lunedì 2 maggio 2022

Gli anni '30: Boris Karloff

10:39

 Nell'ultimo post dedicato a Universal e al suo impatto sul mondo intero, non potevo che dedicarmi al signore che ha preso residenza fissa nei miei incubi: William Henry Pratt, in arte Boris Sua Signoria Karloff.

La carriera di Karloff è ben più ampia del suo solo percorso in Universal, ma siccome la Storia del cinema dell'orrore non può farsi senza un omaggio a Lui, ho pensato che questa fosse una buona fase per farlo.


bello come il sole lui


William nasce verso la fine del 1887, in Gran Bretagna. La prima parte della sua vita è caratterizzata dall'essere un diverso. I suoi genitori hanno entrambi origini o discendenze indiane, e hanno passato parte della loro vita a Bombay. Questo ha donato al Nostro una pelle più scura dei suoi connazionali e lineamenti impossibili da ignorare. Le foto della sua infanzia che si trovano online lo rendono evidente: non c'è mai bisogno di cercare quale dei giovani ritratti sarebbe diventato Boris Karloff, ce l'ha sempre avuto scritto in faccia, letteralmente. Era comodo avere la pelle scura nei primi del '900? Non lo è oggi, figuriamoci. Ha subito bullismo e discriminazione fuori dalle mura di casa, per poi rientrare e trovare il peggio: il padre era un violento. La madre si separa, ma la situazione la conduce ad una depressione che le rende complesso crescere il più piccolo dei suoi 7 figli, William. Per tutta la sua carriera, poi, Karloff finirà per dire che i suoi genitori erano morti da tempo: è più facile e meno doloroso così, che spiegare ogni volta le difficoltà dell'essere piccoli in un contesto grande e spaventoso.
Mentre i suoi fratelli seguono una rispettabile carriera diplomatica, il piccolo di casa scopre il teatro e si mette in testa che vuole fare l'attore. Sti sogni di ragazzetti, oh. Finisce oltreoceano, e dopo qualche lavoretto manuale per mantenersi comincia una carriera in teatro, e la comincia con una bugia: scopre che c'è un tale, a Seattle, un agente. Lo contatta, gli fa sapere di essere stato parte, in Inghilterra,di tutti gli spettacoli che ha visto solo da spettatore, in quella gloriosa epoca pre-Linkedin in cui ci si poteva anche prendere un po' di libertà creativa nel raccontare l'esperienza lavorativa. Inizia così la sua carriera, presso la Jean Russell Company. Lui spicca fin dalle prime review. 
In fondo di mentire ne è valsa la pena.
Il passaggio dal teatro al cinema è quasi immediato. Comincia con piccole parti in quei film "program filler", dallo scarso valore ma ottimi come trampolino di lancio.
È in questa fase che la leggenda colloca un episodio degno di un racconto romantico: Karloff è fermo alla fermata del bus, e piove che dio la manda. Passa un certo tizio, tale Lon Chaney Sr, che si mette una mano sul cuore e gli dà un passaggio. In auto chiacchierano di cinema (ah, il sogno di poter essere una mosca e assistere a queste chiacchierate...!) e Karloff ovviamente chiede consigli, è col più grande di tutti, cosa fai, non ne approfitti?
Per farla breve, Chaney gli dice di fare qualcosa di nuovo, qualcosa che nessun altro aveva intenzione di fare, di trovare un ruolo diverso e di farlo bene. Sembra che sia stato preso in parola.
Il suo momento di svolta arriva quando un tale, forse lo avrete sentito nominare, Howard Hawks, gli dà un ruolo che Karloff aveva interpretato a teatro: è il 1931 e il film è The Criminal Code. L'arrivo in casa Universal dopo questo ruolo è quasi immediato e qui Karloff diventa il nuovo volto del mostro. Quello che Universal aveva provato a fare con Lugosi, fallendo, riesce invece benissimo con lui: l'erede di Lon Chaney è arrivato, ed è destinato a grandi cose. 
Gli anni '30 sono una fase gloriosa, e non poteva che essere così, perché il suo esordio con Universal è rivoluzionario. La sua Creatura, il suo Mostro di Frankenstein, è ciò che rende il film indimenticabile. Il suo Mostro non è altro che un bambino, lontano dal modo di agire e pensare di un mondo di adulti. Lui si muove traballante per il mondo, incerto sulle lunghe gambe, gesticola e comunica con il corpo, con gli occhi smarriti, con le mani agitate. E anche se oggi lo sappiamo, che i film di Whale hanno un cuore immenso e una potenza emotiva senza precedenti, all'epoca ha fatto una paura della madonna, per usare un linguaggio tecnico.
Oggi la mostruosità spaventosa di Karloff è molto più evidente, secondo me, nel sempre troppo chiacchierato La Mummia. Naturalmente è un classico tanto quanto gli altri, ma è un pochino coperto dall'ombra gigante dei suoi predecessori, quando invece è un lavoro esorbitante, in cui forse Karloff ci regala uno dei suoi momenti più alti. Il suo Imhotep fa, ancora nel 2022, paura vera. Si muove solo con lo sguardo, è magnetico e spaventoso al tempo stesso. Un fascino così non lo ha mai sfoderato prima, non gli si toglie gli occhi di dosso. 
Mi scuserete, se oggi il mio metro di giudizio con gli attori è alterato: le basi le ha poste Boris Karloff, e toccare quei picchi qui è difficile.
I suoi anni '30 sono segnati da un successo dopo l'altro, e non solo in casa Universal. All'epoca le ha fatte passare quasi tutte: con MGM, per esempio, ha fatto La maschera di Fu Manchu, che era già razzista all'epoca e che oggi giustamente lanceremmo dalle finestre, ma che è ricordato tra le sue interpretazioni migliori. 
È negli anni '40 che comincia ad annoiarsi: il ruolo del villain alla lunga gli sta un po' stretto, ha voglia di darsi ad altro. Approfitta del periodo della guerra, che per il cinema è complesso, per tornare all'amato teatro, con un'occasione ghiottissima. Nasce il grosso fenomeno Arsenico e vecchi merletti, una delle commedie teatrali più famose di sempre. Non che Karloff ci si sia lanciato senza pensieri: non faceva teatro da anni ormai, e non era mai stato a Broadway. Il successo fu tanto e tale che Warner si comprò i diritti per farne un film prima ancora che finisse la stagione teatrale. Nel film Boris non c'è: resterà per tutta la carriera un grande rimpianto.
Sempre nel decennio della guerra si affaccia nel mondo del cinema dell'orrore un altro signore di cui avremo modo di parlare nei prossimi mesi: Val Lewton. Questo signore con Boris Karloff non ci voleva lavorare: voleva un horror più sottile, elegante. Karloff lo ha guardato con quel sorrisino tenero e deve avergli detto qualcosa tipo "Se ti fai un attimo da parte ti faccio vedere come lavorano quelli bravi". I due collaborano per RKO (anche di lei parliamo poi, già nel prossimo post) con tre titoli che sono stati fondamentali: Manicomio (1946), La jena (1945) e Il vampiro dell'isola (sempre nel '45). Karloff ricorda con grande affetto questa fase, seppur non economicamente soddisfacente. Per lui è stato un periodo di grande formazione, di crescita lavorativa enorme. 
I soldi veri, per Karloff, non arrivano che negli anni '50. Negli anni '30 c'era tutto il problema degli attori giovani e sfruttati (ve lo ricordate Lugosi comunista e incazzato? Karloff stava bello nero pure lui, si è sempre esposto per le condizioni dei lavoratori pur nella sua stessa condizione di precariato.), sottopagati sempre. Negli anni '40 la guerra e tutte le conseguenze del caso. Negli anni '50, però, Karloff risorge come la divinità che è sempre stato. Un'aging horror icon che finalmente si porta a casa il grano vero. 
Continua a lavorare nel cinema dell'orrore praticamente per tutta la sua carriera, ma con il tempo ha ampliato le sue prospettive: ha lavorato in tv, avuto programmi tutti suoi in radio, partecipato ad antologie e raccolte. Era il volto del mondo intero dell'orrore, al punto che sinceramente è stato un errore paragonarlo a Chaney, che seppur fenomenale ha avuto un impatto diverso. Il nome di Boris Karloff ha travalicato i generi e i media, ha preso possesso del mondo tutto dell'intrattenimento. 
È stato il migliore dei villain e la più buona delle voci dei racconti per bambini, il più sinistro dei volti col più gentile dei sorrisi. 
Nel corso dei decenni di persone che hanno riempito schermi e cuori ne vedremo parecchie, perché ci piace avere una nostro Olimpo fatto di uomini spesso molto alti con le facce bizzarre, di persone che hanno vestito il ruolo del mostro per tutta la vita e ne hanno fatto una missione, ma mi sbilancio nel dire che nessuna, per ora, è mai più stata Boris Karloff. 
Quando parla di lui, Guillermo del Toro lo chiama il suo messia.
Se non fosse già ormai fin troppo chiaro, qua dentro quello che dice del Toro è legge: Karloff è il messia. 
Sia sempre lodato.



Le fonti di questo post:

Il sito ufficiale

Boris Karloff: The Man Behind The Monster


martedì 26 aprile 2022

Preferiti di aprile

17:10
Siamo tutti d'accordo che aprile è un mese inutile e sconfortante?
Non fa ancora caldo vero, piove sempre, siamo stanchi morti come se avessero picchiato dei bulletti, le persone con lavori normali fanno i ponti e noi cassieri siamo seduti a guardarli comprarsi il pane e i salami per la partenza.
La cosa bella delle cose brutte, però, è che finiscono, e noi possiamo finalmente iniziare a respirare l'inizio della sola stagione in cui si può essere davvero felici: l'estate.

Mi sono però consolata con un sacco di cose carine, parliamone insieme.





Podcast

In questo mese non ho fatto scoperte particolarmente degne di nota, con la sola eccezione di Bear Brook, uno dei podcast true crime più famosi del mondo a cui io ovviamente sono arrivata in ritardo, come mio solito. Racconta dei Bear Brook Murders, rimasti irrisolti per decenni poiché non si era in grado di identificare i corpi delle vittime. Il podcast è un lavoro assolutamente brillante non solo nella ricostruzione, ma anche nel raccontare le tecniche utilizzate per poter arrivare ad una risoluzione del caso, innovative e che si sono rivelate fondamentali per la risoluzione di casi successivi. Allo stesso tempo, è un racconto molto forte su cosa siano le relazioni tossiche, sul modo in cui alcuni uomini bruciano la rete sociale delle donne con cui stanno e le rendono, letteralmente, invisibili.
Molto commovente.


Libri

Il mio libro del mese è stato indiscutibilmente Civitas Dei, di Vincenzo Disalvio. Ne ho parlato un po' su Instagram, e adesso che l'ho finito è giunto il momento di parlarne con un po' più di calma. Parla di Alberto, un giornalista romano che decide di indagare sulla scomparsa di un sacerdote dal piccolo borgo di Civita, in Puglia. Sul luogo lo ospita Barbara, medico del paesello. Io davvero preferirei non dire più di così sulla trama, vi basti sapere che essendo un romanzo dell'orrore non è che Alberto arriva e trova la serenità, ecco, non lo definirei il suo viaggio mangia, prega, ama. 
È un romanzo che ho amato molto. È ambientato nel profondo Sud, negli anni 50 (ma se ricordo male il decennio l'autore mi correggerà). È un testo dalla mole importante (siamo intorno alle 600 pagine) e per tutto il tempo si respira la terra di cui parla. La vicenda in sé, ovvero quanto accade a Barbara e Alberto dal momento in cui si conoscono, è davvero interessante, si arriva alla convincente conclusione con un ritmo che ho trovato perfetto e che non risente mai della sua lunghezza. Richiama tante delle storie dell'orrore che conosciamo e amiamo senza mai profumare di derivativo, ai personaggi si vuole del bene vero. 
Non sono queste, però, le cose che ho amato di più. Io ho amato tanto Civita. Il modo di Vincenzo di raccontare la piccola comunità rurale italiana, con le sue credenze popolari, con le persone che parlano l'una dell'altra e che si conoscono da generazioni, con le sue piccole abitudini familiari, con tutti i personaggi che nel corso del testo si impara a conoscere come quei vicini di casa della vita vera a cui somigliano tanto. È un ritratto così autentico e genuino della piccola vita di paese, che riconosco così bene perché è la mia, che a tratti mi ha commosso. È perfetto, quindi, che la componente dell'orrore del romanzo sia così intrinsecamente legata alle piccole realtà di vita umile, fatte di superstizioni e passaparola e legami tra le persone. Si bisticcia, a Civita, si gioca a carte dopo una giornata nei campi, ci si prende a cinghiate, ci si prende in giro, si accorre tutti ad aiutare la giovane donna che sta per partorire. E sotto sotto, nel vivo formicaio che sono le piccole comunità, sta a sobbollire l'orrore, quello che nasce dal dolore e dalla disperazione.
Io l'ho trovato ottimo. Ormai l'ho finito da settimane, ma con la testa sto ancora là, con Alberto e Barbara e tutti gli altri. 


Videogiochi

Non smetterò mai di ringraziare la mia amica Giulia per avermi convinto a giocare a Martha is Dead.
Se vi va, andate sul mio canale Youtube e guardatevi le live in cui lo abbiamo giocato, ma non fatelo per me, fatelo per il gioco.
È un gioco indie italiano, ambientato nella campagna toscana durante la Seconda Guerra Mondiale. Se le parole "Seconda Guerra Mondiale" fanno roteare gli occhi anche a voi come a me: resistete. La storia è quella di Giulia, figlia di un generale tedesco che si è rifugiato in Italia con la famiglia perché le cose, in Germania, si stanno mettendo male. Un mattino Giulia si avvicina al lago che sta vicino alla loro abitazione, e trova Martha, la sua gemella, affogata. Decide quindi di prendere la sua identità, per provare l'ebbrezza di essere la figlia preferita dalla mamma.
Nel gioco dovrete scoprire cosa è accaduto a Martha. Io non ho alcuna esperienza nel mondo del gaming, credo di sia vagamente intuito, ma questa è oltre ogni dubbio la cosa più bella a cui io abbia mai giocato. Per storia, modalità di gioco, grafica. È tutto magnifico. Dovrete scattare e sviluppare fotografie con una deliziosa riproduzione degli attrezzi dell'epoca, e ricostruire cosa è successo a voi e cosa vi sta accadendo intorno, esplorando la casa e i suoi dintorni, telefonando a conoscenze, cercando indizi per casa, scavando nei vostri ricordi. 
La riproduzione della casa dei genitori delle gemelle è qualcosa di eccellente. Se venite dalla campagna, chiudete gli occhi e ripensate alle case dei nonni, degli zii, dei vicini...è quella. Mentre vi passeggiate ne sentite quasi l'odore. La cura per i dettagli, in generale ma soprattutto nella costruzione della casa, è da perderci la testa.
Il clima e l'ambientazione di Martha is Dead mi mancano da quando l'ho finito. È un racconto di vita commovente, e ha suscitato emozioni che nella mia ignoranza mai avrei creduto di trovare in un gioco. Ed è un lavoro tutto italiano, c'è solo di che esserne orgogliosi.
Lo rigiocheremo tra qualche mese, sempre in live, per vedere se giocarlo in modo diverso darà alla nostra Giulia una sorte differente. 


Serie tv

La cosa sicuramente di cui parlare in ambito seriale è Jimmy Savile: a British horror story. Sono solo due episodi, ma se Netflix lo mette nelle serie ce lo metto anche io. È una docuserie true crime, che racconta ascesa e caduta di Jimmy Savile, uno dei volti più noti della storia della tv britannica. Savile è stato amico di tutte le principali cariche dello Stato inglesi e della famiglia reale, è stato un notissimo filantropo, collaboratore di alcuni dei volti più noti della musica UK e conduttore di straordinario successo. Era, per farla breve, la persona più amata d'Inghilterra. Ed era un pedofilo, un brutale pedofilo che oggi conta più di 300 vittime, ma nessuno lo ha saputo fino a dopo la sua morte.
La docuserie, che è un prodotto davvero di altissima qualità, mette in evidenza incoerenze e problemi di un sistema che tutela sempre i potenti, che concede a chi abbia il "dono" della popolarità di fare proprio tutto il cazzo che gli pare. In più, fa un ottimo lavoro nel mostrare quanto la verità sia sempre stata sotto gli occhi di tutti, e quanto a nessuno sia importato di vederla. Savile aveva contatti potentissimi, una quantità di denaro che non ha senso, e la somma delle due cose fa un solo risultato: la libertà.
È una serie difficilissima da vedere, fa così arrabbiare che a volte è quasi insostenibile. La spudoratezza e l'arroganza con cui Savile andava a spasso dichiarando sulla televisione nazionale che le bambine dovevano stare attente a lui vi farà così incazzare che onestamente io non lo so se è una visione da consigliare. Sicuramente tenete in considerazione tutti i trigger warning del caso, perché ci sono testimonianze dirette delle vittime e una nello specifico vi lascerà boccheggianti a terra. Cautela massima se il tema vi colpisce in modo particolare. 
Dall'altro lato, però, è una serie che ritrae in maniera esemplare i modi e le ragioni per cui una persona può violentare indisturbata dei bambini dichiarandolo quasi apertamente in prima serata con la certezza matematica che nulla gli possa accadere. Mostra che cosa è il potere, come si creano certe dinamiche che guardiamo indignati, e più semplicemente come cazzo sia potuto succedere.
Forse la miglior serie true crime che ho visto finora.


Film

Le visioni del mese complete arriveranno su Instagram il 31 come sempre, qua riassumiamo solo il meglio del meglissimo. 
The Northman è quel film che se non lo andate a vedere al cinema poi vi ritrovate a piangere e lamentarvi. Su, in sala, andare! È un capolavoro, amici miei. Mi ha fatto quello che ormai per me è l'effetto Neon Demon: talmente bello che rende opaco tutto il resto. È gigante, duro, maestoso. Un lavoro straordinario che sta andando male in sala a conferma del fatto che delle persone non c'è proprio maimaimai da fidarsi quando si parla di cinema. Il Moderatore dice che sono snob e me lo rivendico, se significa esserlo contro chi non sta andando in sala a vedere The Northman.
A casa, invece, il mio mese è stato più miserino della mia media, ma direi che il vincitore del mese è Ragazze interrotte, ammesso che si possa dire che l'ho visto. Forse ero troppo offuscata dalle lacrime, non lo so. Ho sofferto come una brutta stronza. Posso dire anche che non amo il titolo? Forse avrei voluto "Ragazze nei confronti delle quali la società tutta ha fallito". 
"Ragazze a cui si dovrebbero delle scuse".
"Ragazze che avevano ragione loro".
"Ragazze che fanno un po' il cazzo che gli pare e vorrei ben vedere".


IRL

La vita vera è stata piatta, lo ammetto. Vale se come momento più alto ci metto la cena al mio ristorante preferito? Secondo me il pane indiano al formaggio vale come momento migliore del mese sinceramente. 
E la siepe che io e il Moderatore abbiamo piantato da soli e che adesso osserviamo come i genitori fanno con i neonati. Ecco sì, anche lei meritava una menzione, la nostra nuova siepina tutta rossa!
Spero il mese prossimo di avere anche cose più entusiasmanti da condividere. Ci provo, eh, ma la vita dell'outernet mi dà ansia.







sabato 23 aprile 2022

Gli anni '30: James Whale

17:45
Il cinema dell'orrore, l'ho detto troppe volte, non è una passione che mi trascino fin da piccola. O meglio, le sue radici sono nella mia storia familiare, ma la nostra relazione la coltiviamo da relativamente poco, tutto sommato. 
Il momento in cui ho capito che io dovevo condividerla col mondo, quella passione qui, è arrivato con Evil Dead, e da lì è nato quello che era Mari's Red Room e che è diventato la Redrumia, ma il momento in cui ho capito che avrei dovuto dedicare la mia esistenza intera alle persone che parlano di orrore è arrivato la prima volta che ho visto La moglie di Frankenstein. 
Il mio modo di guardare il cinema non è mai più stato lo stesso. 
Nel mese dedicato ad Universal, quindi, non potevo che mettermi umilmente a scrivere un post su James Whale. 
Soli 4 horror in carriera, e il mondo si prostra ancora ai suoi piedi.


perché con una faccia così non si sia messo a recitare per sempre ma solo a dirigere è un mistero e un nostro grande privilegio


La vita


Whale era inglese, nato a fine '800 da una famiglia di origini così umili da richiedergli di andare a lavorare il più presto possibile, soldi per studiare non ce ne stavano. La prima guerra mondiale colpisce anche lui, ovviamente, che si arruola volontario e finisce per venire imprigionato dai tedeschi. È nel periodo della prigionia che si avvicina al suo destino. Un'altro al posto suo, imprigionato in guerra, sarebbe impazzito, questo si è messo a fare il teatro. Venitemi a dire che l'arte non salva la vita. Continua a darsi al teatro anche dopo l'armistizio, al suo ritorno a casa, e la combo dell'esperienza in guerra + quella teatrale lo portano alle sue prime esperienze di regia, proprio a teatro: il suo primo lavoro è Journey's End, una narrazione della vita degli ufficiali di fanteria durante la guerra. 
Journey's End va così bene che attira l'attenzione del mondo del cinema (sorpresi, vero?) e finisce che Whale si ritrova a dirigerne anche la versione cinematografica. 
Quando c'è profumo di soldi c'è Laemmle, che infatti gli è balzato addosso come un gatto affamato e se lo è portato in Universal. In questa sede non ci interessano tutte le altre cose che ha fatto (alcune delle quali, però, le trovate in questa playlist che ho creato su Youtube) perché questo è pur sempre un blog di cinema dell'orrore e pur essendo io certa siano tutte cose magnifiche qua bisogna arrivare al sodo: il 1931, quello che David J. Skal ha definito il peggior anno del secolo per gli americani e quindi il migliore per il cinema dell'orrore. Whale viene scelto da Laemmle per riprodurre il successo di Dracula, e quindi James ha deciso che lui lo avrebbe fatto di più e meglio: i suoi 4 film horror per Universal sono non solo rivoluzionari, e di quello parleremo poi, ma anche incredibili successi di botteghino, a differenza di alcuni dei suoi lavori che escono dalla definizione di genere, sempre amati dalla critica ma accolti più tiepidamente dal grande pubblico. 
Dopo un decennio infuocato, Whale si ritira dalle scene. Lavora ancora per un po' a teatro, con risultati deludenti, e sporadiche e insignificanti apparizioni nel mondo del cinema.
La fine della sua vita è drammatica: dopo un paio di ictus il suo stato di salute peggiora, fisicamente e mentalmente. Si è tolto la vita a meno di 70 anni.


I film


Ce lo siamo detti nel post a lui dedicato: il Dracula di Tod Browning fa un successo immenso. Così grande da convincere persino il vecchio Uncle Carl, che in questo cinema dell'orrore proprio non ci vedeva niente di buono, a farne un altro, subito. Si fa presto a decidere che il prossimo sarà Frankenstein: era già pubblico dominio. E quindi, Whale dietro la mdp, e si fa la storia. 
Lo sappiamo tutti quanti che il capolavoro di Whale è un altro, ma il momento in cui questo film ha visto la luce è quello in cui il regista si è portato a casa la possibilità di fare praticamente quello che gli pareva, con buona pace di Universal e del Codice Hays. 
L'impatto della Creatura del 1931 è stato così potente che oggi, semplicemente, la Creatura ha i chiodi nel collo, fine della discussione. Non c'è un momento nella vita in cui questa informazione non sia già radicata nella mente di chiunque: il Mostro di Karloff (a cui sarà dedicato il post della prossima settimana) è l'unico possibile, l'unico indimenticabile. E se il merito di questo è ovviamente da attribuirsi al suo magnifico interprete e all'iconico make up di Jack Pierce, è innegabile che il taglio che Whale ha deciso di dare alla più classica delle storie di mostri sia stato significativo. Nel guardarlo oggi, quando il ruolo di Karloff nella costruzione del mito è ormai dato per scontato, è l'interpretazione di Colin Clive (Henry Frankenstein) a far accapponare la pelle. Il suo viso elegantissimo e segnato e scolpito sono ipnotici, le sue urla paralizzanti, il suo Henry spaventoso, nevrotico, eccitante. 
Sono due le cose di questa versione del Moderno Prometeo che fanno riflettere: Whale sceglie di togliere la parola al mostro e decide di dargli un difetto di "creazione", ovvero un cervello difettoso. A dirlo così sembra evidente una volontà di allontanare ogni forma di empatia verso una creatura mostruosa, biologicamente crudele, sbagliata e oltretutto privata della più comune forma di comunicazione. 
È invece proprio in questo il punto più alto del film: Whale inquadra le mani della Creatura, la più espressiva parte del corpo umano dopo il volto, lo mostra muoversi smarrito nello spazio come se avesse la percezione costante di non appartenenza, gli fa subire angherie, maltrattamenti, violenza. Gli fa conoscere il bene del mondo e glielo fa strappare dalle mani, in una scena che 91 anni dopo ancora prende il cuore, lo strappa dal petto, lo calpesta e ci sputa pure sopra. Giusto per ricordare a tutti che se si è appassionati di orrore è molto probabile che si abbia anche bisogno di andare in terapia. Ma anche che le parole sono spesso superflue.
Si può quindi dire che Whale, con il suo primo contributo all'horror, lo ha già rinfrescato? Sì, ovviamente.

Le cose vanno talmente bene che il suo secondo, magnifico, film dell'orrore arriva l'anno dopo, e naturalmente finisce per sovvertire un genere intero. Si chiama The Old Dark House e si prende gioco, rimescolando tutte le carte in tavola, del genere che viene ricordato come, ehm, dark house, e che fa parte del cinema americano fin dai suoi esordi. Lo avevamo già visto parlando di The Cat and the Canary, che pur essendo delizioso e molto rilevante per la storia può solo farsi da parte e levarsi il cappello. 
Non solo fa questo, ma è da molti ricordato come il più esplicitamente queer dei suoi lavori, grazie anche al suo essere uscito prima del '34, anno dell'entrata effettiva in vigore del Codice Hays. Se l'attenzione di tutti, per ovvie ragioni, è sempre stata su La Moglie, Harry M. Benshoff nel suo saggio Monsters in the closet, che trovate linkato nelle fonti, dedica una parte proprio al secondo lavoro di Whale.
La storia, che racconto perché meno nota della precedente, è quella di una coppia che, in auto insieme ad un amico, si perde guidando e resta bloccata, a causa della tempesta, nella casa in cui si erano fermati a chiedere soccorso. La casa appartiene alla misteriosa famiglia Femm, e la notte trascorrerà tra eventi misteriosi e personaggi spaventosi. È o no un riassunto degno di una rivista di programmazione tv?
I riferimenti e le connotazioni queer che Benshoff elenca nel film sono sconfinate: dalla "padrona di casa" che fa osservazioni alla sua ospite, inviti più o meno espliciti in camera da letto, i personaggi di Horace, Penderel e soprattutto Saul.
Studiando la storia del cinema dell'orrore è sempre più evidente che mai come in questo caso non si possa parlare per assolutismi, tutto si miscela armoniosamente con quanto arrivato prima e si crea sempre qualcosa di nuovo. In questo caso credo di poter fare un'eccezione: il queer coding nel cinema ce l'hanno portato Whale e tutti i suoi creativi modi di ritrarre l'irritraibile, con buona pace del Codice e delle sue norme antiumanità.
Se Saul è eterosessuale io sono bionda.
Del film mi piace anche ricordare quanto sia divertente. E non ascoltate chi lo considera un Whale minore. Non c'è niente al mondo che sia un "Whale minore".

Per parlare de L'uomo invisibile, del '33, vi cito semplicemente quello che ne dice Tom Weaver nel suo Universal Horrors: 
Deprive the average special effects film of its visual tricks and you rob it of its heart and soul. The Invisible Man, Universal’s superb 1933 filmization of one of H.G. Wells’ most enduring novels, is a firm exception to this rule. Its gripping narrative, masterful direction and believable performances elevate the film beyond mere novelty, and hold up alongside the unerring technical effects for the audience’s attention. One of the handful of fantastic films unblemished by the ravages of time, The Invisible Man is a monument to the genius of four remarkable artists: Director James Whale, screenwriter R.C. Sherriff, special effects ace John P. Fulton and star Claude Rains. 
In buona sostanza, senza tradurre il tutto: è un capolavoro, ciao. 
E io lo so che gli amanti della fantascienza proveranno a rivendicarselo come roba loro, ma saprete ormai bene che delle mie cose io sono gelosa, giù le mani da James Whale.


La Sposa


Sì, lei ha un paragrafo a parte, perché non è solo il Capolavoro del Nostro, ma è il film che mi ha portata qua e secondo me non c'è niente al mondo che sia bello quanto La moglie di Frankenstein. 
Laemmle Jr. era in procinto di lasciare il prestigioso ruolo che gli aveva regalato il padre, ma prima di andarsene aveva in serbo un paio di "speciali": una versione cinematografica del musical di grande successo Show Boat e un sequel per Frankenstein. Se non fu difficile assegnare a Whale il musical, del sequel il regista non ne voleva proprio sapere. La condizione per accettare? Avere carta bianca. Non l'ha poi avuta davvero, perché il Codice sempre lì stava, ma insomma.
È ironico? Un po'. Manco lo voleva ed è diventato il suo lavoro più importante. 

Comincia la lavorazione, e una volta assicurati i posti di Clive e Karloff è in questa sede che si fa la scelta forse più importante del film: per il ruolo di Pretorius, forse la persona più famosa del film dopo la Sposa, viene scelto Ernest Thesiger, già Horace di The Old Dark House. 
Whale era solito lavorare con attori che avessero una sorta di, passatemi il concetto, "aura gay". Per quanto, come riporta Benshoff nel suo testo, la società avesse con l'omosessualità un rapporto meno peggiore di quanto si possa pensare, non tutti erano nella posizione privilegiata del regista, quindi alcuni degli attori che coinvolgeva erano spesso sposati con delle colleghe, e la loro omosessualità non sempre era dichiarata. Tra questi Thesiger stesso, che in Gran Bretagna, da cui arrivava, era noto per il suo "queer appeal". Septimus Pretorius è la punta di diamante di un film che non sarò mai in grado di giudicare con oggettività: siamo dalle parti della perfezione.

Nonostante cambi di sceneggiatura, modifiche, addolcimenti sciocchi per la censura, aggiramenti delle norme e un prologo che odiano anche i sassi (ma io no, perché ci sono dei borzoi e io amo tanto i borzoi), l'opera non pecca mai - mai, mai, mai - dell'incoerenza di cui potenzialmente avrebbe potuto soffrire. È anzi un lavoro maturo, raffinato, equilibrato. Un film che, preoccupandosi di non fare sconcezze inadeguate, ha elegantemente preso per il culo la società americana nella sua interezza, nella sua ipocrisia, nei tre valori tradizionali su cui è basata e che non sono mai stati un ritratto fedele del Paese, ma solo del modo in cui il Paese si dipingeva ai suoi stessi occhi. 

Ora, un briciolino di fatti miei. Ho qualche tatuaggio. Uno di questi è il volto della Sposa, dietro il braccio destro. Quando ho deciso di farmela ho chiesto alla tatuatrice di disegnarmela nel suo stile, che amo molto. Mi manda un disegno, e la Sposa ha un'espressione incazzata. Ma proprio che è nera. E io me lo guardo, sto tatuaggio, e non sono convinta dell'espressione. Allora mi sono riguardata il film.
E adesso io la mia Sposina incazzata la amo come se la avessi disegnata io. È potente, è rappresentativa, è proprio lei. È quella che non ha chiesto di venire al mondo e si è trovata sfruttata, con un ruolo già scritto per lei ancora prima di nascere. È quella a cui non viene data personalità, vestita e atteggiata come tutte le altre. È quella che ha il solo scopo di compiacere il suo maschio, quella che non conta niente se non in funzione del suo ruolo. E allora io la guardo e la amo sempre di più, con i suoi occhi tutti bianchi e le sopracciglia aggrottate. Ed è magnifica e la porto a spasso con orgoglio, perché di donne incazzate non ce ne sono mai abbastanza. Lo fossimo anche tutte, non saremmo abbastanza.

Nel suo saggio Here comes the Bride, Elizabeth Young espone un altro modo per analizzare il film: se La moglie analizza le paure e le ansie degli anni '30, non possiamo ignorare quelle razziali. La prima metà degli anni '30 è stata caratterizzata da un numero significativo di linciaggi ai danni di uomini neri, che hanno nel caso di Scottsboro del '31 il loro episodio più eclatante. Al mostro sono attribuite tutte le caratteristiche che una società profondamente razzista attribuisce alla popolazione nera: criminalità, violenza, inferiorità di intelletto...La fisicità di Karloff, poi, ha dato un grande contributo a questa lettura. Era un uomo molto alto, imponente, dai lineamenti molto marcati. Il collegamento si fa da sé. C'è pure il linciaggio, perfetto.
Nel secondo film della serie, però, quello che ci interessa è l'elemento dello stupro. 
Quale stupro? vi chiedere giustamente, Quello che non c'è?
Proprio quello.
È proprio nell'elemento dell'allusione (Elizabeth che strilla dietro la porta chiusa a chiave appena la creatura entra), della possibilità, che la creatura diventa perfetta rappresentazione della vita degli uomini neri, accusati con imbarazzante frequenza di violenze mai avvenute, perché come di consueto lo stupro è importante solo in relazione agli uomini che o lo praticano o lo subiscono indirettamente, mai alle vittime reali. Lo stupratore nero è un elemento ricorrente della cinematografia e della cultura popolare di un paese che è sempre stato molto attento alle inezie, e mai alle persone. La diversità di chi commette il reato immediatamente sessualizza il reato stesso. 


Che donne, razza e classe fossero legati da un filo invisibile ma non troppo ce lo ha spiegato Angela Davis, in un testo fondamentale e potentissimo che inspiegabilmente (o forse molto spiegabilmente) non è ancora un testo scolastico.
Solo che lei ce lo ha detto nell'81.
James Whale aveva iniziato ad accennarlo 46 anni prima.
Con un film dell'orrore.
La mia narrazione della storia è forse di parte?
Un po'.



Le fonti di questo post:
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sabato 16 aprile 2022

Gli anni '30: una chiacchieratina su Universal

11:34
 Avete mai notato che non ci sono molti amanti dell'orrore che siano davvero fan del Marvel Cinematic Universe?
Io, per esempio, li guardo quasi tutti (con Morbius proprio non ce l'ho fatta, ho i miei limiti), mi diverto pure un po', attendo il Doctor Strange di Raimi come una benedizione, cose del genere. Ma non mi definirei un'appassionata, ecco, e come me credo moltissimi.

Perché? Il motivo è presto detto.
Al di là delle ovvietà sul sinistro monopolio disneyano, il punto è che l'appassionante franchise, l'universo condiviso, il mondo di personaggi che ritornano e intorno ai quali sono costruite saghe intere, noi li stiamo vivendo da 90 anni. Non ci sorprende nulla. Suono snob? Forse un pochino, lasciatemi vantare dei geni del mondo dell'orrore, per favore.
Se per favore mi spostate i mantelli e le calzamaglie, è ora di parlare della vera mitologia moderna: quella di Universal, un fuoco che ha avuto i suoi alti e bassi in quasi un secolo di storia, ma che non si è mai spento.




La storia

La leggenda vuole che il sogno cominci quando Carl Laemmle, giovane immigrato tedesco che negli Stati Uniti iniziò la sua carriera facendo tutt'altro. Cammina per la strada e nota che davanti a questi tali nickelodeon, le prime sale cinematografiche, la coda era sempre lunga. Ora, Laemmle non era un uomo di cultura, ma di sicuro sapeva far di conto: molla la professione e ne apre uno suo. È successo immediato.

L'avventura "dall'altro lato dello schermo" comincia nel 1909, con una prima casa chiamata Independent Moving Picture Company of America, ma il passo da lì allo studio che conosciamo ancora oggi fu molto breve: ci si sposta dalla prima sede - New York - all'ormai irrinunciabile Los Angeles, e Universal apre i battenti il 15 marzo 1915. 
Per quanto tutti parlino solo di Laemmle e della sua famiglia, un po' per amore verso le storie di successo personale e un po' per le ragioni che vediamo dopo, è ingiusto dire che Universal sia solo opera sua. In realtà il progetto nasce insieme ad altri proprietari di nickeloden, stanchi di dover sottostare all'Edison Trust, una norma che voleva che ogni sala pagasse delle tasse sui film mostrati e prodotti da Edison. Per farla breve: se devo pagare per mostrare i tuoi, tanto vale che paghi per farmi i miei, arrivederci e grazie.

Il motivo per cui tutti ricordiamo principalmente Laemmle come Megadirettore Galattico è che dopo la sua nomina a Presidente Universal è diventata in poche parole una gigantesca impresa familiare. Tutti quelli che vi lavoravano erano in qualche modo imparentati con Uncle Carl. La famiglia Laemmle governava sovrana.
A questo impero c'è una gloriosa eccezione: Irving Thalberg, il ragazzo delle meraviglie di Hollywood.
Thalberg viene assunto ancora giovanissimo (in pratica manco maggiorenne) come segretario prima e assistente personale poi, di Laemmle in persona. Solo per un caso, peraltro: Thalberg era malato di cuore - infatti morirà giovanissimo, e l'oppressiva madre gli trovò un lavoro che gli permettesse di restare comunque vicino a casa dei familiari. Si dimostra da subito una buona scelta, Irving, così buona che Laemmle comincia a piantarlo da solo al lavoro e a riempirlo di responsabilità. 
Poco male: a 21 anni questo tizio era a capo delle produzioni e general manager. Una cosa oggi al limite della distopia. L'impatto di Thalberg sulle produzioni Universal fu immenso, nonostante di fatto si sia fermato con loro per soli 3 anni. Ancora oggi si dibatte sulla vera paternità di due delle produzioni più straordinarie dell'epoca, i due film di Lon Chaney di cui abbiamo già parlato nel post a lui dedicato. L'influenza di Thalberg, la fermezza con cui si imponeva sui registi, anche quelli giganti, sono state il segno del ruolo delle case cinematografiche rispetto a quello dei registi.
Nello specifico, sono proprio le opere che Universal ha fatto con Chaney e Thalberg a segnare un registro che incontreremo per tutta la gloriosa stagione dei mostri. Ma a questo ci arriviamo.

Thalberg passa a MGM, e Universal non se la passa benissimo. Forse in un tentativo di rinvigorire la situazione con un'altra mente giovane e forse altrettanto brillante, Laemmle fa un regalino al figlio per il compimento della maggiore età, Carl Jr: gli regala il ruolo di head of production.
Siccome far lavorare i giovani è sempre, sempre, una buona idea, Jr impone l'orrore al papà, e poche storie. Laemmle Sr, lo ammetteremo, è figlio dei suoi tempi, spaventato dalla novità e ancora più terrorizzato dalle norme benpensanti loro contemporanee. Lo abbiamo visto parlando di Dracula.
Jr., invece, ci ha visto lungo: dopo Chaney, e in piena crisi economica, sono i mostri che la gente vuole al cinema, e la letteratura e il teatro erano pieni di spunti da cui attingere.
Comincia così la gloriosa stagione dei mostri Universal, abitante eterna dell'immaginario del mondo intero, fondatrice ufficiale di un genere cinematografico che pur avendo radici ancora più profonde di così, trova in questa fase un suo linguaggio, un suo aspetto, un suo pubblico. 

Lo straordinario effetto dell'horror, però, non riesce a salvare Universal da una spaventosa crisi economica. La situazione è così tragica che un'analisi di Wall Street del '34 vede Universal come la sola casa cinematografica che non mostrerà segni di ripresa. Le colpe sono spesso attribuite a Laemmle e al suo nepotismo, ma oggi ormai queste cose hanno perso importanza. Anche perché questa è una rubrica sul cinema dell'orrore, e in questo senso Universal e il suo universo di mostri, l'importanza, non l'hanno mai persa.
L'impero Laemmle finisce due anni dopo, nel '36, con l'acquisto della società da parte della Standard Capital Corporation.


I film


La dolcissima coccola che il cinema Universal rappresenta per chi ai mostri classici sia affezionato è ancora oggi un fenomeno straordinario. Questa sede rende impossibile parlare di tutti i lavori che oggi inseriamo nel loro universo, che dal 31 al 56 circa sono una quarantina. 
Quello che è interessante è la grande quantità di elementi che li accomuna. Sono tutti film molto brevi, arrivare all'ora e mezza è già un'eccezione. Il che non solo si presta ad una maratona cinematografica degna di questo nome, per cui in una giornata vi vedete 10 film e risorgete più felici di prima dal divano, ma continua a confermare la mia tesi che il cinema minimalista sia meglio di tutto il resto, per lo meno quando parliamo di orrore. Poche situazioni, un alleggerimento di storie che nei libri sono più costruite ed impegnative, con il risultato di un coinvolgimento emotivo ed intellettuale totale. Nei libri la "pesantezza" mi piace, perché ho un approccio diverso ai due media, nei film amo quanto la sottrazione aggiunga. Avete visto la mia live su Open Water? Uno dei film più intensi che io abbia mai visto, e ci sono solo due persone in mezzo al mare.

Non vorrei essere fraintesa, però, l'alleggerimento è solo nella costruzione, nella quantità di storie che si decide di inserire in un film solo, nella quantità di ambienti, ma anche solo di parole pronunciate. Se parliamo di temi, invece, la leggerezza ce la possiamo pure scordare, perché stiamo pur sempre parlando di film sui mostri in epoca post-Chaney, e non c'è proprio un cazzo da ridere.
O meglio, mi correggo ancora: in realtà si ride spesso. I film di Whale sono un equilibrio impareggiabile di emotività distrutta e divertimento, per esempio. A Whale però dedichiamo un post a parte, qui facciamo un discorso generale. 
Il percorso di umanizzazione del mostruoso cominciato dall'Uomo dai mille volti qui prosegue, con la stessa intensità. Forse con la sola eccezione di Dracula, che porta il male assoluto anche in casa Universal, tutti gli altri ci toccano corde che ormai negli amanti dell'orrore sono note, ma che negli anni '30 profumano un po' di rivoluzionario. Anche Karloff avrà il suo post dedicato, ma in questa sede non possiamo non parlare di quanto sia ricorrente un ritratto desolante di una società che è sempre stata escludente verso il diverso, di quanto sia potente vedere oggi film di 90 anni che ritraggono la violenza praticata come conseguenza della violenza subita, di quanto commuovano ancora i volti mostruosi di chi condivide la nostra parte più intima: i sentimenti. Con il tempo, poi, sono arrivati i film in cui il soprannaturale era cattivo, disastroso, distruttore. In questa fase, però, in cui il mostro è una creazione scientifica o naturale, è solo l'umanità quella messa in discussione. Quell'umanità che, affamata di avanzamento scientifico, dimentica la morale, quell'umanità che, terrorizzata dal cambiamento che il diverso inevitabilmente porta con sé, si chiude nella consuetudine, che si fa forza della propria somiglianza ed esclude chi non riconosce. Elemento ricorrente e davvero terrorizzante è la massa: la massa arrabbiata, i forconi infuocati che accendono il cielo e il desiderio di difendersi da un attacco percepito ma non reale. La mancanza di comprensione, l'ignoranza, la totale sordità di fronte a chi cerca di comunicare e comunicarsi. 90 anni fa Universal sfornava alcune delle più raffinate rappresentazioni di quello che è l'uomo quando ha paura, e allo stesso tempo di quello che è quando non ne ha affatto. Quando è arrogante, immorale - ma per davvero - quando pensa di essere al di sopra delle leggi e dei suoi simili. 
E allo stesso tempo, in una spettacolare giostra di equilibri, diverte sempre. 

Certo, chiudendo con una nota amara, viene naturale chiedersi se il lavoro che Universal ha fatto con le sue creature e i suoi scienziati e le sue donne e le sue folle inferocite sia così amato perché ancora attualissimo. Perché il diverso ci spaventa ancora, perché ci sentiamo minacciati da un cambiamento che non riconosciamo come positivo, perché non abbiamo ancora capito che l'umanità è tanta ed è una.
La chiusura che negli anni '30 era già brutale ma forse comprensibile, oggi non ha più giustificazione alcuna. 
È per quello che dei mostri classici abbiamo ancora così tanto bisogno, e forse ce lo avremo per sempre. 



Le fonti di questo post:

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domenica 10 aprile 2022

Gli anni '30: la rivoluzione Dracula

19:45
Smetterò mai di sentirmi in soggezione nel parlare di cinema dell'orrore? Spero di no, perché è il mio modo di pensare al bene che gli voglio. 
Nel post precedente avevo preannunciato che avrei diviso i due mesi dedicati agli anni '30 per studios, e se così deve essere non posso che partire dalla scelta più ovvia: Universal. 
Tutto il mese di aprile, quindi, lo passeremo in compagnia dei primi veri franchise della storia, e di tutti quei personaggi che, ridendo clamorosamente in faccia al passare del tempo, non solo continuano a vivere indisturbati nell'immaginario di un mondo intero, ma che sono quelli che quello stesso immaginario lo hanno creato, ponendo le fondamenta per tutto quello che verrà costruito.
Sono la mitologia dell'orrore, un'Olimpo di nomi e volti che per fama e ruolo nella storia viene da mettere al pari solo di Babbo Natale, o Topolino. L'inizio di un nuovo modo di guardare, immaginare e soprattutto creare le storie dell'orrore.
Siamo nel 1931, e per la prima volta il mondo vedrà sullo schermo il Conte Dracula e la sua storia, quella che oggi sappiamo essere la più adattata di sempre.
Oggi parliamo di lui, il Dracula di Tod Browning. Mi piaceva l'idea di partire con chi ha cominciato tutto.





Come si arriva a Dracula

La scorsa settimana abbiamo visto la situazione generale degli anni '30, e la prossima nello specifico della storia di Universal e del suo Monster Universe. Come si arriva, però, nello specifico, a Dracula?
Dopo le insistenze di Carl Laemmle Jr., l'azienda ha ceduto, e si è aperta all'orrore. La storia del Conte era la scelta più naturale possibile: dopo i litigi di Florence Stoker - l'esigente vedova di Bram Stoker - con Nosferatu, in qualche modo si è riusciti, pagando il giusto, a portarlo a teatro in Gran Bretagna. Lo spettacolo, a cura di Hamilton Deane, fu un successo inarrestabile e fu l'iniziatore di una politica del mistero e dello sgomento che seguirà il modo di pubblicizzare la storia di Dracula per gli anni successivi: era stato reso noto, mooolto noto, che nel pubblico ogni sera si poteva trovare un'infermiera specializzata, pronta ad aiutare chi si sarebbe sentito male per la forza dello spettacolo in scena. Non giudico nessuno io, queste cose fanno presa tutt'ora sulla sinceramente vostra. 
Il successo straordinario dello spettacolo attirò (ovviamente) l'interesse degli avidi statunitensi, che già un centinaio di anni fa giravano per il mondo chiedendosi cosa c'era di bello da rubare. 
È Horace Liveright, un produttore di Broadway rimasto senza mezza lira, ad intuire che quella roba lì in patria sarebbe andata fortissima. Liveright compra i diritti, porta a Broadway uno spettacolo quasi completamente invariato, e sbanca. Questa non è la sola idea eccellente del nostro. Sceglie per il ruolo del protagonista uno sconosciuto attore ungherese, dall'accetto affascinante e dallo sguardo intenso, e il resto è storia.
Universal, quintessenza dello spirito statunitense, coglie la possibilità di fare soldi con il successo di qualcun'altro, e sotto le pressioni del suo giovanissimo presidente si compra i diritti e inizia a lavorarci. Aveva tutte le carte in regola per diventare un successo: in quel momento Universal, come abbiamo visto qualche post fa, aveva nella coppia Chaney - Browning una delle certezze più insindacabili del cinema del momento.  Una potente - e talentuosissima - gallina dalle uova d'oro: il film si era praticamente scritto da solo. Ma Chaney viene a mancare poco prima dell'inizio delle riprese, e Browning era, come dire, sottotono. La storia, il caso, il fato, o chi credete si occupi di queste faccende, ha fatto sì che l'attenzione tornasse su quello sconosciuto ungherese e su un certo direttore della fotografia: Karl Freund. Il film, come il mondo lo ricorda oggi, è tutto o quasi in mano loro.
Si inizia a lavorarci su, e il resto è storia.


Bela Lugosi


In tutte le fonti che troverete in fondo al post l'opinione è la stessa: il film, oggi, è considerato mediocre, e facilmente dimenticabile se non fosse per il suo immenso contributo storico. Un'altra opinione, però, è altrettanto diffusa: la sola cosa apprezzabile del film risponde al nome di Bela Lugosi. 
Nato in Ungheria nell'ottobre del 1882, proprio vicino al confine con la Transilvania, Bela deve lasciare la sua terra perché, ehm, comunista. Partecipa alla rivoluzione ungherese, lottando contro paghe ridicole e condizioni di lavoro dei giovani attori. Per il partito comunista ungherese non finisce benissimo, e Lugosi nel 1919 è costretto a lasciare il paese. Dopo qualche tappa europea finisce negli Stati Uniti dove si dà al teatro senza sapere una mezza parola, imparando le parti memorizzandole foneticamente, come facevamo noi alle medie con le canzoni dei Backstreet Boys. 
Lui è diventato leggenda e noi, va beh, stiam qua. 

Lugosi non doveva essere un collega semplice. Le voci sul suo conto lo vogliono freddo, distaccato al limite della maleducazione, eccentrico, vanitoso. Poco importa, oggi, perché forse, vedendo il suo Conte, sono proprio queste caratteristiche personali ad avergli consentito di dare proprio questo taglio così di impatto. E poco importa anche perché le persone sono tutte valide a prescindere dalle proprie skill di socialità, ma non è questo il punto. 
Non è solo il suo accento, o il suo aspetto esotico, ad averlo reso leggendario, anche se è innegabile che l'unione di queste cose con l'avvento del sonoro e l'entusiasmo della novità abbiano indubbiamente contribuito. Il suo Conte, però, è diverso da ogni rappresentazione precedente del vampiro: è lento, sensuale, seppur in un modo lontano da quello che intendiamo oggi, ipnotico, e ha posto le basi per tutte le rappresentazioni successive. Di conseguenza, ha posto le basi di un archetipo intero.

Le conseguenze del "grande ruolo", però, si sono ripercosse anche su Lugosi, nonostante il rapporto complesso che aveva con il suo Dracula. Laemmle Jr. era pronto a costruire con lui un nuovo Chaney, perché, sì, avevano anche già la fissa dell'erede. Dracula riscosse un successo tale da spingere la casa a investire su altre trasposizioni da romanzi dell'orrore e la scelta più naturale finì per essere Frankenstein, la rivoluzione del gotico creata da una poco più che ragazzina. Lugosi, però, non ne volle sapere: il suo volto non poteva non essere riconosciuto, e il ruolo della creatura non faceva per lui. Da quel momento in poi, la sua carriera fu un susseguirsi di scelte opinabili, di possibilità mancate. Tornò ad indossare i panni del suo vampiro per altre occasioni e finì vincolato nel ruolo del villain. In più, l'esperienza di lavorazione del film non fu per lui un'esperienza particolarmente appagante, e soprattutto non abbastanza pagante. In un film in cui - miracolosamente - l'attrice più pagata fu la donna (Helen Chandlers), Lugosi guadagnò meno del desiderato, e nessun centesimo in più della paga per la parte: il merchandise non gli fruttò nulla. Ok, non era il fenomeno che è oggi, però frullano le scatole lo stesso.


La bio sul suo sito è scritta con immenso amore dal figlio, Bela Jr., e ritrae naturalmente anche i suoi aspetti più umani e candidi, come l'amore per i suoi cani, per il sigaro che la povera moglie doveva tenergli acceso mentre lui era in scena e per i vini californiani. 
Leggere di lui in giro, però, non fa altro che contribuire a questa immagine che ormai di lui mi sono costruita in testa, di uomo distante, scostante, un po' altezzoso, che non fa altro che contribuire a sua volta alla tridimensionalità del suo Conte, che con la sua pulita cortesia fa ancora la stessa paura che immagino abbia fatto a chi ha avuto il privilegio di vederlo sullo schermo per la prima volta.

Gli articoli che ne annunciarono la morte lo chiamavano, semplicemente, Dracula. Non lo so se la cosa lo avrebbe davvero reso felice, ma lo spazio che si è preso nella mente di chi è appassionato è rimasto immutato. Felice o no, ha cambiato il modo in cui sono andate le cose, ed è diventato immortale. 
Il suo vero nome, del resto, non lo ha usato mai. Tanto vale ricordarlo come leggenda.
 

Il film


Due info tecniche di numero ma proprio due per fingere una serietà che non mi appartiene: costato qualcosa intorno ai 350.000 dollari, girato in poco più di un mese. Fu una sfida non indifferente per la casa, un rischio importante. A spianargli la strada era stato The Cat and the Canary, qualche anno prima, ma anche l'importante riscontro che il pubblico aveva dato alla versione parlata di The Unholy Three. 
C'è una differenza saliente, però, tra questi film precedenti e quello nuovo, una differenza che rende davvero la sua uscita rivoluzionaria: Dracula, soprannaturale, lo era davvero. In una nazione in cui era stato fondamentale sfruttare la passione per lo spiritismo ma pur sempre riportandola sul ben più rassicurante piano della realtà, il Conte Dracula era un vampiro davvero. Per la prima volta il cinema statunitense si lanciava nel mondo del misterioso, e non gli dava risoluzione.
Il risultato fu il più grande successo commerciale Universal del suo anno. 

Certo, c'è anche stato l'immenso contributo che la parte pubblicitaria gli ha dato. Il claim lo chiamava "The strangest passion the world has ever known!", che non è una bugia ma una descrizione quantomeno creativa, ecco. Dracula poteva essere ogni cosa: una storia romantica, un mystery, un horror: ognuno poteva vederci quello che desiderava, e tutti sarebbero entrati al cinema. Ha funzionato.





C'è un grande elemento, poi, da tenere in considerazione quando si giudica Dracula con gli occhi di oggi: il Codice Hays. È cosa nota che il codice, seppur in vigore dal '30, sia stato preso sul serio solo dal '34 in poi, ma le sue impronte erano già state fissate su carta, e da quel concetto di buon gusto non c'era scampo. Dracula, con le infinite implicazioni sessuali che da allora continuiamo a riconoscergli, era terreno ustionante su cui camminare. Bisognava stare molto attenti che mordesse le donne e solo le donne, per esempio, e da questo vincolo ci siamo liberati solo di recente. Gli uomini, se proprio proprio proprio devono essere morsi, è per nutrizione, e fine della faccenda. Se poi non lo mostriamo, meglio ancora. E allora ecco che l'equipaggio della nave muore per una tempeeeeestaaa, daaaaai, ma cosa pensavate? 
Sono solo le donne (e solo quelle bianche e preferibilmente benestanti), ad avere il privilegio della trasformazione in vampire, tutti gli altri lanciati verso la morte certa con tanti saluti a casa. Tutta la parte "succosa" (passatemelo, dai), avviene fuori dallo schermo, perché avvenga, sì, ma che non ci sia dato vederlo. È figlio del suo tempo ed è ingiusto fargliene una colpa.

All'epoca fu anche grande successo di critica, è stato il passare del tempo a renderlo meno amato. In mezzo alle infinite critiche che oggi critici e accademici gli riservano, come dicevo su, c'è il suo essere troppo simile per impronta, stile, caratteristiche, alla produzione teatrale da cui è tratto. Gli viene criticata una narrazione che si srotola troppo lentamente, con una prima parte tutto sommato apprezzata anche oggi ma una seconda sempre fortemente criticata perché povera, piatta, inconsistente. Non si apprezza l'adattamento, colpevole di avere lasciato fuori parti ritenute fondamentali del romanzo, o quantomeno arricchenti, la recitazione di praticamente tutti i coinvolti ad eccezione di Lugosi viene distrutta. Queste sono a grandi linee le critiche che gli rivolgono tutte e quattro le fonti che trovate in fondo al post.

Neppure a Browning viene riservato un trattamento di favore. Chi ha collaborato sul set con lui in questa occasione lo ricorda come costantemente assente, chi è del settore dice che il film è molto più di Freund di quanto non sia di Browning. Oggi, forse, importa davvero poco. Del resto, ce lo siamo detti la settimana scorsa: questo è il periodo delle case cinematografiche, non dei registi. Sono certa che B. abbia dormito serenissimo la notte, dopo questa lavorazione. Un po' meno l'anno dopo, immagino, ma avremo modo di parlarne. 
 
Io, che accademica non sono, gli voglio molto bene. Ho una mai passata cotta per il Conte di Christopher Lee, ma il giorno in cui dirò che trovo questo film mediocre sarà il giorno in cui vi sto comunicando in codice che sono stata rapita e ho bisogno di soccorso. Guardo a lui con l'affetto che si rivolge alle cose fondanti, anche se mentirei se dicessi che per me lo è stato. L'ho scoperto da adulta, non ho verso di lui l'affetto della nostalgia, ma quando Lugosi sale le scale, guarda Renfield e gli dice "Listen to them. Children of the night." io sarò pure banalona ma mi ritrovo a sorridere allo schermo più che di fronte a qualsiasi scena romantica. 
Sono certa che le critiche siano basate fu fondamenti ben più solidi del mio sorridere davanti allo schermo, però a me è quella sensazione lì che tiene ancorata al cinema, e per me il Dracula di Browning, sottotono, spento, teatrale, come vogliano descriverlo, è magnifico. Fine della recensione.








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venerdì 1 aprile 2022

Gli anni '30: Come sta il cinema?

11:34

 Ci siamo, il cinema delle origini ha avuto i suoi due mesi di approfondimento ed è giunto il tempo di passare al decennio che ha formato il linguaggio del cinema di genere come lo conosciamo oggi. 

Ho pensato di introdurre ogni decennio con un primo post introduttivo, per capire come se la passa il mezzo cinema a prescindere dal nostro genere di riferimento, per dare un'occhiata generale su cosa succedeva in tutto il mondo che ruota intorno a quello dell'orrore. Saranno proprio post di passaggio tra un decennio e l'altro, come al solito per approfondimenti e completezza rimando alle fonti che sono sempre in fondo ad ogni post.

Innanzitutto, cara Redrumia, grazie della domanda: il cinema sta un fiore. Mai stato meglio, stiamo per entrare in un decennio dorato. Vediamo perché.




Un micro contesto storico


Il decennio precedente si è chiuso con la famigerata crisi del '29. I primi segnali di una caduta sono arrivati l'anno prima, ma è nel '29 che hanno dovuto scavare per capire dove fosse finita la Borsa di New York. Il sito tuttoamerica.it attribuisce le responsabilità del disastro a speculazione esagerata, inflazione del credito, speculazioni in Borsa e distribuzione ineguale della ricchezza.

Il caos generato dalla crisi si è trascinato per almeno una decina d'anni, nonostante con l'elezione di Roosevelt nel '32 e con il suo New Deal si sia cercato di mettere una pezza. Se il caos è americano, però, diventa caos per tutto il mondo occidentale: prestiti internazionali, importazione ed esportazione, il recente trattato di Versailles...nessuno ne è uscito senza ammaccature.


Il cinema, però, trova sempre il modo di godere di queste circostanze complesse, e ne esce sempre vincitore. Offre da sempre una forma di evasione tutto sommato accessibile ai più, sfrutta le storie come breve momento per dimenticare o come metafore per analizzare e comprendere meglio quello che succede fuori dalla sala.

Prima di questo decennio, però, tutta una fetta di pubblico rischiava di essere tagliata fuori da questo momento di svago: chi non poteva leggere le didascalie. E quindi ecco la prima, immensa rivoluzione, che ha reso il cinema la più democratica delle arti: il sonoro.


L'avvento del sonoro


Se il cinema doveva offrire una scappatoia dalla realtà doveva però anche assomigliarle, rappresentarla al meglio, in modo che chi ne fruisse potesse riconoscere il mondo che vedeva rappresentato. Il silenzio imposto dai mezzi del cinema muto bloccava questa possibilità. 

In realtà le prime produzioni sonore risalgono alla metà degli anni Venti, con quel Don Juan del '26 che tutti conosciamo ma che avranno visto in 6 compreso chi lo ha fatto, che però di sonoro aveva solo una componente musicale. La parola arriva con il successivo film dello stesso regista, Alan Crosland, Il cantante di Jazz. 


Ovviamente questa ventata di novità portò con sé inevitabili problemi tecnici, che come tutte le cose nuove costavano una badilata di soldi ed erano un casino da gestire. C'era il modo di registrare i suoni, sì, ma si registravano tutti. Se qualcuno in lontananza parlava male del regista era un bordello, tutto registrato. Le macchine da presa facevano un casino infernale, e allora via a rinchiuderle in cabine insonorizzate. C'era ancora da imparare a gestire cose che oggi sono assolutamente scontate, come la sincronia labiale. L'abbiamo superata brillantemente sta fase, ma immagino i poveretti al lavoro per risolvere problemi mai visti prima. A loro, tutta la mia solidarietà: lo so raga, la tecnologia è molto bella finché ci lavorano gli altri.

Il sonoro segna la fine di un'epoca: quella in cui ogni proiezione era diversa dalla precedente. Il cinema muto portava con sé presentazioni e accompagnamenti musicali sempre nuovi e diversi, e questo lo rendeva ogni volta un'esperienza unica. Il sonoro universalizza l'esperienza, e segna una nuova epoca.

È pur vero che parlare in inglese porta con sé un'ulteriore limitazione: come lo esporti un film in cui nessuno capisce una fava? Per lo spagnolo era semplice: finito di girare una scena arrivavano attori nuovi madrelingua e rigiravano la stessa cosa nella loro lingua, sugli stessi set. A volte capitava che gli stessi attori girassero la scena più volte in lingue diverse (e questo spiega perché Stanlio e Ollio parlano in italiano ma con accento inglese, per esempio), ma per il doppiaggio vero e proprio dobbiamo aspettare la fine del decennio.

Con l'arrivo degli anni '30, ormai in America il muto è del tutto abbandonato: tutte le case cinematografiche di Hollywood si sono adattate alla novità, e nonostante diversi nomi popolari avessero manifestato un parere contrario all'innovazione, non ci fu modo di fermare l'ondata. Il cinema muto era destinato all'estinzione.


Lo studio system e il divismo

(ovvero il motivo per cui i post dei prossimi due mesi saranno divisi per case cinematografiche)


Ora, il problema del sonoro, oltre a quelli elencati su, era uno su tutti: costava un sacco di soldi. E quando ci sono i soldi in ballo cambiano tutte le dinamiche. Avere bisogno di più soldi vuol dire avere bisogno di qualcuno che te li dia, e se qualcuno ti dà soldi si prende potere. Signori, nascono i produttori.

Ora, è pur vero che ci sono sempre state figure come quella del produttore, ma fino a questo momento il loro potere era tutto sommato limitato. Con l'arrivo del sonoro il loro ruolo superava tutti gli altri. È lui che nomina il regista, che sceglie il cast, che sceglie quali film fare e quali scartare. 

La componente artistica passa in secondo piano rispetto a quella industriale: se una cosa funzionava si riproduceva a catena, per trarne tutto il traibile. Nascono i generi: horror, commedia, musical, western, animazione e gangster. Venivano realizzati film sulla base di caratteristiche precise, che rientrassero in canoni facilmente identificabili ed etichettabili, con produzioni in serie e confezionamenti quasi meccanici.

Non fraintendetemi, nei prossimi due mesi avremo modo di vedere che le personalità di spicco del periodo sono state in grado di girare intorno al sistema e risplendere in mezzo alla produzione di massa, ma è pur vero che restare entro certi canoni di riconoscibilità era la strada del successo sicuro. E l'industria, in un periodo di crisi nera come quello che la nazione stava vivendo, non poteva permettersi di sbagliare.


È così l'avvento del sonoro a far sì che si ridisegni il sistema generale delle case cinematografiche di Hollywood. Se ne distinguono tre categorie. Ci sono le cinque major (Paramount, MGM, 20th Century Fox, Warner Bros. e RKO), le tre minor (Universal, Columbia e United Artists) e un sottobosco di produzioni indipendenti, quelle destinate a creare i film della seconda serata nelle double feature, le serate di doppia proiezione. 

Lo studio system, che vede tutta l'industria basata sulla potenza delle case in questione, fa sì che a delineare lo stile del cinema non sia il singolo artista ma la casa per cui lavorava. Erano loro a dare il tono, a creare un paradigma collettivo che accomunasse i loro lavori. Di nuovo, occhio a quanto detto su, però, che chi voleva farsi riconoscere aveva modi e capacità per farlo.


Elemento di successo delle case era dato sì dalla propria impronta personale, ma anche da certi volti noti. Il fenomeno del divismo, che già negli anni '20 aveva posto le sue radici, è qui una delle armi più forti. Il divo o la diva erano la caratteristica più forte del cinema anni '30, la chiave di riconoscibilità immediata. È importante sottolineare che non è l'attore il punto, ma il personaggio-divo. Un mito che si ripeteva film  dopo film, che nulla aveva a che vedere con la persona dietro il ruolo, ma solo con la riconoscibilità del personaggio portato in scena. Gli uomini imponevano lo standard della mascolinità, le donne erano la blueprint della femminilità, che a volte era imposta fin da bambine, con casi eclatanti come quello di Shirley Temple. Sarà interessante vedere, mano a mano che ci addentreremo nel nostro genere preferito, come ci siamo creati un Olimpo tutto nostro, fatto di persone e mostri che da allora non ci hanno lasciato più.


Il Codice Hays


Lo abbiamo già visto parlando della situazione italiana qualche settimana fa, ma è fenomeno mondiale: il cinema intimorisce i benpensanti. E siccome, lo ribadisco, è pur sempre di un'industria che si parla, era importante tenerseli buonini. Nel 1922 era nata la MPPDA (Motion Picture Productors and Distributors Association), un modo sicuro per, credo che possiamo dircelo serenamente, pararsi il culo, garantendo una sorta di legittimità morale delle cose portate in scena. A dirigerlo era Will Hays, presidente del, ehm, partito repubblicano. 

Per garantire che tutti stesso tranquilli e dormissero sonni sereni ha creato un Codice che portava il suo stesso nome, che elencava una serie di norme da rispettare affinché il film fosse considerato accettabile. Vi riporto da Wikipedia i principi fondamentali:

  1. Non sarà prodotto nessun film che abbassi gli standard morali degli spettatori. Per questo motivo la simpatia del pubblico non dovrà mai essere indirizzata verso il crimine, i comportamenti devianti, il male o il peccato.
  2. Saranno presentati solo standard di vita corretti, con le sole limitazioni necessarie al dramma e all'intrattenimento.
  3. La Legge, naturale, divina o umana, non sarà mai messa in ridicolo, né sarà mai sollecitata la simpatia dello spettatore per la sua violazione.


Ovviamente la lista è ben più lunga di così: niente nudo, niente droghe, niente omosessualità, adulterio, niente sexo tra persone di RaZzE DiVeRsE, e così via. Insomma, il tono vi è chiaro. 

Questo elenco di squisitezze esce nel '30 ma viene bellamente ignorato fino al '34, anno di vera e propria entrata in vigore, e anno in cui veniva richiesta una preapprovazione prima che il film approdasse in sala.

Come detto in precedenza, quando le cose vengono vietate agli artisti non resta che trovare modi creativi ed artigianali per girarci intorno, ma è impossibile negare che questo sia stato l'ennesima cancellazione del ruolo del regista, che ormai era quasi bassa manovalanza messa a creare film cercando in ogni modo di restare nei paletti imposti da studio e produzione.



Nonostante tutto, quella degli anni '30 è un'epoca tra quelle ricordate con più amore tra gli appassionati. Sono state poste le basi per tutto quello che vediamo in sala ancora oggi, e forse proprio a causa di tutte le limitazioni ricordiamo gli artisti dell'epoca con un po' di affetto in più.

Nei prossimi due mesi elogiamo chi, nonostante tutti i bastoni tra le ruote, ha portato il mondo dell'orrore al cinema, e ha cambiato la storia.

martedì 29 marzo 2022

Preferiti di marzo

10:20

 Non me la sento un po' beauty blogger del 2012? Con il post sui preferiti del mese?

Ho pensato che potesse comunque avere senso riproporlo anche qui, adesso, perché ho mille cose belle di cui parlare e mi piaceva l'idea di riassumerle tutte in un unico post.


foto coi fiorellini che fa subito primavera



Podcast

Continuo ad ascoltare i miei soliti, che sono tutti raggruppati su instagram nelle storie in evidenza, ma questo mese ho fatto alcune scoperte nuove, tutte in italiano, che vale la pena di condividere.
  • Silenzio, scritto e narrato da Elena Accorsi Buttini, ricostruisce i fatti legati al disastro di Seveso, avvenuto nel luglio del 1976, e al contributo che questo evento ha avuto nella nascita della legge 194 del 1978, la legge sull'aborto. Interessantissimo, anche se non amo il modo di raccontare dell'autrice, e ripercorre una storia che non conoscevo.
  • Le radici dell'orgoglio, nato da un crowdfunding, racconta i primi 50 anni della storia del movimento e della comunità LGBTQ+ in Italia. È bellissimo, pieno di testimonianze dirette e con la presenza di grandi nomi della storia italiana, ma soprattutto insieme alla storia del movimento ricostruisce la storia intera di un Paese, dei suoi costumi, della società e del modo in cui negli ultimi decenni si è comportata con chi fosse diverso da una norma preimpostata. È importante anche per conoscere nomi e situazioni della storia del movimento femminista italiano.
  • Mariuoli, un podcast su Tangentopoli. Io ci sono sottissimo, ma esce un episodio ogni tre settimane che francamente a me pare un po' una violenza. Al momento ci sono i primi due, ed è un viaggio, come dire, interessante.

Libri

Il progetto sulla storia del cinema dell'orrore fa sì che la cosa che leggo di più al momento siano saggi sul tema, ma sono comunque riuscita a ritagliarmi lo spazio per tre romanzi.

  • L'abbazia di Northanger, uno dei lavori pubblicati postumi della mia adorata Jane Austen, che ho riletto per partecipare ad un episodio di Bookanieri, il podcast con il nome più bello d'Italia. L'episodio lo trovate a questo link, per sentirmene parlare insieme a Mirko e Luca per un bel po', ma se dovessi riassumere qualcosa qui: Austen ha preso selvaggiamente per i fondelli il gotico, e lo ha fatto con un romanzo che fa sinceramente spaccare dalle risate, ma che come di consueto è una sopraffina ricostruzione della vita delle donne in una società che le vuole composte, per bene, e con la sorte segnata. È troppo spesso dimenticato, Northanger, ma non è affatto inferiore agli altri, ma anzi trovo che la sua penna qui sia ancora più affilata del consueto. Ti amerò per sempre, Jane Austen, eri la più brillante di tutte.
  • Rabbia proteggimi, il primo libro di Eddi Marcucci. Il caso di Marcucci lo conosciamo tutti: condannata ad un inspiegabile (ma forse invece spiegabilissima) provvedimento sorveglianza speciale dopo un periodo passato in Kurdistan a combattere a fianco delle Ypj, l'unità di protezione delle donne. È incazzata, Marcucci, come dovremmo esserlo tutte, perché davvero la rabbia ci protegge da un mondo che ci vuole mansuete. Lei, con la sua, ha preso tante volte i bagagli ed è partita per dare una mano concreta. L'Italia l'ha punita, perché quelle come lei fanno paura, e lo stato deve usare questi mezzucci per "far vedere chi comanda", attraverso i suoi rappresentanti che spesso sono incompetenti in modo imbarazzante. Leggere per credere. Il libro, che è furioso e sincero e doloroso ma potentissimo, racconta di tutte le volte in cui Marcucci ha combattuto per i suoi ideali, è scesa in strada, ci ha messo la faccia. Mi sono sentita piccola piccola, quando l'ho finito, ma anche al sicuro: c'è tanta gente che combatte per noi, per le donne, gli ultimi, i diritti di tutti, e mi fa sempre sperare che tutte quelle battaglie qua le vinceremo noi. 
  • My best friend's exorcism, di Grady Hendrix. Una deliziosa storia dell'amore unico che lega due migliori amiche che crescono insieme, ma anche una storia di una società ingiusta e di potere. Abby e Gretchen sono cresciute insieme, ma se la prima arriva da una famiglia che arriva a malapena a fine mese e deve fare i conti con i sussidi e le borse di studio, la seconda è molto ricca. Quando Gretchen inizia a stare molto male e presenta i segni di quello che potrebbe essere un enorme trauma oppure una possessione demoniaca, è solo Abby ad accorgersene, perché i genitori ricchissimi sono troppo impegnati a tutelare la propria immagine pubblica, e la scuola ancora di più. Abby è disposta a tutto pur di aiutare l'amica, ma come sempre avviene a pagarne le conseguenze peggiori è lei stessa. È un libro tenerissimo, che parla di quanto è difficile crescere, ma soprattutto di quanto è difficile farlo in un mondo che non ti assomiglia e che tollera a malapena la tua presenza, pronto a farti fuori appena provi a rimescolare le carte in tavola e a rimetterlo in discussione. Il film è in lavorazione, sembra lo vedremo entro l'anno.


Videogiochi

Adesso che ho iniziato a giocare ai videogiochi dell'orrore live su Twitch come faccio a non includere la categoria? Questo mese abbiamo (plurale perché alle live di gaming partecipa anche Erre, il mio compagno) giocato a Little Nightmares, che mi era stato consigliato da un paio di amici. 
Ora, lo abbiamo giocato con la tastiera e non con il joypad il che a quanto pare è la scelta più complessa. Questo mi rende almeno un po' orgogliosa perché sono riuscita a finirlo comunque e non lo credevo possibile: per le mie capacità è davvero un po' complesso, la combinazione dei tasti convive poco serenamente con il fatto che sono molto scoordinata, però ne è valsa davvero la pena. La grafica è sensazionale, i disegni, i colori e le ambientazioni sono favolosi, è stato come girare per un film d'animazione di ottima qualità. Protagonista è Six, per noi Georgie, una bimbetta con l'impermeabile giallo (da cui l'originale scelta del nomignolo) che deve scappare da un'inquietante nave che si chiama Le Fauci. Le creature che vivono su Le Fauci sarebbero le degne protagoniste di un film a loro volta, il loro aspetto è inquietante ma splendido e me ne sono innamorata. Così come del finale, che nei commenti su steam ho visto tanto criticato e che invece secondo me è non solo ben costruito durante la parte precedente del gioco ma che è anche molto più interessante di quanto mi aspettassi. Tutte le altre considerazioni le trovate nell'ultima live, ma tenete sempre conto che è un mondo in cui sono nuova e che le mie sono le opinioni di una che davvero ha appena iniziato.


Serie

Queste mese abbiamo solo iniziato a vedere X-Files, ma siccome la maratona sta andando molto più a rilento del previsto ancora non mi sento di esprimermi troppo. Dirò solo che l'episodio ispirato a La Cosa forse per ora è il mio preferito e chiedo anche se qualcuno sa cosa assume Gillian Anderson per essere invecchiata come ha fatto perché se possibile assumerei. Grazie.


Film

Ogni mese su Instagram faccio un riassunto delle visioni del mese, ma in questa sede voglio almeno citare il preferito horror e quello di altri generi.
  • The Seed è una cosa così brutalmente fuori di testa che non poteva che stare sul podio. Tre amiche assolutamente bruciate partono per un weekend nella lussuosa villa del padre di una di loro per assistere ad una pioggia di meteoriti. In realtà non fanno altro che bere e farsi le canne e quando qualcosa cade nella piscina lo scambiano per un armadillo morto e limonano il giardiniere perché se lo porti via. Ora, poiché gli armadilli morti non cadono dal cielo nelle notti di pioggia di meteoriti, vi lascio immaginare che si tratti di qualcos'altro, ma le nostre sono talmente partite che ci mettono un'eternità a rendersi conto della gravità della situazione. The Seed era esattamente il film di cui avevo bisogno, fa ridere tantissimo, ha tre protagoniste matte in culo che si amano dal primo istante e una seconda parte shockante. Imperdibile.
  • West Side Story, visto ieri sera e ancora mi asciugo la faccia, stupidi musical, stupidi innamorati, stupido Spielberg, stupido Ansel Elgort, stupide canzoni, stupide danze, stupida New York. Vi odio tutti e mi dovete pagare la terapia. È bellissimo, quindi la stupida sono solo io che non l'ho visto al cinema. In una prossima vita, quando non avrò sacrificato la mia anima al mondo dell'orrore, la donerò al musical, che non ho mai approfondito ma per quel poco che so mi piace così tanto. 

IRL

Sto lavorando molte più ore di quanto vorrei, ma a marzo Erre ha compiuto trent'anni e ne abbiamo approfittato per un weekend fuori porta, perché solo dio sa quanto ne avevamo bisogno. Abbiamo visitato Lecco e Como, che ci sono vicine a casa ma che ancora non conoscevamo. Sono entrambe molto carine, ma soprattutto siamo stati all'Orrido di Bellano, a cui facevamo la corte dall'estate scorsa. Molto più piccolo del previsto ma davvero un gioiellino, una passeggiata in mezzo ad una gola che è davvero adorabile, ma che consiglio con cautela a chi, come la sottoscritta e il suo cane, ha paura di scale e passeggiate in metallo in cui si vede lo spazio sotto. Bellissimo ma un po' inquietante se si ha paura dell altezze.



Riuscirò ad essere costante con questa rubrica? La storia del blog ci dice di no, perché sono incostante per natura, ma siccome la rubrica della storia mi porta via tanto tempo vorrei riuscire a fare una cosina del genere ogni mese per parlare di tutto quello a cui non ho dedicato post interi? Può avere senso?
Nel dubbio, per un po' proseguiamo. 

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