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lunedì 27 marzo 2023

Ho guardato un po' di serie tv

12:39
 In questi giorni in cui la sorte mi ha concesso un po' più tempo libero del consueto ho avuto la possibilità di recuperare molte più serie tv del solito. Preferisco sempre i film alla serialità, ma mi serve compagnia quando cucino, o quando sono troppo stanca per un film intero, quindi ho raccolto un po' di visioni di cui mi fa piacere parlare insieme.
Pronti? Temo sarà un post fiume.




Lo scorso mese mi sono dedicata ad un rewatch di The Big Bang Theory, che avevo cominciato all'epoca della sua uscita e mai concluso. È uno di quei prodotti che le persone della mia Vita Vera© amano molto mentre la mia bolla del web detesta appassionatamente. Io, con una diplomazia che non mi appartiene, in questo caso mi colloco nel mezzo. Non mi diverte quanto diverte altri, mi fa decisamente ridere meno, principalmente perché ho passato metà del tempo incazzata. I quattro subumani di genere maschile che sono protagonisti sono ripugnanti, al limite della violenza nei confronti delle loro compagne, viscidi insicuri con tanto bisogno di buona terapia. Le ragazze, però, sono quelle che mi hanno fatto restare. Penny non si sottovaluta mai, se non quando le fanno notare la sua supposta inferiorità intellettiva, è deliziosamente autoironica e la sua crescita non la rende più simile ai suoi amici ma solo più sicura di sè. Certo, il suo finale è dolceamaro, visto che le accade qualcosa che non desiderava e viene fatto passare come segno di "maturazione", ma sono disposta ad accettarlo visto che nel momento finale viene riconosciuto il suo contributo significativo in anni di amicizia. Bernadette è priva di etica, concentrata sul lavoro e la carriera, che non ha paura di imporsi. Amy, la mia preferita, è molto significativa: ha un ruolo di rilievo nello STEM, e non dimentica di incoraggiare le giovani donne nel suo discorso finale, ma soprattutto è quella che più di tutte beneficia dell'amicizia femminile, che la tira fuori dal suo guscio imposto da anni vissuti con una madre complessa, che la rende libera di essere se stessa, che la accetta anche quando è difficile comprenderla. Amy brama amicizia femminile e quando la trova la sua vita ha un'impennata in positivo che la sua relazione sentimentale non le darà mai.
Sto con questo insinuando che TBBT sia una serie femminista? Assolutamente no, e ho anche il sospetto che alcune delle cose positive siano quasi involontarie. Amy Farrah Fowler, sono qui solo per te. 




Mi vesto come una diciassettenne che ascolta solo pop punk ma potete giurarci che Next in Fashion lo guardo appena esce. Ho capito col tempo che mi appassionano le persone che hanno grande talento e pertanto i reality talent mi divertono parecchio. Mi piace vedere gente che ha evidentemente una mente superiore e che dal nulla riesce a creare qualcosa, in questo caso vestiti. La seconda stagione ha cambiato la co-host, Gigi Hadid ha preso il posto di Alexa Chung e sebbene preferissi la prima devo dire che la modella non se l'è cavata male. I concorrenti erano magnifici, e ho parecchio faticato a trovare un preferito anche se la vittoria mi ha reso piuttosto soddisfatta. 




Ho finalmente recuperato la tanto chiacchierata The Bear, e ho capito perché ha fatto così tanto parlare di sé. Mai avrei pensato di finire così coinvolta dalle sorti di un piccolo e piuttosto marcio diner di Chicago, eppure l'effetto Jeremy White ha colpito anche me. Se l'effettiva sopravvivenza del locale è un punto di grande coinvolgimento, è agli umani che ci lavorano dentro che si rivolge tutto l'affetto di chi la serie l'ha messa in piedi. Sono persone che in modi differenti si trovano a dover affrontare un lutto importante e che non sanno come comunicarsi che tutti vogliono la stessa cosa. Ci sono menti forgiate dalla propria storia personale che sono così diverse da cozzare costantemente ma che devono imparare a convivere perché hanno un obiettivo in comune e lo stesso peso sul cuore. Ogni piccolo gesto, quindi, nella frenesia della vita della ristorazione, diventa fondamentale per passarsi messaggi. Un grembiule di un colore diverso, un colpo sparato per aria per spaventare, una rissa tra gang placata con dei panini, la ricetta perfetta per il donut migliore possibile. Non si comunica a parole, ci si siede vicini a fumare insieme per mandare in fumo i pensieri sgradevoli e si torna a comunicare lavorando insieme.
Un piccolo gioiello di cui non vedo l'ora di vedere il seguito.




L'ho guardata principalmente per l'amore della mia vita Ewan McGregor? Ovviamente.
So che tutti i grandi amanti di Star Wars hanno quasi detestato Obi-Wan Kenobi, però io no. Era forse una storia che avrebbe potuto essere un film? Credo di sì, con i giusti tagli avrebbe potuto essere una storia carina e accattivante. Hanno deciso di farne un prodotto seriale probabilmente ancora scottati dai fallimenti di cose come Solo (che a me aveva anche divertito, ma si sa che sono di bocca buona), e il risultato è molto diluito. Ho amato pazzamente la piccola Leia, cavallina imbizzarrita e senza paura, e ho amato Obi-Wan, per quel mio consueto debole per i personaggi tormentati, avrei solo voluto vederli più "concentrati". Però non credo affatto sia la delusione che tanti hanno descritto.




Tra le cose guardate come spegni-cervello c'è stata la seconda stagione di Dinner Club, la serie di Prime nella quale Cracco porta in giro per l'Italia alcune personalità dello spettacolo per conoscere le specialità locali per poi cucinarle insieme per gli altri partecipanti. Cracco mi sta simpatico come un attacco di cervicale, ma in ogni stagione ci sono persone che sia a me che al Moderatore piacciono, e quindi tutto sommato abbiamo tollerato il cuoco. Se nella prima stagione c'era il nostro venerato Mastandrea a portare sulle spalle il peso del programma intero, in questa Giallini e Zingaretti ci hanno dato discrete soddisfazioni. C'è da dire che la vera scoperta però è stata Sabrina Ferilli, presente in entrambe le stagioni. Con ogni probabilità abbiamo scoperto l'acqua calda, ma l'attrice è matta come un cavallo, sboccata e spontanea ed è diventata la nostra preferita. 
A parte questo, lo sguardo divertito con cui il cuoco guarda e si rivolge ad alcune delle persone che incontrano sul loro percorso è di violenta superiorità (ha bene da fare il piacione, ma si vede eccome), ai limiti del perculo, e questo è imperdonabile. Che se ne vada affanculo nei suoi locali di lusso e non vada a disturbare la gente reale che fa il suo lavoro.




Avevamo guardato le prime stagioni di LOL perché i meme su Twitter erano sinceramente bellissimi. La prima stagione in effetti era stata piacevolissima, complici buoni nomi coinvolti e la - almeno parziale - spontaneità della prima volta. La seconda stagione aveva avuto dalla sua un cast pure migliore, e infatti non ci aveva deluso. Questa terza sinceramente fiacca, noiosa, di un cringe quasi senza precedenti. Sono riusciti a far sembrare piatta Marina Massironi e questo è ai limiti del penale. Un vero flop.




Avevo letto il romanzo di recente e non ho resistito al richiamo della serie tv che è appena arrivata su Prime. L'ho trovata un lavoro ottimo. Atmosfera, costumi, musica, interpreti: è tutto davvero bellissimo. Le canzoni scritte per la serie sono magnifiche, i concerti sono una meraviglia, il modo in cui si parla dei media e della loro influenza è importante. Sceglie persino di dedicare un po' più di attenzione ad  un personaggio nero e queer che nel libro era trascurato. Si respira l'aria del tour musicale del tempo, si mette a fuoco la pericolosità di una vita vissuta sul filo del rasoio, si mostra la complessità delle relazioni e non si fa un ritratto edulcorato dell'amore, ma anzi si evidenzia come anche le storie più belle hanno momenti orrendi e difficili. Ci sono personaggi spezzati da vite complesse, da famiglie sbagliate, da amori malsani che fanno il male di tutti i coinvolti. Le sue tre protagoniste femminili sono così carismatiche che da oggi vorrei solo essere il cosplay di tutte e tre, con i loro capelli stupendi e i loro vestiti magnifici.
Eppure si arriva al finale, che decide deliberatamente di buttare tutto nel water e tirare lo sciacquone. In 9 episodi si è costruita la storia di Billy affinché capisse quale strada prendere, quale vita scegliere, quale persona essere, per poi, negli ultimi minuti, liberarsi di tutto quanto. Se quello che accade è perfettamente nelle corde del personaggio di Camila, è del tutto sbagliato per quello di Billy, che tossico era nel primo episodio e tossico si è rivelato fino alla fine, e di certo non faccio riferimento al suo abuso di sostanze stupefacenti. Che immenso peccato, che spreco di ottimo materiale, che brutto.




Mi sono consolata ricominciando la mia serie teen preferita: Veronica Mars. La storia della giovane investigatrice privata del liceo di Neptune ci aveva conquistato tutti, nei primi anni 2000, perché tutti volevamo essere lei: cool, sicura di sé, senza morale ma con un forte senso di giustizia che le fa aiutare chiunque, forte e bellissima. Veronica aveva conoscenza nei luoghi malfamati della città, amici tra i criminali locali e persone potenti in debito con lei. Eppure era l'outsider, quella esclusa e che il resto della scuola prendeva in giro, cosa che la rendeva ben più simile a noi comuni mortali.
In tutto questo appeal della sua protagonista, la storia funzionava, e oggi lo posso dire col distacco del tempo, perché si trattava di gialli ben costruiti, di mistery in cui non si temeva di mettere nulla in discussione. Le famiglie, l'autorità locale ma non solo, i ricchissimi 09ers, l'intero sistema giudiziario statunitense: tutto è potenzialmente sbagliato se ci si mette in mezzo una ragazzina che non ha nulla da perdere. Veronica, guardata con gli occhi di un'adulta (sob) è una pazza incosciente, incapace di imporsi limiti ragionevoli, incapace di comunicare realmente con chi la circonda se non vi è costretta, confusa ed emotivamente caotica: è un'adolescente come tutti gli altri, e per questo la amiamo tanto e l'abbiamo tanto amata quando avevamo la sua età. Era quello che eravamo, ma al tempo stesso molto più figa di quanto saremmo mai stati. Le voglio molto bene e sono felice sia arrivata su Prime, per tornare a Neptune a giocare alla detective insieme a lei.
Dalla comodità del mio divano, però, che io incosciente così non lo sono mai stata.


lunedì 6 marzo 2023

Rileggere Harry Potter a 32 anni

18:19
Non ho mai fatto mistero, sebbene ne parli pochissimo, della mia relazione con Harry Potter. Nonostante provi un profondo imbarazzo per la sua autrice, che si è rivelata una persona che speravamo tutti non fosse, sono molto legata ai romanzi. Non fraintendetemi, quindi, questo che prevedo sarà un post fiume non serve in alcun modo a difendere né Rowling né chiunque condivida i suoi miserabili pensieri e anche il suo atteggiamento da povera vittima della woke generation.
Ma torniamo alle cose belle. Letti per la prima volta da bambina, esattamente coetanea dei personaggi che mano a mano sono cresciuti con me, Hogwarts è stata casa quando tanto avevo bisogno di averne una. Ho con i libri quindi un rapporto molto intimo, mi legano a loro un profondo affetto e ricordi dolcissimi. Ne sono pure piuttosto gelosa.
Erano anni, però, che non rimettevo piede nel mondo magico, e siccome ho preso questa abitudine di scrivere libri per bambini mi sembrava che rileggere la saga dal successo più straordinario di sempre potesse essere una buona idea. Lo è stata, nonostante tutto. 
Ne parliamo insieme, vi va?




Non ho pretesa, in questa sede né altrove, di fare un'accurata indagine di mercato per comprendere e analizzare le ragioni per cui questa serie di libri sia diventata il fenomeno travolgente che è ancora oggi, non ne ho proprio le competenze e lo trovo anche un po' noioso. Il mio vuole essere solo, come di solito da queste parti, un post a sentimento, una chiacchierata insieme su qualcosa che tanto mi sta a cuore.
Certo, riletta con occhi più maturi la saga ha una serie di problematicità che oggi sono evidenti ma che da piccola non avevo mai colto. Una su tutte: una vera e propria ossessione per il peso dei personaggi, che è sì coerente con il periodo in cui è stato scritto, ma che oggi agli occhi del lettore stona parecchio. I personaggi grassi si dividono in due categorie: i cattivi, come Dudley che non ha altre caratteristiche fisiche che non siano il suo peso sempre crescente o la Umbridge, e i materni, come la signora Weasley, Hagrid e in un certo senso anche la Signora Grassa, che con il suo ruolo e la sua posizione in un certo senso "protegge" i Grifondoro. 
A costo di sollevare delle ovvietà, è una saga completamente priva di rappresentazione, in cui tutti i personaggi sono bianchi, abili, etero - con l'eccezione di Silente, volendo, anche se questa è una cosa che non sta nei romanzi ma solo nelle dichiarazioni della sua autrice fatte pure, a mio parere, in modo furbetto e disonesto. Parlando ai giovanissimi, non sono problematicità da nulla: stiamo dicendo loro che se non rientrano in queste caratteristiche non sono i protagonisti, e che questa saga non parla a loro. Noi che siamo della generazione che con Harry Potter è diventata grande siamo vittime storiche dell'ossessione per la magrezza malsana che i primi anni 2000 ci vendevano come sola possibilità di essere accettabili, e la saga ha rinforzato quello che tutti gli altri ci dicevano. Sebbene nei romanzi successivi questo costante rimando al peso vada leggermente scemando, il danno ormai era fatto. Tutto il resto, invece rimane invariato, dal primo al settimo.
Eppure, e mi perdonerete per l'eccesso di miele, non ha perso la sua magia. Riletti oggi, i romanzi di Harry Potter si sono confermati tra le più straordinarie storie per ragazzi mai scritte, e proverò a spiegarvi, ma soprattutto a spiegarmi, il perché.
Quello che funzionava allora e funziona oggi è il potentissimo senso di appartenenza. La costruzione così dettagliata dell'universo magico porta a totale immedesimazione. Come dicevo, nel momento della mia vita in cui mi ci sono approcciata avevo bisogno di un luogo a cui appartenere, e Hogwarts me lo ha dato, perché lo diventa per i suoi studenti. Diventa casa, è accogliente e calda, è familiare e dolce, è un caldo abbraccio in cui rifugiarsi. Il modo in cui il castello da solo prende il posto della famiglia, fin da quando i suoi studenti sono poco più che bambini, è candido e radioso. Si sale su un treno che ti porta in un castello magnifico che per tanto tempo finirai per chiamare casa, e funziona perché all'interno del castello si ricreano esattamente le dinamiche familiari che hai da poco lasciato. Hai amici che diventano fraterni perché non hai scelta, insegnanti che non diventano mai vere e proprie figure genitoriali ma che almeno riportano l'aspetto autoritario in un luogo che altrimenti ne è completamente privo. Non ci sono educatori o figure alla pari che si occupino dei bambini quando le lezioni sono finite. Si fa affidamento sugli altri studenti, che vengono premiati con piccoli ruoli di autorità, come i Prefetti e i Capiscuola, ma tutto sommato non appena si sale sul treno viene richiesto agli studenti di diventare grandi nel modo più dolce possibile: appoggiandosi gli uni agli altri.
Questo è per me il vero, immenso, punto di forza: il valore dell'Altro. Lo so, lo so, conoscendo oggi la sua autrice è quasi ridicolo, ma sto cercando di separare opera e autore. 
Harry Potter è speciale senza avere fatto nulla per esserlo. Non è il più intelligente ma neppure quello che lo è di meno. Non ha poteri particolari, doni che lo rendano diverso. Lo è in virtù di quello che qualcun altro ha fatto per lui (di nuovo, il valore dell'Altro), ha un potere che gli è stato donato senza alcun merito. E questo è magnifico, è rincuorante, è anti performativo. In un mondo che ci chiede costantemente di provare quanto siamo meritevoli delle cose che abbiamo, Harry ha tanto senza avere fatto niente, ma soprattutto è circondato di amore. E su questo ci torniamo.
Tornando sul discorso del tanto famigerato world building, invece, quello che mi ha dato la sensazione di essere l'elemento vincente è composto da due cose: familiarità e rispetto.
Quando parlo di familiarità intendo che fa riferimento costante alla vita che i lettori conoscono così bene. Hogwarts è una scuola, e pertanto ha regole, lezioni, compiti. Ha momenti di divertimento, di quelli che ti porti appresso per la vita intera, e altri rognosi da cui desideravamo scappare, come il professore che pensiamo ci detesti o la materia in cui facciamo schifo. Lo sport ha un ruolo fondamentale, al punto che non solo il Quidditch è stato creato dal nulla con un complesso sistema di regole, campionati e capacità richieste, ma ha anche un peso importante in termini di pagine spese per parlarne. A partire dai primi volumi, dalla lunghezza più contenuta, capitoli interi sono dedicati a partite, allenamenti, squadre. Alcuni eventi fondamentali succedono a bordo campo, durante le partite, in grandi occasioni come la Coppa del Mondo. La vita di un qualsiasi ragazzino - inglese ma non solo - è portata in scena in modo realistico, ma migliorato. La vita comune subisce il più bello degli upgrade: la magia.
E quindi gli elementi più tradizionali del mondo magico come lo conoscevamo già prima nella cultura popolare diventano parte dell'esperienza comune dei ragazzini, creando sulla carta la vita dei sogni. 
In questo senso però non tratta come stupidi i suoi giovani lettori, e qui andiamo nella parte sul rispetto. Considera chi legge alla pari degli adulti e pertanto anche la costruzione del mondo magico adulto è reale: ci sono un Ministero, con tutti i problemi di elezione e successione, Tribunali, con annessi problemi di corruzione, banche, istituzioni burocratiche, prigioni. Col passare degli anni i lettori sono introdotti a tematiche più "mature", che però fin da La pietra filosofale sono pronti solo per essere esplorati. È tutto stato sempre lì, serviva solo il tempo di conoscerlo per bene. 
Ovviamente a rendere il tutto molto buono è la "premeditazione", la costruzione a tavolino di un mondo complesso e completo ma alla portata di lettori di ogni età, che hanno la sensazione di leggere qualcosa che parli a loro ma che li faccia sentire grandi.

A toccare il mio cuore, però, sono altri due elementi.
Come dicevo prima, l'Altro. Harry Potter da solo è un simbolo, nulla più. Fin dalla sua nascita, però, è stato graziato da un gruppo di persone che lo hanno amato a prescindere dal suo ruolo, e crescendo ha saputo costruirsene uno suo, di gruppo, che lo amasse altrettanto. Non c'è una sola circostanza in cui se la cavi da solo, in tutti i libri, a partire dai primi bisticci con Draco fino alla magnifica Battaglia di Hogwarts. Harry vive in una nuvola di amore, che lo protegge e lo incoraggia, che lo supporta e lo rimprovera quando necessario. Sono innumerevoli, nei romanzi, gli abbracci stretti, quelli che ti dai solo quando pensavi che non avresti mai più rivisto qualcuno, le mani intrecciate di nascosto per incoraggiarsi, le parole sussurrate alle orecchie per aiutarsi. È un mondo fatto di quell'intimità che hanno solo le persone che potrebbero perdersi da un momento con l'altro, e quello è proprio un amore diverso da qualsiasi altro. Poiché la perdita nei romanzi esiste, e anche frequente, quell'amore qua si fa sempre più forte. 
Sì, il trope della famiglia per scelta è uno di quelli che tanto mi emozionano, e questa saga ne è la quintessenza. La sola famiglia tradizionale, i Weasley, non fa altro che aprirsi agli altri, allargando questo piccolo mondo in cui quel poco che c'è è di tutti, e in cui la profonda dignità della povertà impedisce di lamentarsene. Molly non è solo quella che cucina per tutti, è quella che ama tutti come se li avesse messi al mondo lei. È preoccupata per tutti allo stesso modo, è protettiva e accogliente, senza un istante di cedimento. Siamo su questa barca insieme e insieme remiamo per arrivare alla destinazione.
L'altro elemento, infine, è l'Ordine della Fenice. Anche questo non è un mistero per chi ha già letto questo blog, ma i ribelli mi straziano il cuore. Quelli che in pochi, barcamenandosi tra il nulla che possiedono, muoiono per un ideale. Quelli che hanno una missione più importante della vita stessa, ovvero liberare il mondo dall'oppressore. L'Ordine vecchio, decimato dai primi anni di Voldemort, che si ricostruisce e fa spazio ai nuovi membri, tutti insieme con la paura di perdersi ma con un nemico da combattere per liberare il popolo intero. Con i vecchi caduti nel cuore e le nuove generazioni da proteggere. I ribelli, come piccola pentola di fagioli che sobbollisce al di sotto del frastuono del male, che si fa spazio in un mondo in cui il cattivo si è preso le istituzioni e la libertà. E quindi le riunioni di nascosto, le parole d'ordine per accedere, un nascondiglio segreto, modi creativi per comunicare, tutti piccoli momenti che mi scaldano il cuore e mi fanno sempre credere che, comunque vada, un piccolo gruppo di ribelli da qualche parte sta combattendo per qualcosa di più importante del mondo intero. Mi piace pensare che avrei il coraggio di essere una di loro. 

Harry Potter è stato costruito a tavolino per funzionare con chiunque, persino con i ragazzini dalla vita privilegiata, perché riconoscono aspetti che sono familiari anche a loro e hanno una bella avventura magica. È nei ragazzini a cui la vita ha riservato un po' di iella, però, che si prende uno spazio immenso nel cuore. Perché ti dice che quel tipo di amore lo puoi avere anche tu, anche se non sei niente di speciale ma solo perché esisti, perché quel tipo di famiglia lì lo puoi trovare anche tu, quando incontri qualcuno che ti assomiglia e gli lasci modo di scoprirti, perché ti racconta che casa non è un'abitazione, e se lo è non è una reggia lussuosa: è il luogo in cui senti che puoi dormire la notte sapendo che per un po' il male non ti può venire a prendere.
Per me, oggi, è ancora un po' quel luogo sicuro lì: in mezzo a mille tribolazioni, so sempre che alla fine "all was well", e ricomincio a respirare per un po'.

martedì 6 luglio 2021

Ho finalmente guardato la reunion di Friends

15:09

 Io lo so che nel 2021 Friends è una serie molto meno amata di quanto fosse fino a qualche anno fa. Di sicuro io non sono più la persona che qualche anno fa si è guardata tutte e dieci le stagioni in poche settimane, e di sicuro le mie opinioni si sono fatte più consapevoli.




 

Nonostante infatti sappia che la sitcom più famosa del mondo ha dei difetti sopra i quali oggi difficilmente passeremmo, io le voglio un bene dell'anima e gliene voglio così tanto perché mi ci sono identificata in ogni istante. Nel periodo in cui l'ho guardata per intero la prima volta uscivo tre volte la settimana con la mia compagnia, la mia famiglia per scelta. Quello che vedevo sullo schermo lo raccontavo poi la sera alla mia Monica, al mio Joey, alla mia Phoebe. Persone che sono nella mia vita da quando ho nemmeno 15 anni, che mi hanno vista crescere e che ho visto diventare adulti. Ho visto adolescenti prepuberali diventare adulti con la barba, ho visto ragazze timide con il cuore d'oro costruirsi con le unghie e i denti la carriera dei propri sogni. E li ho visti diventare le persone che sono oggi nello stesso bar di sempre, che ci serve sempre lo stesso aperitivo da quando eravamo minorenni e il prosecco in teoria non ce lo potevano dare, figuriamoci il negroni. Quel rapporto lì, così familiare, così intimo, così chiuso a chiunque fosse "esterno", lo conosco alla perfezione. E proprio quei miei rapporti lì hanno avuto la naturale evoluzione che hanno avuto quelli nella serie: si cresce, ci si accasa, qualcuno si trasferisce, qualcuno si sposa, qualcuno si allontana...

Eppure il solito prosecco al solito barettino di paese ogni tanto lo si prende ancora, e quando siamo sempre lì siamo sempre noi. Friends ha parlato di me e degli amori della mia vita come nessuna serie aveva fatto prima, e io questo lo adorerò per sempre, anche quando riconosco che sta serie l'intersezionalità che oggi per me è così importante non sa manco dove stia di casa, che abbia dei limiti e che sia un frutto della sua epoca.


Quindi, con questa premessa che suona un po' come una giustificazione, pare chiaro che io la reunion la dovessi vedere. Mi sono presa il mio tempo, ma oggi eccoci qua a parlarne. 

La notizia dell'episodio speciale aveva lasciato i fan tra il perplesso e il felice come una Pasqua. Io pure non è che me la sia vissuta con troppa partecipazione, devo ammettere. Eppure, una volta emerso che non si sarebbe trattato di un episodio classico ma più di una chiacchierata per amore dei vecchi tempi, ho iniziato a cedere all'entusiasmo. Questo per una semplice ragione caratteriale: io ho nostalgia anche delle cose che non ho mai vissuto, sono malinconica di costituzione, e queste operazioni con me funzionano sempre. E infatti, lo dico subito così chi non è troppo interessato può fermarsi qua, a me la reunion è piaciuta, ma con delle riserve. 

Quando finisco una serie tv che ho tanto amato mi ritrovo (come immagino molti altri) a passare le ore su Youtube a guardare interviste, bloopers, backstage, ogni cosa che possa tenermi in compagnia ancora un po' di personaggi che non sono pronta a lasciare. Finisco puntualmente sul video che ritrae l'ultimo giorno di riprese (c'è sempre un video dell'ultimo giorno di riprese) e a quel punto mi si deve raccogliere con una spugna perché piango fino a sciogliermi. Pensare che non si vedranno più, che non lavoreranno più insieme, la fine di un'epoca...mi commuovono, che ci devo fare. Quindi questa reunion è proprio stata pensata su misura per farmi fare il piantino. Non importa se è un meccanismo di una faciloneria imbarazzante, a me è bastato rivederli sul set per sentirmi di nuovo "a casa". 


L'episodio è una bella passeggiata sul viale dei ricordi, nella quale emerge chiaramente che oggi proseguire con la serie non avrebbe avuto alcun senso. Li abbiamo salutati quando è stato giusto farlo, quando non ci sarebbe stato altro da raccontare. Invece è stato bello parlare con gli attori non solo dei momenti divertenti sul set, dei ricordi da simpatico dietro le quinte, ma anche accennare a cosa possa avere significato per loro e le loro vite partecipare a qualcosa di così globalmente dirompente come è stato Friends. Avrei voluto che quel segmento fosse più lungo, sono state dette cose interessanti che avrei avuto piacere a sentire un po' più a lungo sulla portata popolare della serie, sul boom di notorietà. Piacevoli anche i momenti nei quali si è parlato dei casting, della scrittura, della produzione: una serie non è solo i suoi protagonisti, sebbene a finire sulla copertina di Rolling Stones siano stati solo loro. Eppure, e qui arriviamo alla nota dolente dell'episodio: questi spazi piacevolissimi, che avrebbero così meritato di ricevere più attenzioni, sono stati brutalmente tagliati con l'accetta in favore di momenti assolutamente evitabili come la partecipazione di guest star assolutamente irrilevanti nella serie. Carini i mariachi di Ross a Rachel? Ma sì, però se hai lì Tom Selick non puoi lasciare più spazio a lui? Oppure, lungi da me voler dire anche solo una cosa negativa su quella meraviglia di Lady Gaga che amo sempre di amore appassionato, ma il suo segmento è stato solo una perdita di tempo. Così come la sfilata degli abiti più iconici. Quest'ultimo nel dettaglio è una cosa che avrei gradito moltissimo, se la reunion fosse stata una stagione intera. Ma in un singolo episodio? Mi ha ricordato lo straziante musical di Kurt nella spregevole nuova stagione di Una mamma per amica. Inutile e perditempo. Queste persone hanno lavorato insieme per dieci anni, di cose da dire ce ne sarebbero state milioni, certamente più stimolanti di vedere Justin Bieber con una brutta postura e il costume da armadillo di Ross.


La vera cosa che ho sofferto, però, è stata la quasi totale assenza di Matthew Perry. Chandler non è solo il mio personaggio preferito: è me sullo schermo. Non che io sia una persona simpatica, anzi. Però sono hopeless, and awkward and desperate for love, proprio come lui in una delle sue scene più famose, e dio solo sa se nel suo costante prendersi per il culo io non ci abbia visto mille volte me stessa. Nel suo rifiuto delle cose difficili, nel suo cancellare tutto quello che non va, nel suo usare la presa in giro per palesare affetto, ci sono sempre stata un pochino anche io. Perry ha avuto durante le riprese della serie il periodo più infelice della sua vita, e non sorprende che la sua partecipazione alla reunion sia stata così marginale. Io, però, da semplice spettatrice, ne ho sofferto un pochino, e il fatto che lui attribuisse la responsabilità del suo essere un po' perso ad un intervento subito poco prima non è di gran consolazione. Per me una reunion di Friends in cui c'è così poco di Chandler è una reunion a metà. Umanamente mi dispiace molto, con ogni probabilità si sarebbe tagliato una gamba piuttosto che essere lì e io di sicuro non lo biasimo, ma da semplice spettatrice avrei desiderato altro. 


Ripensandoci a mente fresca direi che la reunion era stata pensata in un modo piacevole: ripercorrere quello che è stato e come è stato, parlare della produzione, ridere insieme di cose passate. Sulla carta poteva essere magnifico per chi alla serie vuole molto bene, ma ha per me superato un pochino la linea del paraculismo, nello specifico nelle scene delle interviste ai fan. Io credo nel potere delle storie, ho da dieci anni un blog in cui parlo di quanto ami le storie, e lo so che alcune di queste ti danno gli strumenti per imparare a gestire meglio quello che succede quando spegni lo schermo o chiudi il libro. Lo so bene. Eppure sentir dire che Friends ha aiutato una persona che voleva togliersi la vita è una cosa che fatico a mettere nella giusta prospettiva. Forse ho solo la fortuna di non sapere cosa significhi soffrire di una patologia come la depressione, e in tal caso mi scuso se questa opinione risulta offensiva o ignorante. Veder spiattellato così, in mezzo a Jennifer Aniston che piange per i ricordi e Matt LeBlanc che legge il proprio "Ho cagato qui" sui pannelli del set, però, mi sembra solo un modo per dire: "Visto come siamo stati bravi? Madonna che roba proprio buona, proprio gente di buon cuore siamo", che non solo non è mai un sentimento genuino ma che soprattutto è un sentimento che fa bene solo a se stessi. Un antipatico autocompiacimento assolutamente non necessario. Vent'anni dopo la gente ancora parla di Friends, nel bene e nel male, questo tono non serve. 


Mi rendo conto che alla fine questo post suoni molto negativo, ma giuro che nonostante queste cose a me è piaciuto vederli tornare sul set, risedersi sui divani e le poltrone, rimettersi i vestiti, ripetere le battute. Non avrei voluto un episodio in cui Monica e Chandler mettono in punizione i gemelli, o uno in cui Phoebe e Mike pagano il rogito. Mi è sembrata la scelta migliore, anche se non sviluppata al meglio possibile.


Ma soprattutto, la sola e unica critica che conta: perché non c'era Paul Rudd?


domenica 9 maggio 2021

Tre saggi sul cinema dell'orrore

08:31

 Devo soffiare via la polvere dal blog, è un po' che non torno.

Presente quando dicevo che il 2021 mi stava mettendo alla prova? Pare che non sia ancora bene convinto dei risultati, ecco, e che mi voglia testare ancora un po'. 

Mi sfogo usando molto di più Instagram, che è un po' più immediato, però poi quel posto qua comincia a mancarmi molto e quindi rieccoci, questa volta per parlare di libri.


All'inizio dell'anno sono entrata in possesso, attraverso modi che il fruitore medio di internet conosce alla perfezione, di un numero bello sostanzioso di saggi sul cinema dell'orrore, di quelli che si trovano su amazon a 50 paperdollari l'uno spediti dall'inferno con 70 milioni di euro di spese di spedizione. Parlo sempre per iperbole, ma ci siamo intesi.

Insomma, finalmente quest'anno ho ricominciato a fare la cosa che mi piaceva di più: studiare. Non che prima non lo facessi, ma adesso ho a mia disposizione una bella serie di libroni che accarezzo tutte le sere prima di andare a dormire.

Oggi parliamo dei primi tre.


Foto di David Kennedy su Unsplash

. Men, Women and Chainsaws. Gender in the modern horror films. Carol J. Clover

Non potevo che cominciare unendo due delle mie passioni più grandi: horror e femminismo. Questo, del 1992, è la vera pietra miliare sul tema. Non è solo il testo che ha introdotto la final girl sia come termine che come oggetto di studio, ma ha davvero vivisezionato alcuni dei generi principali per presentarceli in ottica femminista. 
Si parla nello specifico di slasher (ovviamente), di demoniaci (altrettanto ovviamente) e infine di rape and revenge (va beh chiaro, no?).
Quello che fa la favolosa autrice, con un linguaggio semplicissimo e discorsivo, è portare alla luce le dinamiche che hanno fatto sì che storicamente certi film siano stati tutti realizzati in un certo modo. La motivazione principale è una, quella che possiamo facilmente immaginare tutti: il target del cinema dell'orrore è stato da sempre l'uomo bianco. Basta ampliare di un minimo le proprie conoscenze sul tema per sapere che l'uomo bianco è il target di tutto, anche inconsapevolmente. Del resto, Simone de Beauvoir lo ha sempre detto, noi donne siamo l'Altro, il diverso, l'eccezione. Il cinema è un'industria, e in quanto tale si unisce a tutte quelle dinamiche che vedono le donne come la minoranza. Le donne sono quindi le sole vittime deliberate dei villain degli slasher (se si uccide un uomo è perché si è messo in mezzo ai piedi), e il "tifo" dell'audience è orientato verso il killer per quasi tutto il tempo. Quasi, perché ad un certo punto si delinea il profilo della final girl, e l'attenzione dell'uomo si sposta. La final girl è sì la virginale candida che ha visto morire le sue amiche disinibite, ma assume caratteristiche maschili al punto che spesso persino i nomi lo sono: Laurie, Charlie, Sidney, Max. Ma non solo. Sono le donne quelle possedute nei film demoniaci, perché per la religione cattolica stessa la possessione avviene in caso di maggiore fragilità, sono loro quelle che aprono la mente al demonio. 
Infine, ma non per importanza, il tanto chiacchierato rape and revenge. 
Qua va segnalato un trigger warning importantissimo: il libro parla approfonditamente (mooooolto approfonditamente) di I spit on your grave, e lo fa con dovizia di particolari. Il film è una visione di merda (non che faccia schifo il film in sé ma che di sicuro sia difficilissimo, quasi impossibile per una donna, è innegabile) ma il libro non lo rende più semplice. L'analisi che ne fa è importantissima, approfondita, su un tema che a me ancora oggi non fa avere le idee chiare.
Questo non è mica un libro che posso consigliare io, è uno di quei testi fondamentali che avrei voluto conoscere molto prima, ed è anche quello che mi ha fatto capire che voglio prendere una direzione che unisca sempre di più i miei due argomenti del cuore, almeno per quanto riguarda lo studio. E se un libro mi fa venire ancora più voglia di studiare, per me è il libro migliore del mondo. Questo, peraltro, è molto vicino ad esserlo davvero. Lo rileggerò spesso.


. Hideous progeny. Disability, eugenetics and horror cinema. Angela M. Smith

Avevo deciso di concentrarmi su saggi che non fossero semplici storie del cinema, per aumentare la mia capacità di analisi e di raccontare il cinema su questo spazio. Mi sa che con questo libro ho fatto il passo più lungo della gamba. Chissà se è un modo di dire di tutta Italia.
Dunque, questo è un saggio che, come si intuisce dal titolo, mette in relazione i grandi film classici degli anni '30 con, appunto, disabilità ed eugenetica.
Voglio chiarire subito come la penso: qua è stata colpa mia. Io per quella lettura qua non ero proprio pronta. Mi interessava da morire il tema, proprio perché come dicevo su voglio fare un percorso che non sia solo storico. Però per me questa è stata una lettura troppo impegnativa. Non ne ho tratto troppo di positivo perché ho passato metà del tempo su google a cercare di capire cosa mi stesse dicendo. Leggo in inglese da diverso tempo, ma questo testo ha un linguaggio molto scientifico (potevo arrivarci visto che ha già l'eugenetica nel titolo? sì) che mi ha reso la fruizione complessa. Già io e la scienza siamo due mondi lontanissimi, sono una capra totale (migliorerò) pure in italiano, figuriamoci in inglese. 
Alla fine ne sono uscita indispettita e con l'ego in frantumi, ma a quelli di voi che sono interessati lo consiglio molto perché il tema è interessantissimo: si rileggono Dracula, Frankenstein e naturalmente Freaks in modo da approfondire attraverso di loro il significato che l'eugenetica ha avuto in quel momento storico e il modo in cui la disabilità è stata vissuta. Non posso quindi dire nulla di male sul saggio in sé, che parla di cose importanti e lo fa con enorme competenza.
Sono io che quella competenza lì ancora non ce l'ho. Ma ritornarci è una delle missioni del mio viaggio tra tutti questi saggi.

. Shock value. How a few eccentric outsiders gave us nightmares, conquered Hollywood, and invented Modern Horror. Jason Zinoman

Dopo la batosta precedente, dovevo darmi una ridimensionata. Ok Mari che vuoi fare un bel percorso di studio, ma non devi partire subito dalle cose più toste. Ho deciso quindi di passare a questo testo adorabile ma decisamente più leggero. Jason Zinoman ci racconta di quei nomi che oggi guardiamo con le stelline negli occhi. Parla (tanto) di Carpenter, di O'Bannon, di Romero, Craven e Polanski. Ci parla di loro con grande affetto, delle loro vite e delle cose che hanno portato i loro film in essere. Ci sono racconti di litigate, gossip su matrimoni falliti, amicizie rovinate e problemi con i produttori. È un libro divertentissimo, che offre uno sguardo sui retroscena, su cosa significava all'epoca avere un film in testa e dover trovare il modo di realizzarlo come lo si voleva. 
Non è un saggio che analizza il cinema, ma racconta come certe storie oggi iconiche sono nate, e questo passa anche attraverso la vita dei loro creatori. Per quanto mi riguarda un testo ben più leggero dei precendenti, ma non per questo meno interessante, anzi. 
Ottimo per ricavarne aneddoti da raccontare a tavola per fare colpo su quella tipa che vi piace e che è venuta a cena con la maglietta di Debra Hill. Lei con ogni probabilità l'aneddoto lo saprà già, ma voi mi sentirete più sicuri di voi e la serata filerà liscia come l'olio.


giovedì 4 febbraio 2021

Classici del femminismo: Il secondo sesso

11:25

 Rieccoci alla consueta rubrica "La Mari apre mille rubriche e ne porta avanti la metà".

Mesi fa avevo iniziato una rubrica dedicata ai classici del femminismo. La rubrica in questione consta di ben un solo post, su Una donna di Sibilla Aleramo. Dopo quella lettura, che già mi aveva messa alla prova perché è un libro straziante, ho pensato che studiando i classici non sarei potuta scappare a lungo dal loro capostipite. Il classico dei classici. Il Guerra e pace dei testi femministi. E se da una cosa non si può scappare, meglio farla subito. Quindi eccomi qua, quasi un anno dopo, stanca e riportante ferite di guerra, a parlare di quel mastodontico capolavoro imprescindibile che è Il secondo sesso, di Simone de Beauvoir.



Scritto nel 1949, il testo più famoso della filosofa francese ha preso la storia dei femminismi e l'ha rivoluzionata. Leggerlo una settantina di anni dopo è un'esperienza, come dire, interessante. Immaginare la mole di lavoro che sta dietro la stesura di un testo del genere fa girare la testa. Del resto SdB parla per le donne e per farlo ha parlato, letto e studiato, un sacco di noi. Il libro, per tutta la sua imponente mole, è pieno di brani, citazioni, esperienze, testimonianze. Le note sono parte integrante della lettura, un Infinite Jest dell'esistenzialismo. 


Ma come si legge, oggi, Il secondo sesso? Questo non è un testo "attivista", per stessa ammissione della sua autrice. Le quasi ottocento pagine che lo compongono sono un approfondito saggio di natura filosofica, che solo nella sua parte finale, quella delle conclusioni, propone azioni concrete. Per tutto il corpo del testo, però, troviamo la donna vivisezionata. Prima da un punto di vista biologico, poi spirituale, poi sociale, poi storico, poi artistico. Non un solo aspetto viene lasciato fuori, la ricerca fatta è a 360 gradi. L'esplorazione passa dalle bambine, alle adolescenti, alle giovani donne, all'anzianità. Tocca le donne sposate, le innamorate, le prostitute, le sole, le vedove, le lesbiche. Se mai ho visto un esempio completo di rappresentazione, signori, è in Simone de Beauvoir. 

Quello che fa è molto semplice: prende ogni singolo aspetto della vita di una donna e la mette al confronto con quella di un uomo. Emergono le inevitabili differenze, che ci sono e guai a negarle, ed emerge insieme ad essere la totale inadeguatezza delle differenze sociali. Nessun tipo di distinzione tra i generi giustifica la differenza delle vite, mai. E credetemi se vi dico che di esempi ne prende, e tanti. 


La lettura, fatta oggi, e quantomeno per me, è davvero impegnativa. Il primissimo motivo è che, e qui faccio un mea culpa, non tocco un testo filosofico dalla fine del liceo. Amavo tantissimo la materia ma per qualche motivo l'ho lasciata andare ed è un modo di affrontare il mondo e il pensiero a cui devo semplicemente riabituarmi. Per questo l'ho trovato a tratti impegnativo e ho dovuto forzarmi di andare avanti e resistere alla tentazione di abbandonarlo per riprenderlo in un momento più "favorevole". La seconda è che leggerlo da donna è una continua bastonata sui denti. Pagina, dopo pagina, dopo pagina, per ottocento benedette pagine, la narrazione di soprusi, violenze, sopraffazioni, calpestamenti, logora dentro come un veleno. Quello che la donna subisce (presente voluto) dal momento in cui nasce a quello in cui se ne va è una costante sberletta in faccia, e il libro ne ripercorre ogni aspetto. Non è certo un page turner, anzi. Ogni tanto serve una boccata d'aria di sollievo.


Se oggi ho il mio bloggettino in cui posso dire tutto quello che mi pare e piace e ho un lavoro e posso convivere senza essere sposata lo devo indubbiamente a tutte quelle che sono venute prima di me e ne sono grata, ma leggere un testo di 70 anni e vedere quanto i cambiamenti siano stati superficiali se vogliamo, è angosciante. Toglie il fiato. Il capitolo sull'aborto avrebbe potuto essere scritto ieri, è terrificante. 

Dopo una battaglia per arrivare alla fine, sono giunta alle conclusioni. In queste, e in generale nella parte finale del testo, SdB sostiene che le donne siano quello che sono per il modo in cui la società le ha formate, e che sia per questo compito della donna trascendere le limitazioni che le sono imposte. Sto ovviamente semplificando un concetto molto più ampio. Nel 2021 è chiaro che questa visione sia privilegiata (consapevolmente, de Beauvoir era socialista e conscia della sua posizione borghese e di potere) ed escludente, che a moltissime donne del mondo non è concesso di "prendersi i propri spazi" o imporsi. Il movimento di liberazione della donna non può passare solo attraverso la scelta, per quello che lo desiderano, di una relazione aperta o di un lavoro che renda autonome. Si tratta di un processo ben più ampio della nostra lussuosa sfera occidentale (dove abbiamo comunque tantissimo ancora da fare e spesso poche possibilità di farlo), e oggi per fortuna ne siamo più consapevoli.

Questo di certo non annulla il valore immenso del libro, che ha travalicato i decenni ed è arrivato a noi ancora spaventosamente attuale. Il femminismo moderno ha nei confronti di de Beauvoir un debito immenso, e dal libro questo è cristallino.


Quello che è altrettanto cristallino, però, è che Il secondo sesso non è una lettura che consiglio a cuor leggero, e che forse io stessa avrei dovuto affrontare preparandomi di più. È intenso, assorbe energie e pensieri, richiede una concentrazione e un'attenzione che io non sempre in questo periodo, e per tutti gli scorsi mesi, ho avuto. Mi sarebbe piaciuto studiarlo a scuola, leggerlo insieme a qualcuno che da più giovane mi accompagnasse attraverso le infinite cose che si imparano. 

Chissà che prima o poi non si arrivi anche a questo, nelle scuole italiane.

lunedì 11 gennaio 2021

La città dei vivi, Nicola Lagioia

12:16

 Quando un libro spopola sui social io di solito, con i residui di bastiancontraresimo che mi restano, lo evito. O almeno aspetto che si siano calmate le acque per poi farmi un'opinione mia. In questo caso non potevo aspettare, e il motivo è molto semplice: è un true crime, e se avete letto questo blog di recente sapete che è stata la mia passione rivelazione del 2020. 

Nello specifico, quella che racconta Lagioia è la storia dell'omicidio di Luca Varani, un ventitreenne romano, a opera di due giovani concittadini, Manuel Foffo e Marco Prato, nel novembre del 2016. Una storia molto vicina a noi ma che io conoscevo solo di sfuggita perché avevo già smesso di guardare i tg. 


Questa volta non farò uno spoiler alert, perché la storia è di dominio pubblico e tutto quello che dirò è già di dominio pubblico. Quello che faccio è uno sgradevole alert: ho odiato questo libro, e quando una cosa non mi piace provo ad argomentarla in modo freddo e razionale per non essere troppo odiosa, ma fallisco ogni volta. Mi dispiace se sarò antipatichella.




Via il dente via il dolore, dicono, quindi inizierei subito con quello che non mi è piaciuto, così ce lo leviamo dai piedi.

Non amo la scrittura di Lagioia. Nella prima parte del racconto usa quello stile (tipicamente italiano, credo possiamo ammetterlo) che io non posso tollerare, delle frasette brevi ad effetto. Un pochino lo stile facebook, se vogliamo.

Le emozioni, quelle belle.

Gli abbracci, quelli stretti.

Io ho un problema con questo modo di scrivere, mi fa venire una rabbia ingestibile. Leggerei solo Saramago per un mese, dopo, per disintossicarmi da questo abuso. Personalmente, poi, questo stile con un'eccesso di emotività non mi piace affatto quando usato per parlare di true crime, ma questo è un gusto mio. Infatti è anche il motivo per cui odio il podcast Demoni Urbani. Mi fa venire il latte alle ginocchia.

Tornando al libro, nella parte finale, invece, ricerca uno stile più 'giornalistico', soprattutto raccontando la parte processuale. Peccato che finisca sempre per emergere quella forzatura, quella pesante ricercatezza che a me fa proprio sbroccare. 


Un'altra cosa che non ho ben compreso è la costruzione del libro. Parte con una narrazione in terza persona, che ricostruisce passo passo gli eventi e i loro protagonisti. Più o meno a metà, poi, la narrazione è interrotta da inspiegabili testimonianze in prima persona di alcune delle persone collegate in vario modo ai nostri tre personaggi principali. Non parlano parenti vicini, fidanzati, ma sempre conoscenti, amici, ex colleghi, e infine gli altri ragazzi che durante i giorni di delirio e droga di Foffo e Prato erano stati in loro compagnia prima dell'arrivo di Varani. Forse queste ultime erano le uniche testimonianze con un senso, anche se il modo comunque non lo apprezzo.

Nella testa dell'autore, quale poteva essere lo scopo di farmi leggere mezza paginetta scritta in prima persona da una ragazza che ha fatto tre pompini a Foffo, esattamente? Perdonate il mio francese, ma il libro parla di pompini per un buon 40% del tempo, poi parliamo anche di questo.

Mi viene da pensare che volesse costruire una sorta di profilo degli assassini? Avrei voluto leggere l'opinione di esperti, allora, così ho solo perso il mio tempo. Come un ex collega abbia conosciuto Prato non mi serve saperlo. Non mi interessa. Quanto sesso orale abbia praticato alle persone non mi riguarda. Eppure ci sono pagine e pagine così. La mia prima critica è alle persone selezionate, la metà sono assolutamente irrilevanti. La seconda è al modo in cui le loro testimonianze sono riportate: una parte intera del racconto è così, poi si trancia via la parte in prima persona, grazie del vostro contributo, a mai più risentirci. Perché mai? Ricostruire tutto in modo fluido non era parte del tuo lavoro, Lagioia? 


La persona di Nicola Lagioia anche nel libro compare sgomitando ad un certo punto, quando inizia a parlare del duro lavoro svolto sul caso e della sua ossessione. Perché non cominci da subito ma spunti dopo un po' è per me un mistero.


Torniamo poi alle cose che l'autore sceglie di riportarci e con quale, ridicola, frequenza. 

Dopo la morte di Luca emergono voci insistenti su una sua presunta abitudine a prostituirsi. Il nostro autore ci tiene spesso a dire che lui non dà giudizi etici e che di sicuro questa cosa non giustificherebbe mai alcuna violenza, però ne parla in continuazione. Siamo sicuri che un giudizio non ci sia? Perché se davvero la questione fosse irrilevante allora nemmeno emergerebbe. O meglio, posso anche accettare che in un desiderio di completezza allora emerga velocemente anche quella faccenda lì, ma davvero Lagioia ne fa un argomento ricorrentissimo. Emerge dalle parole degli assassini, da quelle dei suoi amici, vengono persino riportate parola per parola le conversazioni messenger che la fidanzata di Luca aveva avuto con delle amiche del suo ragazzo. Ma esattamente, qual'è il fine? Posto che qualunque tipo di persona fosse stato Luca non avrebbe alcuna rilevanza in questo caso, visto che è stato ucciso praticamente per un colossale caso di sfiga, a cosa mi serve sapere cosa facesse del suo corpo quando era in vita? Che Luca fosse andato a casa di Foffo per vendersi o solo per partecipare ad un festino, non conta niente, non cambia niente. Eppure ci stiamo su delle ore. Il giudizio io lo vedo eccome, velato da quel fintissimo volerne parlare con dimestichezza che puzza di ipocrisia da casa mia a casa di Lagioia a Roma. 


C'è un intero capitolo del libro che parla dei media. Di come i social abbiano appreso la notizia dell'omicidio e della tipologia di commenti che potete facilmente immaginare, tutti quanti accuratamente riportati senza censurare neanche uno degli slur omofobi usati. Ovviamente, Lagioia usa con una frequenza ridicola la parola froc*o, ma la mette sempre in bocca agli altri, perché lui è troppo corretto per dirla, ma figuriamoci se l'ha bippata una volta sola. Guarda come sono cattivi gli altri che dicono le brutte parole scorrette, disse l'elegante autore che le parole non le sostituiva mai.

A me non sembra così difficile, non usare termini dalla spiccata connotazione negativa, eppure per un motivo o per un altro ci si sente sempre legittimati a farlo. 

Ovviamente, sui media la prima questione che salta all'occhio è che i due brutti pervertiti omosessuali hanno ucciso il povero giovane perché non voleva fare sesso con loro. Se siete sui social, sapete benissimo come funziona. La seconda è l'appartenenza politica e sociale delle famiglie coinvolte. Lagioia critica con la sua consueta superiorità, gli scimmioni dei social e i toni dei media, ma concentra una percentuale ridicola del suo romanzo (sì, parlo di percentuali perché leggo in digitale) a parlarci di quando e come e dove e con chi Prato facesse sesso. Di tutte le persone apparentemente manipolate ad avere rapporti sessuali di varia natura con lui. La sua ossessione per la sessualità dei due colpevoli è francamente ridicola e alla lunga diventa fastidiosa. Lunghe, lunghissime parti in cui è ritenuto necessario raccontarci che i due avevano fatto sesso in quel modo piuttosto che in quell'altro, e mai un intervento di un esperto che mi spiegasse perché questa cosa era considerata così rilevante, come vi dicevo più su. Cosa stai cercando di fare? Di farmi credere che raccontando tutto tutto tutto della sua vita (cosa che non fa, anzi sceglie bene su cosa portare la sua attenzione) io poi sia in grado di fargli un ritratto psicologico così approfondito da comprendere cosa sia successo la sera che Luca è morto? La maggior parte dei lettori non ha le competenze per fare diagnosi, perché non siamo tutti medici né terapeuti, e soprattutto un esperto non lo farebbe mai dalle pagine di un libro quindi davvero non riesco a capire. 

Ma per quanto riguarda la parte politica e sociale? Pensate che riemerga mai più dal romanzo? Ma no, chiaro. Tutto superficiale, tranne quello che superficiale lo è davvero.


Il libro si legge molto velocemente, e se siete già interessati al true crime ancora di più, però non è questo il modo che piace a me. In qualche modo, però, sono arrivata alla fine, dopo inspiegabili capitoli in cui parliamo di traslochi della famiglia Lagioia (vi ricordate che all'inizio manco c'era? Ecco, ora parliamo dei suoi traslochi, bah.), e alla fine c'è la sola parte positiva del libro.

Marco Prato si toglie la vita il giorno prima del processo. Una persona che si toglie la vita non è mai una vittoria per nessuno, e in questo caso le cose da dire sarebbero tante. Prato era una persona che ci viene descritta come problematica da sempre, il suo suicidio non può e non deve passare come una cosa improvvisa. C'erano avvisaglie da sempre. La cosa su cui sceglie di soffermarsi Lagioia, però, è la situazione carceraria. Prato aveva iniziato il suo percorso carcerario a Regina Coeli, una realtà che era stata in grado di sfruttare le sue capacità, di tenerlo attivo da un punto di vista culturale e sociale. Viene poi trasferito per due volte nel carcere di Velletri, molto meno accogliente, per così dire. La prima volta gli avvocati erano riusciti a farlo riportare a Regina Coeli, la seconda ne è uscito morto. Il numero dei suicidi nelle carceri italiane è sconvolgente, ed è importante che se parli in un libro così popolare. La situazione può cambiare ma nessuno fa niente per farlo. Non credo che da domani cambierà qualcosa, ma ogni passo avanti è importante e ho molto apprezzato che Lagioia si sia così interessato alla situazione. Tutta la parte finale è dedicata a questo, mi ha fatto molto piacere notarlo. 


Per quanto riguarda il resto, concedetemi una paraculatina finale perché mi sento in colpa a dire cose negative: scegliere di parlare di true crime è difficile, perché quelle persone lì, quei nomi che leggiamo sulle nostre pagine sono persone reali che stanno soffrendo cose che non possiamo nemmeno immaginare. Servono un equilibrio delicatissimo, una sensibilità rara. Io non credo di averli, anche se il mio podcastino investigativo me lo sogno la notte. Credo che Lagioia si sia sinceramente appassionato al caso in modo onesto e disinteressato, credo solo non sia stato in grado di narrarlo in un modo che io trovo adeguato.


Vado a consolarmi con la sesta idiotissima stagione di Brooklyn99, che è finalmente arrivata su Netflix.

martedì 21 luglio 2020

I libri che ho letto in spiaggia

11:08
La consueta infarinata di fatti miei che apre ogni post. Io amo l'estate, il caldo, il sole fino alle 9, ma soprattutto amo il mare. Mi fa paura come tutte le cose che mi piacciono di più, ma quando non lo vedo per qualche mese di fila mi manca da morire. Perché vivere una vita del cavolo in una società orrenda ed essere pure costretti a farlo in un posto orribile quando potrei avere la stessa vita ma almeno essere in paradiso? Ho lasciato il cuore in Puglia, durante una cena sulla spiaggia, al tramonto, dove mi sono sentita felice come pochissime altre volte nella mia vita.
Mi dovete scusare, sono in sindrome da rientro, ho il mal di Puglia.
Oltre ad un mare magnifico, paesaggi meravigliosi, cibo che non ci si crede e tramonti che belli così non li ho mai visti, la Puglia mi ha regalato il tempo di leggere, che a casa non è mai quanto vorrei.
Vi racconto quindi cosa mi sono goduta in spiaggia, con il vento che mi agitava i capelli e il profumo della crema solare che mi teneva compagnia.
(La smetto, giuro, sto solo soffrendo)



Febbre, di Jonathan Bazzi.

Uno dei finalisti dello Strega di quest anno è spopolato su Instagram, e mi aveva messo curiosità.
Si tratta dell'autobiografia dell'autore, un giovane di Rozzano. 
Jonathan non sta bene: ha questa antipatica febbriciattola che lo accompagna da troppo tempo e fatica a risalire alla causa. Lo conosciamo adulto, che deve gestire questa rogna, ma nel frattempo incontriamo anche il Jonathan bambino, cresciuto nelle case popolari di Rozzano. Con il tempo impariamo a conoscere lui, la sua famiglia, il suo compagno e soprattutto il percorso che lo ha portato ad essere l'uomo che ci racconta la sua storia. 
Di Jonathan Bazzi non amo lo stile.
Quello un po' drammatico così.
Che va a capo dopo ogni punto perché le frasi sono piene di pathos.
Pathos, quello vero.
Ecco, alla quarta mi comincia un pochino a ballare l'occhio. Lo leggo spesso, questo modo di scrivere, anche banalmente nei post di facebook dei poeti wannabe, e non mi piace mai. A maggior ragione non mi piace qua perché la storia mi ha preso immediatamente, e lo ha fatto perché l'ho sentita mia. Ogni volta che Bazzi parlava del suo passato io rivedevo il mio: le case popolari, le famiglie disfunzionali, il chiasso, le urla, il disagio. Il tutto è descritto in un modo sincero, reale. Mi ha colpito nei miei punti deboli e soprattutto lo ha fatto con la maturità di chi ormai queste cose le sa guardare da una giusta distanza. Questo ti dà modo di essere estremamente lucido nel raccontare anche cose che per me sono ancora nebulose di caos. L'ho trovato efficace, onesto e intenso. 
La storia del Jonathan adulto invece si allontana dalla mia, ma non per questo l'ho apprezzata meno. Il percorso vero la verità è difficile, e spesso le risposte trovate lo sono ancora di più, ma ognuno le affronta con un modo tutto suo, e quello di Bazzi è ammirevole.

Miden, di Veronica Raimo.

Anche questo mi è arrivato dall'Instagram, perché per un periodo ne avevano parlato diversi profili che seguo. Miden è una cittadina dell'orrore travestita da sogno. Il Sogno di Miden è quello di una realtà senza problemi, senza intoppi, con smaglianti sorrisi e mai un disguido. Non ci sono avvocati, a Miden: se un cittadino viene accusato di qualcosa di sbagliato una giuria composta dai cittadini valuta quello che i suoi conoscenti dicono di lui e sulla base di queste testimonianze si giudica se un individuo sia o meno degno di restare in questo luogo incantato. 
Per questo, quando il professore (unico modo in cui viene citato nel romanzo) viene accusato da una studentessa di violenza sessuale, quello che si apre a suo carico è un processo molto particolare, nel quale la sua stessa compagna sarà tenuta a dire la sua. 
Quello che si apre di fronte a noi non è solo il racconto di una società in cui ai cittadini è richiesto di raggiungere e mantenere un determinato livello di etica e di mantenersi degni del luogo, ma anche la storia di come un evento violento (sia esso reale o meno) colpisca la vittima, il carnefice ma anche tutte le persone che stanno loro intorno. La compagna del professore è estremamente turbata da quello che ha scoperto ma non solo nel modo a cui verrebbe più naturale pensare. Il pensiero del compagno che fa sesso con un'altra la scuote, la risveglia da un torpore, la distrae dal fatto principale: quel sesso non era completamente consensuale. Il pover'uomo non aveva capito, non aveva colto, che stava esercitando il suo potere su una persona a lui gerarchicamente inferiore, non gli era manco passato per l'anticamera.
Forse il libro esplora troppo poco questa dinamica di potere, che invece è fondamentale affrontare, e si concentra di più sulle conseguenze che la violenza ha sul carnefice piuttosto che sulla vittima, ma ogni cosa che parla dell'argomento da queste parti è benaccetta: che se ne parli, e che se ne parli sempre, da ogni prospettiva possibile.

I fantasmi di Rowan Oak, di William Faulkner.

Faulkner è uno di quegli autori a cui non mi sono mai avvicinata per soggezione. Ci sono cose che spesso evito di fare per la paura di non comprenderle come vorrei e finisce che giro in tondo non concludendo nulla. Però alla parola fantasmi non resisto, e ho fatto bene a sbloccarmi.
Quelli racchiusi in questa raccolta sono racconti senza tempo, di quelli che si raccontano intorno al fuoco mentre i marshmallow si bruciacchiano tra le fiamme. Si parla di famiglie del sud (degli Stati Uniti, che è ovvio ma non si sa mai), di leggende, di bambini curiosi. Leggo in giro che questo è niente rispetto ai capolavori dell'autore, ma di sicuro è una raccolta deliziosa, gotica, fiabesca.
Si legge in un pomeriggio.

Menzione speciale.

La prima cosa che avevo caricato sul kindle per le vacanze in realtà era I giorni dell'abbandono, della mia adorata Elena Ferrante. Non è arrivato in vacanza, perché l'ho letto nel weekend prima della partenza e ne sono uscita con il cuore spezzato. L'abbandono è quello Olga subisce quando il marito la lascia per un'altra. La storia più vecchia del mondo? Sì, ma è qui che sta il talento della Ferrante. Il suo ritrarre l'intimità delle persone, senza paura che risultino poco sopportabili o fastidiose, è spiazzante. Entra nel cuore dei suoi personaggi con una tale profondità che stupisce non parli sempre di se stessa. Sono persone così vere, per nulla costruite per piacerci ma anzi così forti nel loro essere quasi sgradevoli che ci costringono a chiederci quanto di noi ci sia, in quel ritratto così sincero.
Ora, che Ferrante sia una donna è chiaro perché ha un odio per gli uomini che è lampante, ma se così non fosse non farei fatica a credere che il suo sia uno pseudonimo per Domenico Starnone, perché il ritratto che entrambi fanno delle relazioni sentimentali è così cinico che dopo averli letti mi serve un po' di detox.
Meravigliosi entrambi, ma lei ha qualcosa in più, la trovo sempre eccezionale.

Vorrei dire che dopo questa sequela di letture che quantomeno per temi si sono rivelate tutte piuttosto intense mi sono presa un periodo per qualcosa di più felice e invece no, sto leggendo Il buio oltre la siepe, perché qua felici mai.


giovedì 12 marzo 2020

Persone normali, Sally Rooney

09:27
Se ormai sul blog ho quasi del tutto rinunciato alle recensioni singole dei film, che trovate sul mio letterboxd, non rinuncio a quelle saltuarie sui libri.
Soprattutto quelle di libri gettonatissimi che invece io detesto con tutto il mio cuore.
Avevo capito di considerare la Rooney una gran supercazzola col primo libro, Parlarne tra amici.
Il secondo non è una cazzola: è dannoso.


QUALCHE SPOILER INCAZZATO

La storia è quella di una ragazza e di un ragazzo, Marianne e Connell, e del loro rapporto, nato al liceo e proseguito all'università.
Basta, la trama è solo questa.

Nel complesso, come il precedente, è un libro che si legge alla velocità del luce, che ha una scrittura scorrevolissima e non troppo lungo.
Vorrebbe parlare di classi sociali, di problemi relazionali, dell'adolescenza, dell'incomunicabilità dei sentimenti, della crescita, del conoscere se stessi, e lo fa concentrandosi su solo due personaggi. Gli altri sono solo pedine intercambiabili che non solo non hanno alcuna rilevanza ma non hanno alcuna caratterizzazione, fatta eccezione per un paio di casi di cui parliamo dopo. Ad un certo punto nel romanzo c'è una morte e io sono riuscita a capire di chi si trattasse solo da una piccola frase legata ad un episodio (ripugnante) di qualche scena prima, altrimenti sarei ancora qui a pensare a chi fosse il povero defunto.

I problemi leggeri di questo libro sono questi, appunto: una superficialità nella costruzione dei secondari (ricordiamo sempre che, come dice Neil Gaiman, i secondari mica sanno di esserlo, diamogli un minimo di dignità), una scrittura senza infamia e senza lode, una costruzione della storia in scene, senza fluidità, che può piacere o meno e che a me non ha colpito. Se mi parli di un rapporto attraverso singole scene non se ne percepisce lo sviluppo ma solo le conseguenze di questo sviluppo, e a me non lascia nulla. Non ho tifato per la coppia nemmeno per un istante se non verso la fine presa per sfinimento. Vi prego restate insieme e dateci tregua.

I problemi pesanti sono ben altri. O meglio, è uno solo: la superficialità, che quando riguarda argomenti leggeri è solo una mancanza, quando riguarda argomenti ben più intensi diventa un danno.
Marianne, la nostra protagonista, è vittima di violenza domestica. Subisce da sempre una sistematica violenza psicologica che a volte è sfociata in quella fisica, da parte del fratello Adam. Come lo sappiamo? Perché ogni tanto, senza alcuna continuità né tra una scena e l'altra né con il resto della vicenda, vengono mostrati piccoli episodi. Insulti, pressione, sarcasmo, sputi. Marianne subisce inerme, e di questo di certo non le farò una colpa io. Nessun episodio ha un minimo di approfondimento, non si parla delle origini, non si parla di supporto, manca un briciolo di sostegno familiare (questo potrebbe anche andarmi bene, è una famiglia disfunzionale tutta, e ok), ci sono queste piccole scene di violenza buttate lì e basta. Cara la mia Sally Rooney, così non va. Non sfrutti la violenza per dare spessore al tuo personaggio. Se non lo abbiamo perdonato a Game of Thrones che per anni una serie tv strepitosa figurati se possiamo mandarlo giù a te. E se non fosse così, perché metterla, allora? Perché così approssimativa?
Ah, sì, ecco perché: per fare la scenetta romantica nella quale l'eroe salva la principessa dal mostro cattivo.
Ma, per piacere, ci vai a cagare?
Un argomento serissimo, importantissimo, che si poteva sfruttare per insegnare anche alle donne più fragili che se ne può uscire, liquidato con Connell che va a casa, urla contro il fratello violento, il fratello si rivela un piccolo triste vigliacco (davvero???) e finisce così. Ridicola. Ridicola e dannosa.

Ma passiamo al secondo grande tema trattato con i piedi dalla nostra amatissima: la depressione.
Ad un certo punto a Connell viene diagnosticata una grave depressione con importanti tendenze suicide. Si rivolge al servizio di consulenza fornito dal college, ne vediamo una seduta, e basta.
Basta davvero. Qualche pagina più avanti si dice che Marianne lo ha tanto aiutato nel suo periodo buio e basta. Finita lì. Una gravissima malattia mentale che uccide migliaia di persone ogni anno la liquidiamo così? Beh ha avuto aiuto dalla sua amichetta del cuore, ora è tutto ok.
Io queste cose me le aspetto dai romanzetti rosa che Newton Compton porta in libreria a 4,90€. Da un caso editoriale non solo mi aspetto ben più profondità, se no certe cose le lasci fuori, ma mi aspetto, ed esigo sinceramente, più responsabilità. Questo modo così infantile di trattare temi così fondamentali è inaccettabile per un libro che sta passando milioni di mani.
Forse non ho capito nulla, forse ho perso io dettagli di grandissima rilevanza. Però sto libro è una pagliacciata piena di luoghi comuni sugli adolescenti troppo superficiali per capire il mondo (tranne i nostri protagonisti, ovviamente, loro sono spesciali e diversi), sulla violenza, sulla malattia, e pure sull'amore.

E metti quella benedetta punteggiatura nei dialoghi che non sei Saramago, perdio.

martedì 7 gennaio 2020

Chiacchieratina su Casa di foglie

15:42
Vediamo se mi ricordo come si scrive un post.
Ciao a tutti, buon anno!
Dopo un dicembre intenso colgo la fine delle feste come occasione per fare due chiacchiere insieme sul libro che ho letto a fine 2019.
Sì, avete di fronte l'ennesimo post su Casa di foglie.


Il mitologico volumone di Danielewski è tornato in libreria dopo, quanto?, quasi dieci anni?
Lettori disperati alla ricerca del libro online, sulle bancarelle, gente disposta ad immolare il proprio primogenito, lacrime versate e speranze perdute. Chi ha avuto la bella pensata di riportarcelo? Uno storico gruppo editoriale? Un editore miliardario? Una mastodontica realtà? No, 66thand2nd, un piccolo e recente editore indipendente che con questa mossa si è messa sulla bocca di tutti, a dispetto di un nome impronunciabile. Il tutto ha contribuito a creare l'alone di mistero intorno al libro, tale da spingere la sottoscritta me medesima a spendere la cifra di euro ventinove in una libreria.
Ricordo a chi mi conosce poco che io i libri in copia fisica li compro pochissimo e sempre usati, Casa di foglie mi è costato come una ventina delle mie letture abituali.

Ma di cosa parla, il libro più discusso del momento?
Non si può parlare di una trama in senso convenzionale, ma si può dire che c'è tale Johnny Truant, il nostro narratore, il tipo che porta il concetto di narratore inaffidabile ad un livello tutto nuovo. Johnny ha un amico, Lude. Nel condominio di Lude si è appena liberato un appartamento, perché Zampanò, il vecchio e non vedente proprietario, è morto. In casa di Zampanò si trovano le cose di una vita intera, ma soprattutto si trovano parole. Una montagna, una cascata, un fiume in piena di parole, su ogni superficie disponibile. Per quella che sembra essere stata una bella fetta della sua vita, il vecchio si è appassionato ad un documentario, intitolato La versione di Navidson, e sembra avere scritto un lungo e approfondito saggio sulla vicenda. Questa storia finisce per imprigionare la mente di Johnny, e la nostra insieme alla sua.

Ora, leviamoci l'ovvio.
Il punto principale di Casa di foglie, ciò che lo ha reso il libro famoso che è, è l'impaginazione. Il delirante, scombussolato, avviluppato modo in cui le parole sono disposte sulle pagine. Ci sono pagine bianche, con una sola frase, con una sola parola, pagine piene zeppe di parole fittissime e righe cancellate, colorate, sottolineate. Si tratta di un S, La nave di Teseo level extreme, un parco avventura letterario dal quale si scende con la testa che gira un po'.
Ma ne vale la pena? In effetti un'esperienza di lettura di questo tipo è certamente interessante, ma richiede anche pazienza, concentrazione, tempo. Ci vuole una storia che ne valga la pena.
Io a volte ne ho dubitato. Ci sono stati momenti in cui mi sono chiesta se non fossi incappata nella più clamorosa supercazzola editoriale del 2019. Eppure il libro non lo posavo mai. Ho vissuto giorni incatenata alla storia (alle storie) di questi personaggi tutti lentamente in discesa verso la follia. Ho letto di menti che perdevano il controllo, di vite rovinate, di case che ignoravano le leggi della fisica e ne sono stata completamente rapita. Ho letto diari, lettere, appunti, annotazioni, saggi, spunti, voli pindarici grandi come la casa in questione. Ed è stato bellissimo.
Quindi, sto Casa di foglie, vale tutto l'hype che si porta dietro non da ora ma da anni?
Sì, assolutamente sì. Un ritratto delle ossessioni come non avevo mai letti prima, un racconto marcio dentro ad una storia inquietante e che non diventa mai spaventosa ma sa come fermarsi mezzo passetto prima, diventando così non un canonico romanzo dell'orrore ma una storia che crea quella tensione che aleggia nell'aria anche intorno a chi si limita a leggere.
Certo, non fa per voi se amate le trame in senso classico: inizio, svolgimento, fine. Qua non ci sono risposte, e se Casa di foglie dovesse fare a voi l'effetto che ha fatto a me, smetteranno di esserci anche domande.
Si vive e basta.

giovedì 10 ottobre 2019

Signore e signori, Alan Bennett

11:10
Che Alan Bennett fosse il genere di scrittore che piace a me lo avevo capito subito, quando ho letto La sovrana lettrice. 
Ora, con Signore e signori, è diventato uno dei miei preferiti.


Trattasi di una raccolta di sei monologhi per la tv scritti dal Nostro.
Quello uscito con Adelphi è un volumetto piccino, che si legge in un paio d'ore, ma che mi ha lasciato tante cose su cui pensare e quindi tanto di cui parlare.

Prima breve considerazione: io in digitale leggo spesso in inglese, in copia fisica in italiano, semplicemente perché i libri li compro usati e trovo più cose in italiano. Da quando leggo in inglese, però, noto il lavoro del traduttore più di quanto non facessi prima, ovviamente, e in questo caso io la traduzione, a opera di Davide Tortorella, l'ho adorata.
Per farvi un breve esempio: il primo monologo è quello di Peggy, una donna come tante (che è anche il titolo del monologo). Peggy parla mettendo gli articoli davanti ai nomi propri femminili, usa parole come moroso e riporta i dialoghi letteralmente. Io sono cremonese, e questa donna ha il mio linguaggio, e se da un lato capisco che ad un pugliese o ad un sardo possa fare meno effetto, per me è stato come leggere la storia di una delle "mie" signore. Finito il monologo ero commossa fino alle lacrime per Peggy, e la conoscevo solo da qualche pagina.

Non pensiate che la commozione sia dovuta solo alla familiarità linguistica. Ogni monologo ha una svolta inaspettata e amara, che ne cambia completamente il tono e lo rende così umano che è impossibile non amarli tutti quanti. I personaggi ritratti sono una variegata rappresentazione di quello che siamo, sono di età, generi e provenienza differenti, sono buffi, dolci, ingenui. A volte è sgradevole leggerli ma si finisce sempre, anche con quelli che ci possono apparire meno piacevoli, per provare una grande compassione per loro e le loro sofferenze.
C'è la signora che si crede fondamentale, quella che non crede lo siano gli altri, quella che si sopravvaluta, il giovane ignaro della gravità della sua situazione, l'alcolizzata inconsapevole. In ogni, breve, racconto incontriamo non solo la persona che parla ma spesso la sua comunità: vicini di casa, parrocchiani, compagni di stanza d'ospedale, crew. Non siamo mai soli, eppure in qualche modo lo siamo sempre, e i nostri personaggi, raccontandosi, ci mostrano come dentro ai nostri pensieri non ci siamo che noi, e che quello che ci succede intorno spesso non lo sappiamo leggere.

Quello che è ancora più interessante, oltre ai monologhi, sono le introduzioni.
Sono due, e Bennett le sfrutta in modo straordinario. Ci parla di come il monologo sia una diversa forma di narrazione, che non può prevedere narratori affidabili nè il linguaggio completo della prosa, che richiede al lettore uno sforzo di immaginazione e di comprensione in più. La storia ci è raccontata da un punto di vista parziale e spesso inconsapevole, sta a noi completarla, e questo per me è stato interessantissimo. Il solo monologo che avevo mai letto è Dolores Claiborne, e le cose sono troppo diverse per paragonarle. In questi brani l'immedesimazione nella persona che parla è totale, l'empatia stuzzicata a livelli inimmaginabili, e la breve esperienza di lettura è una delle più commoventi che ho fatto durante l'anno. Il tono colloquiale, le storie quotidiane, l'inconsapevolezza di cui sono composti rende questi monologhi speciali, e non fa che confermare che quella di Bennett deve essere un'anima candida. Ne abbiamo un piccolo assaggio, durante le introduzioni, che non solo parlano di cosa rappresentano questi racconti ma regalano anche piccoli accenni alla vita dell'autore.
Che piccolo tesoro sto volumetto.



(Scopro dopo avere pubblicato il post che ci sono su Youtube i monologhi letti da volti noti della tv inglese: mi do al binge watching e lo lascio anche a voi: li trovate qua)

mercoledì 7 agosto 2019

La quinta stagione, N.K.Jemisin

13:57
Siccome il blog è l'unico posto in cui ancora non l'ho detto, piccolo aggiornamento sulla mia vita: ho preso un cane. Un grosso cane nero che sembra Sirius Black e che è buono come un angelo. Mai una pipì, mai un dispetto, non so nemmeno come abbaia. Mi ha fatto un unico danno da quando lo abbiamo preso al canile: si è portato il mio lettore ebook sul suo cuscinone. Solo che con i suoi denti da fatina me lo ha scassato, portandoselo in giro. Risultato: non ho più il mio migliore amico (il lettore! Il cane è ancora qua) e mi tocca comprarmi i libri in copia fisica spendendo patrimoni.
Ebbene, fatevi un favore. Prendete 15 euro dal vostro portafoglio e comprate La quinta stagione.
Se siete più furbi di me su Amazon ci sta tutta la trilogia in inglese, perché io son stata cretina ho preso solo il primo e adesso che non ho il seguito la mia vita ha smesso di avere significato.


Dare un'idea della trama di questo romanzo è quasi impossibile, ma cercherò di essere breve e vaga il giusto. In un mondo devastato da un clima ostile (l'Immoto) le persone vivono in città costruite col solo intento di sopravvivere. Tra gli abitanti di queste città si distinguono gli orogeni, umani che nascono con il dono di controllare la terra e gli elementi climatici. Essere orogeni, però, non è un dono. Le persone con queste capacità sono disprezzate dalla società e la loro presenza viene denunciata dalla stessa famiglia fin dalla tenera età. I bambini orogeni vengono portati al Fulcro, luogo in cui viene insegnato loro come controllare i propri poteri per essere utili alla società. Protagoniste del romanzo sono tre donne, tutte e tre orogene.

La quinta stagione è il vincitore dell'Hugo Award del 2016. Il suo seguito lo ha vinto nel 2017, il terzo volume della saga nel 2018. Non solo la Jemisin è la prima autrice afroamericana a vincerlo, ha deciso di portarselo a casa per tre anni di fila con tutti i volumi della saga. Un piccolo miracolo che l'edizione italiana, opera di Mondadori, ha deciso di celebrare con fascetta di elogi e quattro facciate (quattro) di stralci di recensioni entusiaste. Io scettica come la morte, secondo me per colpa della copertina che proprio non mi piace.
Ebbene, sono felice di dire che sono una cretina e che avevo torto marcio, perchè La quinta stagione è un romanzo strabiliante e io sono qui con un post entusiasta a cercare di dirvi perché.

Questo romanzo è un capolavoro di world building, e questo è il motivo per cui non vi voglio parlare più a fondo della trama. Il mondo in cui ha luogo, l'Immoto, è costruito con tale precisione che le nozioni si dispiegano per tutto il romanzo, fino all'ultima pagina. Non ci sono spiegoni iniziali che ci aiutino ad entrare nell'ottica di quello che leggeremo, anche se potrebbe sembrare sia così. Esattamente come se dovessimo spiegare l'Italia ad una persona straniera: conosci talmente bene quella realtà lì che non puoi dire tutto subito, ci sono dettagli e sfumature che escono per forza con il tempo e nel libro questo allargarsi della conoscenza è così coerente e ben fatto che per spiegare fatti anche molto complessi all'autrice bastano due frasi ben fatte. Non so come si faccia, a creare una realtà tutta nuova in un modo così preciso, ma la Jemisin lo ha fatto in un modo straordinario, che non perde fascino nemmeno di fronte ad un colpo di scena piuttosto prevedibile.

Forse, però, un'idea ce l'ho, su come abbia fatto: ha guardato alla nostra, di realtà. Il primo volume de La terra spezzata parla di diversità, di odio, di crescita, di fuga, di paura e di amore. Di senso di appartenenza e di senso di inadeguatezza. E lo fa parlando di tre donne, tre donne che per lo stesso motivo vengono allontanate dalla società e che devono convivere con una condizione di diversità che non possono nascondere. Lo fa descrivendo una società che le teme e quindi le detesta, le isola, le ripudia. Sono donne grazie alle quali la Jemisin parla della complessità del nucleo familiare, dell'amore materno, della paura e della solitudine. Di bambine coraggiose e adulte spaventate, di quanto siano diverse e uguali al tempo stesso.

La fantascienza di questa saga rientra in questo nuovo filone di narrativa 'ecologica' se così si può dire, anche se non ci sono riferimenti che colleghino per certo l'Immoto alla Terra. I collegamenti però sono inevitabili, e la possibilità che la nostra Madre Terra buona diventi un Padre Terra crudele che detesta i suoi figli è oggi più che mai credibile. Talmente tanto che il romanzo si è rivelato la lettura più immersiva dell'anno, e quest anno aveva rivali non da poco. Tra Nabokov, Dostoevkij, la Ginzburg e Buzzati, la Jemisin zitta zitta mi ha preso per mano e portato altrove, in una storia in cui sembra succeda poco e invece succede la vita, quella reale che si riesce a trovare anche in mezzo a pagine di fantascienza.

Un libro strepitoso, che ho finito da un paio di ore e già mi manca.

lunedì 8 luglio 2019

Le cose che ho letto finora nel 2019

11:08
Di solito su Instagram scrivo sempre qualcosa sui libri che leggo, perché i libri sono La Cosa Più Bella Del Mondo e io voglio parlare di cose belle.
Però quest anno non so gestire nulla quindi invece che singoli post, o qui o su ig, faccio un mega riassuntone delle letture fatte, perché finora ho letto solo cose che ho tanto amato e questo è un grande lusso.


COSE A FUMETTI

Quest anno ho iniziato a leggere fumetti di supereroi. Lo so, faccio fatica a crederci pure io. Ma li ho qui in casa, sotto il naso, da quando io e Erre conviviamo, e mi sono fatta tentare. Ho letto qualcosa degli X-Men e Planet Hulk, per cominciare, e ora sono al lavoro su Deadpool. Non posso esprimermi ancora su nulla perché è un mondo talmente immenso che mette soggezione e fa venir voglia di desistere, ma mi ci sto impegnando, anche se a volte è difficile perché ho la sensazione che, soprattutto le cose più recenti, diano per scontate un mucchio di cose, e per chi è nuovo è frustrante. 
Planet Hulk però è cattivissimo e nulla ha a che vedere con quel Natale ad Asgard che vi ostinate a chiamare Thor: Ragnarok.

La vera rivelazione dell'anno per me è stata La mia cosa preferita sono i mostri, che non ha solo dei disegni stre pi to si (giuro, indimenticabili) ma che racconta, in modo per me inaspettato, storie tragiche e dolorose, passati tormentati e bambine coraggiose. 
Che bomba.

Infine, è tornato in libreria per Bao Due figlie e altri animali feroci, il racconto epistolare di Leo Ortolani sui giorni vissuti in Colombia, dove ha adottato le sue due figlie.
Ora, se conoscete lo stile di Leo sapete che è la persona più genuinamente divertente del mondo, che ha un tono leggero e dolcissimo e che non prendendosi sul serio, si fa prendere sul serio da chi lo ama. Immaginate come una persona così possa parlare di un argomento delicato come l'adozione. Lo fa con lettere splendide e buffe, in cui si racconta con una sincerità pulitissima. Il suo libro è delizioso, e anche molto commovente.

RECUPERONI di cose famosissime che io ancora ignoravo

Io faccio tanto la bella che legge e si sente tanto colta, ma mi mancano da leggere tanti di quei libri Grandi e Famosi che a volte mi sento quasi sotto pressione.
Quest anno, quindi, è stato finora pieno di recuperoni di Imperdibili, sempre con la maiuscola.
Di qualcosina di sporadico ci sono stati post singoli, e in quel caso vi risparmio la ripetizione.

Il primo è stato Il deserto dei tartari. La mia storia d'amore con Buzzati è iniziata lo scorso anno (solo? solo) e prosegue nel 2019, perché la prosa di Dino Buzzati è una di quelle cose che mi fanno ringraziare di essere al mondo. Continuo a preferire Il segreto del Bosco Vecchio, ma c'è qualcosa nel suo modo di sistemare le parole che rende tutto il resto opaco. Appena finisco i due libri che sto leggendo voglio passare a Un amore. 

Tutto il mio mese di febbraio è stato occupato da Delitto e castigo
Io D. l'ho conosciuto con Le notti bianche, non ho letto altro. Questo è decisamente più impegnativo, per me è stato come scalare una montagna.
E io sono una da mare.
Non mi sentirete mai dire una sola parola negativa su Dosto, non sono mica matta. Diciamo però che prima di passare ad altro di suo devo far passare un periodo di decompressione.

Leggere Lolita a Teheran è stata una di quelle letture splendide che ti stacca la testa dal collo e se la porta a spasso per il mondo. Non è solo un modo diverso per parlare di letteratura, è un viaggio tra culture diverse e consapevolezza, è una finestra su un mondo che ignoravo e che invece è fondamentale conoscere. Bellissimo.

Ho quasi vergogna a dire che non avevo ancora letto La lotteria della mia venerata Shirley Jackson. Non è che ci sia molto da dire, dura pochissime pagine e ti ribalta la pancia, in un modo in cui nessuno ha mai più saputo farlo dopo di lei.

Il mio primo incontro con Lolita è stato qualche anno fa. Avevo mollato dopo poche pagine. Lo so che è la cosa più superficiale da dire, ma Lolita parla di un pedofilo, e allora non ero pronta ad andare oltre. Perché per me andare oltre ha richiesto impegno e concentrazione. Ne è valsa la pena? Sì, ovviamente, perché Nabokov ha fatto una cosa gigantesca parlando di una cosa difficile e senza paura, buttandosi (e facendo buttare noi) in una delle cose più grandi che siano mai state scritte. Forse questo è il più banale dei modi in cui parlarne, ma se i Grandi Capolavori sono universalmente considerati tali, un motivo c'è, ed è semplicemente che sono strepitosi.

Ultimo recuperone in ordine di tempo è stato Lessico familiare, di Natalia Ginzburg.
Ora, io non sono un'estimatrice dei prodotti che parlano di Olocausto. Piuttosto guardo un documentario, ma è solo questione di gusti personali. Il romanzo della Ginzburg, però, ha un modo così intimo di parlare dei propri cari che pur parlando di una famiglia in particolare parla di tutte quante. Mi ha colpita in fondo al cuore, dove ci stanno le cose che tiro fuori poco e malvolentieri.

MENO CLASSICI ma bellissimi lo stesso

Quando sono in crisi da 'Ho finito un libro magnifico e ora come faccio' io leggo Malaussène, e sono arrivata al terzo capitolo, La prosivendola, che non raggiungerà i livelli straordinari de La fata carabina ma che si conferma dolce e stralunato. Che saga magnifica.

Oltre a A head full of ghosts di Paul Tremblay, I parassiti di Daphne du Maurier e Fiori per Algernon di Daniel Keyes, che hanno i loro post singoli, ho fatto la conoscenza di Alice Munroe con il suo Chi ti credi di essere? forse uno dei più onesti racconti di donna che ho mai letto.

Ho finalmente letto La lunga marcia, che è uno di quei romanzi con i quali Stephen King mette nell'angolino dietro la lavagna tutti gli altri e insegna loro come si fa. Lo so che è super inflazionato il Re, è uno di quelli letti anche da chi non legge, ma il motivo è semplice: è uno di quelli bravi per davvero. La lunga marcia è un romanzo in cui non succede niente di niente neanche per sbaglio, e dentro in qualche modo ci succede tutto.

Per farmi un pochino male poi, mi sono letta La frontiera di Alessandro Leogrande e dopo la lettura ho deciso che non avrei mai più perso tempo a parlare di immigrazione con chi non ha letto niente di Leogrande. O si conosce o si tace. Lui ha conosciuto, tantissimo, e la sua conoscenza l'ha trasmessa a noi, e non c'è nulla di più importante.

Arrivata a quasi 30 anni ho la fortuna di sapere cosa mi piace e cosa no, e ormai è quasi impossibile che io arrivi a leggere cose che non mi piacciono, ma quest anno finora è stato un lusso. La lista di ciò che voglio leggere non cala mai, ma che soddisfazione.

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