lunedì 22 novembre 2021

La manutenzione dei sensi, quella dolce

20:58

 


Eccomi qua, dopo la bellezza di nove mesi – più o meno. A quanto pare, la costanza non è il mio forte, ma nel mezzo sono successe innumerevoli cose. Si è aperto e chiuso un altro lockdown, ho compiuto gli anni – rigorosamente chiusa in casa per il secondo anno di fila, alla riapertura ho fatto tante camminate faticosissime in montagna, ho scritto una tesi sulla mia dolce Natalia e sono riuscita anche a laurearmi in presenza, con emozioni e angosce connesse. Ho passato le mie ferie estive in un posto meraviglioso, una piacevole sorpresa e ho conosciuto persone che rimarranno nel mio cuore.


Ho fatto corsi di editoria, uno tutt’ora in corso, ho guardato tanti film – la maggior parte distrattamente – e tante serie tv. Ho vissuto il mio primo Salone Internazionale del libro e sono diventata una bambina che va per la prima volta a Disneyland. Ho letto tanti libri, gran parte dei quali collegati alla mia tesi. Di tutti gli altri, una piccola parte rimarrà ancorata e incollata nei miei pensieri. Alcuni sono stati troppo intimi per condividerli con qualcuno, e quindi li ho tenuti per me.


Erano mesi che preparavo qualcosa di scritto e, invece, ieri pomeriggio ho finito questa dolcezza, in un viaggio uggioso di ritorno da Pavia. Mi sono resa conto che ai libri ci si affeziona senza un vero e proprio motivo; a volte, ci sono delle virgole nascoste che rimangono latenti e che, quando chiudi un libro, alla fine, ti viaggiano per il cervello, ti scavano.


«A cosa stai pensando?», mi aveva chiesto, proprio quando il mio pensiero stava per essere archiviato nel cassetto della registrazione.
«Al fatto che mi piacerebbe abbracciarti». Ero stato sorpreso dalla mia sincerità. «Non lo faccio solo per non darti noia», avevo aggiunto cercando di ostentare indifferenza.
Lui non aveva risposto, rimanendo con le labbra serrate per un po’. Poi mi si era premuto contro, puntando la testa sotto la mia ascella e cominciando a dare piccoli colpi. Un pulcino che vuole uscire dall’uovo, vedere finalmente al di là delle membrane lattiginose che avvolgono l’interno del guscio. Finché era sbucato dall’altra parte, appoggiando la guancia contro il mio petto.
Lo avevo fissato.
«Mi sono abbracciato da solo», aveva detto con l’espressione buffa delle occasioni insolite.


Estrapolata dal contesto di queste 250 pagine, sembra uno scambio di battute da niente, quasi melenso, dolciastro, un po’ appiccicoso. Un’effusione un po’ fastidiosa. E invece no, perché questo abbraccio Leonardo lo aspetta da tanti anni, aspetta che venga spontaneo da un piccolo – ma ormai un po’ cresciuto – Martino, mio dolce omonimo, che non ama gli abbracci. Non ama il contatto fisico, le cose fuori posto, i rumori molto forti. Martino ha la sindrome di Asperger e Leonardo lo scopre solo dopo qualche tempo che Martino fa parte della sua famiglia. Un’appartenenza, in realtà, provvisoria perché è in affido temporaneo, intanto che i servizi sociali cercano una famiglia tutta per lui.


Correrò il rischio di sembrare estremamente ripetitiva, ma la dolcezza di questo romanzo è infinita. È in ogni personaggio, in ogni pendio delle montagne tra cui Martino diventa un uomo, in ogni descrizione e in ogni pensiero di un papà che diventa genitore per una seconda volta: per caso, distaccato per non rischiare di affezionarsi ma, infine, incredibilmente papà. È la dolcezza di un bambino che cresce con la consapevolezza di essere diverso dagli altri sulla carta e lo accetta, sentendosi comunque accomunato a ogni persona che lui e Leo ospitano nella loro appartata casa di montagna. È la dolcezza di un uomo di cinquant’anni che durante una notte insonne, in un letto diviso con il vuoto, decide di lasciare Milano per trasferirsi nella casa dei sogni della sua Chiara. È la dolcezza di Augusto, un padre, un montanaro, un nonno acquisito, un uomo dalle poche parole, con le mani rovinate dal lavoro, ma un’anima aperta a questo bambino, di cui non conosce niente, ma lo sente un po’ come lui. È la dolcezza di Leonardo, che spera che i servizi sociali abbiano dimenticato i documenti dell’affido temporaneo e che il tempo si sia dimenticato di scorrere e di far scoccare la lancetta nel diciottesimo compleanno di Martino. È la dolcezza di papà Leonardo, che si sente così lontano dalla comprensione di questo figlio non suo, che Augusto capisce così bene.

Io non lo so se ho le parole giuste per trasmettere la dolcezza, l’inadeguatezza, la sincerità e l’affetto che ho riversato e ritrovato in questo libro. Faggiani sì, e le ho lette tanto bene. 



Franco Faggiani, La manutenzione di sensi, Fazi, 2018

martedì 16 novembre 2021

Nuovi Incubi: Ils

12:00

 Dopo la scorsa puntata, in cui ci siamo rivoltate nel marciume dell'umanità, per questo terzo episodio di Nuovi Incubi abbiamo deciso di andarci leggere.

Siccome però è pur sempre di New French Extremity che parliamo, la leggerezza di questa settimana è gentilmente offerta da Loro sono là fuori, un home invasion franco - belga - romeno che cava letteralmente il fiato, parlando di due adorabili sposini che vengono sorpresi nella notte da qualcuno pronto a prendersi gioco di loro.


Se si va di ascoltarci parlare di francesi colonizzatori, ragazzini nell'età peggiore della vita e di quanto detestiamo il sistema capitalistico, lo potete fare qui.



venerdì 12 novembre 2021

Shook

14:35
Alla veneranda età di 31 anni ho capito che i cinemini dell'orrore mi piacciono praticamente tutti. Se sono bruttarelli mi accontento che mi regalino un po' di divertimento, se sono belli meglio ancora, se sono capolavori piango di gioia, ma indicativamente mi godo quasi ogni visione che faccio. È l'intero senso della neonata rubrica Avvocato d'ufficio su Twitch.
Ci sono solo due possibilità che fan sì che io scelga di sedermi, tirare fuori la mia tastierina rosa nuova fiammante e volutamente scriva un post negativo: il film mi deve avere presa per i fondelli o mi deve aver fatta incazzare.
Mettetevi comodi, Shook sta nella seconda categoria.




 In una città agitata dalla presenza di un assassino di cani, Mia, amatissima beauty guru, sceglie di aiutare la sorella e farle da dog sitter per un po'. La famiglia di Mia è stata colpita dalla malattia della madre, a cui la sorella Nicole ha fatto da care giver, e ora la ragazza sente di doversi sdebitare, perché per la malattia della madre è stata assente. Durante la prima notte a casa di Nicole, però, Mia comincia ad essere tormentata al telefono da qualcuno che ha intenzione di prendersi gioco di lei, e le vite dei suoi amici sono in pericolo.

Io la sto adorando la piega social che il cinema dell'orrore sta prendendo. Ho un debole per i film screenlife, che stanno dimostrando di sapersi giocare spesso molto bene la carta della tecnologia, e in ogni caso il cinema non poteva continuare oltre ad ignorare che il mondo della comunicazione è cambiato, che esistono nuove professioni, che i social hanno modificato l'aspetto del mondo. Non è certamente un cambiamento a cui sono ostile, anzi, mi sta divertendo molto vedere come questi nuovi mezzi sono ritratti al cinema. 
Ho adorato Slaxx, per esempio, che parla sì di jeans assassini ma anche di marketing (e influencer marketing), di novità che non devono trapelare sui social, di instagram stories, ho trovato molto carino Superhost, i cui protagonisti sono due travel blogger che recensiscono vari Airbnb, mi divertono molto anche i due ben più famosi Unfriended. Quindi, quando qualcosa mi piace e arriva un guastafeste a rovinarmela, io mi arrabbio.

Temo che il post sarà pieno di spoiler, ma non credo sia particolarmente rilevante in un caso come questo. Avviso per correttezza.

All'alba del 2022 sono un pochino stanca di alcune cose. 
Partiamo dalla cosa più seria. Sono secoli che ci dicono che dobbiamo essere curate, belle, sistemate, a postino. Secoli che quando usciamo struccate ci chiedono se siamo malate, secoli che ci dicono che se non ci depiliamo non siamo igieniche, che se non abbiamo i capelli a posto siamo disordinate. Ad un certo punto, alcune donne hanno capito che internet poteva essere un modo per monetizzarla, questa cosa qui. Sono nate le beauty guru, persone che in giro per il mondo consigliano proprio quelle cose che la società vuole che usiamo. Solo che le beauty guru suddette sono diventate potenti. Hanno iniziato a smuovere una quantità di denaro spaventosa, a spostare il mercato a loro piacimento. Andate a vedere persone come NikkieTutorials, Jeffree Star, Zoella. Smuovono i milioni. 
Eh, allora così no. Allora ecco che le donne che parlano di smalti e mascara e piastre per capelli sono frivole, superficiali, finte. 
Non sarà mica che vi rode il culo a vederci, ogni volta, riappropriarci di quello che pensavate di averci attribuito voi?
Ecco, vi chiederete cosa c'entra questo col film. C'entra perché per tutta la pellicola Mia è trattata come una povera scema. Una povera scema che pensa solo ai capelli (che non è una carriera di grande successo, no, è solo roba frivola) mentre la povera Nicole si sacrificava a casa con la mamma malata (e poi torniamo anche su questo). Lei e le sue amiche sono ritratte con lo snobismo di chi ancora si ostina a pensare "Ma trovatevi un lavoro vero". Parlano solo di followers, si invidiano, sono stupidelle.
Però quella rappresentazione qui ha stancato. Anche basta indignarsi per le chiareferragni sulle copertine dei giornali. Basta parlare di persone disposte a tutto pur di avere like, dai. Smettetela di fare i boomer, perdio.

Mia è una persona amatissima sul web, la più amata del suo gruppo di amici. La cosa naturalmente non poteva passare liscia, giusto? Perché non sia mai che facciamo un bel film sulla sorellanza, su amiche felici per il successo delle altre, no. Quindi ovviamente i suoi amici pensano di farle un bel prank che finisca sui social (ricordate? tutto per i like). Solo che qui arriviamo alla seconda parte che mi ha fatto incazzare. La persona al telefono ha in ostaggio gli amici propone a Mia un gioco: se rispondi correttamente a tre domande, loro sono salvi. Le domande riguardano nozioni di primo soccorso e informazioni personali sulla morte della madre. Domande a cui Mia non sapeva rispondere in modo pronto e immediato, perché della madre se ne è sempre occupata Nicole. E io questa moraletta del cazzo al cinema non la voglio vedere. Quello del caregiver è un ruolo serio, fondamentale, e il tema della malattia e dei familiari morenti è un argomento tragico e profondo, che tassativamente non posso tollerare di veder liquidato con "sorella che resta buona, sorella che se ne va cattiva". 
Questo concetto, mi perdonerete il LaRochellismo, anche molto italiano che se non ti sacrifichi per la famiglia ti meriti tutta una serie di brutte cose è così viscido, e superato, e disgustoso, che mi ha fatto imbufalire. Sei una brava ragazza solo se molli tutta la tua vita per restare vicino alla mamma malata, se no sei una stronza superficiale che pensa solo ai follower su instagram. Fare il caregiver è una cosa devastante, e ci sono persone che non hanno scelta. E se non hanno scelta è sempre, sempre, colpa di un welfare insufficiente e di uno stato assente e nessuno al mondo mi farà mai cambiare idea su questa cosa. Quando qualcuno però ce l'ha non è cattivo se sceglie di investire prima di tutto sulla propria vita. 
Quando ho sentito quali domande il telefonatore stesse facendo a Mia avrei voluto interrompere la visione. 
Poi non l'ho fatto, principalmente perché dovevo finire di stirare e mi serviva compagnia, e la fine mi ha fatto ancora di più girare le palle. Come era ovvio fin dall'inizio, sia il prank degli amici che l'attacco vero e proprio sono stati orchestrati da Nicole stessa, incazzata come un'aquila con la sorella di successo e frustrata per la propria vita. Ribadisco quanto detto sopra, perché di loro si parla sempre troppo poco: le persone che accudiscono i familiari malati gestiscono situazioni molto complesse, e questa narrazione è superficiale, deleteria, frustrante.

Mi fate un favore? Vi guardate Relic che parla dello stesso tema in maniera ben più elegante ed efficace? Sta su Prime. Grazie. 

sabato 6 novembre 2021

Ultima notte a Soho

17:20

 I post su un film singolo sono sempre più rari da queste parti. Capita più spesso che io vomiti le mie opinioni in qualche video su instagram, ultimamente. 

Eppure questo è l'ultimo Edgar Wright, e chiunque abbia mai letto anche solo un paio delle baggianate che scrivo qua su sa che la mia ossessione per lui è senza fine. In mezzo agli altri registi del mio cuore, che sono poetici e drammatici e dolorosi e mi spaccano il cuore ogni volta, Wright è la mia nota felice, il mio tocco di colore, la mia vivacità.

E poi ha fatto Ultima notte a Soho e io ho capito che allora devo proprio avere un debole per quelli che prima o poi finiscono per farmi un po' del male, anche quando sono i più frizzanti, creativi e colorati registi della loro generazione.




Ellie è una giovanissima aspirante stilista che viene accettata in un prestigioso istituto di moda a Londra. Parte dal suo piccolo villaggio in Cornovaglia, in cui viveva sola con la nonna a seguito del suicidio della madre, per iniziare a vivere il suo sogno. Ellie, però, ha anche il dono di vedere chi non c'è più e questo preoccupa la nonna, che teme che l'esperienza della grande città possa essere un po' troppo per la nipote, e che la conduca alle estreme conseguenze che l'hanno resa orfana. Dopo un inizio burrascoso, però, Ellie inizia una vita felice a Londra, fatta di nuove conoscenze, un monolocale come lo aveva sempre sognato e soprattutto le visite notturne di Sandy. Ellie inizia a vederla in sogno e a ripercorrere la sua vita nella Swinging London degli anni '60: locali, danze, uomini avvenenti, musica da sogno e soprattutto tanti sogni da realizzare. Peccato che per una donna, negli anni '60, in un mondo complesso come quello dell'intrattenimento, esaudire i propri sogni sia rischioso, e sia Ellie che Sandy lo impareranno a proprie spese.


Ellie ci viene presentata come una sorta di Pollyanna, troppo ingenua e "all'antica" per potersi davvero sentire a proprio agio in mezzo allo spumeggiante mondo di un istituto di moda. Le ragazze la snobbano, la città è tanta, troppa, e la nonna lo sente che la sua nipotina non se la passa proprio benissimo. E qui Wright mi poteva cadere nel primo tranello che invece schiva con la maestria di cui è capace. Ellie è una diversa, ha vestiti che le compagne 2 cool 4 school trovano imbarazzanti, ama cose che i suoi coetanei attribuiscono alle nonne, non conosce competizione, sembra una sprovveduta. E per qualcosa come 25 secondi cadono quasi le braccia, per questi ritratti così stereotipici della gioventù (disse lei, vestita da signor Burns che fa quello young con la maglietta col teschio). E invece Ellie non solo non è una sprovveduta, ma è anche una persona che dalla sua diversità è stata in grado di trarre enorme forza. Non appena esce dallo studentato così lontano da lei ed entra nel monolocale così affine alla vita che aveva sempre sognato, ricomincia a sorridere. Non appena la Londra degli anni '60, che lei ha sempre guardato con la nostalgia dolcissima che si ha verso qualcosa che non si è mai sperimentato, entra nella sua vita attraverso i suoi sogni, lei diventa più ispirata negli studi e nelle sue creazioni, si cerca un lavoro e pertanto si ritaglia il suo posto nella società. La piccola Pollyanna della Cornovaglia cambia colore di capelli e si sente un'altra, finisce a lavorare in un pub in mezzo a ubriaconi e uomini dalle mani lunghe, crea abiti magnifici e si addormenta la sera sorridendo. Diventa se stessa abbracciando quello che solo pochi giorni prima la faceva sentire inferiore, la metteva a disagio. Accogliendo se stessa, diventa più consapevole, più forte, più adulta. Fino al finale, di cui parleremo in zona spoiler, che è il perfetto coronamento di un percorso magnifico, in cui una ragazza diventa donna prima di tutto permettendosi di essere quello che desidera essere. Una storia che già così sarebbe eccezionale.


La storia, però, ovviamente, non si ferma qui, e Sandy entra in scena. Il contrasto tra le due è potente tanto quanto quello tra Mila Kunis e Natalie Portman ne Il cigno nero. Una dimessa, quieta, con un grande sogno ma ancora senza la grinta di realizzarlo e l'altra invece sicura di sé, del proprio carisma, della propria personalità, sicura che i sogni per lei siano ad un passo dall'essere realizzati. Thomasin McKenzie ha il faccino piccolo e pulito di chi viene troppo facilmente preso di mira dai bulli, Anya Taylor-Joy la più peculiare e affascinante faccia della Hollywood di oggi. Nello specifico, e so che è un'ovvietà ma voglio essere anche io a sottolinearla, in questo film Taylor-Joy è di una bravura fuori dalla norma. I suoi occhi, solo i suoi occhi, nelle due ore di film attraversano un gigantesco range di emozioni: determinazione, passione, sicurezza, innamoramento, frustrazione, dolore, rassegnazione, disperazione. Ha il viso irrigidito da quello che le accade ma con gli occhi spazia in modo infinito, e lo sguardo della scena finale è così forte da valere la visione intera.


Insomma, fino a ieri Wright ha parlato solo di uomini: cazzoni, brillanti, scemoni, teneri, falliti, maschi inglesi. Le donne dei suoi film sono sempre state marginali, spesso sono state o le compagne scassacazzi o la grande passione di un uomo disposto a tutto per la sua donna. Individui irrilevanti.

Questa volta ha deciso che voleva parlare di noi e quanto vorrei che lo avesse fatto prima. I ritratti di tutte le donne coinvolte sono profondi, intelligenti, mai banali. Parlano di una e di tutte, universalizzando l'esperienza femminile in un mondo che ancora non è pronto a darci lo spazio che invece noi siamo da sempre pronte a prenderci. La storia di Sandy è la storia di una donna che ha tutte le carte in regola per farcela: è bellissima, ha carisma, ha tanto talento. Quello che le manca è lo spazio, e per quello deve affidarsi ad un maschio, Jack (persino il nome è banale, perché è uno, ed è tutti loro. Un Jack qualsiasi). E quando di un maschio hai bisogno, non finisce mai bene. Ne diventi la bambola, la marionetta, la pedina. Non è certo un caso che nel suo primo spettacolo Sandy sia proprio questo: una di quelle bambole con il grosso ingranaggio sulla schiena. È già nelle sue mani. 

(Dettaglio assolutamente superficiale, ma che devo dire: io Matt Smith lo amo da quando gridava "Geronimo!" con un fez sulla testa, ma bello quanto in questo film credo di non averlo visto mai. Ha il viso particolarissimo ed ambiguo che lo rende la sola scelta possibile credo per questo personaggio. Così come perfetto il suo Charles in The Crown. Questi ruoli controversi gli riescono che è una meraviglia e i suoi lineamenti anomali giocano sempre a suo favore.)


Prima di inoltrarmi in zona spoiler, una breve conclusione per chi non può ancora proseguire nella lettura: Ultima notte a Soho non è solo la conferma che Edgar Wright sia una delle voci più brillanti della sua generazione. È un film potentissimo, in cui la sua cifra stilistica è ovviamente ben evidenziata (e d'altronde oggi quell'estetica qui ce l'ha solo lui) ma che stavolta è applicata in un film che pur avendo i suoi momenti si allontana dal grassissimo divertimento che da lui ci aspettiamo. Questo è un film doloroso, in cui le parole delle donne sono messe in discussione, le loro esperienze zittite, ma che in qualche modo traggono dalla loro esperienza tutto quello che serve loro per diventare più potenti, più sicure. Una storia che parla di come si fa a diventare quello che vogliamo essere, di come spesso non sia possibile, con una messa in scena che ci fa solo sognare tutto quello che Wright ci potrà dare in futuro. È un film dalla bellezza sfolgorante, che rappresenta l'ennesimo passo in avanti di un tizio che francamente le cose splendide le fa da sempre. I film di Edgar Wright sono le opere di un genio. Un genio che gioca con le immagini, che le sfrutta come pedine per rendere non solo i suoi lavori esteticamente superiori a quasi tutto il resto, ma anche per rendere la visione un'esperienza unica.

Per amore del cielo, e per amore del cinema, Edgar Wright andatelo a vedere in sala. Se ne esce ubriachi, dell'ubriacatura più bella possibile.


Ma adesso parliamo anche della fine del film, che è stata così criticata a Venezia e che è invece così importante. Da questo momento, naturalmente, l'allerta spoiler è massima.


In una scena tra le più potenti che ho visto al cinema di recente Ellie assiste all'omicidio di Sandy, ormai costretta da Jack a prostituirsi, proprio per mano del suo sfruttatore. Sul finale, però, in un cambio di rotta straordinariamente ben giostrato, scopriamo che Ellie non ha visto quello che è realmente accaduto, ma che anzi è stata Sandy ad uccidere Jack. Non solo, però: Sandy col tempo è diventata una serial killer, che ha ucciso tutti i ripugnanti uomini che le usavano violenza.

Sì, perché il sex work è lavoro e da queste parti rispettiamo le sex worker. Quelle volontarie, però. Quelle costrette, per abusi di potere, bisogni economici, vigliaccheria, soprusi, relazioni violente, sono vittime. E Sandy, per un po', vittima lo è stata. Seduta sul divanetto del locale a fingere di dover conquistare uomini che già ben sapevano di poter disporre di lei come credevano, che inscenavano una farsa di flirt per sentirsi meno viscidi, per convincersi che lei, in fondo, lo voleva. Fino a che ha deciso che era il momento di smetterla, e tutti quegli uomini che avevano abusato di lei sono diventati i fantasmi senza volto che abitavano gli incubi e le giornate di Ellie. La scelta di privare questi uomini della propria identità è perfetta. Sandy è stata privata della propria molto tempo prima. Non solo non era più la persona piena di vita e ambizione che era sempre stata, ma era diventata la marionetta nelle mani di qualcun altro. Poteva presentarsi con ogni nome, perché la sua identità era irrilevante. Poteva essere Alex, Alexia, Lexi. Non sarebbe mai stata lei. E per loro, per gli uomini sul divanetto intenti ad offrirle un drink, non aveva nessuna importanza. E lei li ha ripagati con la stessa moneta, annullandoli. Perché quegli uomini lì, quelli bianchi, pieni di soldi, sicurezza e potere, sono tutti la stessa cosa, ed Edgar Wright ha dimostrato di saperlo molto bene. Sono tanti, ma sono sempre lo stesso. E Sandy li ha uccisi tutti. Riprendendosi il suo nome, la sua autonomia, la sua vita. I suoi sogni non si sono realizzati, no, ma con ogni probabilità non si sarebbero realizzati mai, non senza un atroce prezzo da pagare. Sandy, Alexandra, è tornata libera, e chissà quante altre come lei sono state liberate dai suoi omicidi. Almeno nei suoi locali, tra le sue colleghe, nella Londra degli anni '60. Le altre, di Sandy, ci stanno ancora combattendo, contro i loro Jack, ma lei, almeno sullo schermo li ha ammazzati tutti, in un tripudio di sangue, rivendicazione, liberazione, catarsi. E quando, nell'ultimissima scena, Ellie  e Sandy si guardano di nuovo, lo sguardo non è più disperato, non è rassegnato: è potente. 

È potente Sandy, che è morta libera, ed è potente Ellie che libera ci vive. Libera da chi la vorrebbe diversa, libera dal sospetto di essere matta, libera dalla paura. 


Ultima notte a Soho è magnifico, ma in fondo che ve lo dico a fare.

Lo sapevamo già.

giovedì 4 novembre 2021

Le live di ottobre

17:40

 Questo mese è stato un po' un casino, lo ammetto. Non ho più proseguito con i post del mio compleanno perché, banalmente, sono riuscita a vedere meno film di quanti avrei voluto, sono a malapena stata appresso alla Vita Vera© e mi sono pure presa un'influenzona di quelle che ti vanno desiderare di anticipare la morte.


Una cosa, però, è proseguita sempre liscia come l'olio: le live su Twitch.

Questo mese ho fatto un passo che credevo non avrei fatto mai e mi sono anche lanciata nella mia prima live in solitaria, inaugurando una rubrica nuova che mi auguro non faccia la fine delle mille rubriche che inizio qui sul blog e poi pianto a marcire. Si chiama Avvocato d'ufficio ed è la serie di live con cui proprio metto una pietra sopra alle mie possibilità di sFoNdArE nell'internet, perché difendo a spada tratta alcuni film che la critica e il grande pubblico hanno distrutto.

In più, ovviamente, continuano le live migliori, ovvero quelle in cui alcune gentili persone del cineblogging italiano vengono a trovarmi per chiacchierare insieme di cinemini molto più amati.


Questo è quello che abbiamo combinato nel mese più bello dell'anno.


Il giro di vite con Horror Arte&Cultura



Us con Federica - The Stories



Shining con Arwen Lynch



Avvocato d'ufficio: Il libro segreto delle streghe



Pet Sematary con Erica



Come in ogni occasione vi ricordo che l'invito è esteso a tutti quelli che passano di qua, se aveste piacere a parlare con me di un film a vostra scelta la porta della Redrumia è sempre aperta!


Questa settimana sarò live stasera (giovedì) alle 21.30 per parlare delle due Notti dei Morti Viventi, mentre domani in solitaria sarò live alle 14.00 per difendere Incubo Finale - So cosa hai fatto 2.


Quando diventerò una persona brava e organizzata poi mi ricorderò di pubblicare anche qui sul blog la programmazione, che cambia ogni settimana perché sono una turnista e la mia vita è fatta di irregolarità, incidenti e contraddizioni. 


Grazie di nuovo agli ospiti di questo mese, è come sempre bellissimo parlare di cinemello insieme a voi.

mercoledì 3 novembre 2021

Il mio saluto a Brooklyn99

08:57

 Dico costantemente che non mi piace ridere poi finisce che tutti i post sulle serie tv sono sulle comedy. Portate pazienza con me, mi contraddico costantemente.

Il punto è che è finito Brooklyn99 e devo parlarne per restare ancora un po' in compagnia di personaggi che ho tanto amato.


foto scelta solo per la presenza di Cheddar


Il 99 è un distretto di polizia di New York. La serie cominciava con l'arrivo del nuovo capitano, Raymond Holt, un uomo coltissimo ma, per così dire, più algido di Nicole Kidman ai suoi tempi d'oro. Tutta la variegata squadra ha dovuto adattarsi a questo nuovo leader e nel corso di 8 stagioni li abbiamo visti diventare non solo colleghi, non solo amici, ma famiglia, la classica delle storie di "famiglia per scelta" che tanto mi piacciono.

Sì, è una serie sulle guardie, e sì, è una serie sulle guardie che a me piace. È incredibile, ma è così, voglio così tanto bene a questi sbirri che ogni tanto mi dimentico di che lavoro facciano. 


Questa povera serie è stata cancellata, poi recuperata, poi cancellata di nuovo. Ogni anno con il 99 poteva essere l'ultimo e ce lo siamo goduto come tale. Solo che poi l'ultimo anno è arrivato davvero e adesso col cavolo che sono pronta. Non posso concepire gli anni a venire senza nuovi momenti di Jake Peralta, il mio uomo preferito di ogni serie tv di ogni tempo, e temo mi ritroverò a riguardarlo più spesso di quanto non sia pronta ad ammettere. 

In questa ultima stagione si fanno inevitabilmente le cose che ci aspettavamo: non mancano gli episodi ricorrenti come quello dell'Heist, quello di Doug Judy, quello con la famiglia Boyle...ritornano personaggi del passato per farci un saluto, come naturalmente Gina Linetti (non mi stancherò maimaimai di dirlo, questa scoppiata di Chelsea Peretti è la moglie di Jordan Peele, che ridere!) e Adrian Pimento, e come al solito si cerca di tenere uno sguardo aperto sull'attualità. E qui, temo, arriviamo alla parte problematica, che vorrei TANTISSIMO non ci fosse.


Qualche stagione fa si era fatto un episodio molto carino sulla violenza sulle donne, che toccava diversi punti fondamentali pur restando nel terreno della comedy. Si ricordava che quello delle forze dell'ordine è un ambiente di lavoro strettamente maschile e pertanto spesso tossico, si ricordava che in un numero imbarazzante di situazioni denunciare per la vittima potrebbe essere la vera sconfitta, che gli uomini potenti spesso ne escono intoccati, e che anche gli uomini migliori (sì, come Peralta) sono ciechi di fronte alla sistematicità della misoginia. Finiva in modo un pochino paraculetto, ma era un bell'episodio.

Nella stagione 8 si cerca di guardare ancora al mondo reale, e stavolta il punto del discorso, che ormai la serie non poteva continuare ad ignorare, è stato il fatto che un giorno sì e l'altro pure una persona nera negli Stati Uniti muore per mano della polizia. Trovo che però questo sia stato trattato in modo blando, superficiale, un contentino dato alla società per dimostrare che comunque non si è nascosta la testa sotto la sabbia. Mi dispiace, non mi basta. Nella serie ci sono quattro persone non bianche: il capitano Holt e il sergente Jeffords che sono afroamericani, e Rosa Diaz e Amy Santiago che sono latine. La scelta che fa la serie, e lo riporto perché non è spoiler, è di mettere la situazione in mano a Rosa, che sceglie di dimettersi dal lavoro dei suoi sogni perché non può continuare a far parte di un corpo che uccide le persone che le somigliano (cit quasi letterale). Bene, giusto. Rosa però finisce a fare una cosa: decide di mettersi in proprio, lavorando proprio a difesa di quelle persone che della violenza della polizia ne sono vittime. Il problema è che questa storyline si vede in un episodio e basta. No raga serve altro. (Anche riguardo alla violenza sulle donne serve ben altro, sia chiaro, ma almeno quello era un bell'episodio). Si vedono accenni al fatto che la polizia copra i suoi colpevoli, che i superiori siano consapevoli del problema ma poco disposti a rivoluzionarlo, però la faccenda muore lì. E non può essere una ragione contrattuale di Stephanie Beatriz, che ritorna per tutta la stagione pur non lavorando più al 99. Peccato cavolo, con un bel cast multietnico e diverse tematiche sociali spesso affrontate si poteva fare di più.

Il 99 è una serie che ha spesso parlato delle difficoltà che Holt ha dovuto sopportare per costruirsi la sua carriera, in quanto primo uomo nero gay del suo distretto, o del coming out di Rosa. Ogni personaggio incontra nella sua storia un qualche tipo di difficoltà dovuto al suo non essere inserito in una sorta di "casella della normalità". Solo che in questa circostanza avrei voluto più partecipazioni di tutti. Un vero, vero peccato. e l'occasione sprecata di lasciar parola ad attori anche molto amati come Terry Crews che sono poc e che avrebbero potuto davvero fare qualcosa di significativo.


Per quanto riguarda il resto, è una stagione davvero deliziosa. Salutiamo personaggi tanto amati dando a ciascuno di loro un degno proseguimento, che non è una chiusura ma solo l'apertura di infinite nuove possibilità, che non si limitano alla loro vita professionale ma che includono una crescita personale, una rimessa in discussione delle priorità, un nuovo approccio alla vita.

Boyle scopre cose nuove di sé, ma soprattutto scopre di non dover dipendere da Jake pur continuando ad amarlo della più bizzarra e genuina forma di amore fraterno. Holt scopre l'equilibrio e ci dimostra come la vicinanza a persone che ci mettano a nostro agio ci ammorbidisca sempre, anche se siamo mastodontici pezzi di marmo. Amy scopre che le famiglie hanno tutte immagini e ruoli differenti, e Jake scopre che le priorità della vita cambiano crescendo, e che lasciare andare quelle vecchie non è un male. Ci si saluta con la consapevolezza che tutti ci si stia muovendo per il meglio. 


È soprattutto il finale di Jake quello che mi ha commossa. Per stagioni intere lo abbiamo visto come un bambinone, e questo non era solo un aspetto negativo. Il suo restare così "giovane dentro" gli ha permesso di non sporcarsi mai con quella mascolinità tossica che così tanto permea un lavoro come quello del detective. Jake per 8 stagioni ha pianto, ha ammesso i suoi sbagli, ha fatto figuracce e poi è tornato sui suoi passi, è stato sgridato, rimesso al suo posto, ridimensionato. Non si è mai nascosto dietro a giustificazioni, però, non ha mai incolpato altri, non ha mai sminuito i suoi errori. Ha parlato con candore dei suoi traumi, delle sue mancanze, delle assenza della sua vita. Si è innamorato di una donna molto più colta di lui, più brillante, con infinite più possibilità di carriera, e la loro relazione è ritratta come una storia sana, pulita, di genuino supporto. Non è mai in soggezione rispetto ad Amy ma anzi, più lei è forte e sicura di sé più lui la guarda con ammirazione. Amy, dal canto suo, non lo prende in giro, se non molto bonariamente, per tutti i passi che deve ancora fare ma anzi festeggia con lui ogni piccola vittoria. Sono una delle coppie più belle ritratte sul piccolo schermo perché non necessitano dei gesti estremi a cui il mondo della finzione ci ha abituato. Sono una coppia normale, e funzionano. Ma soprattutto lui è Andy Samberg, e si ama a prescindere.


Mi mancheranno molto le genuine risate che mi ha fatto fare il 99. Quando guardavo The Office lo sapevo che qualcosa non quadrava, che alcune cose non avrebbero fatto bene a qualcuno, che scegliere di mettere in scena un personaggio come Micheal Scott è difficile ed è ad un passo minuscolo dal disastro, proprio perché è disastroso lui. È un equilibrio complesso. Il 99 no. È una serie più semplice se vogliamo, di quel colosso che sta nella Dunder Mifflin, ma è più pulita. Fa fare risate così di cuore che te le porti dentro, in mano a personaggi che sono così deliziosamente sopra le righe che non possono fare altro che prendersi il tuo cuore e tenerlo con sé un pochino. 

Il mio di sicuro.

martedì 2 novembre 2021

Nuovi Incubi ep. 02: Calvaire

12:31

 Noi a questo podcast ci teniamo, siamo già affezionate. 

Quando vuoi bene a qualcuno, quindi, tendi a sacrificarti per lui, per il suo bene. Per Nuovi Incubi ci siamo sacrificate e ci siamo sottoposte di nuovo alla visione di un film che richiede, diciamo, un po' di impegno: Calvaire, del 2004, opera prima di Fabrice du Welz.





Di come e quanto la faccenda ci abbia fatto penare (e penSare) ne abbiamo parlato approfonditamente nell'episodio 2, che potete ascoltare qui o cliccando sulla nostra bellissima manina zombie qui a destra.


Buon ascolto!



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