deboli che ancora dopo 45 anni è autentica, dolorosa, attuale. 

Non li guardo spesso, i film che fanno quell'effetto qui, perché devo pur salvaguardare la mia già vacillante salute mentale, non posso infliggermi spesso colpi così, eppure, in qualche modo, quando lo faccio mi ricordo che ne vale sempre la pena e che il giorno in cui il cinema mi lascerà indifferente sarà il giorno in cui capirò che davvero qualcosa non va.


Credo che per qualche giorno ci concederemo cose leggere e tranquille, perché dopo un weekend così serve almeno una seduta di terapia pagata. 

Disclaimer

La cameretta non rappresenta testata giornalistica in quanto viene aggiornata senza nessuna periodicità. La padrona di casa non è responsabile di quanto pubblicato dai lettori nei commenti ma si impegna a cancellare tutti i commenti che verranno ritenuti offensivi o lesivi dell'immagine di terzi. (spam e commenti di natura razzista o omofoba) Tutte le immagini presenti nel blog provengono dal Web, sono quindi considerate pubblico dominio, ma se una o più delle immagini fossero legate a diritti d'autore, contattatemi e provvederò a rimuoverle, anche se sono molto carine.

Twitter

Facebook