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martedì 12 novembre 2024

The Gerber Syndrome

12:53
 Nuovi Incubi questa settimana arriva - credo per la prima volta? - in patria. Abbiamo infatti pensato che in una stagione dedicata al found footage e al mockumentary non potesse mancare un episodio dedicato a un lavoro tutto nostrano unico nel suo genere come Il mistero di Lovecraft - Road to L. 
Se vi fa piacere ascoltarci, ci trovate qui:
 

Qualche anno dopo la sua uscita, però, in un momento in cui gli horror italiani erano sempre meno, un altro progetto ha visto la luce, e secondo me merita di essere ricordato.
The Gerber Syndrome - Il Contagio esce infatti nel 2011, scritto, diretto e montato da Maxi Dejoie, e visto oggi ha sicuramente un sapore ben più amaro di quello che ha certamente lasciato nei suoi spettatori alla sua uscita. 




Il film si presenta come un falso documentario che segue le prime fasi della diffusione di un gravissimo virus che porta al morbo di Gerber. Seguiamo un paio di persone che si occupano della gestione del virus, un medico e un giovane dipendente di un'associazione statale nata proprio per il controllo della diffusione della malattia, il CS (Control Service). Il morbo di Gerber nasce come un'influenza particolarmente intensa e conduce presto i contagiati verso uno stato che li rende aggressivi e incontrollabili, simili per movenze e capacità cerebrali agli zombie.

La televisione italiana dagli anni Novanta ai primi Duemila ha visto nascere numerose trasmissioni considerate di pubblica utilità: Chi l'ha visto?, Report, Le Iene, Il testimone...Non è questo l'ambiente per stabilirne gli effettivi meriti, ma riguardare oggi il film di Dejoie mi ha fatto pensare più a un servizio di una di queste trasmissioni che effettivamente a un documentario: il modo in cui i documentaristi non rispettano le direttive date loro dalle persone che accompagnano; il sensazionalismo di alcune riprese mantenute troppo a lungo; il clima quasi amicale che regna nelle conversazioni, anche in quelle con i professionisti. Si segue per esempio un caso di contagio che vediamo svilupparsi fin dal momento del primo contatto con un malato e a cui abbiamo accesso solo perché direttamente coinvolta la famiglia del medico che ci ha concesso il suo tempo, rendendo più distese le conversazioni e alterate le decisioni a causa dell'intimità con i coinvolti. Ma su questo torneremo in un secondo momento.

Scegliendo di seguire un medico e un operatore CS, il documentario sembra volersi concentrare sulla parte clinica e gestionale della malattia, concendendo spazi minori ai malati stessi e alle loro famiglie. Vediamo nello specifico un medico molto sensibile e attento. spaventato dal futuro di un'epidemia così pericolosa e al tempo stesso concentrato sul mantenere i piedi per terra. Dall'altro lato, invece, l'operatore è ben più pessimista. Per lui i contagiati sono da debellare, manifesta senza vergogna il modo in cui li considera non più umani e pertanto non meritevoli del trattamento empatico che ci si aspetta da chi ricopre, come lui, un ruolo nel sistema sanitario.
Questo contrasto è interessante perché ci rivela presto la verità del documentario: gli zombie, qui, sono le vittime, non i predatori. A sfruttarli, dare loro la caccia per poi rinchiuderli come animali in attesa del macello, è il prestigioso Sistema Sanitario Nazionale, che delega a giovani uomini pieni di frustrazione e rabbia il ruolo dei cattivi manganellatori. A risposte dirette i piani alti deviano il discorso, non forniscono dati, scuotono la testa. E i "pezzi piccoli" come il medico che seguiamo si ritrovano ad aggirare il sistema, a mentire e nascondere i malati al CS per garantire loro un trattamento dignitoso. 
Mancano i soldi, pare, e il personale stanco e nervoso diventa pericolosamente simile alle guardie, mentre i sognatori protestano per un trattamento più umano dei pazienti. La dignità è utopia, in questo universo.
Siamo nel 2010 quando il film viene realizzato, e meno di dieci anni prima il mondo era stato investito dallo spauracchio della SARS - tristemente ignari di quanti danni avrebbe causato un coronavirus anni dopo - e discutere dell'inadeguatezza dei mezzi italiani a fronte di una simile prospettiva sembrava quanto mai appropriato.

Nonostante si conceda ampio spazio al discorso collettivo e gestionale, ci si prende del tempo anche per esaminare le conseguenze di una simile tragedia sul piano individuale e familiare. Melissa, infatti, cugina e amica del medico, mette la famiglia di fronte a una scelta morale impossibile da prendere: somministrarle una cura sperimentale che avrebbe su di lei effetti collaterali devastanti ma che le salverebbe la vita o lasciarla morire con il morbo di Gerber? I suoi genitori prendono una decisione per lei e sono poi costretti a convivere con le conseguenze. Ci si chiede: meglio una vita con una malattia irreversibile o meglio nessuna vita? È un terreno delicatissimo quello in cui si muove quando si entra su temi che sono così intimi, ed è pericoloso anche il messaggio che in qualche modo si rischia di trarne: ci si cura, o no? I farmaci sono dalla nostra parte, o no? Una vita imperfetta, che non rispetta gli standard abilisti, è degna di essere vissuta? Quanto gli altri sono legittimati a scegliere cosa sia meglio per noi nel momento in cui non possiamo farlo per noi stessi?
Sono discorsi intensi che non sono certa il film sia sempre in grado di mettere a fuoco per bene. Avere però accesso alla parte più intima di queste riflessioni grazie alla confidenza con il medico di Melissa ci permette di vedere lo strazio individuale, da cui non c'è scampo: qualunque sia la decisione presa, non c'è una reale soluzione, solo una nuova vita da vivere.

The Gerber Syndrome è un progetto costruito con due lire e che deve tanto a quello che stava succedendo a livello internazionale nel cinema dell'orrore, ma è ambizioso e funziona, ha alcune interpretazioni convincenti (altre meno, ma penso si possa perdonare) e mette il focus su una paura collettiva che, anni dopo, non è svanita: se mi succedesse qualcosa, sarebbero davvero in grado di prendersi cura di me? E se succedesse alle persone che amo, ne sarei in grado io?


giovedì 17 ottobre 2024

The Poughkeepsie Tapes

15:35

 Per questa nuova stagione di Nuovi Incubi mi ero prefissata di accompagnare ogni episodio con un post sul blog che fosse in qualche modo collegato con il film di cui abbiamo parlato nel podcast. L'episodio uscito martedì, che potete ascoltare qui sotto, è tutto dedicato a Behind the mask: the rise of Leslie Vernon, e ci ha fatto compagnia Chiara Sinchetto, che ringrazio anche qui e che vi invito a cercare sui social, è una persona carinissima e molto preparata.      



Quale film associare al delizioso Leslie, quindi, anche se con un paio di giorni di ritardo? 
A una cosa che non potrebbe essere più lontana dalla delizia. Se è vero, infatti, che anche The Poughkeepsie Tapes è un mockumentary che parla di un serial killer, proprio come Behind the mask, il modo in cui le due faccende sono messe in scene non potrebbe essere più diverso. Per il primo film vi invito, se vi fa piacere, ad ascoltare l'episodio, mentre se volete sentirmi dire quanto poco apprezzi il secondo potete restare qui.
Aspettatevi spoiler.




I filmati che danno il titolo al film sono quelli registrati dal Water Street Butcher, un brutale serial killer che sta seminando il terrore nella cittadina di Poughkeepsie, vicino a New York. Un gruppo di documentaristi sta girando un film proprio su di lui, e ricostruiamo le indagini grazie al contributo di agenti della polizia, FBI e parenti delle vittime. Nello specifico, seguiamo l'infelice vicenda della sua vittima prediletta, Cheryl, a cui sono dedicate la maggior parte delle videocassette ritrovate.

La fama del film lo precede: cercandolo su Google, infatti, si incontrano presto i consueti titoli sensazionalistici tipici di un certo modo di parlare di cinema dell'orrore. "Il found footage più disturbante che vedrete nella vostra vita", "La visione più estrema che farete", la solita sfilata di clickbait che ormai conosciamo bene. È indiscutibile, il film è molto forte e potrebbe urtare la sensibilità di qualcuno. Di sicuro ha infastidito la mia. È anche vero che la sua storia distributiva ha contribuito a questo status di culto che, mi permetto di dirlo, è quasi offensivo (aAaAhHhH lA CaNc3l CuLtUrEeEeE!!!1!). Presentato a Tribeca nel 2007 e comprato subito da MGM, sparisce dalla circolazione per anni. Se ne sono trovate, in quel periodo, un paio di versioni online, col sempre santo pensiero laterale, che però il regista giudica versioni incomplete e piene di falle. Arriva in vod nel 2014, e torna a far parlare di sè con più forza nel 2017, quando ne esce una nuova versione in DVD per Scream Factory. Oggi si trova nella sua versione completa online, ma non ha ricevuto distribuzione italiana.

Il film , come dicevo, è un falso documentario che alterna momenti canonici da true crime, con interviste e commenti degli esperti, a momenti presi direttamente dalle cassette del killer. L'intento del film è cristallino: mettere in discussione il crescente fenomeno del true crime. In quel periodo, infatti, le tv stavano iniziando a riempirsi di trasmissioni dedicate ai crimini, che sebbene siano sempre esistite, hanno iniziato a farsi da metà degli anni Novanta sempre più estreme e irrispettose. È di oggi la notizia della scomparsa del noto cantante Liam Payne, e quando ancora la notizia non era ufficiale il sito TMZ stava pubblicando delle foto in cui parte del corpo era visibile. Le foto, ora, sono state rimosse, ma sappiamo bene che nulla è mai davvero cancellato dal web. Il danno è fatto. 
The Poughkeepsie Tapes, quindi, cerca di far riflettere su questo, sull'inappropriatezza e la brutalità di mostrare gli eventi violenti, di dare le sorti delle vittime in pasto a chi non riesce a distogliere lo sguardo, ignorando sentimenti e sensibilità di chi ha amato quei corpi che osserviamo mutilati. È una critica santa, corretta. Ma il film è davvero in grado di elaborarla? A mio parere, no.

Ormai da queste parti ci conosciamo: non sono una bigotta e la violenza al cinema mi diverte parecchio. Però ci devono essere delle condizioni, altrimenti vale tutto. Per chiarezza: non mi addentrerò in un discorso francamente un po' noioso su cosa sia concesso o meno all'arte. Come singolo individuo, però, so cosa non voglio trovarci io. Non voglio, per esempio, la disonestà. Il film di Dowdle disonesto lo è, perché copre con l'ipocrita maschera della critica un atteggiamento che usa in prima persona. Scegliere di mettere in scena le cassette del killer non è di per sé sbagliato, ma lo è quando si sofferma un minuto di troppo sulla vittima che sobbalza sul palloncino che proprio non riesce a far scoppiare, quando mostra una donna così brutalizzata dal killer da avere la mente completamente annientata e decide di non soffermarsi sulle conseguenze anche psichiatriche di un simile dramma ma solo mettendo in scena un dolore impossibile da elaborare, senza accompagnarlo con un briciolo di spiegazione (è o no un documentario?). Se il terrore che provano le persone passa più tempo davanti all'obiettivo rispetto a tutto il resto, stai davvero cercando di analizzare un fenomeno o stai giocherellando con quello che ti è consentito fare? Non solo. Il terrore che le persone provano è in scena perché è il killer che ce lo ha messo. È dalle sue registrazioni che vediamo il peggio, e scegliere di incorporarle nel documentario finale significa lasciare a lui stesso la narrazione di sé. Se già i professionisti intervistati si muoiono sul piccolissimo confine che separa il raccapriccio dall'ammirazione (come vediamo in un fastidioso sorriso di un medico colpito dalla straordinarietà delle azioni compiute), lasciare che sia il killer stesso a parlare di sé è un grande passo oltre il limite del buonsenso. Abbiamo parlato spesso nel podcast del ruolo e del filtro del documentarista, che imprime nel film il suo sguardo sul mondo. Come si collega lo sguardo di chi sta registrando a quello del killer? Perché farli fondere insieme, fino quasi a sovrapporli? Del resto, non sarebbe proprio classico del killer spingere i professionisti a sottolineare la grandiosità delle sue azioni? Eppure, non si porta mai questa faccenda fino in fondo, e il discorso dello sguardo di chi registra, così vitale nel found footage, qui lo diventa meno. Chi ha montato questo documentario lo ha fatto con lo scopo evidente di lodare le azioni, sottolinearne la difficoltà e l'intelligenza che richiedono. Altrimenti perché mostrare i filmati? Perché proprio quelli che umiliano le vittime e non, per esempio, quelli in cui vengono torturate? È tutto un gioco di ego e non sono certa di quale ego sto parlando.

Al di là della mia sensibilità individuale, che per una volta mi concedo di utilizzare come filtro, penso che il suo eccesso sia paradossalmente quello che lo rende più fragile almeno da un punto di vista narrativo. Da quello visivo raggiunge benissimo l'obiettivo: vuole shockare, e lo fa. È un film che gioca sulla pretesa di autenticità, come molti altri prima di lui, e lo fa soprattutto nella sua parte finale, che gioca con la sua ipotetica uscita in sala. I poliziotti del documentario confidano in una distribuzione al cinema così che il killer, per la solita tendenza all'autocompiacimento, vada a vederlo più volte e loro possano così incastrarlo. In più, in questo ultimo atto vediamo finalmente un'intervista alla vittima sopravvissuta, Cheryl. Cheryl viene piazzata davanti allo schermo ed è evidente che è mancata una parte preparatoria, un momento precedente al ciak in cui si siano fatte due chiacchiere con lei, anche solo per capire se avesse, effettivamente, qualcosa da dire. Lasciare i suoi lunghi silenzi e le sue infinite ripetizioni serve solo a far fantasticare sulle atrocità che le sono state inflitte e che poco prima il documentario ci ha tenuto moltissimo a elencare nel dettaglio. Se un documentario deve essere, di sicuro è uno scadente. Poteva essere sfruttato come discussione della pena di morte, dell'importanza di comunicare le informazioni corrette alla stampa dando loro il giusto peso. Poteva incorporare il messaggio sulla fame del popolo bue, che attende la gente muoia "legalmente" per poter assistere all'evento, alla fretta di incastrare qualcuno. Semplicemente, non lo fa. Verrebbe da chiedersi: ma non è tutto lì il senso della critica? Mettere in luce scorrettezze e mancanza di professionalità?
Ci vogliono una scrittura perfetta, intenzioni chiare e attenzione a ogni dettaglio per riuscire a discutere delle operazioni disgustose di un certo tipo di giornalismo senza compiere gli stessi errori. Non penso, in tutta onestà, che quella di The Poughkeepsie Tapes ci riesca. 

lunedì 30 settembre 2024

Il 2024 in trimestri: episodio 3

10:55

 


Sebbene non possa nascondere la gioia per l'inizio di ottobre e per l'arrivo della Halloween Challenge di Nuovi Incubi (vi spiego in fondo) io rimango e rimarrò per sempre un rettile che ama l'estate e il caldo torrido e la sua fine è per me sempre un momento malinconico. Per restare ancora un po' attaccata alla stagione appena finita, quindi, vi racconto le cose di cui ho fruito e che mi hanno tenuta compagnia negli scorsi tre mesi. 

Letture
Continua il mio anno di letture a rilento, ma non sono mancate le sorprese piacevolissime. La prima è senza dubbio la splendida biografia di Shirley Jackson a opera di Ruth Franklin, A rather haunted life. È un testo imperdibile e non solo per chi ami molto Jackson: ripercorre un importante momento storico americano e lo fa dal punto di vista del mondo accademico e intellettuale. La vita di Jackson e di quel bidone dell'umido di suo marito è stata vissuta all'insegna dell'arte e delle compagnie arricchenti e stimolanti. Non manca per questo di sottolinearne le difficoltà e le sofferenze, ma è un bel testo per comprendere non solo come siano nati alcuni tra i testi più straordinari della letteratura dell'orrore di ogni tempo ma anche come siano stati accolti, come siano stati venduti, come li abbia considerati l'opinione pubblica ma anche quella del mondo editoriale. In un'autrice come lei, che ha così spesso parlato di domesticità e casa, sbirciare dietro le tende è un modo per avvicinarsi ancora di più alla sua opera e secondo me Franklin ha fatto un lavoro gigante. È sì una biografia ricca e intensa ma al tempo stesso è molto fruibile e scorre con l'agilità di un romanzo avvincente. Un bell'omaggio a un'autrice così grande che pareva impossibile tenerla tutta tra le pagine di un libro solo.
In questo anno pieno di autrici al femminile ho recuperato anche l'altro romanzo di Lara Williams, che avevo già apprezzato nel suo La crociera, che si intitola Le divoratrici e che continua a parlare di donne e di identità: in questo caso seguiamo Roberta, anima solitaria, che cerca connessioni per creare se stessa. Lo fa insieme a un gruppo di donne che trovando forza nel gruppo cerca modi per cancellare aspettative e buone maniere attese: si mangiano rifiuti, ci si ingozza sporcandosi fino al mento e divorando a piene mani, si beve troppo e ci si droga, per cancellare quello che tutti vogliono da noi, una supposta compostezza che dovrebbe renderci femminili e a modo. Roberta deve trovare la quadra per inserirsi in un mondo in cui vuole essere convenzionale e al tempo stesso non esserlo per niente, e in questo mi ci sono molto riconosciuta. È un bel romanzo e quello di Lara Williams è un nome da tenere sotto controllo, mi parla molto più di tante altre contemporanee considerate la voce della loro generazione. E se pensate che sia una frecciatina a Sally Rooney avete ragione.
Un'ultima menzione va a un altro ritorno, quello di Julia Armfield. Dopo avere letto il suo Mantide mi sono buttata in Le nostre mogli negli abissi e l'ho molto amato. È sì la storia di un amore che sta cambiando, ma è anche la storia di una passione che si prende tutto quello che siamo, che ci cambia e ci condiziona. Parla di una tragedia misteriosa, di un ambiente difficile come quello marino che dà la vita e la toglie insieme. Armfield esplora l'animo umano con compassione e tenerezza, senza lasciarne fuori gli aspetti complessi ma abbracciandoli, quasi a rivendicarli. Le sue protagoniste sono imperfette e fanno cose sbagliate o incomprensibili, ma nei loro confronti c'è sempre uno sguardo pieno di orgoglio: si risale dal fondale che ci ha tenuto prigioniere, oppure no, ma il viaggio ne vale sempre la pena.

Serialità
Non mi dilungherò anche qui, ma i miei mesi estivi sono stati segnati dalla fine della visione di Buffy, entrata nell'olimpo delle mie serie preferite di ogni tempo. Dopo qualche settimana sento molto la mancanza di questi personaggi che ho così tanto amato e ne parlerei per ore, ma mi limiterò a linkare qui la lunga diretta in cui ne ho parlato, incredibilmente riuscendo a non piangere.



Ora invece sono alle prese con quella delizia che si chiama Evil e che mi sta piacendo ancora di più di quanto avevo previsto, ma ne riparliamo a visione finita!

Videogiochi
Ho fatto, amici miei, un tragico errore: ho iniziato a giocare a The Sims. Pensavo che sarebbe stato un simpatico passatempo, un gioco da ragazzine con cui dilettarmi a costruire le case più belle del cinema dell'orrore. E invece, naturalmente, mi sbagliavo. I miei amici mi avevano messo in guardia, ma io come una santommasa qualunque dovevo andare a sbatterci la testa e alla fine è saltato fuori che sto gioco del demonio non solo causa dipendenza ma è anche difficile. Io le vedevo le ragazzine su tiktok costruire delle case gloriose con la semplicità con cui si cuoce un piatto di pasta, ma ho dimenticato di inserire una variabile nell'equazione che mi ha portato a installare il gioco: le ragazzine sono dei geni. Sono brillanti e creative e furbe. Io sono una patata che si innervosisce se il mouse si muove un pochino. Non siamo fatti per stare insieme, io e The Sims, ma io sono come il famoso detto sul calabrone e volo lo stesso. Ragione per cui non ho finito nessun altro gioco negli scorsi tre mesi.

Visioni estive
Sono stati pochi gli horror che ho visto nell'estate, perché di solito ne vedo 31 di fila per il mese di ottobre e ho concesso un po' di tregua al mio povero marito che altrimenti finisce sempre per passare le serate a vedere i miei filmacci. Metteteci la fine di Buffy e l'inizio di Evil e le visioni hanno scarseggiato. Siamo però riusciti a inserirci la visione di alcuni degli horror più riusciti dell'anno: Longlegs, a cui ho dedicato questo post, Alien Romulus e Trap. Il primo è già uno dei miei preferiti di ogni tempo ma devo ammettere che anche gli altri due sono stati piacevolissimi. Romulus ci ha confermato che quando Alvarez prende in mano una saga lo fa con immenso amore e rispetto, e questo film è non solo molto coerente con tutto quello che è arrivato prima, ma anche pieno di cuore e modernissimo. Gli ho voluto molto bene. Stesso dicasi per Trap, perché quando Shyamalan si diverte davvero si vede e infatti ha avuto il successo meritato. Lo prendo spesso in giro, Shyamalanone, ma è un bravone. Infatti presa dall'entusiasmo per l'ultimo lavoro mi sono rivista The Village che mi è piaciuto più di quanto ricordassi. Funziona ancora alla perfezione e lavora bene anche quando si conosce la fine. 

La Challenge di Nuovi Incubi
Poiché io e la mia cohost Lucia pensiamo sempre ad Halloween, ci siamo chieste quest'estate come celebrare il nostro santo natale insieme agli ascoltatori del nostro podcast. Abbiamo quindi rubato l'idea di un bellissimo podcast americano, Nightmare on Film Street (che peraltro vi consiglio di ascoltare, è adorabile!) e abbiamo creato la nostra versione della Halloween Challenge. In cosa consiste? Abbiamo selezionato trentuno categorie, una per ogni giorno di ottobre, per guidare le vostre scelte per le visioni del mese. Poi ne parliamo insieme: sui blog, sui social, per messaggio, come ci va! Se volete partecipare anche voi vi lascio qui sotto le grafiche, così le potete usare sui vostri post e se ci taggate le vediamo tutte e facciamo la nostra personalissima "splendida festa di morte".
Grazie se vorrete giocare con noi e, come sempre, grazie di ascoltarci, di condividerci con le vostre amiche, di fare parte di questo gruppo di appassionate. Ci divertiamo sempre tanto e farlo tutte insieme è ancora più bello. 




 

martedì 17 settembre 2024

The Collingswood Story

11:51
 Come vi dicevo qualche post fa, la nuova stagione di Nuovi Incubi sarà tutta dedicata al found footage. Era partita con una programmazione ricchissima ma poco prima della partenza io e la mia cohost Lucia ci siamo chieste se fosse effettivamente il caso di accollarci così tanto, vista l'immensa quantità di film. Siamo già prolisse a sufficienza quando parliamo di un film per volta. Abbiamo quindi deciso di fare una stagione più snella - e quando vedrete quanto è lunga capirete quanto ironico sia che la definisca snella - ma io a tutto quel found footage non volevo rinunciare. È pur sempre il mio sottogenere preferito. Quindi l'idea è di affiancare a ogni episodio (o quasi) un post, ogni volta dedicato a film in qualche modo legati a quello protagonista dell'uscita del podcast. 
L'episodio uscito oggi è su My Little Eye, piccolo ma eccellente found footage del 2002 che ha anticipato di diversi anni temi e modalità a noi oggi così familiari. Nello stesso anno, però, di film piccoli, incredibilmente in anticipo sui tempi e per questo dimenticati troppo presto ce n'è stato un altro: The Collingswood Story.




Rebecca e Johnny hanno una relazione ma vivono lontani da quando lei ha iniziato a frequentare il college. Per riuscire a mantenere vivo il rapporto lui le regala una webcam e la introduce all'uso di un software per le chiamate che si colleghi al pc e permetta ai chiamanti di vedersi. La piattaforma è utilizzata da ogni tipo di weirdos dell'internet - del 2002, poi, ve li potete tranquillamente immaginare - tra cui una medium, Vera, che durante una chiamata conoscitiva rivela a Rebecca delle verità che cambieranno il corso della sua vita.

My Little Eye è stato il primo a introdurre diversi elementi: l'ambientazione nel reality show e le camere fisse arrivano da qui, per esempio. The Collingswood Story allo stesso modo introduce qualcosa: è a tutti gli effetti il primo horror screenlife.
Uscito nel 2002 e poi scomparso immediatamente, ha ricominciato a girare per qualche festival nel 2005, per finire poi tra i titoli da cestone dell'unieuro molto velocemente. Nessuno sapeva cosa farsene di una cosa del genere. Imperdonabile, perché davvero ha creato l'impossibile, anticipando non solo un nuovo modo di fare cinema ma anche un intero nuovo modo di comunicare. Se oggi le chiamate su Zoom sono diventate parte del quotidiano sia nella sfera personale che in quella lavorativa, nel 2002 era un discorso ancora quasi inimmaginabile, il che contribuisce a spiegare come mai non sia stato un fenomeno globale come il suo ispiratore Blair Witch Project era stato qualche anno prima. Al regista Michael Costanza mancava quindi la dimestichezza col mezzo che ha avuto, per fare solo un esempio, Rob Savage quando ha realizzato il suo bellissimo Host, e ha dovuto creare questo mondo da zero. Come si rende accattivante una storia in cui per tutto il tempo vediamo solo i volti di quattro persone che parlano? Come fa a rimanere narrativamente interessante? Come si scrivono dialoghi che devono sostenere quasi da soli l'intera vicenda? Come si costruisce la tensione potendo solo riprendere i visi? Si può, con queste premesse, introdurre un intero mistero in modo convincente? Oltre a ciò, il film ha la grande limitazione del software: poiché vediamo lo schermo del pc per intero, la parte riservata alla webcam è molto piccola perché piccolo è lo spazio sullo schermo che occupa la finestra del programma che i due utilizzano, limitando ancora di più le possibilità del regista. Costanza aveva mille "problemi" a cui trovare soluzione e quasi nessun prodotto precedente a cui appellarsi per cercare risposte. 
Il suo film risponde al desiderio voyeuristico a cui si appellano tutti gli screenlife: l'accesso alla parte più riservata di una persona, che oggi si trova nel suo telefono o nel suo computer. Nel 2024 questo ha ovviamente più mezzi per esprimersi: accesso alle mail, ai social, alle chat, alle veloci chiamate su FaceTime o addirittura alla cronologia del browser, il che rende gli screenlife più ricchi e gli spettatori più attivi nel cercare indizi e informazioni in varie parti dello schermo. Nel 2002 era più semplice, e il film sceglie solo di farci entrare nella conversazione privata tra due fidanzati. 

Il fidanzato Johnny è un primo elemento di interesse. Se chiacchierando con Rebecca lo troviamo affabile e premuroso, c'è sempre qualcosa in lui che ci fa storcere leggermente il naso: non riattacca immediatamente appena conclusa la conversazione con la ragazza ma rimane in ascolto, rimanendo spettatore passivo della sua vita quasi a volerla monitorare. Questo ci viene confermato dal suo migliore amico, che lo accusa, seppur scherzosamente, di aver regalato la webcam alla fidanzata proprio per avere ancora più controllo sulla sua vita. L'amico parla proprio di stalking. In più, per regalare una serata indimenticabile a Rebecca dà il suo numero ad alcuni dei weirdo dell'internet di cui sopra, sperando che le loro buffe telefonate l'avrebbero distratta dalla prevista serata dedicata allo studio. Una cosa oltraggiosa e pericolosa.
Parlando con la madre, Rebecca dice di essersi allontanata non solo per l'università, ma anche per avere uno spazio suo, un po' lontano da Johnny stesso. In questo il film gioca abbastanza bene, mantenendo fino all'ultimo secondo possibile l'ambiguità necessaria per farci sospettare che possa essere Johnny a mettere in pericolo Rebecca e non la medium Vera con le sue rivelazioni. 
Non che Vera sia esente da ambiguità: ogni volta che compare sullo schermo pare diversa dalla precedente: a volte immersa fino al collo nel suo personaggio oscuro e minaccioso, altre ridicolizzando il soprannaturale e tutti i creduloni che abboccano alle sciocchezze. In questo il film è chiaro: non bisogna fidarsi delle persone del web. A essere messo in discussione non è mai il mezzo ma sempre coloro che ne fanno uso, che non sono mai autentici e meritevoli di fiducia. Anche questo è un interessante cambiamento che resterà poco sviluppato nel corso del tempo. Internet - e oggi anche il mondo delle intelligenze artificiali - è da sempre ritratto come il demonio del nuovo millennio. Il focus è sempre stato sul mezzo, pur con le dovute eccezioni, mentre Costanza qui sceglie di lasciare la responsabilità del male tutta nelle mani degli uomini, che con le loro sette e i loro culti portano violenza e morte.

L'elemento legato al culto e alla risoluzione della storia di Collingswood che dà il titolo alla pellicola è in effetti proprio la sua parte più debole. È poco intrigante e un po' superficiale ma sono certa di vederla così proprio per le difficoltà legate alla scelta della videochiamata. Essere troppo in anticipo sui tempi ha significato non avere familiarità col mezzo perché, banalmente, non lo si usava. Non se ne conoscevano tempi e soprattutto potenzialità spaventose. Sebbene, soprattutto nella prima parte, ci siano momenti in cui genuinamente si teme per la sorte dell'ignara Rebecca, questo si perde molto nella seconda, quando si dedica tempo alla ricerca di informazioni sul culto che aveva sede nella città senza che si riesca davvero a legare questa storia alla protagonista. Il film ci dà le informazioni corrette per mettere insieme persone e circostanze, ma il senso di pericolo imminente, così chiave nel found footage, qui manca, e si arriva al finale poco intrigati e un po' delusi soprattutto dalla conclusione stessa. 
Oggi un regista che si approccia allo screenlife sa come posizionare la webcam per massimizzare la tensione, quali dialoghi tenere e quali scartare per tenere il ritmo fluido e realistico. Conosciamo internet così bene da sapere come sfruttarlo per trarne il massimo possibile in termini di funzionalità ed efficacia.

Se lo sappiamo così bene, però, è perché sono arrivati pionieri come The Collingswood Story a mettere le basi, e dimenticarceli come abbiamo fatto con lui è ingiusto e anche un po' triste.


sabato 24 agosto 2024

Longlegs: una recensione a caldo senza spoiler

13:37
 Sebbene il cinema sia un'arte che consente con agilità di ripetere l'esperienza di fruizione, soprattutto rispetto alla letteratura, io tendo a riguardare poco i film, perché le mie infinite lacune mi chiedono di dedicare tempo alle cose che non ho mai visto. Ogni tanto, però, arrivano dei film che mi scombussolano così tanto che desidero tornare nei loro mondi appena dopo esserne uscita. I due casi più recenti per me erano stati Deadstream e Late Night with the Devil. 
Ieri sera abbiamo finalmente visto il film più atteso e chiacchierato dell'anno, Longlegs. Questa mattina l'ho rivisto la seconda volta per confermare le impressioni iniziali: è il film del decennio.
Questa è solo una recensione a caldo, il film merita analisi infinite anche solo per la numerosa simbologia che lo attraversa. So, però, che lo vedrò all'infinito, e avremo tempo di riparlarne insieme. 




Sarà un'impresa riuscire a parlare del film senza spoiler ma voglio rassicurare chi legge che presterò enorme attenzione: meno se ne sa meglio è. Sono infatti, a visione terminata, un po' combattuta sulla gigantesca campagna pubblicitaria che lo ha preceduto: penso Perkins meriti questo e altro, perché è tra i nomi più grandi della sua generazione e fino a questo momento era passato troppo in sordina rispetto al suo immenso talento. Era ora di glorificarlo a dovere e bisogna anche ammettere che è stato divertentissimo. Dall'altro lato, però, i numerosi trailer hanno mostrato più di quanto avrei voluto si vedesse e purtroppo una visione così tardiva rispetto all'uscita americana ci ha penalizzato: le foto di Longlegs e del makeup di Cage giravano già da qualche settimana e sono certa che se non lo avessi visto prima mi avrebbe fatto impazzire di terrore. L'uscita italiana a novembre è semplicemente oltraggiosa e sconsiderata, oltre che poco lungimirante. Quest'anno le attese sono davvero sconfortanti. Ma torniamo al film, che per dirvelo in parole molto brevi parla di un'agente dell'FBI che a causa di una circostanza molto spiacevole finisce per occuparsi di un caso che i suoi colleghi non stanno riuscendo a risolvere da 30 anni, quello del serial killer Longlegs.

Può, nel 2024, trent'anni dopo Il silenzio degli innocenti, avere ancora qualcosa da dire un film del genere? Sì, in mano alla persona giusta. Perkins è la migliore persona disponibile per un'operazione di questo tipo. Lo è perché, come abbiamo visto nei suoi lavori precedenti, è un regista che lavora di atmosfera: i colori, la grana, la messa in scena. È tutto curatissimo affinché anche i momenti più silenziosi - qui tanti - siano efficacissimi nel condurci per mano attraverso un terrore che non ha bisogno di parole. Siamo negli anni Novanta, caratterizzati dal marrone dell'arredamento, dalle automobili spigolose e dall'inizio della tecnologia come la conosciamo oggi. Questa collocazione temporale è data da poco altro: la foto di Clinton nello studio, il telefono fisso e le cabine telefoniche, l'evidente riferimento al famosissimo caso di JonBenét Ramsey. Perkins è infatti uno a cui basta poco, perché il modo in cui maneggia gli elementi a cui sceglie di dare rilevanza è più che sufficiente a veicolare mood e sentimenti. Abbiamo un'indicazione temporale, sì, ma potremmo non averla: il male non ha età.
Qui ci serve che siano gli anni Novanta, perché Lee Harker - il personaggio di una quasi irriconoscibile Maika Monroe - deve usare la carta: scrive, taglia, ricuce. La realtà è composta di frammenti di carta a cui lei sta cercando di trovare un senso: foto, lettere, algoritmi scritti a mano su fogli che si possono modificare in base al bisogno, biglietti di compleanno, Bibbie da sfogliare. La tangibilità delle prove su cui lavora si alterna in modo brutale alle immagini digitali e mentali che la turbano: prima un test svolto dall'FBI per provare sue eventuali capacità soprannaturali, poi ricordi che si ricompongono frammento dopo frammento, poi visioni. Queste immagini vengono prima sottoposte a lei durante i test, e infine a noi spettatori, colpiti con violenza da quelli che ci arrivano come tentativi di far entrare questo impareggiabile sense of dread quasi a un livello subconscio. 
Oltre alle immagini rapide e misteriose che compaiono ci sono quelle lente e silenziose di cui sopra. In questi momenti non c'è affatto tregua dal malsano senso di tragedia impellente, anzi. Perkins lavora in modo straordinario sullo spazio negativo, come in precedenza era riuscito così bene a Flanagan in The Haunting of Hill House. Si realizza presto che il male è ovunque, anche e soprattutto quando non lo si vede. Ha permeato l'aria e l'ha riempita come un odore nauseante, eppure non è mai in scena in primo piano. Ne vediamo in primo piano le conseguenze sì, ma mai l'azione: quella è relegata allo sfondo, dietro le porte e sotto i piedi. Arriva, per citare Harker stessa, come qualcosa che ti picchietta sulla spalla per attirare la tua attenzione, lasciando il soffocante senso d'angoscia che dà la consapevolezza di essere sempre a un passo dall'oscurità. È come camminare per un marciapiede sentendo che tutti i lampioni alle tue spalle si stanno spegnendo. Lo sai, ma sono alle tue spalle e te ne accorgi solo perché la luce intorno a te si fa sempre più flebile. Il suo pessimismo è pari solo al suo eccellente ritratto del male e delle ragioni che lo portano a esistere.

È molto viscerale la risposta che suscita un film come questo, anche per il modo in cui tratta l'occulto. Quello che è sempre stato oggetto di studio, di analisi attraverso strumenti tecnologici volti a provarne in modo scientifico l'esistenza, torna qui a essere qualcosa di istintivo, naturale, che sopravvive a prescindere dalla fede. In Longlegs tutto è maledetto: le persone, le auto, gli oggetti, gli edifici. A guardarlo, con quel suo rosso che si alterna al gelo della neve e al bianco della casa, pare maledetto pure lui, il film. Pare punire noi che stiamo osservando questo mondo sciogliersi sotto la neve, proprio come guardiamo il true crime ogni giorno e assistiamo alle tragedie reali con un coinvolgimento innaturale. 

Parla, tra le altre cose, di identità: quella di Harker prima di tutto, alterata da un'infanzia vissuta in totale isolamento e che per la prima volta si approccia al mondo, quella della madre, attaccata a un passato che le riempie stanze e pensieri, di quelle delle figlie delle famiglie sterminate da Longlegs, la cui identità è rimessa in discussione con una singola telefonata, e quella del killer stesso. Si parla di come tenere le distanze da un lavoro che si prende ogni energia fino a farti perdere il contatto con la realtà, e di come si può avvicinarsi così tanto al male senza che questo si prenda un pezzo di noi. Che cosa ci rende diversi? Quanto crediamo di esserne immuni? E ancora, quanto di noi siamo disposti a sacrificare per cercare di non farlo entrare? È davvero una battaglia da cui qualcuno può uscire vincitore? Basterà un meraviglioso parallelismo in automobile a rivelare la risposta del film.

Questa infinità di cose ci arriva in modo così potente grazie a due protagonisti straordinari e irriconoscibili: Maika Monroe è dura, rinchiusa in una mente brillante ma di pietra, e Nicolas Cage, che ho sempre tollerato molto poco, è qui invece immenso. Ha uno sguardo, una voce e una gestualità che paralizzano e al tempo stesso sembrano voler veicolare un dolore mai espresso apertamente, riuscendo a causare sorrisi di disagio e brividi di terrore insieme. Incredibile.
Infine è Perkins che è una sorta di re Mida, che trasforma in oro tutto quello che tocca. Il suo occhio impareggiabile porta in scena - proprio come fanno i giganti - il bello del mostruoso. Nel fare paura come pochi altri usa sempre scene di una bellezza rarefatta che però non diventa mai artefatta, simbolica e raffinata ma concreta, realistica. Vedere il mondo attraverso gli occhi di chi ce lo mostra nel suo aspetto migliore è un enorme privilegio, anche quando questo significhi osservare il male con la stessa intensità. 
 
Ci sono tutti i film a cui state pensando: c'é Zodiac, Il silenzio degli innocenti, Seven, The Blackcoat's Daughter. Tutti capolavori, poco ma sicuro.
Questo, però, fa più paura.

lunedì 19 agosto 2024

Aspettando Nuovi Incubi: The Last Broadcast

14:41
Se la scorsa settimana ho deviato occupandomi di found footage nell'ambito televisivo, oggi ritorniamo a discutere del rapporto tra documentario e realtà, parlando di un film uscito l'anno prima di The Blair Witch Project e che, nonostante sia meno famoso, ha anticipato in modo sorprendente riflessioni sul genere che oggi diamo per scontate. Si chiama The Last Broadcast ed è diretto da Stefan Avalos e Lance Weiler.



Una crew composta da quattro persone è partita per un lavoro in mezzo alla natura: cercano infatti notizie sul celebre "Jersey Devil", una creatura nella cui esistenza nessuno crede davvero. A fare ritorno, però, è solo uno dei quattro, Jim. È coperto di sangue e il suo atteggiamento è un po' particolare. Questo basta: la polizia vuole un colpevole per le morti degli altri tre e Jim pare perfetto. Morirà in carcere con una condanna per omicidio. Il documentarista David Leigh, però, non è convinto che la spiegazione sia così semplice e decide di girare a sua volta un documentario per verificare come siano davvero andate le cose.

Quali sono le riflessioni sorprendenti che dicevo poco sopra e che rendono il film speciale e molto in anticipo sui tempi? Principalmente due: la creazione artificiale del mostro - e la sua autoconsapevolezza - e l'uso della strumentazione come parte attiva della narrazione.

Partiamo dal mostruoso. 
Il documentario si apre con Leigh che ci racconta della tragica occasione in cui sono morte tre persone, di una delle quali non si sono mai trovati i resti. Ce lo dice prima a parole, poi mostrandoci velocemente il modo in cui la notizia è stata riportata dai media più autorevoli come quotidiani o telegiornali. 
Questo non è un caso: nell'80, con la fondazione di CNN nascono i canali dedicati solo alle notizie. Lo chiamano il "24-hour news cycle", e contiene già nella sua premessa una fallacia: non ci saranno mai abbastanza notizie per riempire l'eternità promessa dalle 24 ore. Si tappano quindi i naturali buchi con notizie meno importanti, spesso grottesche e quantomeno originali, con buona pace della sopracitata autorevolezza. Il declino che oggi riconosciamo ben diffuso in tutto il giornalismo occidentale ha inizio da qui, dal desiderio di portarlo all'estremo a discapito di approfondimento e legittimità delle informazioni. Diciotto anni dopo, quando è uscito il film, il giornalismo aveva ormai assunto i toni sensazionalistici a cui oggi siamo abituati. Ecco che quindi serviva un film pronto a raccontarci i danni di questo trend: la stampa aveva già deciso che Jim fosse il colpevole e la polizia non ha indagato più dello stretto necessario. Come è stato possibile, come si è potuto accettare? Jim era la vittima perfetta di un sistema superficiale e frettoloso: era strambo e solo, due qualità imperdonabili nella iperperformativa America. Puntato un approssimativo dito contro di lui, la stampa ha fatto il resto, contribuendo a costruire il ritratto del mostro perfetto. Jim era orfano, autoproclamato sensitivo, così isolato che i soli a ricordarsi di lui erano la sua proprietaria di casa e il suo psicologo infantile, amante del demoniaco computer e appassionato di magia. Una ricetta che, ben combinata da chi ha distribuito le informazioni, è esplosiva. The Last Broadcast riflette su come è facile, nell'epoca delle notizie sempre disponibili, creare un Jim, prima dell'emissione di sentenze e di giudizi. Ci dice che i più deboli sono facilissimi da incastrare. basta alterare la realtà quanto basta per adattarla a un modello che ci serve per veicolare il messaggio in cui crediamo. Siamo nel decennio del processo mediatico a Monica Lewinsky, del resto. Il cinema ci ha mostrato come si fa, ma i risultati li aveva già mostrati la realtà.

E parlando di realtà alterata, passiamo alla strumentazione.
Durante la sua indagine Leigh entra in possesso del girato dei ragazzi defunti. Realizza presto che la polizia, per riuscire a incastrare Jim, non ha fatto uso di tutto il materiale disponibile, e assume una collaboratrice perché possa aiutarlo a lavorare con i video, che sono spesso danneggiati e hanno bisogno di una mano esperta. Shelly, la collaboratrice, mette mano letteralmente ai filmati: li taglia e cuce per mettere insieme gli stessi momenti ripresi da macchine diverse, li appoggia sul pavimento coperti di post-it per ricordare orari, luoghi e operatori. Nel found footage - per motivi evidenti - la riflessione sull'uso dell'attrezzatura nella diegesi è ricorrente, ma è molto interessante qui perché è su due livelli: The Last Broadcast è un finto documentario che parla di un finto documentario. Per distinguerli chiamerò primario il lavoro dei ragazzi uccisi e secondario quello di Leigh. Abbiamo quindi il materiale relativo al documentario primario che non solo compare in scena e viene manomesso da chi si occupa del secondario, ma è anche fondamentale per la risoluzione del caso che sta al centro proprio di quest'ultimo. Nel documentario primario vediamo spesso in scena dell'attrezzatura - microfoni, computer, luci - ma quasi mai la macchina da presa, a parte brevissimi istanti necessari solo a chiarire l'esistenza di altro girato, ma si vede nel secondario, in un momento specifico di cui parleremo andando in spoiler più avanti. Del primario è però proprio l'attrezzatura a risolvere il caso e a scagionare Jim: sulla pellicola si vede l'orario, provando che nel momento in cui lo si credeva impegnato a uccidere qualcuno Jim stava facendo altro. Questo ci serve nel film perché quello che ci stanno dicendo i due registi è che la pellicola riprende sempre e solo la realtà, e che è il modo in cui questa viene manomessa che conduce all'alterazione. È l'editing a modificare il modo in cui alla realtà abbiamo accesso, e pertanto sono le intenzioni di chi sta girando il secondario, tanto quanto sono state le intenzioni di chi si è occupato di diffondere le notizie a creare un ritratto mostruoso di un uomo innocente. Questo ovviamente si riaggancia al discorso sulla non neutralità del documentarista che abbiamo iniziato con Il cameraman e il maggiordomo. 

Nel prossimo paragrafo ci saranno spoiler.
È solo nel finale che vediamo a lungo e in modo più chiaro la presenza di una macchina da presa. Il film si stacca dal formato del found footage e ci mostra Leigh, che abbiamo scoperto essere il vero assassino, mentre si riprende. Negli ultimi istanti del film si è abbandonato il mockumentary per mostrarci, senza il filtro del documentarista secondario, che Leigh sta uccidendo anche Shelly, la sua collaboratrice colpevole di aver appena scoperto la sua colpevolezza. Infine, lo vediamo continuare a girare, inquadrando se stesso e cercando a lungo le parole giuste per portare a compimento la sua opera. Parlavo prima dell'autoconsapevolezza del mostro: parlavo di Leigh, ovviamente, che ha costruito un documentario intero con la missione di scoprire la verità che lui stesso era il solo a conoscere già. Poiché, mi ripeto, il documentario è sempre filtrato, lo è ovviamente anche questo secondario, guidato dalle indicazioni di un assassino che ci vuole mostrare il modo in cui l'ha fatta franca e ha mandato a morire in carcere un uomo innocente. Lo ha fatto in modo scaltro e intelligente, raccontandoci di come tutto il sistema delle informazioni benefici economicamente dalle tragedie personali, e quindi di come lui stesso, girando il secondario, conti di fare lo stesso. Non solo sa di essere un mostro, sa che lo sono tutti quelli che della sua mostruosità ne beneficeranno e sa che non sarà l'ultimo, il broadcast che dà il titolo al film.
Fine spoiler.

Se tutto questo non fosse sufficiente a rendere The Last Broadcast un film sorprendente, va anche ricordato che ha avuto un budget di 900 dollari, una distribuzione ridicola e immediatamente dopo è stato seppellito dall'uscita di uno dei film più importanti della storia del cinema. Ha un look cheap che contribuisce a dare autenticità e, se posso, pure un aumento della paurella e a quasi 30 anni dalla sua uscita rimane una riflessione lucida e attenta su quanto i diversi, gli ultimi e i soli possano in un istante diventare vittime di un sistema che non li accetta.
La solita leggerezza scanzonata del cinema dell'orrore.



lunedì 12 agosto 2024

Aspettando Nuovi Incubi: Ghostwatch

17:12
 La scorsa settimana abbiamo iniziato questa mini rassegna in attesa della stagione di Nuovi Incubi dedicata al found footage parlando de Il cameraman e l'assassino. 
Per un'infarinatura generale prima di entrare nel vivo della stagione, però, non possiamo non affrontare il vasto tema della televisione, e cominciare a farlo con Ghostwatch mi sembrava una buona idea. 



Sebbene ormai il suo stato di culto renda quasi inutile quanto sto per fare, un piccolo riassunto sulla vicenda Ghostwatch, perché - come vedremo poi per quanto riguarda The Blair Witch Project - in una riflessione sul sottogenere a cui appartiene non possiamo prescindere dal contesto in cui è andato in onda. 
Era la notte di Halloween 1992. I telespettatori inglesi sono pronti a vedere su BBC1 un programma speciale proprio dedicato alla notte più spaventosa dell'anno. Michael Parkinson, noto conduttore di talk show, presenta una serata tutta dedicata alla storia di una famiglia che sostiene di vivere in una casa infestata. Sul luogo altri nomi noti della tv inglese: Sarah Greene e Craig Charles. Presto le manifestazioni cominciano a disturbare la tranquilla riuscita della trasmissione, facendosi sempre più spaventose. In nessun momento della messa in onda si è detto ai telespettatori che stavano assistendo a un prodotto di finzione e questo tiro mancino del canale più autorevole della tv inglese ha portato conseguenze non solo sul pubblico, ma sulla storia del found footage tutto.
L'inganno fu svelato prima della messa in onda sulla rivista Radio Times, ma non è stato sufficiente per evitare la cascata di eventi che sono seguiti. Più di undici milioni di telespettatori erano certi di stare assistendo a immagini reali e terrificanti, i dati riportano migliaia telefonate indignate all'emittente, sono arrivati studi sulle sue conseguenze che sono arrivati a sostenere che abbia causato il primo caso di ptsd in un bambino e purtroppo un suicidio.

questo link ci sono alcune testimonianze di chi ricorda quella sera e di come l'ha vissuta, è un post reddit che quindi va preso con le pinze come ogni cosa esca da quel social del demonio ma penso le testimonianze siano vere. È interessante da leggere perché oggi quello del found footage è un linguaggio che parliamo in tantissimi, ma non poteva essere così nel '92, quando questa cosa neppure aveva un nome. Metterlo in prima serata, davanti allo spettatore medio di un canale considerato serio e autorevole, quando la sola cosa simile era successa in radio decenni prima e di sicuro non conosciuta dal grande pubblico degli anni Novanta, è stata una scommessa quasi criminale. 

Portare il discorso finzione/realtà nella televisione è stato un passo fondamentale nel comprendere le dinamiche tra spettatore e prodotto e Ghostwatch ha portato tutto all'estremo: BBC1 era un canale affidabile, attento allo spettatore; i nomi coinvolti quelli di elementi fondamentali della tv, a cui va aggiunto l'elemento chiave del ruolo di Sarah Greene, fino a poco prima impegnata nella tv per bambini e quindi volto rincuorante e affettuoso; si è messa a disposizione la linea telefonica ufficiale di BBC, mettendo in sovraimpressione il numero a cui gli spettatori sapevano di potersi rivolgere. Significativo è proprio l'uso che si è fatto del telefono. Non solo il numero reale, quindi, già noto agli spettatori che hanno così aperto il cassetto mentale delle cose autentiche in cui è stato immediato aggiungere quello che stavano vedendo, ma anche le telefonate che avvengono durante la trasmissione. Le telefonate erano - e credo seppure in misura minore siano ancora - l'anello di congiunzione tra la tv e i suoi spettatori. Chiunque poteva alzare la cornetta e sperare di riuscire a mettersi in contatto con il proprio idolo. Non solo, poteva così avere parte attiva in quello che di solito riceveva passivamente dal divano di casa. Se lui o lei potevano chiamare e raccontare qualcosa, perché quelle chiamate che stavano vedendo avrebbero dovuto essere false? Arrivavano da qualcuno di comune, proprio come chi stava guardando. 
Tutti questi elementi scatenano un meccanismo complesso: sto vedendo davvero quello che credo di stare vedendo? Quello davanti alle tende è un fantasma o la mia mente mi inganna? 
Ghostwatch fa un lavoro validissimo perché usa il soprannaturale. Se Il cameraman e l'assassino avesse spacciato per reali le sue crude immagini avrebbe senza dubbio scatenato forti reazioni, ma ben diverse: l'esistenza dei serial killer è reale e indiscutibile. Ben diverso costringere le persone a immaginare come reali cose in cui la maggior parte della popolazione nemmeno crede. Si è preso la responsabilità di dire che i fantasmi ci sono, che infestano le case e che soprattutto fanno del male ai bambini. È facile per me dire oggi che noi avremmo capito, che noi saremmo stati più scaltri, ma non è così e dobbiamo ammettercelo: una fetta enorme delle persone fatica a riconoscere le immagini create con intelligenza artificiale da quelle reali. 
Quello che ha fatto, volontariamente o meno, è stato dimostrare in modo innegabile il potere del mezzo televisivo, mostruoso magnete che ha mosso le menti per decenni e che non solo non ha ancora interrotto la sua influenza ma che ha trovato nei social la sua naturale eredità. Ne è emerso un ritratto inquietante: la tv, che era sempre stata la fonte delle certezze, diventava ora angosciante. Non era più adeguata alle famiglie, rese vulnerabili dal rapporto con il mezzo che aveva preso il controllo sulle loro case. 

Ma a prescindere dalla sua storia, che film è Ghostwatch?
Sono di parte, lo considero fenomenale. 
La storia che racconta è simile a quella del poltergeist di Enfield, omaggiato anche nel secondo capitolo della saga dei Warren: una madre single e le sue due figlie subiscono da mesi gli attacchi di una presenza che sta rovinando la loro vita. Poiché nessuno crede loro si rivolgono alla televisione, nella speranza che mostrare gli eventi possa finalmente dimostrare che non stavano mentendo. 
Ha un ritmo che cresce lento ma inesorabile, conducendo a un finale scoppiettante e genuinamente spaventoso. Ha anche una delle scene che mi hanno spaventato di più nella vita, quella in cui realizzano di non stare vedendo in diretta quello che sta accadendo in casa ma che la presenza ha manomesso le immagini e che la prima volta mi ha fatto scendere il cuore nello stomaco. 
Ha mostrato per primo le reali potenzialità del mezzo, e ha giocato con il tema dello sguardo: siamo noi che stiamo guardando i fantasmi o loro a osservare noi? Il male era entrato nelle case attraverso l'oggetto più diffuso, grazie al volto più rassicurante?

Un film bellissimo che è anche un esperimento dai risvolti spaventosi: abbiamo delegato a qualcun altro la responsabilità di dirci cosa è vero e cosa non lo è. Se questo inevitabile rapporto di fiducia crolla, crolla tutto.

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