mercoledì 23 maggio 2018

Philip Roth

Non sarò mai brava abbastanza per dire quanto valesse Philip Roth.
Oggi, quindi, per mandargli un saluto colmo di gratitudine, copio il mio brano preferito di Pastorale Americana, perché le sue parole sono immense ed eterne, e se c'è qualcosa che ce lo fa tenere qui ancora un po', sono solo quelle, le parole.
Quando le ho lette per la prima volta ho capito che la mia frustrazione, la mia incapacità di avere a che fare con le persone, non sono solo mie. Sono un malessere diffuso, condiviso, che nessun altro, però, è riuscito a dire così.
Lotti contro la tua superficialità, la tua faciloneria, per cercare di accostarti alla gente senza aspettative illusorie, senza un carico eccessivo di pregiudizi, di speranze o di arroganza, nel modo meno simile a quello di un carro armato, senza cannoni, mitragliatrici e corazze d'acciaio spesse 15 centimetri; offri alla gente il tuo volto più bonario, camminando in punta di piedi invece di sconvolgere il terreno con i cingoli, e l'affronti con larghezza di vedute, da pari a pari, da uomo a uomo, come si diceva una volta, e tuttavia non manchi mai di capirla male.Tanto varrebbe avere il cervello di un carro armato. La capisci male prima d'incontrarla; mentre pregusti il momento in cui l'incontrerai; la capisci male mentre sei con lei; e poi vai a casa, parli con qualcun altro dell'incontro, e scopri ancora una volta di avere travisato. Poiché la stessa cosa capita, in genere, anche ai tuoi interlocutori, tutta la faccenda è veramente una colossale illusione priva di fondamento, una sbalorditiva commedia degli equivoci. Eppure, come dobbiamo regolarci con questa storia, questa storia così importante, la storia degli altri, che si rivela priva del significato che secondo noi dovrebbe avere e che assume invece un significato grottesco, tanto siamo male attrezzati per discernere l'intimo lavorio e gli scopi invisibili degli altri? Devono, tutti, andarsene e chiudere la porta e vivere isolati come fanno gli scrittori solitari, in una cella insonorizzata, creando i loro personaggi con le parole e poi suggerendo che questi personaggi di parole siano più vicini alla realtà delle persone vere che ogni giorno noi mutiliamo con la nostra ignoranza? Rimane il fatto che, in ogni modo, capire bene la gente non è vivere. Vivere è capirla male e male e poi male e, dopo un attento riesame, ancora male. Ecco come sappiamo di essere vivi: sbagliando. Forse la cosa migliore sarebbe dimenticare di avere ragione o torto e godersi semplicemente la gita. Ma se ci riuscite...Beh, siete fortunati.


Ciao, Philippone. 
 

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