The Gerber Syndrome
Mari.
12:53
Nuovi Incubi questa settimana arriva - credo per la prima volta? - in patria. Abbiamo infatti pensato che in una stagione dedicata al found footage e al mockumentary non potesse mancare un episodio dedicato a un lavoro tutto nostrano unico nel suo genere come Il mistero di Lovecraft - Road to L.
Se vi fa piacere ascoltarci, ci trovate qui:
Qualche anno dopo la sua uscita, però, in un momento in cui gli horror italiani erano sempre meno, un altro progetto ha visto la luce, e secondo me merita di essere ricordato.
The Gerber Syndrome - Il Contagio esce infatti nel 2011, scritto, diretto e montato da Maxi Dejoie, e visto oggi ha sicuramente un sapore ben più amaro di quello che ha certamente lasciato nei suoi spettatori alla sua uscita.
Il film si presenta come un falso documentario che segue le prime fasi della diffusione di un gravissimo virus che porta al morbo di Gerber. Seguiamo un paio di persone che si occupano della gestione del virus, un medico e un giovane dipendente di un'associazione statale nata proprio per il controllo della diffusione della malattia, il CS (Control Service). Il morbo di Gerber nasce come un'influenza particolarmente intensa e conduce presto i contagiati verso uno stato che li rende aggressivi e incontrollabili, simili per movenze e capacità cerebrali agli zombie.
La televisione italiana dagli anni Novanta ai primi Duemila ha visto nascere numerose trasmissioni considerate di pubblica utilità: Chi l'ha visto?, Report, Le Iene, Il testimone...Non è questo l'ambiente per stabilirne gli effettivi meriti, ma riguardare oggi il film di Dejoie mi ha fatto pensare più a un servizio di una di queste trasmissioni che effettivamente a un documentario: il modo in cui i documentaristi non rispettano le direttive date loro dalle persone che accompagnano; il sensazionalismo di alcune riprese mantenute troppo a lungo; il clima quasi amicale che regna nelle conversazioni, anche in quelle con i professionisti. Si segue per esempio un caso di contagio che vediamo svilupparsi fin dal momento del primo contatto con un malato e a cui abbiamo accesso solo perché direttamente coinvolta la famiglia del medico che ci ha concesso il suo tempo, rendendo più distese le conversazioni e alterate le decisioni a causa dell'intimità con i coinvolti. Ma su questo torneremo in un secondo momento.
Scegliendo di seguire un medico e un operatore CS, il documentario sembra volersi concentrare sulla parte clinica e gestionale della malattia, concendendo spazi minori ai malati stessi e alle loro famiglie. Vediamo nello specifico un medico molto sensibile e attento. spaventato dal futuro di un'epidemia così pericolosa e al tempo stesso concentrato sul mantenere i piedi per terra. Dall'altro lato, invece, l'operatore è ben più pessimista. Per lui i contagiati sono da debellare, manifesta senza vergogna il modo in cui li considera non più umani e pertanto non meritevoli del trattamento empatico che ci si aspetta da chi ricopre, come lui, un ruolo nel sistema sanitario.
Questo contrasto è interessante perché ci rivela presto la verità del documentario: gli zombie, qui, sono le vittime, non i predatori. A sfruttarli, dare loro la caccia per poi rinchiuderli come animali in attesa del macello, è il prestigioso Sistema Sanitario Nazionale, che delega a giovani uomini pieni di frustrazione e rabbia il ruolo dei cattivi manganellatori. A risposte dirette i piani alti deviano il discorso, non forniscono dati, scuotono la testa. E i "pezzi piccoli" come il medico che seguiamo si ritrovano ad aggirare il sistema, a mentire e nascondere i malati al CS per garantire loro un trattamento dignitoso.
Mancano i soldi, pare, e il personale stanco e nervoso diventa pericolosamente simile alle guardie, mentre i sognatori protestano per un trattamento più umano dei pazienti. La dignità è utopia, in questo universo.
Siamo nel 2010 quando il film viene realizzato, e meno di dieci anni prima il mondo era stato investito dallo spauracchio della SARS - tristemente ignari di quanti danni avrebbe causato un coronavirus anni dopo - e discutere dell'inadeguatezza dei mezzi italiani a fronte di una simile prospettiva sembrava quanto mai appropriato.
Nonostante si conceda ampio spazio al discorso collettivo e gestionale, ci si prende del tempo anche per esaminare le conseguenze di una simile tragedia sul piano individuale e familiare. Melissa, infatti, cugina e amica del medico, mette la famiglia di fronte a una scelta morale impossibile da prendere: somministrarle una cura sperimentale che avrebbe su di lei effetti collaterali devastanti ma che le salverebbe la vita o lasciarla morire con il morbo di Gerber? I suoi genitori prendono una decisione per lei e sono poi costretti a convivere con le conseguenze. Ci si chiede: meglio una vita con una malattia irreversibile o meglio nessuna vita? È un terreno delicatissimo quello in cui si muove quando si entra su temi che sono così intimi, ed è pericoloso anche il messaggio che in qualche modo si rischia di trarne: ci si cura, o no? I farmaci sono dalla nostra parte, o no? Una vita imperfetta, che non rispetta gli standard abilisti, è degna di essere vissuta? Quanto gli altri sono legittimati a scegliere cosa sia meglio per noi nel momento in cui non possiamo farlo per noi stessi?
Sono discorsi intensi che non sono certa il film sia sempre in grado di mettere a fuoco per bene. Avere però accesso alla parte più intima di queste riflessioni grazie alla confidenza con il medico di Melissa ci permette di vedere lo strazio individuale, da cui non c'è scampo: qualunque sia la decisione presa, non c'è una reale soluzione, solo una nuova vita da vivere.
The Gerber Syndrome è un progetto costruito con due lire e che deve tanto a quello che stava succedendo a livello internazionale nel cinema dell'orrore, ma è ambizioso e funziona, ha alcune interpretazioni convincenti (altre meno, ma penso si possa perdonare) e mette il focus su una paura collettiva che, anni dopo, non è svanita: se mi succedesse qualcosa, sarebbero davvero in grado di prendersi cura di me? E se succedesse alle persone che amo, ne sarei in grado io?