martedì 5 luglio 2022

Nuovi Incubi: Lasciami entrare e Byzantium

11:00

 



Ci abbiamo messo una stagione a costruire per bene la nostra immagine di donne dure e amanti del sangue e delle frattaglie, e con questa stagione ci siamo immediatamente sbugiardate da sole. La volta scorsa l'amore e la scoperta della sessualità, questa volta l'amore e l'eternità.

Due film sui vampiri ma anche sulle relazioni, sul crescere insieme e sulla maledizione/benedizione del mostruoso femminile. Il primo un gioiello nordico di rara delicatezza, il secondo una storia di autodeterminazione e liberazione, sono due film magnifici che non potevamo lasciare indietro. Amore, sensualità e vampiri sono sempre stati una cosa sola, ma in questi due film gli argomenti vengono declinati in modi tutti nuovi, lasciando spazio a rappresentazioni non convenzionali del volersi bene, dell'accettarsi, dell'abbracciare l'altro nel più genuino e pulito dei modi possibili.


Per l'occasione, abbiamo chiamato la nostra amica Silvia, e se non abbiamo pianto parlandovene è solo perché alla fine ridiamo sempre un sacco insieme.

Il nuovo episodio si trova qui.

mercoledì 29 giugno 2022

Elvis

19:41
 Erano secoli che non parlavo di un film in sala, ed erano secoli che sul blog non si parlava in un post intero di un film non dell'orrore. 
Però, e la maggior parte di chi passa di qui lo saprà bene, il film che a me ha insegnato che cosa fosse il cinema ma soprattutto che cosa fosse per me non è un horror. È una commedia romantica musicale, e naturalmente è Moulin Rouge!.
Ero pure piccolina, quando l'ho visto la prima volta, e se adesso di cinema ne so poco, figuriamoci allora. Però quel senso di meraviglia lì che mi aveva lasciato quel modo di raccontare le storie non mi ha mai lasciato e se oggi la Redrumia esiste è solo ed esclusivamente per Baz Luhrmann.
E se esce un film di Baz Luhrmann al cinema io, nonostante il periodo un po' troppo intenso, lo vado a vedere, perché questo è materiale santo che va guardato nel luogo religioso per il quale è stato concepito.
Elvis è, ma cosa ve lo dico a fare, un capolavoro.


non ve lo posso spiegare che lavorone ha fatto sto ragazzo



Io quando guardo quel film là con l'esclamativo nel titolo come le band dei primi anni 2000 piango dal momento in cui premo play. Non mi succede con nient'altro al mondo ma vi posso giurare su quello che ho di più caro che non c'è niente che mi coinvolga così. Questo porta con sé una serie intera di aspettative che di solito sono una vera e propria violenza nei confronti del povero cinema che deve confrontarsi con quello che vogliono le persone, anche, ma forse soprattutto, se sono aspettative in positivo. 
Se fossi uscita dalla sala, ieri sera, non me ne sarei mai e poi mai fatta una ragione. E invece Elvis è grande grande, come il ricordo che ha lasciato il suo protagonista.

Come classico del suo regista, si parte dalla fine: Elvis è morto, quasi in rovina, e l'opinione pubblica vuole che la responsabilità sia del suo storico manager, il Colonnello Parker. Si ricostruisce quindi quello che ha portato a quella infelice sorte. 
Poteva essere una tragedia, proprio come quella straordinaria storia di un amore sventurato, e invece decide di andare in una direzione diversa. 
Elvis dà il titolo al film, e in scena non manca mai. Si vede Elvis, si guarda Elvis, si parla di Elvis, si ascolta Elvis, si investe in Elvis. Il suo nome è scritto ovunque. Elvis, però, non c'è mai. Ci sono sprazzi del bambino che è stato, angoli di vita familiare che ci servono, però, solo a raccontare quello che lo circonda, l'ambiente che lo ha cresciuto e le persone che gli sono vissute intorno, ma di lui non si sa quasi nulla. Si lasciano parlare le sue decisioni, le sue canzoni, ma sempre poco. Non c'è alcuna introspezione, non c'è lo scopo di presentare l'uomo dietro l'artista. Non è il character study che avrebbe potuto essere.
Quando il film finisce c'è la grossa scritta commemorativa, con scritto "Elvis Aaron Presley" e le date. Il mio compagno, seduto di fianco a me, che Elvis lo ascolta e pure parecchio, mi dice: "Chi ha mai saputo si chiamasse così?". E tutto il film si racchiude qui: di Elvis si sa il poco che è servito per venderlo. La persona è annullata, per lasciare spazio al personaggio, all'icona, alla famigerata gallina dalle uova d'oro. Elvis non è altro che il suo stesso merchandising.
Voglio essere chiara: il film non solo non è mai critico verso l'artista ma anzi lo copre di un amore sincero. Fa proprio l'opposto, scagliandosi con violenza contro chi, nella vita reale, Elvis lo ha cercato di annullare, con il consueto stile del suo regista che vuole i suoi cattivi grossi, bavosi, grotteschi, proprio come il suo Zidler. Non per la truffa economica ma per il furto di identità, per la privazione della libertà creativa di un artista pronto a cambiare le regole del gioco, per lo spietato sfruttamento dell'immagine. Il film non parla di Elvis Presley, storico cantante che ancora oggi influenza la musica, se non marginalmente. Il film parla di tutto il resto del mondo, che Elvis lo ha prima creato e poi violato, continuamente, fino alla fine della sua carriera. Parla dell'Elvis che fa le magie sul palco mentre dalle seggiole tra il pubblico gli si rovinava la vita. Resta persino sullo sfondo, si sente solo la sua voce profonda così vendibile mentre alle sue spalle tutto andava in rovina. Mentre gli si impediva di brillare quanto avrebbe potuto. E se, in effetti, Elvis la storia l'ha fatta davvero, viene davvero da chiedersi cosa sarebbe potuto essere, cosa ne sarebbe stato dei benpensanti e dell'opinione pubblica, se gli fosse stato concesso di vivere come lo desiderava per sempre. 

Questo è un film gigante perché usa pochi tocchi per creare un contesto storico, che mai come in questa storia è fondamentale, perché ha un equilibrio perfetto nel non distrarsi mai troppo dal suo protagonista pur volendo parlare di altro, perché l'ha diretto un Grande che ha la capacità di riempirmi occhi e cuore di una meraviglia a cui non sono disposta a rinunciare una volta che il film è finito. Sono piena di amarissimi lustrini negli occhi, oggi. Vedo le stelle e il glamour e il potere e li vedo con la straordinaria bellezza con cui questo signore racconta la tragicità. Ed è tutto un glitter, in una sfavillante cadillac rosa, con abiti magnifici e le gloriose ambizioni dei giovani di talento, che insieme ricoprono il mare di merda che risiede al di sotto. Un ambiente in cui le quantità di denaro accecano, in cui il senso vero delle cose è distorto dal potere, in cui non c'è nulla di genuino se non i brevi sprazzi d'amore che il film ci concede. Così brevi che neppure la più bella canzone d'amore che sia mai stata scritta si sente per intero. 

Ora, io sul film ho una sola perplessità. Non è solo intriso di cultura afroamericana, ne è proprio un elogio. È una statua intera in suo onore. Non solo per omaggiare le origini della cultura di Elvis ma anche per sottolineare le mancanze che una nazione intera ha avuto nei confronti di chi non ha avuto il privilegio della pelle bianca. Però, in un film così, si usa la n-word. Io non lo so che cosa è giusto fare, non so nemmeno se sia un problema di traduzione o se sia così anche in originale (ma me lo riguardo anche in lingua originale, eccome se me lo riguardo), ma vorrei che la comunità nera si esprimesse a riguardo. Perché magari con questo livello di contestualizzazione storica ha senso farlo? Non ho risposte ma le vorrei, soprattutto dai diretti interessati. 

Mi sono emozionata tanto, perché amo questo modo di parlare dell'orrendo collocandolo in mezzo ad una bellezza così sfacciata e spietata che è difficile da spiegare. Mi sono sentita il cuore piccolo piccolo di fronte al racconto di quest'uomo svuotato in un mondo così pieno.
Solo Luhrmann lo poteva raccontare così. È giusto che questo omaggio arrivi da lui perché l'orrore dello show business pare scritto per essere narrato con i suoi occhi barocchi, le sue immagini piene e desolanti insieme. 
È un incanto, e io, a quella magia qui, non mi ci abituerò mai.


(Chiusura con un po' di fatti miei. La Vostra a settembre si sposa. Prima di vedere il film ingaggia una band, per il Redrumonio, perché ha sempre desiderato avere la musica dal vivo. Ingaggia una band anni '50. Sentirli quel giorno lì cantare Elvis mi piacerà ancora un pochino di più.)

lunedì 27 giugno 2022

Gli anni '40: Gaslight

10:53
 In tutto questo parlare di quanto il cinema degli anni '40 è stato un fratm ingiustamente scordato, non abbiamo ancora detto una cosa: è stato cinema femminile. 
Direte voi, ah, una volta che comandano le donne poi opportunamente lo nascondiamo sotto il tappeto? Eh.
Le donne, che già negli anni '30 avevano un bello spazio - seppur cancellato dalle cronache - dietro le quinte, nel decennio successivo diventano le protagoniste. Lo abbiamo visto anche a gennaio parlando di noir: con la guerra, le donne rimaste a casa hanno ricoperto ruoli convenzionalmente attribuiti agli uomini, e si sono prese uno spazio mai avuto in precedenza. 
Non solo, però. La vera ondata rivoluzionaria del decennio sta nel rendere l'uomo bianco il solo vero cattivo. Non ci sono più uomini travestiti da fantasmi, come abbiamo visto in passato, o elementi sovrannaturali: il mostro, qui, è il patriarcato. Per il ritorno del fantastico dovremo aspettare la Hammer, per ora si torna sul concreto e il concreto è che gli uomini possono essere mostri ben più spaventosi. 
Qual'è, quindi, per una donna degli anni '40, l'orrore vero? Un vampiro? No, con loro possiamo anche giocarci a bridge. A farci paura era il ritorno degli uomini dalla guerra, e la possibilità di tornare confinate ad un ruolo domestico da cui ci stavamo liberando. 
Ne nasce quindi il filone dei film sulle paranoid women, in cui il mostruoso nasce dal marito che lentamente ti conduce alla pazzia. E siccome col pochissimo tempo che ho quest'estate mi posso concedere solo una visione, quale scegliere, quindi, se non il vero capostipite del sottogenere?
Siamo nel 1944 e, diretto da George Cukor, esce Gaslight. 




Prima di tutto, cosa significa gaslight? Lampada a gas, perfetto. Con gli anni, però, il termine ha acquisito anche un significato parallelo, che pare derivi proprio dal film che vediamo oggi, in cui una lampada a gas manda quasi all'esaurimento la nostra protagonista. Oggi parlando di gaslighting intendiamo una manipolazione psicologica, una violenza a tutti gli effetti che crea nella persona che la subisce una alterata percezione della realtà. La più viscida delle forme dei controllo che gli uomini spesso impongono sulle loro compagne. In realtà poi il gaslighting è ovunque: sul posto di lavoro, tra gli amici, in famiglia...
Alle donne viene fatto credere di essere pazze, di non avere comprensione reale del mondo che le circonda, di non essere all'altezza di leggere correttamente la realtà. E questo film ritrae queste dinamiche magnificamente. 

La nostra protagonista è Paula, una ovviamente eccellente Ingrid Bergman. Sposa un insetto repellente, un miserabile, che per arrivare ad avere le proprietà di lei la riduce all'ombra di se stessa. Fine, fine della trama. 
Eppure, nella semplicità della struttura narrativa, c'è un universo intero, ed è meglio dirlo subito: è un universo difficile da scoprire. Guardare il lento annullamento di Paula non è semplice, non è una fruizione da consigliarsi alla leggera. Per me, a livello di appesantimento emotivo, non ha nulla da invidiare all'altro straordinario film sulla violenza domestica, The Invisible Man del 2020, perché purtroppo non ha subito la crudeltà del tempo. 
Non c'è niente di invecchiato, in Gaslight. Non c'è nulla che una donna vittima di violenza non riconosca. Non c'è niente di passato. 
Che un film del genere esista, e sia del '44 (peggio, remake di uno, altrettanto bello, del '40 e adattamento di un'opera teatrale ancora precedente), è un incubo. Che sia così attuale fa accapponare la pelle.

Però è indubbio che si tratti di un film che rasenta la perfezione, e che siamo grate esista.
Fa alcune scelte molto intelligenti. 
La prima, per esempio, è di collocare la vicenda nella classe alta della popolazione. Si è soliti, ancora un po' oggi, associare la violenza ai "piani bassi". Si cerca di segregare le cose brutte alle classi inferiori, e sebbene stiamo lavorando sodo per far cambiare questa percezione, c'è ancora molto da fare. Decenni fa questo film ha per protagonista una giovane molto ricca. Siamo dalle parti della ricchezza aristocratica, dei balli di gala, dell'opera, degli abiti straordinari e della società per bene. E, chiusi dentro le porte di casa, la violenza è la medesima. Questa è una cosa che mi piace sempre vedere, ma che porta con sé un lato negativo. Gregory, alla fine, è un ladro impazzito, che ha puntato Paula per il suo denaro. Ci si sofferma sulla sua bramosia di denaro, specialmente sul finale, più che sul semplice desiderio di annientamento della moglie. Ma il modo in cui Gregory lavora sul cervello della moglie, giorno dopo giorno come una goccia d'acqua che distrugge le rocce, è ritratto in maniera così raffinata e realistica che il difetto del finale si supera senza problemi. 
Altro elemento di grande interesse è per me la scelta di Bergman. Scegliere un volto così prepotentemente famoso mette interamente il focus sulla vittima. Di nuovo, come fa il film del 2020, in cui addirittura il persecutore è invisibile, e a restarci da guardare c'è solo Elizabeth Moss. In un mondo in cui, ancora oggi, si fa un gran parlare degli uomini che generano violenza e non delle donne che la subiscono, un film così è fondamentale, perché quando poi l'uomo se ne va in galera resta solo lei a dover lavorare su quello che le è successo.
Di nuovo, siamo pur sempre nel '44 ed è fondamentale che per liberare la donna dalla situazione serva l'intervento dell'Uomo Buono, ma è pur vero che questo film, paro paro al suo predecessore, si concede un momento finale in cui è Paula a stare da sola con il suo aguzzino. E lui, verme strisciante che non è altro, ci riprova a farle credere di essere completamente scollegata dalla realtà, però quella col coltello in mano è lei.
E ovviamente sarebbe stato un film un milione di volte più bello se con quel coltello lei gli avesse tagliato la giugulare, ma siamo nei raffinatissimi '40 e va bene così.

E del resto capisco anche che la responsabilità di sporcare la Bergman non se la siano presa, che quel miserabile non è meritevole neppure di scompigliarle i capelli. 


martedì 21 giugno 2022

Nuovi Incubi: Cherry Falls e It Follows

15:48

 



In questa stagione sulle adolescenti in cui ci stiamo divertendo come le matte vere abbiamo toccato: i pedofili, i peli, il ciclo, i lupi, la sorellanza, le streghe...

Mancava giusto il sesso, ed eccoci qua.

Nel freschissimo nuovo episodio ci raccontiamo come sia vivere la sessualità da adolescenti del ventunesimo secolo, di quanto sia liberatorio e scanzonato e di quanto invece la società ce lo appioppi addosso con la pesantezza di un saio da frate. Il primo è uno slasher per la tv con una Brittany Murphy che ricordiamo con affetto eterno, e il secondo il capolavoro che avete visto per forza. Sono molto diversi ma questo è scontato, perché trovare qualcosa che somigli ad It follows è impossibile, ma il modo in cui parlano di sesso è simile. Poi prende strade ben differenti ma per sapere in che modo, se non avete visto i film, vi tocca ascoltare l'episodio.

Ci trovate qui.



lunedì 20 giugno 2022

Gli anni 40: The Wolf Man

16:47
 Sono in ritardo sulla tabella di marcia della rubrica sulla storia, questa settimana (che doveva essere la scorsa) ci prendiamo un attimino per parlare di un film a cui voglio del bene grande.

Post con spoiler





Siamo in un momento particolare per Universal che, e perdonatemi se dico ovvietà, dopo la Sposa non ha più raggiunto i livelli di eccezionalità a cui aveva abituato il suo pubblico. La fama che arriva ad oggi la vuole come una casa in caduta libera dopo gli sfolgoranti anni '30, perché per il decennio successivo è campata sui suoi precedenti: sequel, reboot, incastri tra personaggi...

È in questo panorama desolato che si colloca il film di oggi. Dopo anni ad introdurre creature non umane ma piene di umanità, era ora di ribaltare il concetto: finalmente Universal parla di un uomo che diventa un mostro. E non un mostro nel senso etico, ma in quello letterale.
Siamo nel 1941 ed esce, diretto da George Waggner, L'uomo lupo. 
Il protagonista è Larry Talbot, un imponente nobiluomo inglese, che torna a casa dopo un periodo di lontananza. Qui fa la conoscenza della bella Gwen, e portandola fuori una sera per farsi leggere il futuro da un gruppo di indovini, viene morso da quello che crede essere un lupo. Da quel momento inizia una serie di omicidi violenti, e tutti sembrano convinti della responsabilità proprio di Larry.

È difficile collocare questo film in mezzo ai giganti che lo hanno preceduto, e sarebbe anche sbagliato: The Wolf Man è meno sofisticato, meno arguto se vogliamo. Tocca temi di straordinaria profondità ma non sempre riesce a farlo con la complessità che sappiamo Universal con i suoi nomi migliori era in grado di fare. Eppure già così com'è è in grado di fare la sola cosa che chiedo al cinema: spezzarmi il cuore.

Parlare di licantropi significa spesso parlare di persone tormentate dalla propria condizione. Se i vampiri spesso (non sempre, ok, ma spesso) se la tirano tantissimo per quanto belli sono e i creaturi di Frankenstein stanno ancora imparando ad avere coscienza della propria condizione, i licantropi sono l'essenza stessa dell'odio per se stessi. Il corpo del licantropo smette di essere al servizio del proprio proprietario, e smette di rispondere. Si diventa vittime di se stessi e del proprio aspetto, la propria condizione diventa un problema totalizzante. L'identità stessa di chi è colpito dalla maledizione è da ricostruirsi interamente.
Come se questa non fosse una tortura sufficiente, quello che succede al povero Larry è pure peggio: la gente intorno a lui inizia a morire, e tutto indica che sia lui il colpevole. Proprio lui, che ad inizio film si sedeva così goffo e impacciato sulla sedia, col suo corpone gigante a seguirlo. Proprio lui, che torna a casa e deve ricominciare a costruirsi un'esistenza in luoghi che non gli sono più familiari, in volti che gli sono cari ma che deve conoscere di nuovo, come non li avesse conosciuti mai. Proprio lui, che stava recuperando col padre la relazione perduta.
Intorno a lui, quella comunità che lo conosceva e ora non lo conosce più, lo guarda con sospetto, e ha paura. E lui è così certo di quello che dice, che vederlo non creduto è straziante. In questo, il vero merito del film è avere scelto Lon Chaney Jr, che ci regala un Larry così bello che entra nel cuore e non ne esce più. Per il modo in cui parla alle persone che ha intorno, per come si muove, con le mani sempre vicine al corpo come a volersi rimpicciolire, per gli occhi pieni di dolore sincero che ha a partire dai primi minuti del film.
Il breve minutaggio in questo lo aiuta perché rende ancora più evidente il modo perfetto in cui la sua persona sembra appassire: l'uomo pronto a ricominciare ha già smesso di provare. 
Non solo ha perso le speranze di una nuova vita serena, ma è attanagliato da un bruciante senso di colpa e se un pochino avete imparato a conoscermi sapete che questo è il genere di storie che mi annienta. È successo qualcosa di brutale, è colpa tua seppur involontariamente, e tu adesso ci devi convivere, buona fortuna. Lo sguardo di Talbot, su cui spesso la macchina da presa si ferma insistentemente, perché proprio mi vuole ammazzare, è spento. Tutta l'umanità gli è stata tolta, ma non per colpa della licantropia. Lo hanno ucciso i sospetti prima, gli sguardi di chi non gli ha creduto e quelli di chi invece sapeva. L'ha ucciso la possibilità svanita dell'amore con Gwen.

Infine, però, Larry muore davvero, infliggendo al film l'ennesima batosta emotiva: muore per mano di chi lo amava, suo padre. Suo padre che aveva appena perso un altro figlio e che con questo stava cercando di ricostruire una relazione, e che per tutto il film ha cercato di aiutarlo e difenderlo.
E allora se volete che ci ammazziamo, amici in Universal basta dirlo!

L'uomo lupo funziona perché condensa in poco più di un'ora un range immenso di emozioni, non solo grazie a Chaney ma anche alla Gwen di Evelyn Ankers, un personaggio pieno di cuore e fiducia verso il prossimo, che in un panorama così desolato come quello di questo film è rinfrancante vedere. 
E perché ha reso i lupi mannari quello che sono oggi, da lui fino a Remus Lupin: persone tormentate, tragiche, arrese ad un'esistenza di sofferenza. 

A meno che non siano adolescenti con i capelli rossi, in quel caso se la godono finché possono.

venerdì 10 giugno 2022

Gli anni '40: la Snake Pit Unit di RKO e Val Lewton

23:01
 Ci siamo lasciati alle spalle un decennio di mostri. La razionalità e l'amore per la pragmaticità avevano lasciato il posto al fantastico, all'inspiegabile, ad una scienza ottusa e limitata, quando non addirittura antietica e crudele.
Il punto, però, è che i mostri facevano soldi. Ne facevano parecchi costando poco e Universal, che era considerata una delle case minori (non faceva parte delle tanto chiacchierate major) stava attraversando sì un momento complesso, ma se continuava a sopravvivere era solo per l'orrore. Questo dettaglio non è passato inosservato a chi la circondava, e anche le altre case hanno iniziato a chiedersi se non fosse il caso di investire qualcosina nel brivido.
Tra queste, RKO, l'antenna sulla cima del mondo.


non assomiglia un po' allo zio dei Cesaroni, Val Lewton?


Radio-Keith Orpheum Pictures

Prima di addentrarci nelle produzioni del signore in foto, diamo un'occhiata alla casa di produzione che cos' tanta fiducia gli ha dato, l'RKO.
Lei sì, che era una major, una di quelle case gigantesche che del cinema curavano tutto, dalla creazione alla distribuzione. Come quasi tutte le sue simili, nasce dall'incontro di più persone che hanno capito le potenzialità economiche del cinema e che hanno deciso di investire in diversi ambiti della creazione cinematografica per avere più controllo e più guadagno possibile. Nello specifico, RKO nasce dall'unione di una storica azienda di elettronica, una catena di teatri e sale cinematografiche e una società di produzione. 
I suoi primi anni sono segnati da successi straordinari: si assicura i diritti per la distribuzione dei lavori Disney, scopre e investe sulla coppia dorata formata da Fred Astaire e Ginger Rogers, arrivava ad una quarantina di film l'anno che coinvolgevano alcuni dei più grandi nomi del suo tempo. Hitchcock, Bette Davis, Katharine Hepburn, Orson Welles, solo per citare i più famosi.
Oggi fa quasi ridere pensarlo, ma sono proprio alcuni di questi nomi che hanno quasi buttato giù l'antenna più famosa di Hollywood. La collaborazione tra i ballerini più famosi di sempre si interrompe, per dirne una, ma soprattutto Quarto Potere è un flop così potente che a qualcuno secondo me tremano ancora i denti. 
Bisogna correre ai ripari, e l'horror è sempre lì a braccia aperte ad accogliere chi ha bisogno di aiuto. Prima di questo momento aveva fatto qualcosina, il primo King Kong è opera loro, ma mancava una visione d'insieme, un progetto.
RKO allora, nel 1942, fonda un'intera unità a parte, dedicata solo al brivido, che chiamavano Snake Pit Unit, e la appioppano a tale Val Lewton, uno scrittore di origine russa che davvero di horror non sapeva niente e che ripeteva con una frequenza folle che lo avevano chiamato solo perché qualcuno aveva detto che i suoi romanzi erano orrendi e non ci si era capiti bene.
E alla fine quello che di orrore non sapeva nulla la storia l'ha fatta lo stesso.

Val Lewton


Nato in Russia, Vladimir Ivanovich Leventon arriva da una famiglia d'arte: la zia era Alla Nazimova, attrice e produttrice, che all'arrivo negli Stati Uniti della sua famiglia ha dato subito un impiego alla sorella nel suo mondo. 
Lui, però, non era troppo interessato al cinema, perché voleva scrivere. Si contano 18 lavori, tra narrativa, non fiction e poesia. Al cinema, quindi, arriva come sceneggiatore. Collabora spesso con David Selznick, finisce per essere tra gli autori non accreditati di Via col Vento. 
La sua strada, però, lo doveva condurre tra le tenebre, e quando RKO gli picchietta sulla spalla per chiedere una mano con la neonata sezione horror lui il lavoro lo accetta, ma ad una condizione: totale libertà creativa, che la casa gli concede senza nemmeno pensarci troppo. Questo patto aveva naturalmente delle regole. Le sue erano produzioni minori, decisamente low cost. Doveva girare in quattro settimane, con budget minuscoli che non rappresentassero fattori di rischio troppo rilevanti, doveva creare film che superassero mai un certo minutaggio, e doveva adattarsi ai titoli che gli venivano forniti, che è sinceramente la mia regola preferita. 
RKO, conscia del potere scatenato da Universal, ha deciso che i mostri tiravano un sacco (era vero, naturalmente) e quindi creava titoli ad hoc per riportare la gente in sala. Poco importava poi se di mostruoso non c'era nulla, si invocavano cat people, zombie, navi fantasma, e lui, insieme a tre registi straordinari con cui ha collaborato, ci faceva un po' quello che gli andava. E quello che gli andava era magnifico.

VL + Jacques Tourneur

A RKO non importava che i gatti fossero la paura più grande di Lewton, volevano un film che si sarebbe dovuto chiamare Cat People - Il bacio della pantera e lui era pregato di fornirlo, grazie molte.
Lui allora fa un film su una donna sessualmente repressa che nessuno si degna di ascoltare e loro se lo devono far andar bene perché con sto film spacca il botteghino. Non che ai critici dell'epoca sia piaciuto, erano persone abituate ad altro che ancora dovevano conoscere questo modo nuovo che i due stavano creando per parlare di cinema di paura. Costato nemmeno 150mila dollari, se ne porta a casa tra i due e i quattro milioni, capirete bene che i critici se possibile possono andarsi a posare. 
La coppia Lewton - Tourneur inizia con la storia di Irena, una disegnatrice di moda con un forte legame con le sue origini serbe, così forte da mettere i bastoni tra le ruote persino nel suo recente matrimonio con Oliver, che tanto la ama quanto è scemarello. 
Cat People è diventato un film segna epoche, di quelli che rivoluzionano quanto viene dopo. Un po' perché cambia radicalmente il linguaggio di genere, un po' per quanto drasticamente si distacca da quanto venuto prima, un po' perché introduce un tema che diventerà preponderante per tutto il decennio: la donna paranoica.
Introduce un nuovo modo di spaventare, che non si era ancora mai sperimentato, e prometto che ne parleremo qui e poi basta per il resto del post perché è la prima cosa che si dice quando si parla di Lewton. Cat People è un film sul non mostrato, che cela nelle ombre i suoi aspetti più spaventosi, che spaventava lasciando che l'immaginazione dello spettatore facesse tutto da sé. Questo, dopo che il pubblico era abituato alle grandiose rivelazioni del volto di Chaney, o dei mostri di Karloff, o dello sguardo di Lugosi, era una sensazione nuova. Qua non si spalanca una porta per far comparire Nosferatu in tutto il suo orrore, non lo si staglia in piedi sulla nave a mostrarsi in tutto il suo glorioso orrore. Qua le ombre ti seguono alle spalle, i rumori si avvicinano ma mai a sufficienza da fartene vedere la fonte, l'angoscia ti coglie lentamente per poi mostrarti, nella più famosa scena dell'horror anni '40, che quello in fondo era solo un bus. È una storia di disagio profonda e potente, della frustrazione di non sentirsi capiti, della perdita di sé e della propria rete sociale, di persone con potere che ne abusano (è forse questo il vero film rouge di questo blog?) a discapito di chi, al momento, si è smarrito. È una storia di una donna lasciata sola nella difficoltà, e nello stesso di un uomo così inconsapevole del mondo che lo circonda da non permettergli di comprendere la donna che ha preso in sposa. 
Non è solo un film straordinario in quanto tale, ma anche importante come fondamenta di un discorso che Lewton porta avanti per tutta la sua carriera nella casa cinematografica. Parla di frustrazione, certo, ma anche di morte, disagio esistenziale, solitudine. Parla del terrore dell'irrazionale. 
Se c'è una cosa che amo, però, di Cat People, è la fine che fa fare alla sua protagonista. Che muore, sì, ma muore libera. Dopo un'ora di film in cui la vediamo vessata da persone che continuano a chiederle di sforzarsi, di essere altro rispetto a se stessa, di snaturarsi, Irena muore senza cedere mai a quello che le viene chiesto da chi la circonda. Perde tutto, per mantenere la sua libertà, ma a letto con Oliver non c'è mai andata. 
Fa davvero ridere, oggi, pensare che un tale film, così tecnicamente ineccepibile ed elegante, sia a tutti gli effetti un B-movie. 
Tourneur a Lewton piace, e l'avrei davvero sfidato a dire il contrario, e l'anno dopo tornano a lavorare insieme per I walked with a zombie, che tutto il mondo dell'orrore riassume come una storia voodoo ispirata a Jane Eyre e se davvero questo non vi basta a considerarlo un capolavoro io e voi non possiamo volerci bene. Come abbiamo visto parlando di White Zombie, i ritornanti dell'epoca sono ben diversi da come li intendiamo oggi. Sono l'annullamento dell'anima, la cancellazione dell'individualità. Uno zombie nel senso haitiano del termine è un corpo vuoto che cammina, che fa molto comodo nelle piantagioni. In questo caso l'essere zombie è interpretato come un morbo, che oltre ai lavoratori locali ha colpito la magnifica moglie del proprietario della piantagione. Si ripercorrono tante delle cose che abbiamo visto nel film di Halperin, che forse qui vediamo più mature, ancora più complesse e approfondite. Senza assolutamente nulla togliere al film precedete, questa è roba di Tourneur, e la differenze è inevitabile. L'utilizzo della letteratura come punto di partenza è un altro elemento ricorrente del cinema di Lewton, del suo tentativo di elevare il genere in ogni modo in cui i suoi pochi mezzi glielo permettevano, e Ho camminato con uno zombi non è da meno. 
Anche lui, oggi, è oggetto di culto, come il suo predecessore, ma allo stesso modo non fu amato all'epoca: i critici non amavano il suo prendersi sul serio, lo chiamavano pretenzioso. 
Se tutta la sua produzione è priva di soprannaturale in senso stretto, Ho camminato con uno zombi è forse quello in cui l'assenza di mostri è ben più palese, ma in cui si richiede maggiormente di lasciarsi andare all'ignoto, al magico, allo spirituale. Lo si chiede a Betsy, l'infermiera giunta sull'isola per aiutare la moglie malata, lo si chiede ai due fratelli innamorati di lei. A personaggi così lontani dalla familiarità del mondo occidentale a cui appartengono viene chiesto di accogliere la possibilità di un mondo inesplicabile. La fine, poi, è canonicamente di Lewton: per accogliere la vita si deve abbracciare la possibilità della morte.
Ultima pellicola che Lewton produce per Tourneur è The Leopard Man, sempre nel '43. 
Abitualmente la nascita dei cosiddetti protoslasher, gli anticipatori del filone più recente, viene collocata negli anni '60, che tra Psycho e Peeping Tom hanno spalancato le porte a quello che è successo poi con Micheal Myers e gli altri. Gli anni '40, però, piccini piccini e tanto scordati da tutti, hanno dato a loro volta il loro contributo, e con le mani di chi, se non delle persone migliori del decennio? 
Il più diffuso villain del cinema dell'orrore degli anni '40 è l'uomo bianco, The Leopard Man ce ne parla diffusamente, raccontando di una serie di omicidi che terrorizzano una comunità e che cominciano proprio in concomitanza con la fuga di una pantera da un locale notturno. 
Naturalmente nessuno poteva pensare che quella splendida panterina piccina e troppo bella fosse davvero l'omicida, ma mi è stato poi fatto notare che io la trovo adorabile, ma io sono anche abituata a vedere gli animali al cinema. Le scene con la creatura, legata al guinzaglio come un animale domestico, sono state aggiunte per creare tensione, per incrementare il fattore spavento del film, e questi dettagli mi servono per capire quanto velocemente la nostra percezione del mondo sia cambiata, anche grazie al cinema. Se già i precedenti furono accolti tiepidamente, The Leopard Man è stato il minore di tutti, considerato debole persino dal suo stesso regista, che col tempo ha finito per considerarlo poco più che un unione poco fruttuosa di scene scollegate, o qualcosa del genere. A me piace particolarmente perché è il primo tra i lavori di Lewton in cui componente della quotidianità è molto forte. È un elemento che è sempre presente: i suoi film sono ambientati nelle grandi città, e ne viviamo sempre piccoli momenti che ci aiutano a percepire come più "distante", se vogliamo, l'elemento di intrusione, della rottura del quotidiano. Qui c'è una mamma che minaccia a cinghiate la figlia se non le obbedisce, ma anche una comune serata in un nightclub, la rivalità tra le donne che vi si esibiscono, una scena di lutto molto intima e dolorosa. Il cattivo, in questo caso l'omicida, è sempre qualcuno di disturbato, di problematico. Il male non è ritratto come una possibilità ingiustificata ed esistente in quanto tale, ma se ne va sempre a ricercare una causa, che sia un evento del passato, un trauma, o una fragilità. 
Lewton e Tourneur insieme hanno scritto un nuovo modo di raccontare le storie di paura, ma soprattutto un modo nuovo di guardare alle persone, colpevoli o innocenti che siano.

VL + Mark Robson

Lewton non era solo un produttore, ma forse la sua vera missione doveva essere scoprire talenti. Dopo la collaborazione con un signore da nulla come Tourneur, decide che è il momento di aprirsi a qualcuno di nuovo, e spunta sto Robson, che di lavoro in realtà fa l'editor. Lo colpisce al punto da volergli concedere la possibilità di dirigere, e gli offre un film che è un capolavoro: The Seventh Victim, il primo vero film della storia a parlare di sette sataniche, anni luce prima del Satanic Panic, di Rosemary's Baby, di Corman. E lo fa piazzandosi al confine tra l'horror puro e il noir, ricordandoci che questo collegamento che oggi diamo per scontato è proprio a Lewton che lo dobbiamo. Parla di una giovane donna che lascia il prestigioso collegio in cui studia per mettersi sulle tracce della sorella scomparsa. 
Alcuni momenti di The Seventh Victim sono così d'impatto che credo non li dimenticherò mai: la stanza vuota con solo un cappio appeso, l'estenuante scena di "convincimento", che chiamo solo così per non rivelare troppo, la morte dell'investigatore. È incredibile vederlo oggi sapendo quanto anticipo abbia avuto sui film che hanno parlato di satanismo, quanta sfacciata influenza abbia avuto su quelli che oggi consideriamo - giustamente - capisaldi del genere. In piena epoca Codice Hays questi ci hanno cacciato un suicidio, e il risultato era così bello da non poterlo toccare. 
Riprende poi alcuni dei temi fondamentali del nostro: la ricerca di un senso in una vita devastata dal disagio esistenziale, una condizione di solitudine dell'anima che nulla ha a che vedere con quella effettiva. È in effetti un film molto doloroso, per lo spettatore e per quasi tutti i suoi personaggi, perché ci priva di ogni speranza. Però quanto è bello?
Il film successivo di Robson è The Ghost Ship, forse quello che mi piace meno. Capirete però che il poverino è circondato di roba immensa, in fondo non è manco colpa sua. Di nuovo si parla di persone che devono convivere con il loro passato, ma i fantasmi sono solo gli spettri del senso di colpa, di ectoplasmi Lewton non parla ancora, almeno per quest'anno (che è sempre il '43). Parla anche di ossessione per l'autorità, per la disciplina militaresca e di come, per l'ennesima volta, la situazione di pericolo non abbia un'origine esterna ma solo ed esclusivamente interna alle dinamiche umane. 
Il tutto, in un film che doveva parlare di appendicite.
Sempre insieme a Robson Lewton mette al mondo Youth Runs Wild, che ancora non ho visto e che a quanto pare Lewton, a causa dei troppi cambiamenti imposti da RKO, detesta.
Subito dopo arriva Isle of the Dead, il film che segna l'ingresso di Boris Karloff in casa RKO. Lewton non l'ha presa proprio benissimo: in un percorso così volto ad allontanarsi dai mostri, inserire il volto più rappresentativo della categoria sembrava quasi una presa in giro. Karloff, però, era il più bravo di tutti proprio perché la sua rappresentazione della mostruosità non ha nulla a che fare con il sovrannaturale ma piuttosto il suo contrario. Parlava sempre dell'umanità insita nel mostruoso, e non c'era nessuno che meglio di lui potesse entrare nelle opere di Lewton, in cui era l'uomo in carne ed ossa a fare più paura. Qui è un generale che, durante la guerra dei Balcani si ritrova chiuso in una villa con altri ospiti perché sembra ci sia in corso un'epidemia di peste e si ritrovano tutti in quarantena. In realtà il nemico da affrontare naturalmente è ben più complesso della sola malattia, che già da sola non è che sia proprio una scampagnata. 
Se c'era un film adatto a confermare il fatto che Karloff sta bene in ogni contesto è proprio questo: il suo personaggio è controverso, non ha mai sempre ragione nè sempre torto, è detestato e testardo e solo alla fine sarà chiaro a tutti i personaggi da che parte stava. 
Per noi, invece, è cristallino: Karloff sta ovunque ed è sempre la scelta migliore possibile.
Anche in Bedlam Karloff dà il meglio che può, interpretando il direttore di un manicomio brutale e inumano, che rinchiude le donne che ostacolano il suo percorso verso la ricchezza e l'agio, costruito attraverso relazioni con i potenti del luogo. Bedlam è un film che adoro, che indubbiamente risente degli anni che si porta sulle spalle per quanto riguarda il dialogo sulla malattia mentale ma che riesce nonostante questo ad essere un buon passo avanti per la sua epoca. I pazienti sono usati solo come spalla per dare personalità a chi si occupa di loro, non hanno alcuna rilevanza individuale, sono strumenti, ma sono sicura capiate che non è una critica che posso fare prescindendo dall'età del film. È un film a volte semplicistico e superficiale nella divisione tra bene e male, ma ripercorre temi che ormai ci sono familiari (il trauma, il disagio psicologico, l'abbandono...) in un contesto quasi da commedia nera. 
In mezzo a mostri sacri come Tourneur e il signore che vedremo tra poco, è facile scordarsi di Robson. Lewton, però, lo ha notato in mezzo a tanti e ha fatto sì che potesse regalarci la sua visione sul mondo nichilista e severo del nostro produttore del cuore.

VL + Robert Wise

Robert Wise è horror royalty. È cinema royalty. Una di quelle personalità che hanno seminato oro mentre passeggiavano sul mondo. E se abbiamo avuto lo straordinario onore di poter assistere a quello che ha creato, è grazie a Lewton, e ad un sequel.
Siamo nel 1944, ed esce The Curse of the Cat People, perché Irena sarà pure morta fisicamente, ma la storia ci insegna che le donne libere non muoiono mai, e ci voleva un sequel. 
Un sequel in cui Irena nostra è un fantasma, un'apparizione che può vedere solo Amy, la figlia che Oliver e Alice hanno avuto insieme. Amy è una bambina diversa: fatica a socializzare, le compagne di scuola la evitano, è ingenua e fragile. La famiglia tenta di estorcerle nella maniera più sbagliata possibile una socialità forzata che non le appartiene e lei finisce per fare amicizia con la sola persona che le concede di essere se stessa: l'anziana Julia. 
L'esordio di Wise è una dolcissima favola nera, che continua nella narrazione che il suo produttore ha fatto fin dall'inizio, quella che parla di menti fragili ma anche solo diverse da quello che la società si aspetta da loro. Un film di rara delicatezza, in cui Irena è onnipresente non solo perché la bambina la vede ma anche perché continua ad ossessionare le menti di chi l'ha conosciuta, ma anche una storia di sincera e genuina amicizia tra due anime agli antipodi della vita, con in comune solo l'ingenuità con cui la affrontano. Bellissimo.
Nello stesso anno i due lavorano insieme anche a Mademoiselle Fifi, che poiché non horror puro ho saltato a piè pari per mancanza di tempo.
Ultima collaborazione è The Body Snatcher, di nuovo con Karloff e pure con una fugace apparizione di Lugosi. Qui torniamo su temi cari anche agli amici di Universal, perché siamo dalle parti dello scienziato che commette cose un po' sbagliate in nome della scienza, poi quando gli chiedono di fare la cosa giusta guarda l'orologio e si defila perché s'è fatta una certa. 
C'è qualcosa di poetico e sinistro nel modo in cui Wise ritrae i bambini (e lo so che starete anche pensando grazie graziella e grazie al ca*o, dato il futuro del regista in questione). Sono anime pulitissime, genuine, sincere e senza macchia alcuna. Hanno fede cieca negli adulti che le circondano (femminile perché si tratta di due bambine, ma se volete lanciamo il femminile universale a me sta bene), riconoscono dalla purezza dello sguardo chi ha a cuore il loro benessere e sanno identificare chi sia meritevole della loro fiducia. Amy e Georgina (la paziente del luminare che non ha tempo per lei) sono bambine diverse dalla normalità statistica: Amy ha problemi sociali, Georgina una disabilità fisica. Sono sole, accudite solo dall'affetto di qualche adulto che si prende a cuore la loro situazione, ma lontane dai coetanei, incapaci di accettarle. 
Allo stesse tempo, sono perfettamente consapevoli del mondo che le circonda: Amy perché percepisce anche l'assenza (il trauma dei suoi genitori e del loro passato) e Georgina perché è in grado di comprendere a quale medico può aprirsi e dire la verità sul proprio malessere, fosse anche solo indicargli dove prova dolore. Gli adulti, in tutto ciò, bazzicano intorno alle piccole trattandole come bambole di porcellana, mentre intorno a loro crollano le certezze. 
I genitori di Amy sono ancora sottomessi all'influenza di Irena, come se il tempo non fosse mai trascorso, il dottor MacFarlane non distingue il bene dal male. E loro, le bambine, sono sole a farsi spazio in un mondo angosciante e sinistro, in cui la finestra che dà sul futuro può essere sì luminosa, ma richiede comunque un percorso in mezzo alla nebbia. 
E nel cinema di Lewton, ormai lo sappiamo, la nebbia non è mai un buon segno, perché è nell'ombra che si nascondono le cattive notizie.


La Snake Pit Unit è durata solo 5 anni. Tempi diversi, in cui in un solo anno si poteva lavorare ad un gran numero di produzioni senza che la qualità venisse compromessa per i tempi stretti. In cinque anni ci ha regalato un nuovo modo di vivere l'orrore, nuovi modi di parlare di donne e del loro vissuto, nuovi nomi che col tempo sarebbero diventati parte fondante della storia del cinema e pure una discreta paura dei gatti.
Non male, per uno scrittore di romanzi "orridi".

martedì 7 giugno 2022

Nuovi Incubi: Megas is Missing e Hard Candy

11:00
 Prendete un bel sorso di acqua fresca. Verificate che i battiti siano regolari, che tutto sia in bolla.
Solo se è così decidete se vi va di ascoltare il nuovo episodio di Nuovi Incubi, il podcast delle vostre amiche incazzate.





In una stagione dedicata al teen girl horror sapevamo ci sarebbe toccato il momento Megan is Missing. Lo sapevamo perché nel bene e nel male è un film che continua a far parlare di sé e tocca argomenti che per noi sono troppo importanti perché potessimo fare finta di ignorarlo. Il problema è che li tocca molto male, e quando ci scaldiamo perdiamo ogni possibile freno inibitore.
Ci sono però due lati positivi: il primo è che per struttura della stagione non parliamo di un film solo ma di due, e dopo l'agghiacciante found footage ci siamo divertite parlando di un film ben più intelligente e con un messaggio molto meno fraintendibile: il magnifico Hard Candy.
Il secondo lato positivo è che non siamo state solo io e Lucia a raccontarvi i film in questione, ma ci siamo fatte aiutare da Margherita, Bleedingram su Instagram, che si è rivelata non solo un'ospite deliziosa ma anche il perfetto bilanciamento per la nostra ira funesta.
Nuovi Incubi è su Spotify e su tutte le piattaforme di podcast, e se il link vi fa comodo ve lo lascio qui.

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