martedì 10 maggio 2022

Nuovi Incubi, stagione 2: The Craft - The Craft Legacy

11:00

 Ci siamo salutat* parlando di Julia Ducournau e della nuova ventata delle donne del cinema francese, ed è stato molto bello. Però era giunto il momento di salutare la prima stagione e la New French Extremity, e prenderci un attimo di pausa. 

Oggi, finalmente, siamo tornate! 




Su Instagram avete votato una seconda stagione a tema teen girl, e non sapete in che casino vi siete lanciat*: sarà una stagione lunghissima, troppo divertente, ma soprattutto con due film a episodio! Pensavate fossimo già lunghe prima? Non sapete cosa vi aspetta. 

Per cominciare, quindi, la nascita vera e propria del teen girl horror moderno: Giovani streghe, e il suo legacy sequel del 2020. Per l'occasione, la prima ospitata della stagione.

Grazie a Sara di averci fatto di nuovo compagnia e grazie a voi se vorrete ascoltarci! 

Ci trovate qui.

venerdì 6 maggio 2022

Gli anni '30: White Zombie e l'origine dei ritornanti

17:29
In questi primi due decenni di ricostruzione della storia del cinema dell'orrore abbiamo visto quasi tutte le creature che ci accompagneranno per tutto il percorso: demoni, streghe, vampiri, scienziati pazzi...
All'appello, però, insieme ad altri amici che conosceremo settimana dopo settimana, mancano i più politici di tutti: gli zombie. 
Questo perché fino al 1932, anno di uscita di White Zombie, dei ritornanti non si era ancora parlato, o almeno non nei termini che utilizziamo ancora oggi.
Oggi, quindi, vediamo insieme la storia e le conseguenze di un film piccolo e anche un po' odiato, una delle rarissime incursioni di casa United Artists nel mondo del cinema dell'orrore.


manco la faccio la gag per farvi indovinare di chi siano sti occhi da ossesso



Le origini del mito


Mi verrebbe fin troppo facile riassumere la nascita della figura dei morti viventi con un semplice "i bianchi fanno schifo", ma è un po' come dire che l'acqua è bagnata ma non spiegare perché disseta, quindi mi impegno un po' di più. 
Per quanto il concetto di ritorno dalla morte sia effettivamente parte di più di una cultura, è all'Haiti del diciassettesimo secolo che dobbiamo la figura dello zombie il più simile possibile a quella che intendiamo oggi. E dico che i bianchi fanno schifo perché naturalmente Haiti era una colonia francese. E colonia = schiavitù. E schiavitù = metodi diversi di gestire l'immensità della situazione da parte delle persone che la subivano. Nascono credenze popolari, suggestioni, che vogliono la possibilità del ritorno dalla morte come qualcosa di tutto fuorché positivo. Chi moriva e poi tornava lo faceva in uno stato di totale assenza dell'anima: a tornare erano solo i corpi. Questo portava ad una maggiore oppressione, una totale cessione del corpo al volere dell'altro. Se non esisti come umano ma solo come corpo sei maggiormente comandabile, la sopraffazione su di te è totale. Lo zombie, quindi, è il frutto della paura più grande, della peggiore delle realtà possibili. Il più rappresentativo simbolo dell'ingiustizia sociale.

Non ci sono molte fonti riguardanti la figura del ritornante precedenti la Rivoluzione Haitiana, quella per l'abolizione della schiavitù e la liberazione dal governo francese, avvenuta tra il 1791 e il 1804. Sappiamo che la parola compare per la prima volta nel 1697, in un testo autobiografico di Pierre-Corneille Blessebois (non chiedetemi mai quante volte ho fatto un controllo sul modo corretto di scrivere il suo nome), intitolato Le Zombi du Grand Pérou, considerato oggi il primo romanzo coloniale francese. 
Dopo la Rivoluzione, le condizioni di vita ad Haiti non sono migliorate, almeno per i membri delle classi inferiori (una grande sorpresa per nessuno): politica instabile, differenze di classe, leader affamati di potere. Il risultato è che la schiavitù è stata sì abolita, ma non la supremazia dei ricchi sui poveri, che restano pesantemente controllati. Fu inevitabile, poi, l'interessamento degli Stati Uniti verso una nazione fragile ma ricchissima. Nel 1910 gli USA ottengono il monopolio economico della nazione, e il resto è storia. 
È dopo la Rivoluzione che lo zombie di Haiti diventa parte della religione Voodoo e non solo elemento folkloristico: sono gli sciamani , gli stregoni chiamati bokor, a crearli, di nuovo per far svolgere loro mansioni di varia natura. 
Per i poveri morti non c'è pace.

Punto di svolta nella narrazione degli zombie haitiani arriva nel 1929: William Seabrook, noto occultista americano, pubblica un testo che è un resoconto di un periodo trascorso sull'isola, The Magic Island, oggi accreditato come principale ispirazione per il film di cui, giuro tra poco, parleremo. Nel testo accenna a loro come a soulless human corpses, cadaveri umani senz'anima. Racconta di pratiche Voodoo, di stregoneria, di pozioni con erbe e incantesimi. Non ne parla con toni negativi, non le paragona a pratiche primitive e superate, ma piuttosto come di un elemento spirituale molto potente e sentito, a suo dire perduto nella comunità da cui proviene, gli Stati Uniti. Parla però anche di lavoratori defunti, ma non nel senso di morti bianche: proprio di morti che continuano a lavorare. Gli viene offerta la possibilità di conoscere "uno zombie", opportunità che il nostro coglie felicemente. Pare lo abbiano direttamente portato in una sugar factory, tanto lo zombie stava di turno.
È questo testo che porta alla nascita del film, e sarà il film a creare l'immaginario intero degli zombie che ci portiamo ancora appresso. La figura del ritornante non prende subito piede, però: dopo il film del '32 c'è un sequel, quattro anni dopo, e infine i tentativi di Tourneur nel decennio successivo, ma si tratta di tentativi sporadici, non di un filone vero e proprio.
Per quello ci tocca aspettare Romero.


Il film


Ormai, grazie anche al lavoro di Seabrook, il pubblico conosceva il concetto di ritorno dalla morte: perché non lucrarci su? Il primo tentativo arriva nel '32. L'horror sta facendo soldi buoni, è un rischio tutto sommato limitato. 
I fratelli Halperin hanno un budget limitato (50mila dollari), qualche studio a disposizione, la presenza (tutto sommato economica, con grande rimpianto dell'attore) di Bela Lugosi e la possibilità di girare solo di notte. Si portano a casa il film in poco più di 10 giorni. Haiti all'epoca entrava nel diciassettesimo anno di occupazione americana ed è proprio durante l'occupazione che il film è ambientato. Racconta di Madeline e Neil, una coppia felicemente in procinto di sposarsi, proprio ad Haiti, in prossimità della piantagione di proprietà di Charles Beaumont. Beaumont, però, è follemente innamorato di Madeline ed è disposto a tutto per averla tutta per sé. Bisogna sempre stare attenti a quello che si desidera, però, perché ad aiutarlo c'è Murder Legendre, il personaggio di Lugosi, che ha tutto fuorché buone intenzioni.

Oggi riconosciuta come una delle rappresentazioni più fedeli dello zombi in senso haitiano, il film fa un buon successo di botteghino ma non di critica: viene quasi all'unanimità criticato principalmente per le interpretazioni, il che a me oggi fa un po' ridere perché uno è Lugosi e l'altra una zombie, viene da chiedersi cosa ci si aspettasse. Non solo, il film fa un grande uso dei silenzi, che mi ha nostalgicamente riportato ai giorni del cinema muto, e secondo me ci gioca molto bene, con una recitazione che rimandando agli antichi fasti non è certo debole. Ma questa è solo un'opinione mia. 

Quando si dice che il film parla bene degli zombie di Haiti è perché è principalmente un film che parla di schiavitù. Nonostante il focus sia su Madeline e l'amore malato che Beaumont prova per lei, il problema vero è che l'intera piantagione è sostenuta da zombie. C'è una scena agghiacciante di una morte sul lavoro che fa impallidire il cinema drammatico di oggi. Gli zombie sono ripresi sul lavoro, mentre silenziosi, lenti e obbedienti, creano la ricchezza di Beaumont. La morte del loro compagno non è nemmeno vista, si prosegue nella fatica come se nulla fosse successo. Nel senso più tradizionale dello zombie, questi non sono morti e ritornati, sono vittime di un incantesimo che li annienta e li rende solo corpi lavoratori. Il film è uno specchio del colonialismo americano e dei suoi disastri. 

Leggenda vuole che la distribuzione del film abbia invitato i singoli esercenti a utilizzare cittadini neri, preferibilmente in abiti tradizionali, se poi per favore possono anche cacciare qualche urlo animalesco, grazie, ci fareste molta pubblicità. Andarono così spietatamente contro tutto quello che il film così aspramente criticava. Voleva essere un modo per lanciare questa storia di magia nera, è stato solo l'ennesimo caso di lurido razzismo. Anche in questo caso, sorprendendo nessuno.
Ancora più agghiacciante per lanciare proprio un film che fin dalle sue prime scene mostra che il mostro è l'oppressore. Quando la coppia sta arrivando a destinazione subisce una brusca battuta d'arresto: in mezzo alla strada c'è un funerale. 
Alla richiesta di spiegazioni, l'autista della carrozza (si chiamano autisti anche se guidano le carrozze?) racconta che le persone del luogo sono costrette a seppellire i propri morti per la strada, dove passi sempre gente, per paura che qualcuno (aka il bianco oppressore del cazzo) se li vada a riprendere.
Come poi gli americani siano riusciti anche a rovinare il lancio di questa roba mi è inspiegabile. Non ce la fanno manco se glielo disegni. 

Siamo molto lontani dallo zombi a cui devi sparare in testa, da quello che parla di società e capitalismo, da quello che diventa narrazione della malattia e del fine vita. Certo, lenti son lenti anche questi.
Quello che abbiamo, però, è un amarissimo ritratto dello sfruttamento, dell'oppressione, della schiavitù, della totale disumanizzazione dello schiavo, di una società capace di prendere un'intera fetta dell'umanità e trasformarla in vegetale a proprio piacimento. Gli esseri umani qui sono macchine da lavoro, bestie da soma, vuote di occhi e di voce. Naturalmente allo stesso modo sono trattate le donne: Madeline è oggetto del desiderio malsano di Beaumont, a cui poco importa del contenuto: il guscio è bello e lo voglio io. Quando capisce che gli esseri umani sono qualcosa di più non è solo troppo tardi, è pure limitato: non posso andare a letto con lei, non vedi che è vuota? Lo schiavo no, quello tienilo che mi occorre ancora. 

In barba alle sue critiche, per me White Zombie è fondamentale, durissimo, angosciante. 
È pubblico dominio, non avete scuse: lo trovate qui.




Le fonti di questo post:
(come sempre, asterisco significa link affiliato Amazon, grazie se lo userete!)

Fay, Jennifer, Dead Subjectivity


lunedì 2 maggio 2022

Gli anni '30: Boris Karloff

10:39

 Nell'ultimo post dedicato a Universal e al suo impatto sul mondo intero, non potevo che dedicarmi al signore che ha preso residenza fissa nei miei incubi: William Henry Pratt, in arte Boris Sua Signoria Karloff.

La carriera di Karloff è ben più ampia del suo solo percorso in Universal, ma siccome la Storia del cinema dell'orrore non può farsi senza un omaggio a Lui, ho pensato che questa fosse una buona fase per farlo.


bello come il sole lui


William nasce verso la fine del 1887, in Gran Bretagna. La prima parte della sua vita è caratterizzata dall'essere un diverso. I suoi genitori hanno entrambi origini o discendenze indiane, e hanno passato parte della loro vita a Bombay. Questo ha donato al Nostro una pelle più scura dei suoi connazionali e lineamenti impossibili da ignorare. Le foto della sua infanzia che si trovano online lo rendono evidente: non c'è mai bisogno di cercare quale dei giovani ritratti sarebbe diventato Boris Karloff, ce l'ha sempre avuto scritto in faccia, letteralmente. Era comodo avere la pelle scura nei primi del '900? Non lo è oggi, figuriamoci. Ha subito bullismo e discriminazione fuori dalle mura di casa, per poi rientrare e trovare il peggio: il padre era un violento. La madre si separa, ma la situazione la conduce ad una depressione che le rende complesso crescere il più piccolo dei suoi 7 figli, William. Per tutta la sua carriera, poi, Karloff finirà per dire che i suoi genitori erano morti da tempo: è più facile e meno doloroso così, che spiegare ogni volta le difficoltà dell'essere piccoli in un contesto grande e spaventoso.
Mentre i suoi fratelli seguono una rispettabile carriera diplomatica, il piccolo di casa scopre il teatro e si mette in testa che vuole fare l'attore. Sti sogni di ragazzetti, oh. Finisce oltreoceano, e dopo qualche lavoretto manuale per mantenersi comincia una carriera in teatro, e la comincia con una bugia: scopre che c'è un tale, a Seattle, un agente. Lo contatta, gli fa sapere di essere stato parte, in Inghilterra,di tutti gli spettacoli che ha visto solo da spettatore, in quella gloriosa epoca pre-Linkedin in cui ci si poteva anche prendere un po' di libertà creativa nel raccontare l'esperienza lavorativa. Inizia così la sua carriera, presso la Jean Russell Company. Lui spicca fin dalle prime review. 
In fondo di mentire ne è valsa la pena.
Il passaggio dal teatro al cinema è quasi immediato. Comincia con piccole parti in quei film "program filler", dallo scarso valore ma ottimi come trampolino di lancio.
È in questa fase che la leggenda colloca un episodio degno di un racconto romantico: Karloff è fermo alla fermata del bus, e piove che dio la manda. Passa un certo tizio, tale Lon Chaney Sr, che si mette una mano sul cuore e gli dà un passaggio. In auto chiacchierano di cinema (ah, il sogno di poter essere una mosca e assistere a queste chiacchierate...!) e Karloff ovviamente chiede consigli, è col più grande di tutti, cosa fai, non ne approfitti?
Per farla breve, Chaney gli dice di fare qualcosa di nuovo, qualcosa che nessun altro aveva intenzione di fare, di trovare un ruolo diverso e di farlo bene. Sembra che sia stato preso in parola.
Il suo momento di svolta arriva quando un tale, forse lo avrete sentito nominare, Howard Hawks, gli dà un ruolo che Karloff aveva interpretato a teatro: è il 1931 e il film è The Criminal Code. L'arrivo in casa Universal dopo questo ruolo è quasi immediato e qui Karloff diventa il nuovo volto del mostro. Quello che Universal aveva provato a fare con Lugosi, fallendo, riesce invece benissimo con lui: l'erede di Lon Chaney è arrivato, ed è destinato a grandi cose. 
Gli anni '30 sono una fase gloriosa, e non poteva che essere così, perché il suo esordio con Universal è rivoluzionario. La sua Creatura, il suo Mostro di Frankenstein, è ciò che rende il film indimenticabile. Il suo Mostro non è altro che un bambino, lontano dal modo di agire e pensare di un mondo di adulti. Lui si muove traballante per il mondo, incerto sulle lunghe gambe, gesticola e comunica con il corpo, con gli occhi smarriti, con le mani agitate. E anche se oggi lo sappiamo, che i film di Whale hanno un cuore immenso e una potenza emotiva senza precedenti, all'epoca ha fatto una paura della madonna, per usare un linguaggio tecnico.
Oggi la mostruosità spaventosa di Karloff è molto più evidente, secondo me, nel sempre troppo chiacchierato La Mummia. Naturalmente è un classico tanto quanto gli altri, ma è un pochino coperto dall'ombra gigante dei suoi predecessori, quando invece è un lavoro esorbitante, in cui forse Karloff ci regala uno dei suoi momenti più alti. Il suo Imhotep fa, ancora nel 2022, paura vera. Si muove solo con lo sguardo, è magnetico e spaventoso al tempo stesso. Un fascino così non lo ha mai sfoderato prima, non gli si toglie gli occhi di dosso. 
Mi scuserete, se oggi il mio metro di giudizio con gli attori è alterato: le basi le ha poste Boris Karloff, e toccare quei picchi qui è difficile.
I suoi anni '30 sono segnati da un successo dopo l'altro, e non solo in casa Universal. All'epoca le ha fatte passare quasi tutte: con MGM, per esempio, ha fatto La maschera di Fu Manchu, che era già razzista all'epoca e che oggi giustamente lanceremmo dalle finestre, ma che è ricordato tra le sue interpretazioni migliori. 
È negli anni '40 che comincia ad annoiarsi: il ruolo del villain alla lunga gli sta un po' stretto, ha voglia di darsi ad altro. Approfitta del periodo della guerra, che per il cinema è complesso, per tornare all'amato teatro, con un'occasione ghiottissima. Nasce il grosso fenomeno Arsenico e vecchi merletti, una delle commedie teatrali più famose di sempre. Non che Karloff ci si sia lanciato senza pensieri: non faceva teatro da anni ormai, e non era mai stato a Broadway. Il successo fu tanto e tale che Warner si comprò i diritti per farne un film prima ancora che finisse la stagione teatrale. Nel film Boris non c'è: resterà per tutta la carriera un grande rimpianto.
Sempre nel decennio della guerra si affaccia nel mondo del cinema dell'orrore un altro signore di cui avremo modo di parlare nei prossimi mesi: Val Lewton. Questo signore con Boris Karloff non ci voleva lavorare: voleva un horror più sottile, elegante. Karloff lo ha guardato con quel sorrisino tenero e deve avergli detto qualcosa tipo "Se ti fai un attimo da parte ti faccio vedere come lavorano quelli bravi". I due collaborano per RKO (anche di lei parliamo poi, già nel prossimo post) con tre titoli che sono stati fondamentali: Manicomio (1946), La jena (1945) e Il vampiro dell'isola (sempre nel '45). Karloff ricorda con grande affetto questa fase, seppur non economicamente soddisfacente. Per lui è stato un periodo di grande formazione, di crescita lavorativa enorme. 
I soldi veri, per Karloff, non arrivano che negli anni '50. Negli anni '30 c'era tutto il problema degli attori giovani e sfruttati (ve lo ricordate Lugosi comunista e incazzato? Karloff stava bello nero pure lui, si è sempre esposto per le condizioni dei lavoratori pur nella sua stessa condizione di precariato.), sottopagati sempre. Negli anni '40 la guerra e tutte le conseguenze del caso. Negli anni '50, però, Karloff risorge come la divinità che è sempre stato. Un'aging horror icon che finalmente si porta a casa il grano vero. 
Continua a lavorare nel cinema dell'orrore praticamente per tutta la sua carriera, ma con il tempo ha ampliato le sue prospettive: ha lavorato in tv, avuto programmi tutti suoi in radio, partecipato ad antologie e raccolte. Era il volto del mondo intero dell'orrore, al punto che sinceramente è stato un errore paragonarlo a Chaney, che seppur fenomenale ha avuto un impatto diverso. Il nome di Boris Karloff ha travalicato i generi e i media, ha preso possesso del mondo tutto dell'intrattenimento. 
È stato il migliore dei villain e la più buona delle voci dei racconti per bambini, il più sinistro dei volti col più gentile dei sorrisi. 
Nel corso dei decenni di persone che hanno riempito schermi e cuori ne vedremo parecchie, perché ci piace avere una nostro Olimpo fatto di uomini spesso molto alti con le facce bizzarre, di persone che hanno vestito il ruolo del mostro per tutta la vita e ne hanno fatto una missione, ma mi sbilancio nel dire che nessuna, per ora, è mai più stata Boris Karloff. 
Quando parla di lui, Guillermo del Toro lo chiama il suo messia.
Se non fosse già ormai fin troppo chiaro, qua dentro quello che dice del Toro è legge: Karloff è il messia. 
Sia sempre lodato.



Le fonti di questo post:

Il sito ufficiale

Boris Karloff: The Man Behind The Monster


martedì 26 aprile 2022

Preferiti di aprile

17:10
Siamo tutti d'accordo che aprile è un mese inutile e sconfortante?
Non fa ancora caldo vero, piove sempre, siamo stanchi morti come se avessero picchiato dei bulletti, le persone con lavori normali fanno i ponti e noi cassieri siamo seduti a guardarli comprarsi il pane e i salami per la partenza.
La cosa bella delle cose brutte, però, è che finiscono, e noi possiamo finalmente iniziare a respirare l'inizio della sola stagione in cui si può essere davvero felici: l'estate.

Mi sono però consolata con un sacco di cose carine, parliamone insieme.





Podcast

In questo mese non ho fatto scoperte particolarmente degne di nota, con la sola eccezione di Bear Brook, uno dei podcast true crime più famosi del mondo a cui io ovviamente sono arrivata in ritardo, come mio solito. Racconta dei Bear Brook Murders, rimasti irrisolti per decenni poiché non si era in grado di identificare i corpi delle vittime. Il podcast è un lavoro assolutamente brillante non solo nella ricostruzione, ma anche nel raccontare le tecniche utilizzate per poter arrivare ad una risoluzione del caso, innovative e che si sono rivelate fondamentali per la risoluzione di casi successivi. Allo stesso tempo, è un racconto molto forte su cosa siano le relazioni tossiche, sul modo in cui alcuni uomini bruciano la rete sociale delle donne con cui stanno e le rendono, letteralmente, invisibili.
Molto commovente.


Libri

Il mio libro del mese è stato indiscutibilmente Civitas Dei, di Vincenzo Disalvio. Ne ho parlato un po' su Instagram, e adesso che l'ho finito è giunto il momento di parlarne con un po' più di calma. Parla di Alberto, un giornalista romano che decide di indagare sulla scomparsa di un sacerdote dal piccolo borgo di Civita, in Puglia. Sul luogo lo ospita Barbara, medico del paesello. Io davvero preferirei non dire più di così sulla trama, vi basti sapere che essendo un romanzo dell'orrore non è che Alberto arriva e trova la serenità, ecco, non lo definirei il suo viaggio mangia, prega, ama. 
È un romanzo che ho amato molto. È ambientato nel profondo Sud, negli anni 50 (ma se ricordo male il decennio l'autore mi correggerà). È un testo dalla mole importante (siamo intorno alle 600 pagine) e per tutto il tempo si respira la terra di cui parla. La vicenda in sé, ovvero quanto accade a Barbara e Alberto dal momento in cui si conoscono, è davvero interessante, si arriva alla convincente conclusione con un ritmo che ho trovato perfetto e che non risente mai della sua lunghezza. Richiama tante delle storie dell'orrore che conosciamo e amiamo senza mai profumare di derivativo, ai personaggi si vuole del bene vero. 
Non sono queste, però, le cose che ho amato di più. Io ho amato tanto Civita. Il modo di Vincenzo di raccontare la piccola comunità rurale italiana, con le sue credenze popolari, con le persone che parlano l'una dell'altra e che si conoscono da generazioni, con le sue piccole abitudini familiari, con tutti i personaggi che nel corso del testo si impara a conoscere come quei vicini di casa della vita vera a cui somigliano tanto. È un ritratto così autentico e genuino della piccola vita di paese, che riconosco così bene perché è la mia, che a tratti mi ha commosso. È perfetto, quindi, che la componente dell'orrore del romanzo sia così intrinsecamente legata alle piccole realtà di vita umile, fatte di superstizioni e passaparola e legami tra le persone. Si bisticcia, a Civita, si gioca a carte dopo una giornata nei campi, ci si prende a cinghiate, ci si prende in giro, si accorre tutti ad aiutare la giovane donna che sta per partorire. E sotto sotto, nel vivo formicaio che sono le piccole comunità, sta a sobbollire l'orrore, quello che nasce dal dolore e dalla disperazione.
Io l'ho trovato ottimo. Ormai l'ho finito da settimane, ma con la testa sto ancora là, con Alberto e Barbara e tutti gli altri. 


Videogiochi

Non smetterò mai di ringraziare la mia amica Giulia per avermi convinto a giocare a Martha is Dead.
Se vi va, andate sul mio canale Youtube e guardatevi le live in cui lo abbiamo giocato, ma non fatelo per me, fatelo per il gioco.
È un gioco indie italiano, ambientato nella campagna toscana durante la Seconda Guerra Mondiale. Se le parole "Seconda Guerra Mondiale" fanno roteare gli occhi anche a voi come a me: resistete. La storia è quella di Giulia, figlia di un generale tedesco che si è rifugiato in Italia con la famiglia perché le cose, in Germania, si stanno mettendo male. Un mattino Giulia si avvicina al lago che sta vicino alla loro abitazione, e trova Martha, la sua gemella, affogata. Decide quindi di prendere la sua identità, per provare l'ebbrezza di essere la figlia preferita dalla mamma.
Nel gioco dovrete scoprire cosa è accaduto a Martha. Io non ho alcuna esperienza nel mondo del gaming, credo di sia vagamente intuito, ma questa è oltre ogni dubbio la cosa più bella a cui io abbia mai giocato. Per storia, modalità di gioco, grafica. È tutto magnifico. Dovrete scattare e sviluppare fotografie con una deliziosa riproduzione degli attrezzi dell'epoca, e ricostruire cosa è successo a voi e cosa vi sta accadendo intorno, esplorando la casa e i suoi dintorni, telefonando a conoscenze, cercando indizi per casa, scavando nei vostri ricordi. 
La riproduzione della casa dei genitori delle gemelle è qualcosa di eccellente. Se venite dalla campagna, chiudete gli occhi e ripensate alle case dei nonni, degli zii, dei vicini...è quella. Mentre vi passeggiate ne sentite quasi l'odore. La cura per i dettagli, in generale ma soprattutto nella costruzione della casa, è da perderci la testa.
Il clima e l'ambientazione di Martha is Dead mi mancano da quando l'ho finito. È un racconto di vita commovente, e ha suscitato emozioni che nella mia ignoranza mai avrei creduto di trovare in un gioco. Ed è un lavoro tutto italiano, c'è solo di che esserne orgogliosi.
Lo rigiocheremo tra qualche mese, sempre in live, per vedere se giocarlo in modo diverso darà alla nostra Giulia una sorte differente. 


Serie tv

La cosa sicuramente di cui parlare in ambito seriale è Jimmy Savile: a British horror story. Sono solo due episodi, ma se Netflix lo mette nelle serie ce lo metto anche io. È una docuserie true crime, che racconta ascesa e caduta di Jimmy Savile, uno dei volti più noti della storia della tv britannica. Savile è stato amico di tutte le principali cariche dello Stato inglesi e della famiglia reale, è stato un notissimo filantropo, collaboratore di alcuni dei volti più noti della musica UK e conduttore di straordinario successo. Era, per farla breve, la persona più amata d'Inghilterra. Ed era un pedofilo, un brutale pedofilo che oggi conta più di 300 vittime, ma nessuno lo ha saputo fino a dopo la sua morte.
La docuserie, che è un prodotto davvero di altissima qualità, mette in evidenza incoerenze e problemi di un sistema che tutela sempre i potenti, che concede a chi abbia il "dono" della popolarità di fare proprio tutto il cazzo che gli pare. In più, fa un ottimo lavoro nel mostrare quanto la verità sia sempre stata sotto gli occhi di tutti, e quanto a nessuno sia importato di vederla. Savile aveva contatti potentissimi, una quantità di denaro che non ha senso, e la somma delle due cose fa un solo risultato: la libertà.
È una serie difficilissima da vedere, fa così arrabbiare che a volte è quasi insostenibile. La spudoratezza e l'arroganza con cui Savile andava a spasso dichiarando sulla televisione nazionale che le bambine dovevano stare attente a lui vi farà così incazzare che onestamente io non lo so se è una visione da consigliare. Sicuramente tenete in considerazione tutti i trigger warning del caso, perché ci sono testimonianze dirette delle vittime e una nello specifico vi lascerà boccheggianti a terra. Cautela massima se il tema vi colpisce in modo particolare. 
Dall'altro lato, però, è una serie che ritrae in maniera esemplare i modi e le ragioni per cui una persona può violentare indisturbata dei bambini dichiarandolo quasi apertamente in prima serata con la certezza matematica che nulla gli possa accadere. Mostra che cosa è il potere, come si creano certe dinamiche che guardiamo indignati, e più semplicemente come cazzo sia potuto succedere.
Forse la miglior serie true crime che ho visto finora.


Film

Le visioni del mese complete arriveranno su Instagram il 31 come sempre, qua riassumiamo solo il meglio del meglissimo. 
The Northman è quel film che se non lo andate a vedere al cinema poi vi ritrovate a piangere e lamentarvi. Su, in sala, andare! È un capolavoro, amici miei. Mi ha fatto quello che ormai per me è l'effetto Neon Demon: talmente bello che rende opaco tutto il resto. È gigante, duro, maestoso. Un lavoro straordinario che sta andando male in sala a conferma del fatto che delle persone non c'è proprio maimaimai da fidarsi quando si parla di cinema. Il Moderatore dice che sono snob e me lo rivendico, se significa esserlo contro chi non sta andando in sala a vedere The Northman.
A casa, invece, il mio mese è stato più miserino della mia media, ma direi che il vincitore del mese è Ragazze interrotte, ammesso che si possa dire che l'ho visto. Forse ero troppo offuscata dalle lacrime, non lo so. Ho sofferto come una brutta stronza. Posso dire anche che non amo il titolo? Forse avrei voluto "Ragazze nei confronti delle quali la società tutta ha fallito". 
"Ragazze a cui si dovrebbero delle scuse".
"Ragazze che avevano ragione loro".
"Ragazze che fanno un po' il cazzo che gli pare e vorrei ben vedere".


IRL

La vita vera è stata piatta, lo ammetto. Vale se come momento più alto ci metto la cena al mio ristorante preferito? Secondo me il pane indiano al formaggio vale come momento migliore del mese sinceramente. 
E la siepe che io e il Moderatore abbiamo piantato da soli e che adesso osserviamo come i genitori fanno con i neonati. Ecco sì, anche lei meritava una menzione, la nostra nuova siepina tutta rossa!
Spero il mese prossimo di avere anche cose più entusiasmanti da condividere. Ci provo, eh, ma la vita dell'outernet mi dà ansia.







sabato 23 aprile 2022

Gli anni '30: James Whale

17:45
Il cinema dell'orrore, l'ho detto troppe volte, non è una passione che mi trascino fin da piccola. O meglio, le sue radici sono nella mia storia familiare, ma la nostra relazione la coltiviamo da relativamente poco, tutto sommato. 
Il momento in cui ho capito che io dovevo condividerla col mondo, quella passione qui, è arrivato con Evil Dead, e da lì è nato quello che era Mari's Red Room e che è diventato la Redrumia, ma il momento in cui ho capito che avrei dovuto dedicare la mia esistenza intera alle persone che parlano di orrore è arrivato la prima volta che ho visto La moglie di Frankenstein. 
Il mio modo di guardare il cinema non è mai più stato lo stesso. 
Nel mese dedicato ad Universal, quindi, non potevo che mettermi umilmente a scrivere un post su James Whale. 
Soli 4 horror in carriera, e il mondo si prostra ancora ai suoi piedi.


perché con una faccia così non si sia messo a recitare per sempre ma solo a dirigere è un mistero e un nostro grande privilegio


La vita


Whale era inglese, nato a fine '800 da una famiglia di origini così umili da richiedergli di andare a lavorare il più presto possibile, soldi per studiare non ce ne stavano. La prima guerra mondiale colpisce anche lui, ovviamente, che si arruola volontario e finisce per venire imprigionato dai tedeschi. È nel periodo della prigionia che si avvicina al suo destino. Un'altro al posto suo, imprigionato in guerra, sarebbe impazzito, questo si è messo a fare il teatro. Venitemi a dire che l'arte non salva la vita. Continua a darsi al teatro anche dopo l'armistizio, al suo ritorno a casa, e la combo dell'esperienza in guerra + quella teatrale lo portano alle sue prime esperienze di regia, proprio a teatro: il suo primo lavoro è Journey's End, una narrazione della vita degli ufficiali di fanteria durante la guerra. 
Journey's End va così bene che attira l'attenzione del mondo del cinema (sorpresi, vero?) e finisce che Whale si ritrova a dirigerne anche la versione cinematografica. 
Quando c'è profumo di soldi c'è Laemmle, che infatti gli è balzato addosso come un gatto affamato e se lo è portato in Universal. In questa sede non ci interessano tutte le altre cose che ha fatto (alcune delle quali, però, le trovate in questa playlist che ho creato su Youtube) perché questo è pur sempre un blog di cinema dell'orrore e pur essendo io certa siano tutte cose magnifiche qua bisogna arrivare al sodo: il 1931, quello che David J. Skal ha definito il peggior anno del secolo per gli americani e quindi il migliore per il cinema dell'orrore. Whale viene scelto da Laemmle per riprodurre il successo di Dracula, e quindi James ha deciso che lui lo avrebbe fatto di più e meglio: i suoi 4 film horror per Universal sono non solo rivoluzionari, e di quello parleremo poi, ma anche incredibili successi di botteghino, a differenza di alcuni dei suoi lavori che escono dalla definizione di genere, sempre amati dalla critica ma accolti più tiepidamente dal grande pubblico. 
Dopo un decennio infuocato, Whale si ritira dalle scene. Lavora ancora per un po' a teatro, con risultati deludenti, e sporadiche e insignificanti apparizioni nel mondo del cinema.
La fine della sua vita è drammatica: dopo un paio di ictus il suo stato di salute peggiora, fisicamente e mentalmente. Si è tolto la vita a meno di 70 anni.


I film


Ce lo siamo detti nel post a lui dedicato: il Dracula di Tod Browning fa un successo immenso. Così grande da convincere persino il vecchio Uncle Carl, che in questo cinema dell'orrore proprio non ci vedeva niente di buono, a farne un altro, subito. Si fa presto a decidere che il prossimo sarà Frankenstein: era già pubblico dominio. E quindi, Whale dietro la mdp, e si fa la storia. 
Lo sappiamo tutti quanti che il capolavoro di Whale è un altro, ma il momento in cui questo film ha visto la luce è quello in cui il regista si è portato a casa la possibilità di fare praticamente quello che gli pareva, con buona pace di Universal e del Codice Hays. 
L'impatto della Creatura del 1931 è stato così potente che oggi, semplicemente, la Creatura ha i chiodi nel collo, fine della discussione. Non c'è un momento nella vita in cui questa informazione non sia già radicata nella mente di chiunque: il Mostro di Karloff (a cui sarà dedicato il post della prossima settimana) è l'unico possibile, l'unico indimenticabile. E se il merito di questo è ovviamente da attribuirsi al suo magnifico interprete e all'iconico make up di Jack Pierce, è innegabile che il taglio che Whale ha deciso di dare alla più classica delle storie di mostri sia stato significativo. Nel guardarlo oggi, quando il ruolo di Karloff nella costruzione del mito è ormai dato per scontato, è l'interpretazione di Colin Clive (Henry Frankenstein) a far accapponare la pelle. Il suo viso elegantissimo e segnato e scolpito sono ipnotici, le sue urla paralizzanti, il suo Henry spaventoso, nevrotico, eccitante. 
Sono due le cose di questa versione del Moderno Prometeo che fanno riflettere: Whale sceglie di togliere la parola al mostro e decide di dargli un difetto di "creazione", ovvero un cervello difettoso. A dirlo così sembra evidente una volontà di allontanare ogni forma di empatia verso una creatura mostruosa, biologicamente crudele, sbagliata e oltretutto privata della più comune forma di comunicazione. 
È invece proprio in questo il punto più alto del film: Whale inquadra le mani della Creatura, la più espressiva parte del corpo umano dopo il volto, lo mostra muoversi smarrito nello spazio come se avesse la percezione costante di non appartenenza, gli fa subire angherie, maltrattamenti, violenza. Gli fa conoscere il bene del mondo e glielo fa strappare dalle mani, in una scena che 91 anni dopo ancora prende il cuore, lo strappa dal petto, lo calpesta e ci sputa pure sopra. Giusto per ricordare a tutti che se si è appassionati di orrore è molto probabile che si abbia anche bisogno di andare in terapia. Ma anche che le parole sono spesso superflue.
Si può quindi dire che Whale, con il suo primo contributo all'horror, lo ha già rinfrescato? Sì, ovviamente.

Le cose vanno talmente bene che il suo secondo, magnifico, film dell'orrore arriva l'anno dopo, e naturalmente finisce per sovvertire un genere intero. Si chiama The Old Dark House e si prende gioco, rimescolando tutte le carte in tavola, del genere che viene ricordato come, ehm, dark house, e che fa parte del cinema americano fin dai suoi esordi. Lo avevamo già visto parlando di The Cat and the Canary, che pur essendo delizioso e molto rilevante per la storia può solo farsi da parte e levarsi il cappello. 
Non solo fa questo, ma è da molti ricordato come il più esplicitamente queer dei suoi lavori, grazie anche al suo essere uscito prima del '34, anno dell'entrata effettiva in vigore del Codice Hays. Se l'attenzione di tutti, per ovvie ragioni, è sempre stata su La Moglie, Harry M. Benshoff nel suo saggio Monsters in the closet, che trovate linkato nelle fonti, dedica una parte proprio al secondo lavoro di Whale.
La storia, che racconto perché meno nota della precedente, è quella di una coppia che, in auto insieme ad un amico, si perde guidando e resta bloccata, a causa della tempesta, nella casa in cui si erano fermati a chiedere soccorso. La casa appartiene alla misteriosa famiglia Femm, e la notte trascorrerà tra eventi misteriosi e personaggi spaventosi. È o no un riassunto degno di una rivista di programmazione tv?
I riferimenti e le connotazioni queer che Benshoff elenca nel film sono sconfinate: dalla "padrona di casa" che fa osservazioni alla sua ospite, inviti più o meno espliciti in camera da letto, i personaggi di Horace, Penderel e soprattutto Saul.
Studiando la storia del cinema dell'orrore è sempre più evidente che mai come in questo caso non si possa parlare per assolutismi, tutto si miscela armoniosamente con quanto arrivato prima e si crea sempre qualcosa di nuovo. In questo caso credo di poter fare un'eccezione: il queer coding nel cinema ce l'hanno portato Whale e tutti i suoi creativi modi di ritrarre l'irritraibile, con buona pace del Codice e delle sue norme antiumanità.
Se Saul è eterosessuale io sono bionda.
Del film mi piace anche ricordare quanto sia divertente. E non ascoltate chi lo considera un Whale minore. Non c'è niente al mondo che sia un "Whale minore".

Per parlare de L'uomo invisibile, del '33, vi cito semplicemente quello che ne dice Tom Weaver nel suo Universal Horrors: 
Deprive the average special effects film of its visual tricks and you rob it of its heart and soul. The Invisible Man, Universal’s superb 1933 filmization of one of H.G. Wells’ most enduring novels, is a firm exception to this rule. Its gripping narrative, masterful direction and believable performances elevate the film beyond mere novelty, and hold up alongside the unerring technical effects for the audience’s attention. One of the handful of fantastic films unblemished by the ravages of time, The Invisible Man is a monument to the genius of four remarkable artists: Director James Whale, screenwriter R.C. Sherriff, special effects ace John P. Fulton and star Claude Rains. 
In buona sostanza, senza tradurre il tutto: è un capolavoro, ciao. 
E io lo so che gli amanti della fantascienza proveranno a rivendicarselo come roba loro, ma saprete ormai bene che delle mie cose io sono gelosa, giù le mani da James Whale.


La Sposa


Sì, lei ha un paragrafo a parte, perché non è solo il Capolavoro del Nostro, ma è il film che mi ha portata qua e secondo me non c'è niente al mondo che sia bello quanto La moglie di Frankenstein. 
Laemmle Jr. era in procinto di lasciare il prestigioso ruolo che gli aveva regalato il padre, ma prima di andarsene aveva in serbo un paio di "speciali": una versione cinematografica del musical di grande successo Show Boat e un sequel per Frankenstein. Se non fu difficile assegnare a Whale il musical, del sequel il regista non ne voleva proprio sapere. La condizione per accettare? Avere carta bianca. Non l'ha poi avuta davvero, perché il Codice sempre lì stava, ma insomma.
È ironico? Un po'. Manco lo voleva ed è diventato il suo lavoro più importante. 

Comincia la lavorazione, e una volta assicurati i posti di Clive e Karloff è in questa sede che si fa la scelta forse più importante del film: per il ruolo di Pretorius, forse la persona più famosa del film dopo la Sposa, viene scelto Ernest Thesiger, già Horace di The Old Dark House. 
Whale era solito lavorare con attori che avessero una sorta di, passatemi il concetto, "aura gay". Per quanto, come riporta Benshoff nel suo testo, la società avesse con l'omosessualità un rapporto meno peggiore di quanto si possa pensare, non tutti erano nella posizione privilegiata del regista, quindi alcuni degli attori che coinvolgeva erano spesso sposati con delle colleghe, e la loro omosessualità non sempre era dichiarata. Tra questi Thesiger stesso, che in Gran Bretagna, da cui arrivava, era noto per il suo "queer appeal". Septimus Pretorius è la punta di diamante di un film che non sarò mai in grado di giudicare con oggettività: siamo dalle parti della perfezione.

Nonostante cambi di sceneggiatura, modifiche, addolcimenti sciocchi per la censura, aggiramenti delle norme e un prologo che odiano anche i sassi (ma io no, perché ci sono dei borzoi e io amo tanto i borzoi), l'opera non pecca mai - mai, mai, mai - dell'incoerenza di cui potenzialmente avrebbe potuto soffrire. È anzi un lavoro maturo, raffinato, equilibrato. Un film che, preoccupandosi di non fare sconcezze inadeguate, ha elegantemente preso per il culo la società americana nella sua interezza, nella sua ipocrisia, nei tre valori tradizionali su cui è basata e che non sono mai stati un ritratto fedele del Paese, ma solo del modo in cui il Paese si dipingeva ai suoi stessi occhi. 

Ora, un briciolino di fatti miei. Ho qualche tatuaggio. Uno di questi è il volto della Sposa, dietro il braccio destro. Quando ho deciso di farmela ho chiesto alla tatuatrice di disegnarmela nel suo stile, che amo molto. Mi manda un disegno, e la Sposa ha un'espressione incazzata. Ma proprio che è nera. E io me lo guardo, sto tatuaggio, e non sono convinta dell'espressione. Allora mi sono riguardata il film.
E adesso io la mia Sposina incazzata la amo come se la avessi disegnata io. È potente, è rappresentativa, è proprio lei. È quella che non ha chiesto di venire al mondo e si è trovata sfruttata, con un ruolo già scritto per lei ancora prima di nascere. È quella a cui non viene data personalità, vestita e atteggiata come tutte le altre. È quella che ha il solo scopo di compiacere il suo maschio, quella che non conta niente se non in funzione del suo ruolo. E allora io la guardo e la amo sempre di più, con i suoi occhi tutti bianchi e le sopracciglia aggrottate. Ed è magnifica e la porto a spasso con orgoglio, perché di donne incazzate non ce ne sono mai abbastanza. Lo fossimo anche tutte, non saremmo abbastanza.

Nel suo saggio Here comes the Bride, Elizabeth Young espone un altro modo per analizzare il film: se La moglie analizza le paure e le ansie degli anni '30, non possiamo ignorare quelle razziali. La prima metà degli anni '30 è stata caratterizzata da un numero significativo di linciaggi ai danni di uomini neri, che hanno nel caso di Scottsboro del '31 il loro episodio più eclatante. Al mostro sono attribuite tutte le caratteristiche che una società profondamente razzista attribuisce alla popolazione nera: criminalità, violenza, inferiorità di intelletto...La fisicità di Karloff, poi, ha dato un grande contributo a questa lettura. Era un uomo molto alto, imponente, dai lineamenti molto marcati. Il collegamento si fa da sé. C'è pure il linciaggio, perfetto.
Nel secondo film della serie, però, quello che ci interessa è l'elemento dello stupro. 
Quale stupro? vi chiedere giustamente, Quello che non c'è?
Proprio quello.
È proprio nell'elemento dell'allusione (Elizabeth che strilla dietro la porta chiusa a chiave appena la creatura entra), della possibilità, che la creatura diventa perfetta rappresentazione della vita degli uomini neri, accusati con imbarazzante frequenza di violenze mai avvenute, perché come di consueto lo stupro è importante solo in relazione agli uomini che o lo praticano o lo subiscono indirettamente, mai alle vittime reali. Lo stupratore nero è un elemento ricorrente della cinematografia e della cultura popolare di un paese che è sempre stato molto attento alle inezie, e mai alle persone. La diversità di chi commette il reato immediatamente sessualizza il reato stesso. 


Che donne, razza e classe fossero legati da un filo invisibile ma non troppo ce lo ha spiegato Angela Davis, in un testo fondamentale e potentissimo che inspiegabilmente (o forse molto spiegabilmente) non è ancora un testo scolastico.
Solo che lei ce lo ha detto nell'81.
James Whale aveva iniziato ad accennarlo 46 anni prima.
Con un film dell'orrore.
La mia narrazione della storia è forse di parte?
Un po'.



Le fonti di questo post:
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sabato 16 aprile 2022

Gli anni '30: una chiacchieratina su Universal

11:34
 Avete mai notato che non ci sono molti amanti dell'orrore che siano davvero fan del Marvel Cinematic Universe?
Io, per esempio, li guardo quasi tutti (con Morbius proprio non ce l'ho fatta, ho i miei limiti), mi diverto pure un po', attendo il Doctor Strange di Raimi come una benedizione, cose del genere. Ma non mi definirei un'appassionata, ecco, e come me credo moltissimi.

Perché? Il motivo è presto detto.
Al di là delle ovvietà sul sinistro monopolio disneyano, il punto è che l'appassionante franchise, l'universo condiviso, il mondo di personaggi che ritornano e intorno ai quali sono costruite saghe intere, noi li stiamo vivendo da 90 anni. Non ci sorprende nulla. Suono snob? Forse un pochino, lasciatemi vantare dei geni del mondo dell'orrore, per favore.
Se per favore mi spostate i mantelli e le calzamaglie, è ora di parlare della vera mitologia moderna: quella di Universal, un fuoco che ha avuto i suoi alti e bassi in quasi un secolo di storia, ma che non si è mai spento.




La storia

La leggenda vuole che il sogno cominci quando Carl Laemmle, giovane immigrato tedesco che negli Stati Uniti iniziò la sua carriera facendo tutt'altro. Cammina per la strada e nota che davanti a questi tali nickelodeon, le prime sale cinematografiche, la coda era sempre lunga. Ora, Laemmle non era un uomo di cultura, ma di sicuro sapeva far di conto: molla la professione e ne apre uno suo. È successo immediato.

L'avventura "dall'altro lato dello schermo" comincia nel 1909, con una prima casa chiamata Independent Moving Picture Company of America, ma il passo da lì allo studio che conosciamo ancora oggi fu molto breve: ci si sposta dalla prima sede - New York - all'ormai irrinunciabile Los Angeles, e Universal apre i battenti il 15 marzo 1915. 
Per quanto tutti parlino solo di Laemmle e della sua famiglia, un po' per amore verso le storie di successo personale e un po' per le ragioni che vediamo dopo, è ingiusto dire che Universal sia solo opera sua. In realtà il progetto nasce insieme ad altri proprietari di nickeloden, stanchi di dover sottostare all'Edison Trust, una norma che voleva che ogni sala pagasse delle tasse sui film mostrati e prodotti da Edison. Per farla breve: se devo pagare per mostrare i tuoi, tanto vale che paghi per farmi i miei, arrivederci e grazie.

Il motivo per cui tutti ricordiamo principalmente Laemmle come Megadirettore Galattico è che dopo la sua nomina a Presidente Universal è diventata in poche parole una gigantesca impresa familiare. Tutti quelli che vi lavoravano erano in qualche modo imparentati con Uncle Carl. La famiglia Laemmle governava sovrana.
A questo impero c'è una gloriosa eccezione: Irving Thalberg, il ragazzo delle meraviglie di Hollywood.
Thalberg viene assunto ancora giovanissimo (in pratica manco maggiorenne) come segretario prima e assistente personale poi, di Laemmle in persona. Solo per un caso, peraltro: Thalberg era malato di cuore - infatti morirà giovanissimo, e l'oppressiva madre gli trovò un lavoro che gli permettesse di restare comunque vicino a casa dei familiari. Si dimostra da subito una buona scelta, Irving, così buona che Laemmle comincia a piantarlo da solo al lavoro e a riempirlo di responsabilità. 
Poco male: a 21 anni questo tizio era a capo delle produzioni e general manager. Una cosa oggi al limite della distopia. L'impatto di Thalberg sulle produzioni Universal fu immenso, nonostante di fatto si sia fermato con loro per soli 3 anni. Ancora oggi si dibatte sulla vera paternità di due delle produzioni più straordinarie dell'epoca, i due film di Lon Chaney di cui abbiamo già parlato nel post a lui dedicato. L'influenza di Thalberg, la fermezza con cui si imponeva sui registi, anche quelli giganti, sono state il segno del ruolo delle case cinematografiche rispetto a quello dei registi.
Nello specifico, sono proprio le opere che Universal ha fatto con Chaney e Thalberg a segnare un registro che incontreremo per tutta la gloriosa stagione dei mostri. Ma a questo ci arriviamo.

Thalberg passa a MGM, e Universal non se la passa benissimo. Forse in un tentativo di rinvigorire la situazione con un'altra mente giovane e forse altrettanto brillante, Laemmle fa un regalino al figlio per il compimento della maggiore età, Carl Jr: gli regala il ruolo di head of production.
Siccome far lavorare i giovani è sempre, sempre, una buona idea, Jr impone l'orrore al papà, e poche storie. Laemmle Sr, lo ammetteremo, è figlio dei suoi tempi, spaventato dalla novità e ancora più terrorizzato dalle norme benpensanti loro contemporanee. Lo abbiamo visto parlando di Dracula.
Jr., invece, ci ha visto lungo: dopo Chaney, e in piena crisi economica, sono i mostri che la gente vuole al cinema, e la letteratura e il teatro erano pieni di spunti da cui attingere.
Comincia così la gloriosa stagione dei mostri Universal, abitante eterna dell'immaginario del mondo intero, fondatrice ufficiale di un genere cinematografico che pur avendo radici ancora più profonde di così, trova in questa fase un suo linguaggio, un suo aspetto, un suo pubblico. 

Lo straordinario effetto dell'horror, però, non riesce a salvare Universal da una spaventosa crisi economica. La situazione è così tragica che un'analisi di Wall Street del '34 vede Universal come la sola casa cinematografica che non mostrerà segni di ripresa. Le colpe sono spesso attribuite a Laemmle e al suo nepotismo, ma oggi ormai queste cose hanno perso importanza. Anche perché questa è una rubrica sul cinema dell'orrore, e in questo senso Universal e il suo universo di mostri, l'importanza, non l'hanno mai persa.
L'impero Laemmle finisce due anni dopo, nel '36, con l'acquisto della società da parte della Standard Capital Corporation.


I film


La dolcissima coccola che il cinema Universal rappresenta per chi ai mostri classici sia affezionato è ancora oggi un fenomeno straordinario. Questa sede rende impossibile parlare di tutti i lavori che oggi inseriamo nel loro universo, che dal 31 al 56 circa sono una quarantina. 
Quello che è interessante è la grande quantità di elementi che li accomuna. Sono tutti film molto brevi, arrivare all'ora e mezza è già un'eccezione. Il che non solo si presta ad una maratona cinematografica degna di questo nome, per cui in una giornata vi vedete 10 film e risorgete più felici di prima dal divano, ma continua a confermare la mia tesi che il cinema minimalista sia meglio di tutto il resto, per lo meno quando parliamo di orrore. Poche situazioni, un alleggerimento di storie che nei libri sono più costruite ed impegnative, con il risultato di un coinvolgimento emotivo ed intellettuale totale. Nei libri la "pesantezza" mi piace, perché ho un approccio diverso ai due media, nei film amo quanto la sottrazione aggiunga. Avete visto la mia live su Open Water? Uno dei film più intensi che io abbia mai visto, e ci sono solo due persone in mezzo al mare.

Non vorrei essere fraintesa, però, l'alleggerimento è solo nella costruzione, nella quantità di storie che si decide di inserire in un film solo, nella quantità di ambienti, ma anche solo di parole pronunciate. Se parliamo di temi, invece, la leggerezza ce la possiamo pure scordare, perché stiamo pur sempre parlando di film sui mostri in epoca post-Chaney, e non c'è proprio un cazzo da ridere.
O meglio, mi correggo ancora: in realtà si ride spesso. I film di Whale sono un equilibrio impareggiabile di emotività distrutta e divertimento, per esempio. A Whale però dedichiamo un post a parte, qui facciamo un discorso generale. 
Il percorso di umanizzazione del mostruoso cominciato dall'Uomo dai mille volti qui prosegue, con la stessa intensità. Forse con la sola eccezione di Dracula, che porta il male assoluto anche in casa Universal, tutti gli altri ci toccano corde che ormai negli amanti dell'orrore sono note, ma che negli anni '30 profumano un po' di rivoluzionario. Anche Karloff avrà il suo post dedicato, ma in questa sede non possiamo non parlare di quanto sia ricorrente un ritratto desolante di una società che è sempre stata escludente verso il diverso, di quanto sia potente vedere oggi film di 90 anni che ritraggono la violenza praticata come conseguenza della violenza subita, di quanto commuovano ancora i volti mostruosi di chi condivide la nostra parte più intima: i sentimenti. Con il tempo, poi, sono arrivati i film in cui il soprannaturale era cattivo, disastroso, distruttore. In questa fase, però, in cui il mostro è una creazione scientifica o naturale, è solo l'umanità quella messa in discussione. Quell'umanità che, affamata di avanzamento scientifico, dimentica la morale, quell'umanità che, terrorizzata dal cambiamento che il diverso inevitabilmente porta con sé, si chiude nella consuetudine, che si fa forza della propria somiglianza ed esclude chi non riconosce. Elemento ricorrente e davvero terrorizzante è la massa: la massa arrabbiata, i forconi infuocati che accendono il cielo e il desiderio di difendersi da un attacco percepito ma non reale. La mancanza di comprensione, l'ignoranza, la totale sordità di fronte a chi cerca di comunicare e comunicarsi. 90 anni fa Universal sfornava alcune delle più raffinate rappresentazioni di quello che è l'uomo quando ha paura, e allo stesso tempo di quello che è quando non ne ha affatto. Quando è arrogante, immorale - ma per davvero - quando pensa di essere al di sopra delle leggi e dei suoi simili. 
E allo stesso tempo, in una spettacolare giostra di equilibri, diverte sempre. 

Certo, chiudendo con una nota amara, viene naturale chiedersi se il lavoro che Universal ha fatto con le sue creature e i suoi scienziati e le sue donne e le sue folle inferocite sia così amato perché ancora attualissimo. Perché il diverso ci spaventa ancora, perché ci sentiamo minacciati da un cambiamento che non riconosciamo come positivo, perché non abbiamo ancora capito che l'umanità è tanta ed è una.
La chiusura che negli anni '30 era già brutale ma forse comprensibile, oggi non ha più giustificazione alcuna. 
È per quello che dei mostri classici abbiamo ancora così tanto bisogno, e forse ce lo avremo per sempre. 



Le fonti di questo post:

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domenica 10 aprile 2022

Gli anni '30: la rivoluzione Dracula

19:45
Smetterò mai di sentirmi in soggezione nel parlare di cinema dell'orrore? Spero di no, perché è il mio modo di pensare al bene che gli voglio. 
Nel post precedente avevo preannunciato che avrei diviso i due mesi dedicati agli anni '30 per studios, e se così deve essere non posso che partire dalla scelta più ovvia: Universal. 
Tutto il mese di aprile, quindi, lo passeremo in compagnia dei primi veri franchise della storia, e di tutti quei personaggi che, ridendo clamorosamente in faccia al passare del tempo, non solo continuano a vivere indisturbati nell'immaginario di un mondo intero, ma che sono quelli che quello stesso immaginario lo hanno creato, ponendo le fondamenta per tutto quello che verrà costruito.
Sono la mitologia dell'orrore, un'Olimpo di nomi e volti che per fama e ruolo nella storia viene da mettere al pari solo di Babbo Natale, o Topolino. L'inizio di un nuovo modo di guardare, immaginare e soprattutto creare le storie dell'orrore.
Siamo nel 1931, e per la prima volta il mondo vedrà sullo schermo il Conte Dracula e la sua storia, quella che oggi sappiamo essere la più adattata di sempre.
Oggi parliamo di lui, il Dracula di Tod Browning. Mi piaceva l'idea di partire con chi ha cominciato tutto.





Come si arriva a Dracula

La scorsa settimana abbiamo visto la situazione generale degli anni '30, e la prossima nello specifico della storia di Universal e del suo Monster Universe. Come si arriva, però, nello specifico, a Dracula?
Dopo le insistenze di Carl Laemmle Jr., l'azienda ha ceduto, e si è aperta all'orrore. La storia del Conte era la scelta più naturale possibile: dopo i litigi di Florence Stoker - l'esigente vedova di Bram Stoker - con Nosferatu, in qualche modo si è riusciti, pagando il giusto, a portarlo a teatro in Gran Bretagna. Lo spettacolo, a cura di Hamilton Deane, fu un successo inarrestabile e fu l'iniziatore di una politica del mistero e dello sgomento che seguirà il modo di pubblicizzare la storia di Dracula per gli anni successivi: era stato reso noto, mooolto noto, che nel pubblico ogni sera si poteva trovare un'infermiera specializzata, pronta ad aiutare chi si sarebbe sentito male per la forza dello spettacolo in scena. Non giudico nessuno io, queste cose fanno presa tutt'ora sulla sinceramente vostra. 
Il successo straordinario dello spettacolo attirò (ovviamente) l'interesse degli avidi statunitensi, che già un centinaio di anni fa giravano per il mondo chiedendosi cosa c'era di bello da rubare. 
È Horace Liveright, un produttore di Broadway rimasto senza mezza lira, ad intuire che quella roba lì in patria sarebbe andata fortissima. Liveright compra i diritti, porta a Broadway uno spettacolo quasi completamente invariato, e sbanca. Questa non è la sola idea eccellente del nostro. Sceglie per il ruolo del protagonista uno sconosciuto attore ungherese, dall'accetto affascinante e dallo sguardo intenso, e il resto è storia.
Universal, quintessenza dello spirito statunitense, coglie la possibilità di fare soldi con il successo di qualcun'altro, e sotto le pressioni del suo giovanissimo presidente si compra i diritti e inizia a lavorarci. Aveva tutte le carte in regola per diventare un successo: in quel momento Universal, come abbiamo visto qualche post fa, aveva nella coppia Chaney - Browning una delle certezze più insindacabili del cinema del momento.  Una potente - e talentuosissima - gallina dalle uova d'oro: il film si era praticamente scritto da solo. Ma Chaney viene a mancare poco prima dell'inizio delle riprese, e Browning era, come dire, sottotono. La storia, il caso, il fato, o chi credete si occupi di queste faccende, ha fatto sì che l'attenzione tornasse su quello sconosciuto ungherese e su un certo direttore della fotografia: Karl Freund. Il film, come il mondo lo ricorda oggi, è tutto o quasi in mano loro.
Si inizia a lavorarci su, e il resto è storia.


Bela Lugosi


In tutte le fonti che troverete in fondo al post l'opinione è la stessa: il film, oggi, è considerato mediocre, e facilmente dimenticabile se non fosse per il suo immenso contributo storico. Un'altra opinione, però, è altrettanto diffusa: la sola cosa apprezzabile del film risponde al nome di Bela Lugosi. 
Nato in Ungheria nell'ottobre del 1882, proprio vicino al confine con la Transilvania, Bela deve lasciare la sua terra perché, ehm, comunista. Partecipa alla rivoluzione ungherese, lottando contro paghe ridicole e condizioni di lavoro dei giovani attori. Per il partito comunista ungherese non finisce benissimo, e Lugosi nel 1919 è costretto a lasciare il paese. Dopo qualche tappa europea finisce negli Stati Uniti dove si dà al teatro senza sapere una mezza parola, imparando le parti memorizzandole foneticamente, come facevamo noi alle medie con le canzoni dei Backstreet Boys. 
Lui è diventato leggenda e noi, va beh, stiam qua. 

Lugosi non doveva essere un collega semplice. Le voci sul suo conto lo vogliono freddo, distaccato al limite della maleducazione, eccentrico, vanitoso. Poco importa, oggi, perché forse, vedendo il suo Conte, sono proprio queste caratteristiche personali ad avergli consentito di dare proprio questo taglio così di impatto. E poco importa anche perché le persone sono tutte valide a prescindere dalle proprie skill di socialità, ma non è questo il punto. 
Non è solo il suo accento, o il suo aspetto esotico, ad averlo reso leggendario, anche se è innegabile che l'unione di queste cose con l'avvento del sonoro e l'entusiasmo della novità abbiano indubbiamente contribuito. Il suo Conte, però, è diverso da ogni rappresentazione precedente del vampiro: è lento, sensuale, seppur in un modo lontano da quello che intendiamo oggi, ipnotico, e ha posto le basi per tutte le rappresentazioni successive. Di conseguenza, ha posto le basi di un archetipo intero.

Le conseguenze del "grande ruolo", però, si sono ripercosse anche su Lugosi, nonostante il rapporto complesso che aveva con il suo Dracula. Laemmle Jr. era pronto a costruire con lui un nuovo Chaney, perché, sì, avevano anche già la fissa dell'erede. Dracula riscosse un successo tale da spingere la casa a investire su altre trasposizioni da romanzi dell'orrore e la scelta più naturale finì per essere Frankenstein, la rivoluzione del gotico creata da una poco più che ragazzina. Lugosi, però, non ne volle sapere: il suo volto non poteva non essere riconosciuto, e il ruolo della creatura non faceva per lui. Da quel momento in poi, la sua carriera fu un susseguirsi di scelte opinabili, di possibilità mancate. Tornò ad indossare i panni del suo vampiro per altre occasioni e finì vincolato nel ruolo del villain. In più, l'esperienza di lavorazione del film non fu per lui un'esperienza particolarmente appagante, e soprattutto non abbastanza pagante. In un film in cui - miracolosamente - l'attrice più pagata fu la donna (Helen Chandlers), Lugosi guadagnò meno del desiderato, e nessun centesimo in più della paga per la parte: il merchandise non gli fruttò nulla. Ok, non era il fenomeno che è oggi, però frullano le scatole lo stesso.


La bio sul suo sito è scritta con immenso amore dal figlio, Bela Jr., e ritrae naturalmente anche i suoi aspetti più umani e candidi, come l'amore per i suoi cani, per il sigaro che la povera moglie doveva tenergli acceso mentre lui era in scena e per i vini californiani. 
Leggere di lui in giro, però, non fa altro che contribuire a questa immagine che ormai di lui mi sono costruita in testa, di uomo distante, scostante, un po' altezzoso, che non fa altro che contribuire a sua volta alla tridimensionalità del suo Conte, che con la sua pulita cortesia fa ancora la stessa paura che immagino abbia fatto a chi ha avuto il privilegio di vederlo sullo schermo per la prima volta.

Gli articoli che ne annunciarono la morte lo chiamavano, semplicemente, Dracula. Non lo so se la cosa lo avrebbe davvero reso felice, ma lo spazio che si è preso nella mente di chi è appassionato è rimasto immutato. Felice o no, ha cambiato il modo in cui sono andate le cose, ed è diventato immortale. 
Il suo vero nome, del resto, non lo ha usato mai. Tanto vale ricordarlo come leggenda.
 

Il film


Due info tecniche di numero ma proprio due per fingere una serietà che non mi appartiene: costato qualcosa intorno ai 350.000 dollari, girato in poco più di un mese. Fu una sfida non indifferente per la casa, un rischio importante. A spianargli la strada era stato The Cat and the Canary, qualche anno prima, ma anche l'importante riscontro che il pubblico aveva dato alla versione parlata di The Unholy Three. 
C'è una differenza saliente, però, tra questi film precedenti e quello nuovo, una differenza che rende davvero la sua uscita rivoluzionaria: Dracula, soprannaturale, lo era davvero. In una nazione in cui era stato fondamentale sfruttare la passione per lo spiritismo ma pur sempre riportandola sul ben più rassicurante piano della realtà, il Conte Dracula era un vampiro davvero. Per la prima volta il cinema statunitense si lanciava nel mondo del misterioso, e non gli dava risoluzione.
Il risultato fu il più grande successo commerciale Universal del suo anno. 

Certo, c'è anche stato l'immenso contributo che la parte pubblicitaria gli ha dato. Il claim lo chiamava "The strangest passion the world has ever known!", che non è una bugia ma una descrizione quantomeno creativa, ecco. Dracula poteva essere ogni cosa: una storia romantica, un mystery, un horror: ognuno poteva vederci quello che desiderava, e tutti sarebbero entrati al cinema. Ha funzionato.





C'è un grande elemento, poi, da tenere in considerazione quando si giudica Dracula con gli occhi di oggi: il Codice Hays. È cosa nota che il codice, seppur in vigore dal '30, sia stato preso sul serio solo dal '34 in poi, ma le sue impronte erano già state fissate su carta, e da quel concetto di buon gusto non c'era scampo. Dracula, con le infinite implicazioni sessuali che da allora continuiamo a riconoscergli, era terreno ustionante su cui camminare. Bisognava stare molto attenti che mordesse le donne e solo le donne, per esempio, e da questo vincolo ci siamo liberati solo di recente. Gli uomini, se proprio proprio proprio devono essere morsi, è per nutrizione, e fine della faccenda. Se poi non lo mostriamo, meglio ancora. E allora ecco che l'equipaggio della nave muore per una tempeeeeestaaa, daaaaai, ma cosa pensavate? 
Sono solo le donne (e solo quelle bianche e preferibilmente benestanti), ad avere il privilegio della trasformazione in vampire, tutti gli altri lanciati verso la morte certa con tanti saluti a casa. Tutta la parte "succosa" (passatemelo, dai), avviene fuori dallo schermo, perché avvenga, sì, ma che non ci sia dato vederlo. È figlio del suo tempo ed è ingiusto fargliene una colpa.

All'epoca fu anche grande successo di critica, è stato il passare del tempo a renderlo meno amato. In mezzo alle infinite critiche che oggi critici e accademici gli riservano, come dicevo su, c'è il suo essere troppo simile per impronta, stile, caratteristiche, alla produzione teatrale da cui è tratto. Gli viene criticata una narrazione che si srotola troppo lentamente, con una prima parte tutto sommato apprezzata anche oggi ma una seconda sempre fortemente criticata perché povera, piatta, inconsistente. Non si apprezza l'adattamento, colpevole di avere lasciato fuori parti ritenute fondamentali del romanzo, o quantomeno arricchenti, la recitazione di praticamente tutti i coinvolti ad eccezione di Lugosi viene distrutta. Queste sono a grandi linee le critiche che gli rivolgono tutte e quattro le fonti che trovate in fondo al post.

Neppure a Browning viene riservato un trattamento di favore. Chi ha collaborato sul set con lui in questa occasione lo ricorda come costantemente assente, chi è del settore dice che il film è molto più di Freund di quanto non sia di Browning. Oggi, forse, importa davvero poco. Del resto, ce lo siamo detti la settimana scorsa: questo è il periodo delle case cinematografiche, non dei registi. Sono certa che B. abbia dormito serenissimo la notte, dopo questa lavorazione. Un po' meno l'anno dopo, immagino, ma avremo modo di parlarne. 
 
Io, che accademica non sono, gli voglio molto bene. Ho una mai passata cotta per il Conte di Christopher Lee, ma il giorno in cui dirò che trovo questo film mediocre sarà il giorno in cui vi sto comunicando in codice che sono stata rapita e ho bisogno di soccorso. Guardo a lui con l'affetto che si rivolge alle cose fondanti, anche se mentirei se dicessi che per me lo è stato. L'ho scoperto da adulta, non ho verso di lui l'affetto della nostalgia, ma quando Lugosi sale le scale, guarda Renfield e gli dice "Listen to them. Children of the night." io sarò pure banalona ma mi ritrovo a sorridere allo schermo più che di fronte a qualsiasi scena romantica. 
Sono certa che le critiche siano basate fu fondamenti ben più solidi del mio sorridere davanti allo schermo, però a me è quella sensazione lì che tiene ancorata al cinema, e per me il Dracula di Browning, sottotono, spento, teatrale, come vogliano descriverlo, è magnifico. Fine della recensione.








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