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sabato 24 agosto 2024

Longlegs: una recensione a caldo senza spoiler

13:37
 Sebbene il cinema sia un'arte che consente con agilità di ripetere l'esperienza di fruizione, soprattutto rispetto alla letteratura, io tendo a riguardare poco i film, perché le mie infinite lacune mi chiedono di dedicare tempo alle cose che non ho mai visto. Ogni tanto, però, arrivano dei film che mi scombussolano così tanto che desidero tornare nei loro mondi appena dopo esserne uscita. I due casi più recenti per me erano stati Deadstream e Late Night with the Devil. 
Ieri sera abbiamo finalmente visto il film più atteso e chiacchierato dell'anno, Longlegs. Questa mattina l'ho rivisto la seconda volta per confermare le impressioni iniziali: è il film del decennio.
Questa è solo una recensione a caldo, il film merita analisi infinite anche solo per la numerosa simbologia che lo attraversa. So, però, che lo vedrò all'infinito, e avremo tempo di riparlarne insieme. 




Sarà un'impresa riuscire a parlare del film senza spoiler ma voglio rassicurare chi legge che presterò enorme attenzione: meno se ne sa meglio è. Sono infatti, a visione terminata, un po' combattuta sulla gigantesca campagna pubblicitaria che lo ha preceduto: penso Perkins meriti questo e altro, perché è tra i nomi più grandi della sua generazione e fino a questo momento era passato troppo in sordina rispetto al suo immenso talento. Era ora di glorificarlo a dovere e bisogna anche ammettere che è stato divertentissimo. Dall'altro lato, però, i numerosi trailer hanno mostrato più di quanto avrei voluto si vedesse e purtroppo una visione così tardiva rispetto all'uscita americana ci ha penalizzato: le foto di Longlegs e del makeup di Cage giravano già da qualche settimana e sono certa che se non lo avessi visto prima mi avrebbe fatto impazzire di terrore. L'uscita italiana a novembre è semplicemente oltraggiosa e sconsiderata, oltre che poco lungimirante. Quest'anno le attese sono davvero sconfortanti. Ma torniamo al film, che per dirvelo in parole molto brevi parla di un'agente dell'FBI che a causa di una circostanza molto spiacevole finisce per occuparsi di un caso che i suoi colleghi non stanno riuscendo a risolvere da 30 anni, quello del serial killer Longlegs.

Può, nel 2024, trent'anni dopo Il silenzio degli innocenti, avere ancora qualcosa da dire un film del genere? Sì, in mano alla persona giusta. Perkins è la migliore persona disponibile per un'operazione di questo tipo. Lo è perché, come abbiamo visto nei suoi lavori precedenti, è un regista che lavora di atmosfera: i colori, la grana, la messa in scena. È tutto curatissimo affinché anche i momenti più silenziosi - qui tanti - siano efficacissimi nel condurci per mano attraverso un terrore che non ha bisogno di parole. Siamo negli anni Novanta, caratterizzati dal marrone dell'arredamento, dalle automobili spigolose e dall'inizio della tecnologia come la conosciamo oggi. Questa collocazione temporale è data da poco altro: la foto di Clinton nello studio, il telefono fisso e le cabine telefoniche, l'evidente riferimento al famosissimo caso di JonBenét Ramsey. Perkins è infatti uno a cui basta poco, perché il modo in cui maneggia gli elementi a cui sceglie di dare rilevanza è più che sufficiente a veicolare mood e sentimenti. Abbiamo un'indicazione temporale, sì, ma potremmo non averla: il male non ha età.
Qui ci serve che siano gli anni Novanta, perché Lee Harker - il personaggio di una quasi irriconoscibile Maika Monroe - deve usare la carta: scrive, taglia, ricuce. La realtà è composta di frammenti di carta a cui lei sta cercando di trovare un senso: foto, lettere, algoritmi scritti a mano su fogli che si possono modificare in base al bisogno, biglietti di compleanno, Bibbie da sfogliare. La tangibilità delle prove su cui lavora si alterna in modo brutale alle immagini digitali e mentali che la turbano: prima un test svolto dall'FBI per provare sue eventuali capacità soprannaturali, poi ricordi che si ricompongono frammento dopo frammento, poi visioni. Queste immagini vengono prima sottoposte a lei durante i test, e infine a noi spettatori, colpiti con violenza da quelli che ci arrivano come tentativi di far entrare questo impareggiabile sense of dread quasi a un livello subconscio. 
Oltre alle immagini rapide e misteriose che compaiono ci sono quelle lente e silenziose di cui sopra. In questi momenti non c'è affatto tregua dal malsano senso di tragedia impellente, anzi. Perkins lavora in modo straordinario sullo spazio negativo, come in precedenza era riuscito così bene a Flanagan in The Haunting of Hill House. Si realizza presto che il male è ovunque, anche e soprattutto quando non lo si vede. Ha permeato l'aria e l'ha riempita come un odore nauseante, eppure non è mai in scena in primo piano. Ne vediamo in primo piano le conseguenze sì, ma mai l'azione: quella è relegata allo sfondo, dietro le porte e sotto i piedi. Arriva, per citare Harker stessa, come qualcosa che ti picchietta sulla spalla per attirare la tua attenzione, lasciando il soffocante senso d'angoscia che dà la consapevolezza di essere sempre a un passo dall'oscurità. È come camminare per un marciapiede sentendo che tutti i lampioni alle tue spalle si stanno spegnendo. Lo sai, ma sono alle tue spalle e te ne accorgi solo perché la luce intorno a te si fa sempre più flebile. Il suo pessimismo è pari solo al suo eccellente ritratto del male e delle ragioni che lo portano a esistere.

È molto viscerale la risposta che suscita un film come questo, anche per il modo in cui tratta l'occulto. Quello che è sempre stato oggetto di studio, di analisi attraverso strumenti tecnologici volti a provarne in modo scientifico l'esistenza, torna qui a essere qualcosa di istintivo, naturale, che sopravvive a prescindere dalla fede. In Longlegs tutto è maledetto: le persone, le auto, gli oggetti, gli edifici. A guardarlo, con quel suo rosso che si alterna al gelo della neve e al bianco della casa, pare maledetto pure lui, il film. Pare punire noi che stiamo osservando questo mondo sciogliersi sotto la neve, proprio come guardiamo il true crime ogni giorno e assistiamo alle tragedie reali con un coinvolgimento innaturale. 

Parla, tra le altre cose, di identità: quella di Harker prima di tutto, alterata da un'infanzia vissuta in totale isolamento e che per la prima volta si approccia al mondo, quella della madre, attaccata a un passato che le riempie stanze e pensieri, di quelle delle figlie delle famiglie sterminate da Longlegs, la cui identità è rimessa in discussione con una singola telefonata, e quella del killer stesso. Si parla di come tenere le distanze da un lavoro che si prende ogni energia fino a farti perdere il contatto con la realtà, e di come si può avvicinarsi così tanto al male senza che questo si prenda un pezzo di noi. Che cosa ci rende diversi? Quanto crediamo di esserne immuni? E ancora, quanto di noi siamo disposti a sacrificare per cercare di non farlo entrare? È davvero una battaglia da cui qualcuno può uscire vincitore? Basterà un meraviglioso parallelismo in automobile a rivelare la risposta del film.

Questa infinità di cose ci arriva in modo così potente grazie a due protagonisti straordinari e irriconoscibili: Maika Monroe è dura, rinchiusa in una mente brillante ma di pietra, e Nicolas Cage, che ho sempre tollerato molto poco, è qui invece immenso. Ha uno sguardo, una voce e una gestualità che paralizzano e al tempo stesso sembrano voler veicolare un dolore mai espresso apertamente, riuscendo a causare sorrisi di disagio e brividi di terrore insieme. Incredibile.
Infine è Perkins che è una sorta di re Mida, che trasforma in oro tutto quello che tocca. Il suo occhio impareggiabile porta in scena - proprio come fanno i giganti - il bello del mostruoso. Nel fare paura come pochi altri usa sempre scene di una bellezza rarefatta che però non diventa mai artefatta, simbolica e raffinata ma concreta, realistica. Vedere il mondo attraverso gli occhi di chi ce lo mostra nel suo aspetto migliore è un enorme privilegio, anche quando questo significhi osservare il male con la stessa intensità. 
 
Ci sono tutti i film a cui state pensando: c'é Zodiac, Il silenzio degli innocenti, Seven, The Blackcoat's Daughter. Tutti capolavori, poco ma sicuro.
Questo, però, fa più paura.

lunedì 19 agosto 2024

Aspettando Nuovi Incubi: The Last Broadcast

14:41
Se la scorsa settimana ho deviato occupandomi di found footage nell'ambito televisivo, oggi ritorniamo a discutere del rapporto tra documentario e realtà, parlando di un film uscito l'anno prima di The Blair Witch Project e che, nonostante sia meno famoso, ha anticipato in modo sorprendente riflessioni sul genere che oggi diamo per scontate. Si chiama The Last Broadcast ed è diretto da Stefan Avalos e Lance Weiler.



Una crew composta da quattro persone è partita per un lavoro in mezzo alla natura: cercano infatti notizie sul celebre "Jersey Devil", una creatura nella cui esistenza nessuno crede davvero. A fare ritorno, però, è solo uno dei quattro, Jim. È coperto di sangue e il suo atteggiamento è un po' particolare. Questo basta: la polizia vuole un colpevole per le morti degli altri tre e Jim pare perfetto. Morirà in carcere con una condanna per omicidio. Il documentarista David Leigh, però, non è convinto che la spiegazione sia così semplice e decide di girare a sua volta un documentario per verificare come siano davvero andate le cose.

Quali sono le riflessioni sorprendenti che dicevo poco sopra e che rendono il film speciale e molto in anticipo sui tempi? Principalmente due: la creazione artificiale del mostro - e la sua autoconsapevolezza - e l'uso della strumentazione come parte attiva della narrazione.

Partiamo dal mostruoso. 
Il documentario si apre con Leigh che ci racconta della tragica occasione in cui sono morte tre persone, di una delle quali non si sono mai trovati i resti. Ce lo dice prima a parole, poi mostrandoci velocemente il modo in cui la notizia è stata riportata dai media più autorevoli come quotidiani o telegiornali. 
Questo non è un caso: nell'80, con la fondazione di CNN nascono i canali dedicati solo alle notizie. Lo chiamano il "24-hour news cycle", e contiene già nella sua premessa una fallacia: non ci saranno mai abbastanza notizie per riempire l'eternità promessa dalle 24 ore. Si tappano quindi i naturali buchi con notizie meno importanti, spesso grottesche e quantomeno originali, con buona pace della sopracitata autorevolezza. Il declino che oggi riconosciamo ben diffuso in tutto il giornalismo occidentale ha inizio da qui, dal desiderio di portarlo all'estremo a discapito di approfondimento e legittimità delle informazioni. Diciotto anni dopo, quando è uscito il film, il giornalismo aveva ormai assunto i toni sensazionalistici a cui oggi siamo abituati. Ecco che quindi serviva un film pronto a raccontarci i danni di questo trend: la stampa aveva già deciso che Jim fosse il colpevole e la polizia non ha indagato più dello stretto necessario. Come è stato possibile, come si è potuto accettare? Jim era la vittima perfetta di un sistema superficiale e frettoloso: era strambo e solo, due qualità imperdonabili nella iperperformativa America. Puntato un approssimativo dito contro di lui, la stampa ha fatto il resto, contribuendo a costruire il ritratto del mostro perfetto. Jim era orfano, autoproclamato sensitivo, così isolato che i soli a ricordarsi di lui erano la sua proprietaria di casa e il suo psicologo infantile, amante del demoniaco computer e appassionato di magia. Una ricetta che, ben combinata da chi ha distribuito le informazioni, è esplosiva. The Last Broadcast riflette su come è facile, nell'epoca delle notizie sempre disponibili, creare un Jim, prima dell'emissione di sentenze e di giudizi. Ci dice che i più deboli sono facilissimi da incastrare. basta alterare la realtà quanto basta per adattarla a un modello che ci serve per veicolare il messaggio in cui crediamo. Siamo nel decennio del processo mediatico a Monica Lewinsky, del resto. Il cinema ci ha mostrato come si fa, ma i risultati li aveva già mostrati la realtà.

E parlando di realtà alterata, passiamo alla strumentazione.
Durante la sua indagine Leigh entra in possesso del girato dei ragazzi defunti. Realizza presto che la polizia, per riuscire a incastrare Jim, non ha fatto uso di tutto il materiale disponibile, e assume una collaboratrice perché possa aiutarlo a lavorare con i video, che sono spesso danneggiati e hanno bisogno di una mano esperta. Shelly, la collaboratrice, mette mano letteralmente ai filmati: li taglia e cuce per mettere insieme gli stessi momenti ripresi da macchine diverse, li appoggia sul pavimento coperti di post-it per ricordare orari, luoghi e operatori. Nel found footage - per motivi evidenti - la riflessione sull'uso dell'attrezzatura nella diegesi è ricorrente, ma è molto interessante qui perché è su due livelli: The Last Broadcast è un finto documentario che parla di un finto documentario. Per distinguerli chiamerò primario il lavoro dei ragazzi uccisi e secondario quello di Leigh. Abbiamo quindi il materiale relativo al documentario primario che non solo compare in scena e viene manomesso da chi si occupa del secondario, ma è anche fondamentale per la risoluzione del caso che sta al centro proprio di quest'ultimo. Nel documentario primario vediamo spesso in scena dell'attrezzatura - microfoni, computer, luci - ma quasi mai la macchina da presa, a parte brevissimi istanti necessari solo a chiarire l'esistenza di altro girato, ma si vede nel secondario, in un momento specifico di cui parleremo andando in spoiler più avanti. Del primario è però proprio l'attrezzatura a risolvere il caso e a scagionare Jim: sulla pellicola si vede l'orario, provando che nel momento in cui lo si credeva impegnato a uccidere qualcuno Jim stava facendo altro. Questo ci serve nel film perché quello che ci stanno dicendo i due registi è che la pellicola riprende sempre e solo la realtà, e che è il modo in cui questa viene manomessa che conduce all'alterazione. È l'editing a modificare il modo in cui alla realtà abbiamo accesso, e pertanto sono le intenzioni di chi sta girando il secondario, tanto quanto sono state le intenzioni di chi si è occupato di diffondere le notizie a creare un ritratto mostruoso di un uomo innocente. Questo ovviamente si riaggancia al discorso sulla non neutralità del documentarista che abbiamo iniziato con Il cameraman e il maggiordomo. 

Nel prossimo paragrafo ci saranno spoiler.
È solo nel finale che vediamo a lungo e in modo più chiaro la presenza di una macchina da presa. Il film si stacca dal formato del found footage e ci mostra Leigh, che abbiamo scoperto essere il vero assassino, mentre si riprende. Negli ultimi istanti del film si è abbandonato il mockumentary per mostrarci, senza il filtro del documentarista secondario, che Leigh sta uccidendo anche Shelly, la sua collaboratrice colpevole di aver appena scoperto la sua colpevolezza. Infine, lo vediamo continuare a girare, inquadrando se stesso e cercando a lungo le parole giuste per portare a compimento la sua opera. Parlavo prima dell'autoconsapevolezza del mostro: parlavo di Leigh, ovviamente, che ha costruito un documentario intero con la missione di scoprire la verità che lui stesso era il solo a conoscere già. Poiché, mi ripeto, il documentario è sempre filtrato, lo è ovviamente anche questo secondario, guidato dalle indicazioni di un assassino che ci vuole mostrare il modo in cui l'ha fatta franca e ha mandato a morire in carcere un uomo innocente. Lo ha fatto in modo scaltro e intelligente, raccontandoci di come tutto il sistema delle informazioni benefici economicamente dalle tragedie personali, e quindi di come lui stesso, girando il secondario, conti di fare lo stesso. Non solo sa di essere un mostro, sa che lo sono tutti quelli che della sua mostruosità ne beneficeranno e sa che non sarà l'ultimo, il broadcast che dà il titolo al film.
Fine spoiler.

Se tutto questo non fosse sufficiente a rendere The Last Broadcast un film sorprendente, va anche ricordato che ha avuto un budget di 900 dollari, una distribuzione ridicola e immediatamente dopo è stato seppellito dall'uscita di uno dei film più importanti della storia del cinema. Ha un look cheap che contribuisce a dare autenticità e, se posso, pure un aumento della paurella e a quasi 30 anni dalla sua uscita rimane una riflessione lucida e attenta su quanto i diversi, gli ultimi e i soli possano in un istante diventare vittime di un sistema che non li accetta.
La solita leggerezza scanzonata del cinema dell'orrore.



lunedì 12 agosto 2024

Aspettando Nuovi Incubi: Ghostwatch

17:12
 La scorsa settimana abbiamo iniziato questa mini rassegna in attesa della stagione di Nuovi Incubi dedicata al found footage parlando de Il cameraman e l'assassino. 
Per un'infarinatura generale prima di entrare nel vivo della stagione, però, non possiamo non affrontare il vasto tema della televisione, e cominciare a farlo con Ghostwatch mi sembrava una buona idea. 



Sebbene ormai il suo stato di culto renda quasi inutile quanto sto per fare, un piccolo riassunto sulla vicenda Ghostwatch, perché - come vedremo poi per quanto riguarda The Blair Witch Project - in una riflessione sul sottogenere a cui appartiene non possiamo prescindere dal contesto in cui è andato in onda. 
Era la notte di Halloween 1992. I telespettatori inglesi sono pronti a vedere su BBC1 un programma speciale proprio dedicato alla notte più spaventosa dell'anno. Michael Parkinson, noto conduttore di talk show, presenta una serata tutta dedicata alla storia di una famiglia che sostiene di vivere in una casa infestata. Sul luogo altri nomi noti della tv inglese: Sarah Greene e Craig Charles. Presto le manifestazioni cominciano a disturbare la tranquilla riuscita della trasmissione, facendosi sempre più spaventose. In nessun momento della messa in onda si è detto ai telespettatori che stavano assistendo a un prodotto di finzione e questo tiro mancino del canale più autorevole della tv inglese ha portato conseguenze non solo sul pubblico, ma sulla storia del found footage tutto.
L'inganno fu svelato prima della messa in onda sulla rivista Radio Times, ma non è stato sufficiente per evitare la cascata di eventi che sono seguiti. Più di undici milioni di telespettatori erano certi di stare assistendo a immagini reali e terrificanti, i dati riportano migliaia telefonate indignate all'emittente, sono arrivati studi sulle sue conseguenze che sono arrivati a sostenere che abbia causato il primo caso di ptsd in un bambino e purtroppo un suicidio.

questo link ci sono alcune testimonianze di chi ricorda quella sera e di come l'ha vissuta, è un post reddit che quindi va preso con le pinze come ogni cosa esca da quel social del demonio ma penso le testimonianze siano vere. È interessante da leggere perché oggi quello del found footage è un linguaggio che parliamo in tantissimi, ma non poteva essere così nel '92, quando questa cosa neppure aveva un nome. Metterlo in prima serata, davanti allo spettatore medio di un canale considerato serio e autorevole, quando la sola cosa simile era successa in radio decenni prima e di sicuro non conosciuta dal grande pubblico degli anni Novanta, è stata una scommessa quasi criminale. 

Portare il discorso finzione/realtà nella televisione è stato un passo fondamentale nel comprendere le dinamiche tra spettatore e prodotto e Ghostwatch ha portato tutto all'estremo: BBC1 era un canale affidabile, attento allo spettatore; i nomi coinvolti quelli di elementi fondamentali della tv, a cui va aggiunto l'elemento chiave del ruolo di Sarah Greene, fino a poco prima impegnata nella tv per bambini e quindi volto rincuorante e affettuoso; si è messa a disposizione la linea telefonica ufficiale di BBC, mettendo in sovraimpressione il numero a cui gli spettatori sapevano di potersi rivolgere. Significativo è proprio l'uso che si è fatto del telefono. Non solo il numero reale, quindi, già noto agli spettatori che hanno così aperto il cassetto mentale delle cose autentiche in cui è stato immediato aggiungere quello che stavano vedendo, ma anche le telefonate che avvengono durante la trasmissione. Le telefonate erano - e credo seppure in misura minore siano ancora - l'anello di congiunzione tra la tv e i suoi spettatori. Chiunque poteva alzare la cornetta e sperare di riuscire a mettersi in contatto con il proprio idolo. Non solo, poteva così avere parte attiva in quello che di solito riceveva passivamente dal divano di casa. Se lui o lei potevano chiamare e raccontare qualcosa, perché quelle chiamate che stavano vedendo avrebbero dovuto essere false? Arrivavano da qualcuno di comune, proprio come chi stava guardando. 
Tutti questi elementi scatenano un meccanismo complesso: sto vedendo davvero quello che credo di stare vedendo? Quello davanti alle tende è un fantasma o la mia mente mi inganna? 
Ghostwatch fa un lavoro validissimo perché usa il soprannaturale. Se Il cameraman e l'assassino avesse spacciato per reali le sue crude immagini avrebbe senza dubbio scatenato forti reazioni, ma ben diverse: l'esistenza dei serial killer è reale e indiscutibile. Ben diverso costringere le persone a immaginare come reali cose in cui la maggior parte della popolazione nemmeno crede. Si è preso la responsabilità di dire che i fantasmi ci sono, che infestano le case e che soprattutto fanno del male ai bambini. È facile per me dire oggi che noi avremmo capito, che noi saremmo stati più scaltri, ma non è così e dobbiamo ammettercelo: una fetta enorme delle persone fatica a riconoscere le immagini create con intelligenza artificiale da quelle reali. 
Quello che ha fatto, volontariamente o meno, è stato dimostrare in modo innegabile il potere del mezzo televisivo, mostruoso magnete che ha mosso le menti per decenni e che non solo non ha ancora interrotto la sua influenza ma che ha trovato nei social la sua naturale eredità. Ne è emerso un ritratto inquietante: la tv, che era sempre stata la fonte delle certezze, diventava ora angosciante. Non era più adeguata alle famiglie, rese vulnerabili dal rapporto con il mezzo che aveva preso il controllo sulle loro case. 

Ma a prescindere dalla sua storia, che film è Ghostwatch?
Sono di parte, lo considero fenomenale. 
La storia che racconta è simile a quella del poltergeist di Enfield, omaggiato anche nel secondo capitolo della saga dei Warren: una madre single e le sue due figlie subiscono da mesi gli attacchi di una presenza che sta rovinando la loro vita. Poiché nessuno crede loro si rivolgono alla televisione, nella speranza che mostrare gli eventi possa finalmente dimostrare che non stavano mentendo. 
Ha un ritmo che cresce lento ma inesorabile, conducendo a un finale scoppiettante e genuinamente spaventoso. Ha anche una delle scene che mi hanno spaventato di più nella vita, quella in cui realizzano di non stare vedendo in diretta quello che sta accadendo in casa ma che la presenza ha manomesso le immagini e che la prima volta mi ha fatto scendere il cuore nello stomaco. 
Ha mostrato per primo le reali potenzialità del mezzo, e ha giocato con il tema dello sguardo: siamo noi che stiamo guardando i fantasmi o loro a osservare noi? Il male era entrato nelle case attraverso l'oggetto più diffuso, grazie al volto più rassicurante?

Un film bellissimo che è anche un esperimento dai risvolti spaventosi: abbiamo delegato a qualcun altro la responsabilità di dirci cosa è vero e cosa non lo è. Se questo inevitabile rapporto di fiducia crolla, crolla tutto.

lunedì 5 agosto 2024

Aspettando Nuovi Incubi: Il cameraman e l'assassino

16:49

Questo post contiene spoiler.

TW: violenza sessuale, morte di bambini


L'ultima stagione di Nuovi Incubi, il podcast che tengo con la mia amica Lucia, è finita da un paio di settimane e io ho già il mancarone. Come ogni estate ci fermiamo per il mese di agosto ma questa pausa è anche segnata dall'attesa per la prossima stagione. Dopo mesi a struggerci per il nostro amato Mike Flanagan, infatti, è giunto il momento di passare al prossimo argomento: il found footage. Poiché Nuovi Incubi si concentra sul cinema dal 2000 in poi ho pensato fosse carino colmare questo mese di pausa con una piccola digressione su quello che è successo nel genere negli anni Novanta, prima della sua esplosione con The Blair Witch Project. Del resto il ff è il mio sottogenere del cuore, e non potevo perdere l'occasione di parlarne ancora più di quanto previsto dalla stagione - che sarà molto lunga e divertentissima. Sul blog cercherò di pubblicare un post ogni volta che esce un episodio, per esplorare quei film che per non tediarvi troppo a lungo abbiamo deciso di togliere dalla programmazione.

Cominciamo con un piccolo film belga del '92, Il cameraman e l'assassino.




Che l'horror giochi spesso su quanto è sottile il confine tra finzione e realtà non è certo novità del found footage, né del mockumentary. È da Orson Welles e la sua Guerra dei mondi radiofonica che ci si muove su un sentiero che è sottile e spesso pericolante, eppure è indubbio che nel 1992 quel linguaggio che oggi è così chiaramente codificato e che ci aiuta a etichettare come "found footage" un film ancora non era stato messo a fuoco con la chiarezza di oggi.
Non solo non erano ancora ben definite le regole della categoria, ma era anche poco chiaro come e quanto fosse legittimo inserire la vita reale - o quella supposta tale - in un genere di cinema che prevede proprio la ricerca della massima autenticità. Parlare de Il cameraman e l'assassino è significativo proprio perché comincia a porre delle basi sulla relazione tra violenza a cui si assiste e quella a cui si partecipa e a discutere del ruolo dello spettatore in questa dicotomia.

Nel film seguiamo Ben, un uomo dalla chiacchierata vivace e dalle opinioni molto nette, che oltre a essere un amante della musica e dell'architettura è anche un prolifico serial killer. Tre giovani aspiranti documentaristi lo seguono nelle sue giornate, finendo sempre più coinvolti in questa inusuale passione.

A differenza di quanto accaduto dal 1999 in poi, il film non ha mai pretesa di autenticità: manca per esempio l'elemento extra diegetico con cui si spiega che si tratta di una storia vera, che nei primi anni 2000 diventerà quasi un elemento immancabile nel genere. Eppure per certi aspetti è più aderente al mondo reale di tanti dei film che gli hanno fatto seguito. La mancanza di fondi, infatti, anche in questo caso come in quello di alcuni film che avranno i loro episodi dedicati, ha portato a dover ricorrere alla vita vera: la maggior parte dei personaggi hanno i nomi dei loro interpreti, come per esempio i tre registi che sono il killer e due membri della crew, i familiari del film sono proprio quelli del regista - interprete di Ben, si fa aperto riferimento a un caso di cronaca nera tra i più celebri della storia di Francia, l'omicidio di Grégory Villemin. Sfrutto l'infelice citazione per sottolineare il tono generale del film, che potrebbe non venire apprezzato: Grégory era un bambino di quattro anni e il suo omicidio ha agitato l'intero paese. Nel film il suo nome diventa quello del cocktail preferito di Ben. Il tono grottesco e dark che segna questa battuta è quello che pervade l'intero film che, ammetterò fin da questo momento e anche per questa ragione, non è certo tra i miei preferiti. Non amo il black humor e penso il ritmo del film sia zoppicante, a tratti insostenibile soprattutto nella seconda parte. Ritengo comunque importante parlarne per il suo contributo nello sviluppo del genere ma mi pareva onesto aprire chiarendo cosa ne penso.

Non inserendo diciture che creino un contesto per quello a cui stiamo assistendo, il film ci catapulta nel pieno della sua storia, aprendosi con un crudo omicidio a bordo di un treno. Non conosciamo le ragioni per cui i tre documentaristi abbiano scelto proprio Ben, ma neppure, facendo un passo indietro, perché ritrarre proprio un serial killer. Con questa scelta apre al primo tema: l'ego del regista. Durante una delle prime giornate trascorse con Ben avviene un incidente in cui perde la vita il tecnico del suono, non a caso il solo della crew originaria a non avere il nome del suo interprete. Nel commosso - ma presto ironico - commento del regista, inserito ovviamente tra il girato che sarebbe finito nel film concluso, questi fa riferimento ai rischi del mestiere, quasi a sottolineare che sapevano bene in che guaio si sarebbero cacciati con questo lavoro. Il tema, esplicitato in maniera ben più evidente in Cannibal Holocaust (1980, Ruggero Deodato), è quello che si chiede che cosa si è disposti a fare pur di avere una storia da raccontare. Il "dietro le quinte" di un omicida seriale è stata per loro una storia meritevole della loro attenzione, con buona pace dei rischi del mestiere. L'ego è un tema anche per quanto riguarda Ben, però, e non solo Remy e André. Il killer, infatti, oltre a godere molto della sua spregiudicatezza ha un livello tale di auto compiacimento che decide di contribuire finanziariamente al progetto, annullando molto presto l'obiettività dello stesso. Così facendo cancella la distanza tra i tre documentaristi e lui stesso, iniziando il processo che li porterà poi a diventare suoi complici. Non solo si offre di pagare per la realizzazione del film ma comincia a dividere con loro i soldi che trova nelle case delle sue vittime. 
Ormai siamo la stessa cosa, pare dire usando il linguaggio più universale di tutti, quello del denaro.

Questo avvicinarsi porta la crew a diventare a sua volta oggetto del documentario a cui stiamo assistendo. Lo spettatore non ha mai avuto, però, distanza dai tre, perché il film non è un mockumentary riuscito: siamo sempre consapevoli della presenza della macchina da presa, fin dai primi istanti, e Ben finisce per far diventare anche la strumentazione una parte del documentario stesso, chiedendo per esempio al tecnico del suono di avvicinare il microfono affinché si sentissero meglio le ossa spezzate. 
Coinvolgere gli strumenti è il modo per acquisire potere sui tre ragazzi: è Ben a fare le regole della sua narrazione. I ragazzi si lasciano andare prima semplicemente cominciando a comparire, ennesima rottura del documentario tradizionale, e poi cominciando a parlare. Fino a quel momento, infatti, si erano limitati a mostrare la vita di Ben, senza partecipare ma anche senza prenderne le distanze, simulando un documentario che non avrebbe dovuto avere pretesa morale ma solo desiderio di raccontare.
Vedere ogni giorno come Ben la passa liscia contribuisce a scatenare anche in loro desideri sopiti e a renderli sempre più parte attiva: prima aiutano e poi commettono per primi l'impensabile. C'è infatti una lunga sequenza di stupro in cui non sono solo complici ma i primi a compiere il reato. 
In questo lo spettatore come si posiziona? Ogni certezza relativa al documentario è messa per noi in discussione: non ci possiamo fidare di chi ci riporta le storie, perdiamo il senso dell'oggettività e ci chiediamo quanto noi, che continuiamo a seguire, siamo disposti ad accettare. Il titolo in francese, che significa qualcosa come "può accadere nel tuo quartiere" ci rimette al centro: siamo spettatori passivi di qualche atrocità? 

È un film importante perché prima di tanti altri ci parla del modo in cui fruiamo di prodotti che parlano del mondo che ci circonda, anni prima che la reality tv diventasse così centrale nelle nostre programmazioni. Parla sì di chi realizza, ma anche di chi osserva, di chi cerca in quella distanza apparente la giustificazione per non cambiare canale. Ci fa chiedere che cosa cerchiamo quando accendiamo lo schermo: a un personaggio abbastanza carismatico siamo disposti a perdonare tutto? Non sono poche le serie tv in cui ci affezioniamo per esempio a protagonisti che sappiamo essere discutibili, ma non sono pochi neppure i carcerati che ricevono lettere di ammirazione quotidianamente: dove si posiziona il confine tra quello che è lecito fare sullo schermo e quello che invece è concesso nella vita reale? In questo senso il film fa una scelta interessante decidendo di non farci mai empatizzare con Ben: non ha una backstory commovente, un trauma da elaborare, un passato tumultuoso. È solo un assassino, senza alcuna ragione. 
Quale regola determina se la macchina da presa va accesa in ogni momento per rappresentare la realtà nella sua interezza o se invece ci sono cose che è meglio lasciare lontano dallo sguardo? 
Il cameraman e l'assassino fa un buon lavoro nel ridiscutere quella che è solo all'apparenza la morale comune, il ruolo del documentario nel rappresentare la realtà e quello del documentarista che non può in nessun caso cancellare la sua presenza e la sua etica dal suo lavoro. 
L'estremo attrae, il reato seduce e la violenza incanta: come si convive con questa certezza? Il film è pessimista in questo: non si può assistervi senza desiderare di prenderne parte. Oggi sappiamo che la faccenda è molto più complicata di così, ma se il cinema continua a raccontarlo sempre meglio è perché qualcuno ha cominciato. Nonostante le mie reticenze, non posso non riconoscerglielo.







martedì 30 luglio 2024

Notte Horror 2024: Frankenhooker

21:00

Questo post contiene spoiler.


 La Notte Horror non la mollerei neppure se chiudessi il blog (cosa che non succederà, anzi, potrei ricominciare a rinvigorirlo proprio nelle prossime settimane) ma quest'anno ha un sapore amaro. È infatti dedicata a Laura, che conoscevamo come Arwen Lynch, che ci ha lasciati da poco. Laura ha avuto una fame di cinema insaziabile, era curiosa e piena di voglia di condividere la stessa passione che ogni estate, da tante estati, ci porta qui a parlare di cinema insieme, come se ci conoscessimo da sempre.

Ciao Laura, grazie di avere fatto rete insieme a noi.


gli altri partecipanti


Sono passati pochi mesi dall'uscita del bellissimo penultimo lavoro di Yorgos Lanthimos, Povere creature!. Lì una giovane donna viene riportata in vita dopo un suicidio, ma nel suo corpo di adulta risiede una mente bambina, che deve ricominciare il suo percorso sulla terra da capo. È un film che sa parlare molto bene del femminile, ma non si può negare sia comunque la storia di tre uomini che dispongono - e abusano - del corpo di una donna nel modo in cui desiderano. Quella che appare come una storia di liberazione finisce per esserlo solo parzialmente, perché ci si è scordati di mettere Bella al centro. 
Trentaquattro anni prima, un regista sicuramente meno raffinato ma altrettanto di sicuro più simpatico, Frank Henenlotter, è riuscito ad affrontare un tema molto simile ma in modo a mio parere più efficace, con una horror comedy gloriosa ed esilarante: Frankenhooker.

Elizabeth è nel pieno della vita. Ha solo 21 anni ma la strada della vita spianata: sta infatti per sposarsi con il suo brillante fidanzato Jeffrey, elettricista con la passione per l'anatomia, e i due sono molto felici insieme. Certo, la mamma è un po' fissata col peso della figlia, ma Elizabeth ce la sta mettendo tutta per tornare in forma, anche con l'aiuto del futuro marito. 
Durante la festa di compleanno del papà, però, un tremendo incidente domestico le toglie la vita. Il fidanzato non si rassegna e decide di riportarla in vita aiutandosi con i corpi delle prostitute che ogni notte popolano i marciapiedi della città.





Il corpo come progetto
L'incidente in cui Elizabeth perde la vita è atroce, seppur raccontato con una grottesca goliardia dal tg che riporta la notizia, e di lei non resta quasi nulla. Jeffrey è riuscito a recuperare solo la testa. Si rende quindi necessaria la ricerca di nuove parti con cui comporla. 
Nel classico di Mary Shelley che così evidentemente il film richiama la ricerca delle parti con cui comporre il corpo della Creatura è data dal fatto di usare dei cadaveri. Cercare tra le tombe, infatti, comporta il rischio di trovare corpi non perfetti, da cui prelevare solo le parti meglio conservate. La ricerca di Jeffrey invece è deliberata: se la fidanzata va rifatta, tanto vale rifarla perfetta.
Non è solo dopo la sua morte che questo accade. Elizabeth infatti racconta a un'amica di essersi sottoposta a un intervento di restingimento dello stomaco, per riuscire a dimagrire, e che a farlo sia stato proprio Jeffrey, forte solo di una basilare conoscenza di anatomia imparata alla facoltà di medicina che ha lasciato qualche tempo prima. Già in vita, quindi, il corpo di Elizabeth era da assestare, ridisegnare perché assomigliasse di più ai desideri di chi la circondava. Mai ai suoi, naturalmente, perché la nostra amava mangiare al punto che proprio i suoi amati prezel salati hanno contribuito a farla tornare in sé in un momento che affronteremo più avanti. 
La decisione di assemblare corpi differenti affinché l'aspetto dell'amata rasentasse la perfezione è quindi il naturale proseguimento di un concetto espresso dal primo istante: le donne devono essere come le vogliono gli altri. Nel momento in cui Elizabeth è mancata la sua volontà è morta con lei, e chi avrebbe dovuto amarla ha deciso di mettere il proprio bisogno al primo posto. Ha quindi misurato con precisione gambe, braccia, seni, affinché fossero i suoi preferiti in mezzo a quelli di tante ragazze.
La ricostruzione di Elizabeth ha richiesto quindi una progettualità innaturale, che dal principio e in modo paradossale l'ha esclusa dall'equazione. 
L'avevamo visto succedere decenni prima, quando Whale per la prima volta ha messo in scena una creatura frustrata, una Sposa che non ha chiesto la vita e non ha certo chiesto quella. Allo stesso modo Elizabeth, ripresa coscienza di sé, non prova la gratitudine sperata dall'aspirante scienziato. Dopo un primo istante di stupore per la riuscita dell'impresa, realizza di essere stata ricomposta in un corpo che di lei, ormai non aveva più niente e che era stato creato su misura per piacere a qualcun altro.
Henenlotter ha il coraggio -  e chi se non lui? - di dare a Elizabeth la vendetta che Bella non ha avuto, facendoci godere di un finale squisitamente queer: dopo la sua inaspettata morte, anche Jeffrey viene resuscitato grazie agli appunti presi durante la realizzazione del suo progetto. Poiché ha progettato solo modi per resuscitare le donne, però, gli è toccata la stessa sorte della fidanzata: un bellissimo corpo femminile, selezionato proprio su misura per lui.





Dove risiede la mente?
Torniamo ai prezel. La madre di Elizabeth la mette in guardia: occhio, che fanno ingrassare. E lei, figliola devota, prova a posarli, ma li trova davvero irresistibili. Tornata in vita con un corpo nuovo, finisce in uno dei bar più frequentati dalle sex worker i cui corpi sono stati presi in prestito. È un momento particolare per lei, perché si è appena risvegliata e la mente non ha ancora fatto chiarezza su cosa le sia accaduto. Sul bancone del bar, però, ci sono i prezel. Prima ancora che il cervello la aiuti a ricordarsi la sua storia, ci pensano la bocca, la memoria della lingua e la salivazione dell'appetito. Non avviene la magia, dopo averli mangiati - il film è migliore di così - ma il suo corpo si muove prima che lo faccia la mente. 
Il film ci racconta come il corpo sia elemento fondamentale dell'identità, che prescinde dal volto e che ha in tutte le sue parti una fetta significativa di quello che siamo. Non a caso quando Elizabeth si sveglia non è in sé: sono le donne defunte per farla vivere che le danno voce. Ecco allora che lei si muove per la strada ripetendo le frasi che le ragazze usavano per attirare clienti, mentre il corpo la conduce in luoghi che loro conoscevano e frequentavano. La mente non riesce a svegliarsi ma il corpo ha la situazione sotto controllo: riesce a sedurre dei clienti - con effetti temo non compresi nel prezzo - a muoversi con dimestichezza in uno spazio che era quello naturale per le vittime di Jeffrey e ricorda la sessualità. 
Non solo: tutte le parti scartate delle vittime riprendono il controllo. Nel caos elettrico che è servito a restaurare Elizabeth dopo un ulteriore incidente anche loro riprendono vita, e non sono contente. Unite nel ricordo di chi in vita le ha sfruttate si scagliano contro di lui per finirlo, senza che servano corpi completi o menti per questo. Il ricordo di quello che hanno vissuto era intessuto nelle parti di loro che nel corso del tempo gli uomini hanno sfruttato, e sono bastate le stesse parti a vendicarle.
Ricordarci che tutto il nostro corpo porta il segno di quello che siamo è fondamentale per imparare a trattarlo con il rispetto e l'amore che ci aspettiamo dagli altri.

Il sex work
Il mondo femminista si divide da sempre sull'argomento della prostituzione. Non è questo il post in cui approfondirò l'argomento, ma di certo il film almeno ne sfiora le complessità. In un breve istante, infatti, sentiamo alla tv una donna discutere della necessità di legalizzare il sex work ai fini di tutelare le professioniste, spesso defunte per l'abuso di sostanze a cui ricorrono per sopravvivere alla vita estrema di strada. Nel film questo momento serve a dare al protagonista l'idea del super crack con cui le uccide, ma è interessante per due ragioni. La prima è la più ovvia: un film così scanzonato riesce a dare più tridimensionalità al problema in esame con una singola scena, peraltro molto breve. La seconda sta proprio nel super crack di Jeffrey: somministrando alle ragazze una sostanza di cui fanno già uso si ripulisce la coscienza, continuando ad attribuire loro la responsabilità della loro condizione. 
Oggi quello del sex work è un mondo diverso e ben più ampio di quanto non fosse nel 1990 ma il film parla in modo inequivocabile di quella parte di lavoratrici che sono sfruttate da un uomo. Zorro, infatti, arriva a reclamare il corpo di Elizabeth perché composto di parti che, a suo dire, gli appartenevano. Private di ogni autonomia, quindi, queste sex worker sono state, nell'ordine: drogate a loro insaputa, smembrate, riutilizzate come pezzi di ricambio e infine reclamate proprio dall'uomo che fino a poco prima vendeva i loro corpi. Il tutto per colpa loro, a detta di Jeffrey, che hanno assunto la sostanza che le ha uccise. 
In un solo momento si distruggono il victim blaming, lo sfruttamento e il senso di proprietà sui corpi altrui. In un film in cui nella scena successiva si maneggiano tette staccate come fossero cuscini da testare. Magnifico.

Non starò a ripetere la mia consueta manfrina su quanto il cinema dell'orrore parli sempre di corpi femminili, ma non posso che gongolare insieme a voi quando lo fa in questo modo: eccessivo, camp, colorato, stravagante e coraggioso. La serie B ci salverà tutti quanti.

mercoledì 26 giugno 2024

2024 in trimestri: episodio 2

16:27
 Sono passati tre mesi dall'ultima volta in cui sono passata di qui, ma questo periodico appuntamento in cui raccontare le cose di cui ho fruito mi piace sempre e mi aiuta a tenere il punto sulle cose.
Prendete qualcosa da mangiare, perché sarà lunga!


Foto di Zoltan Tasi su Unsplash


Horror dell'anno
È già dalla fine dello scorso anno che si respira un'atmosfera ottima, nella horror community. Le uscite del 2024, infatti, erano già in partenza molto stimolanti e mano a mano che riesco a metterci su le mani ne trovo conferma: mi spingo a dire che è l'annata migliore dal 2018.
In questo secondo trimestre ho visto un po' delle uscite più interessanti e ancora nulla mi ha delusa. I due episodi monastici, Immaculate e The First Omen sono stati sorprendenti. Ero piuttosto scettica su entrambi per ragioni diverse e invece mi hanno scombussolata. Sono i migliori horror religiosi degli ultimi anni, con il secondo che ha scavalcato ogni aspettativa e si è rivelato un film sinceramente spaventoso e molto pessimista, e il primo che ha praticamente messo in croce le mie certezze e si è piazzato immediatamente come una delle visioni migliori del decennio: è spudorato, eccessivo, potente. L'ho amato con passione ardente.
È anche vero che il 2024 ci sta graziando con uscite sorprendenti come l'adorato Late Night with the Devil, coraggioso, spaventoso e coinvolgente, ma anche il delizioso Abigail, conferma - non necessaria ma certo gradita - che quelle dei Radio Silence sono voci interessanti e talentuose.
L'indie non è stato certo da meno, perché con l'angosciante Stopmotion - importante analisi della relazione tra identità e lavoro creativo - si è dimostrato fetta significativa del discorso sull'horror contemporaneo. Sono molto entusiasta di come sta procedendo questo 2024, ci aspettano mesi gloriosi.

Horror non dell'anno
In un weekend di pioggia ho finalmente recuperato Shirley, ispirato alla vita della divina Jackson, e me ne sono innamorata. È un film che parla di passione: per l'arte, per la scrittura, per il corpo, per una coinquilina. Nel suo essere così pacato riesce a comunicare la tempesta dei sentimenti e il tormento dell'anima. È un film incredibile in cui, come suo solito, Elizabeth Moss risplende.

Non horror dell'anno
Se è vero che nel cinema di genere stiamo assistendo a un momento davvero eccellente, lo è altrettanto che anche il cinema tutto è in una fase che lascia incantati.
Ho recuperato in questi tre mesi alcuni film di una bellezza così grande da lasciarmi come una bambina che scopre le giostre per la prima volta. È il caso di film delicati ma con la potenza di un'ariete come La zona d'interesse e Estranei, che visti a poca distanza uno dall'altro mi hanno ricordato che anche il cinema è un'arma da manipolarsi con cautela. Ammetto che tra i due è il secondo ad avermi conquistata, però: ha un modo così raffinato di parlare di dolore e dei luoghi dell'anima in cui ci rifugiamo per farlo tacere un po' che forse non lo avevo mai visto prima. Certo, poi arriva il finale e di sicuro io non l'ho accolto come una principessa per bene, perché quando piango così tanto poi divento un'ameba paglierina, ma non c'è istante in cui non ne sia valsa la pena. 
Ben più adrenalinici, ma non per questo meno commoventi, due dei film più belli non dell'anno, ma della vita: Furiosa e Civil War. Il film di Miller mi è piaciuto ancora più di Fury Road, perché questa storia di vendetta che non si premura di rassicurare nessuno con un percorso di crescita e maturazione ma che è solo guidata da rancore e risentimento mi ha fatto sognare. In un mondo di film che ci dicono che il male aiuta a crescere e migliorare, ho trovato molto più conforto nella rabbia di Furiosa, che vuole solo sfogare un immenso dolore senza che qualcuno le faccia la paternale per questo. L'ho amato da impazzire. Meno testosteronico, come dice la mia amica Ilaria, ma non per questo meno bello, il nuovo film di Garland, che parla di guerra e mondo alla deriva raccontando la necessità della testimonianza. L'ho trovato unico, mi ha incantata.

Videogiochi
Ho giocato molto in questi tre mesi e tutti i giochi, in un modo o nell'altro, ne sono valsi la pena.
Il più godurioso è stato sicuramente Have a nice death, in cui si interpreta una piccola Morte in pieno burnout lavorativo, che deve affrontare stagisti, sindacalisti e lavativi, armata solo di un'ascia e qualche caffè. Lo amo tantissimo e mi diverte come una m a t t a.
Il più dolce è stato Gone Home, in cui si cercano tracce della propria famiglia che non è a casa e si ripercorre attraverso i loro ricordi l'anno che si è passato lontane. È ambientato negli anni 90 e le band pop punk femministe non sono solo la colonna sonora ma anche parte dell'ambiente in cui uno dei personaggi si muove e cresce, sviluppando una sensibilità femminista che è stato incantevole trovare sullo schermo. Bellissimo.
Il più serio invece A Plague Tale, che ho giocato insieme a Erre per manifesta incapacità ma che ci è piaciuto tanto: ambientazione medievale, epidemia, alchemia e topini arrabbiatissimi ci hanno accompagnato nel percorso che abbiamo fatto insieme ai due fratellini protagonisti e ai loro amici trovati in viaggio. Ha qualche sequenza un po' frenetica che da sola non avrei mai superato ma l'atmosfera è molto intrigante e la vicenda appassionante. E poi si prendono a sassate gli inquisitori. Davvero bello.

Serie Tv
Sebbene come tutti sia finita nella fissa Baby Reindeer, non è stata lei la mia serie del trimestre. Bella lo è, e moltissimo, ma purtroppo casa Redrumia è finita in una fissa ben maggiore: Buffy.
Non l'avevo mai vista per intero e abbiamo deciso di approfittarne ora che è su Disney+, e sebbene immaginavo mi sarebbe piaciuta per via della mia ossessione per i teen horror, mai avrei pensato di finire sotto un treno di tale portata. Non parlerei che di Buffy, non penso che a Buffy, le mie giornate ruotano intorno al momento in cui vedere il prossimo episodio di Buffy. Ne riparliamo appena la finisco perché tutta questa ossessione dovrà finire in un post.

Letture
Ho letto molto meno dei miei standard in questo trimestre, ma non sono mancate letture molto significative. Due sono state parte del mio progetto Dark Ladies: su instagram, infatti, dedico una diretta al mese ad un romanzo di genere scritto da una donna e le DL di aprile e maggio sono state pazzesche. Mantide, di Julia Armfield, è una raccolta di racconti che esplora l'esperienza femminile da diversi punti di vista, e nello specifico approfondisce i cambiamenti del corpo e i diversi momenti dell'amore. L'ho trovata uno specchio sincero sul mondo femminile, che non ha paura di esplorarne anche gli aspetti meno gradevoli e che si presta secondo me come testo da regalare alle giovani donne che ancora si muovono nel mondo frastornate dai suoi mille cambiamenti. L'altro è La luce del sole, ultimo romanzo di Octavia Butler, in questo testo alle prese con una giovane vampira che in seguito ad una grave amnesia deve ricostruire la propria storia e riscoprire le proprie origini. Non ha solo una lore dei vampiri splendida, diversa da tutte quelle che avete letto finora, ma - come il caso precedente - parla di scoperta di sè, di esplorazione del mondo, di come fare a imporsi su chi crede di sapere meglio di noi che cosa sia il nostro bene. Un romanzo splendido.
Ultimo ma non per importanza La crociera, di Lara Williams, che a sua volta parla di identità: quella che comincia a mancare quando si finisce a lavorare su una nave da crociera. Gli abiti sono brandizzati e tutti uguali, il lavoro da svolgere è deciso da altri, il tempo da dedicare alle attività è deciso da altri, fino a che della propria individualità non rimane niente. È la storia di una donna che ha un cos' grande bisogno di scappare che non riesce a fermarsi neppure quando la fuga è quella da se stessa. Davvero un lavoro bellissimo.

IRL
Sebbene le complicazioni dei mesi scorsi non siano certo finite, ho anche cose positive di cui parlare. 
Da marzo non lavoro più: in seguito a circostanze molto complesse nella vita privata e lavorativa ho accolto la proposta di Erre di prendermi qualche mese di pausa. È un privilegio immenso di cui non sarò mai grata a sufficienza. Sto approfittando di questa pausa per vivere la vita dei miei sogni: mi occupo di cinema tutto il giorno, sui social, in live streaming e scrivendo cose che spero vedano presto la luce. Ho scoperto che scrivere saggistica mi appassiona più di scrivere narrativa, cosa che avevo sempre pensato sarebbe stata la mia sola passione, e a questa nuova scoperta sto dedicando tutto il mio tempo. Sto studiando, scrivendo e studiando ancora, e non conosco gratificazione più grande. È un sogno e un privilegio.
Nel marasma di una quotidianità che non mi ha permesso di allontanarmi da casa a lungo siamo comunque riusciti a ritagliarci due giorni toscani a cui penso con grande affetto: un'oasi di pace nel caos. 
Nuovi Incubi prosegue con una stagione che ci ha portato crescita, soddisfazione e soprattutto riflessione: episodi complessi come quelli su Flanagan e la sua opera sono stati fondamentali per me in un momento in cui avevo bisogno di riflettere sulla mia storia e il mio presente. Sono molto grata anche di questo.
La mia vita continua a ballare su assi instabili agitate da venti di tempesta, ma sempre più spesso mi sembra di vedere piccoli sprazzi di luce tra le nuvole e riuscire a riconoscerli è il progresso più grande che potessi fare.

Buona estate a tutti!

giovedì 28 marzo 2024

2024 in trimestri: episodio 1

15:39
Non mi ripeterò con la consueta intro in cui dico che questo è il periodo più difficile della mia vita, ma vi rassicuro: continua ad essere così. Però sto imparando quanto velocemente il corpo umano e la mente si adattano a equilibri nuovi e mentre il mondo inizia a ballare io ballo con lui.
Questi primi tre mesi dell'anno nuovo si sono aperti però con poco tempo a disposizione, ed è finita che ho letto, guardato e ascoltato molto poco. In questo poco, però, ci sono state storie di grande valore e vale la pena raccontarvele.





Letture del trimestre

Poiché vi ho già parlato di Canne al vento di Grazia Deledda - indiscutibilmente la lettura migliore del trimestre, ve ne propongo altre tre, che ho trovato molto interessanti.
Il primo è così celebre che non devo certo presentarlo io. Si tratta infatti de Il grande mare dei Sargassi, che in poche pagine ci racconta la storia della moglie pazza nell'attico di Jane Eyre. È una lettura così breve che la berrete nel tempo di un aperitivo, ma così significativa da non lasciarvi più. È il racconto anticolonialista di una bambina strappata al mondo che conosceva e lanciata in quello viziato e borghese in cui si sono mossi gli uomini della sua vita: il marito della madre prima e il suo poi. Non solo riscrive la sorte di un personaggio ridisegnandone completamente l'aspetto e il trascorso, ma rimette in discussione tutte le donne che, come Antoinette, sono state nascoste, umiliate, cancellate. Magnifico, col profumo esotico della Giamaica che si trasforma in quello polveroso e umido di una casa data alle fiamme. Un racconto magnifico.
Ho poi ascoltato in audiolibro Yellowface, di RF Kuang. È la storia di una giovane e brillante autrice cinese americana che muore per un banale incidente a casa di una conoscente, scrittrice a sua volta, che pensa di farla franca rubando un manoscritto della defunta e spacciandolo come proprio. In un momento come il nostro in cui il dark academia è così di moda da diventare più un'estetica da sfoggiare sui social che non un genere letterario, Yellowface prende tutta l'academia per prendersene violentemente gioco. È un romanzo in cui il mondo dell'editoria ne esce infangato e ritratto come privo di morale e autenticità, in cui i social e il loro desiderio di verità sono il punto di svolta, in positivo o in negativo, di carriere intere. Il più pulito, qui dentro, ha la rogna, e il punto intero del romanzo è di raro cinismo: non c'è vendetta, non c'è giustizia, non c'è lealtà: il mondo fa schifo e il solo modo di sopravvivere è adattarsi a meccaniche che qualcuno ha imposto per noi. Oppure no, questa è la scusa che ci diciamo per giustificare la nostra mancanza di morale? Il romanzo ha una protagonista ripugnante che si muove in un mondo alla sua altezza e l'autrice ha, secondo me, giocato molto bene con queste acque sporche.
Il terzo, infine, è Guida al trattamento dei vampiri per casalinghe, l'ennesimo romanzo di Grady Hendrix che passa da queste parti e che, tanto quanto gli altri, mi ha rubato il cuore. Come di consueto il suo autore ama parlare dei vari modi in cui l'umanità è prigioniera e questa, di umanità, è imprigionata in ruoli di genere duri a morire. Le casalinghe del titolo sono un gruppo di donne che si diletta a leggere libri sul true crime e che si troverà a doverne affrontare uno proprio nel perfetto e pulito quartiere in cui abitano con le loro famiglie perfette e pulite. Ha una deliziosa ambientazione anni '90, delle protagoniste simpatiche che si vogliono un gran bene anche se sono molto diverse e un gran desiderio di liberarle da questa vita in cui si sono trovate incastrate. Mi ha commosso molto.

Cinema

Ho guardato cos' poco horror in questo trimestre che mi sento distaccata da me stessa. Questo, però, non significa che non abbia visto delle belle cose di cui vale la pena parlare. Per esempio, il film del trimestre è indiscutibilmente La società della neve, così potente e appassionato e struggente. Che peccato averlo avuto solo su Netflix e non in sala, alcune sequenze meritavano una visione come si deve. Questo però non ha tolto intensità alla visione e mesi dopo la sua uscita, dopo che ne ho parlato in lungo e in largo su ogni social che abbia la mia faccia, ci penso ancora, a quei poveri sventurati, giovani e coraggiosi e forti come dei supereroi. Che visione magnifica. 
Per quanto banale, poi, è ovvio che i due film del trimestre siano Dune parte 2 e Povere creature!.
Non mi dilungherò su nessuno dei due: il film di Lanthimos ha un post dedicato mentre quello di Villeneuve è stato esattamente quello che desideravamo fosse: immenso. Così immenso che mi ha fatto venire voglia di riprendere in mano la saga o almeno il secondo volume. È proprio cinema della meraviglia, dello sbalordimento, delle mani davanti alla bocca, della magia. Quello che nonostante la mia età e la mia pigrizia mi porta ancora in sala a stupirmi dell'incanto della settima arte.
Dei pochissimi horror dell'anno che ho visto finora, però, il più adorabile è stato senza dubbio quella caramellina di Lisa Frankenstein: lezioso, divertente, sfacciato, barocco. Una comedy di quelle che il grande pubblico rivaluterà tra qualche anno ma che qui, nel frattempo, rivedremo in ogni serata grigia per riportare contentezza. Una storia gotica scanzonata e accattivante, con due protagonisti in forma smagliante e uno splendido esordio per Zelda Williams.

Podcast

In questi mesi ho ascoltato i miei appuntamenti consueti con il mondo del podcast e ho avuto un solo nuovo ingresso: Metanolo, consigliatomi da un'amica. È la ricostruzione della strage del vino al metanolo che ha colpito l'Italia negli anni '80, raccontata con un tono che si mantiene in linea di massima giornalistico con qualche picco melò che abitualmente non amo ma che qui non stona data la gravità della vicenda narrata. Cautela: ci si arrabbia parecchio. Ma parecchio.

Videogiochi

Dall'inizio dell'anno in live ho giocato a 4 videogiochi e devo ammettere che non è stato il periodo più felice in quanto a scelte videoludiche: Little Hope e The suicide of Rachel Foster hanno due caratteristiche in comune che me li hanno resi un po' indigesti. Entrambi, infatti, hanno avuto qualche piccolo problema di scrittura, o di "disordine" narrativo o di mancato approfondimento. Alcune rivelazioni, infatti, mi sono state fatte prima che il mio personaggio ci arrivasse giocando, altre ancora non sono mai arrivate. In Rachel Foster si sarebbero potute approfondire innumerevoli questioni che avrebbero reso l'avventura ancora più interessante e spaventosa, in Little Hope l'ordine di comparsa dei flashback è, come dire, "creativo". Entrambi, poi, hanno avuto una durata imperdonabile per il costo sostenuto.
Il problema contrario è di The Cosmic Wheel Sisterhood, che sebbene abbia un'estetica magnifica (in particolare il design dei personaggi è unico, bellissimo) si dilunga eccessivamente e ha una dinamica che alla lunga diventa un po' meccanica. Sarebbe interessante però vederlo giocare da qualcuno esperto di tarocchi per capire quanto sia fedele alla pratica. 
Il miglior gioco dall'inizio dell'anno è stato Pentiment, che è anche il solo non horror. È una splendida storia di redenzione e accettazione, di perdono e di scoperta di sé attraverso i propri errori. Si interpreta un miniaturista che in un villaggio medievale assiste ad alcuni omicidi e aiuta a risolverli. Nello stesso tempo, costruisce il suo percorso come uomo e come membro della comunità . Ha immagini incantevoli, riflessioni importanti che mettono il giocatore stesso di fronte alla propria fallibilità e un personaggio femminile strepitoso che prende il timone nel terzo atto. Un gioco intenso, emozionante, unico. Mi ha rapita.                                              

Della vita reale, per questa volta, non parliamo. Lascio che siano le storie a parlare per me: loro hanno sempre le parole migliori per dire quello che io non so comunicare.

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