venerdì 13 ottobre 2023
lunedì 27 marzo 2023
Ho guardato un po' di serie tv
lunedì 10 ottobre 2022
The Midnight Club
Everybody likes a great story.
Quando la morte è un po' più vicina il pensiero non si cancella mai. Sta lì, come un avvoltoio che ti osserva da lontano mentre prosegui nella tua quotidianità. E loro, dell'avvoltoio che li guarda, non ne parlano quasi mai.
martedì 15 marzo 2022
The Marvelous Mrs Maisel - stagione 4
Questa settimana avrei avuto mille cose da fare, lavatrici da stendere e lenzuola da sistemare, ma soprattutto live da preparare e podcast per cui studiare, ma venerdì scorso sono uscite le due puntate finali di una delle migliori serie degli ultimi anni e non avrei potuto rimandare oltre.
Sapete cosa fanno le persone serie? Guardano un prodotto, ne leggono in giro, studiano, si informano, si prendono il tempo di prepararsi per bene per giungere al momento di parlarne preparati e con le opinioni ben formate. E poi ci sono io, che ho chiuso Prime da 5 minuti e sono già qua con Blogger aperto per salutare Midge, per la penultima volta.
La serie avrà ancora una stagione, e poi ci toccherà salutarla per sempre.
In questa quarta volta in cui ci incontriamo, Midge e Susy devono convivere con il fatto che Shy Baldwin le ha piantate in aeroporto, e che il tour europeo in cui le aveva coinvolte è saltato. Convivono con l'evento come possono, leccandosi le ferite e ripartendo da quello che possono. Midge diventa comica fissa in uno strip club e Susy cerca di far crescere il proprio lavoro come manager cercando nuovi talenti.
Questa stagione, quindi, trae le sue fondamenta da un elemento che nella serie non è mai mancato ma che qui la fa da padrone: il fallimento. Midge ha sbagliato, ha rischiato di fare outing ad una persona omosessuale che non aveva alcuna intenzione di rivelare i fatti propri al mondo, ha tradito un amico, ha fatto un errore che le sta facendo perdere tutto.
Con la coda tra le gambe, ferita ed umiliata, torna al suo quartiere. Deve affrontare il momento in cui dovrà confrontarsi con la sua famiglia, che non avendo mai creduto nelle sue reali possibilità di carriera rischia di trovare in questo episodio una conferma dei propri timori, deve leggere articoli che la ridicolizzano, che speculano su quanto accaduto, e finisce per conservarli, come a ricordo perpetuo, deve adeguarsi ad un lavoro che potenzialmente rovinerebbe la sua immagine.
Non solo: sbaglia a continuare ad esporre la sua famiglia, sbaglia a dare a Lenny Bruce quello che lui non vuole, sbaglia a fidarsi di Sophie Lennon. È una donna di straordinario talento, ma non ne azzecca una, ed è un ritratto che desideravo vedere da tempo. Stimola la creatività come per me nessun altra serie ha fatto prima, ma non lesina mai nel mostrare cosa succede quando si investe in un lavoro del genere: si sbaglia, e ogni sbaglio è pagato caramente.
Susy, dal canto suo, in queste circostanze eccelle. Non si concede mai un momento di sconforto perché così chiaro è il suo obiettivo che nulla è un vero fallimento, solo un intoppo lungo la strada da sistemare. Susy è magnetica, non solo perché il suo carattere totalmente incurante delle opinioni del prossimo la rende una manager francamente perfetta, ma anche e soprattutto perché non si smarrisce mai. Non perde di vista il suo obiettivo, perché sa quello che le serve, e quello che le serve è tenere la calma, anche nella frenesia che la circonda costantemente. Forse fa errori di valutazione, forse deve correre alla ricerca di modi per tirare se stessa e i suoi clienti dai casini, ma vederla crescere così radicalmente in questa stagione è così rinfrescante che la mette davvero al centro della scena. Sempre da sola, senza chiedere nulla a nessuno. Quando si appoggia ad altri è solo per terzi o per circostanze che riguardano più persone, mai per se stessa o per la sua carriera. A quello ci pensa da sola.
Midge è il fascino, è la donna che spesso se la cava perché il suo essere bellissima (pretty privilege?) le concede tempo e spazio, ma è solo lavorando con Susy che ottiene i risultati. Quello che rende Midge il personaggio irresistibile che è, però, naturalmente non è il bel faccino: è il suo costante rivendicarsi. Vuole esibirsi in uno strip club, perché in quel momento, dopo la batosta che ha preso, ha bisogno di uno spazio di libertà assoluta, in cui non sentirsi giudicata, in cui esprimersi come la persona sboccata che è, e fa quello che le riesce meglio: lo trasforma in un regno femminile. Non accetta più che la sua voce venga zittita, non vuole scendere a compromessi, non accetta che a lei non vengano concesse cose che agli uomini vengono concesse continuamente.
Midge però non è esente da giudizi: aveva sbagliato con Shy, sbaglia in questa stagione con Susy dando per scontata una sessualità che non la riguarda, sbaglia quando è incredula perché la figlia di un senatore lavora allo strip club. Puntualmente, però, incontra persone che la rimettono al proprio posto, che se ne fregano delle sue buone intenzioni e la riprendono quando si comporta male. E lei a questo punto si scusa, si rimette in discussione, si prende in giro. Si intrufola in un matrimonio a cui è stata invitata con scopi poco puliti solo per scusarsi, e sfrutta l'occasione per fare il minimo che può per rimediare.
L'errore che ha commesso con Shy ha dato un nuovo corso alla sua vita e alla sua carriera, e la sola cosa che Midge aveva da portare con sé in questo nuovo percorso era la sua personalità: l'ha usata per rendere il club un luogo accessibile per le signore, l'ha usata per aiutare Joel quando ne ha avuto bisogno, per supportare la sua famiglia in difficoltà, per continuare a costruirsi la strada che è certa la stia aspettando.
E vedere una donna così, che si muove per i corridoi degli edifici con le sue scarpe scomode e la voce troppo alta, che impartisce ordini senza aver paura che le venga risposto di no, che qualcuno la sostituisca, che qualcuno si prenda gioco di lei: Miriam Maisel crede in se stessa sempre di più, è consapevole del proprio talento sfacciato, del proprio potere, della propria influenza. Sono felice di vederla sullo schermo, perché mi insegna quello che dovrei essere.
Proprio io, che non credo in me stessa nemmeno quando faccio la lavatrice perché metti caso che ho sbagliato il lavaggio e ho fatto un bordello, che mi lancio in mille progetti aspettandomi sempre che sfracellino al suolo in un paio di mesi, guardo lei e imparo, e osservo ammirata cosa si ottiene quando la determinazione è la sola cosa che si ha. Ma soprattutto, la vedo sfruttare le sue fragilità e renderle arte. Midge usa la sua complicata e caotica vita per trarne i suoi spettacoli migliori. E lo so che è il più banale dei concetti relativi all'arte e alla sua composizione, usare i dolori e le tragedie per farne qualcosa di buono, ma è vederlo applicato alla commedia che mi fa così sognare. I suoi spettacoli in questa stagione sono più amari, più cinici, e per questo, forse per la prima volta nella serie, il suo pubblico è sempre femminile, anche fuori dallo strip club. Si esibisce per le donne, e nel farlo sa che non possiamo ridere e basta, perché ci sono troppe cose che non vanno. E allora ridiamone pure, intanto che ci asciughiamo quel paio di lacrime che ci ha fatto versare.
Non può che essere così, perché per quanto sia detestabile rimarcarlo, Midge non è solo una comica, è una comica donna, negli anni '60, in cui ci si aspettava che mollasse il lavoro per correre al capezzale dell'ex suocero, in cui avere dei bambini era una limitazione, in cui andare a letto con un uomo sposato rendeva te la cattiva, in cui puoi pure fare i tuoi spettacolini sul palco, ma se per favore non dici fuck è meglio. Non si può concepire che facesse solo ironia, doveva essere dolceamara e funziona sempre in maniera strepitosa.
Ognuna delle donne di questa stagione è forzata ad affrontare elementi di difficoltà dovuti al proprio genere: Susy deve chiedere alla sorella di prostituirsi, Mei deve capire come gestire una gravidanza e gli studi di medicina, Rose e Imogene devono vivere in un mondo in cui la solidarietà femminile non è contemplata e devono combattere con la loro concorrenza, la giornalista che parla male di Midge è costretta a cavalcare il successo dato dal distruggere un'altra donna, perché era così che si campava in un mondo di maschi.
In questo periodo in cui la mia emotività è traballante, Mrs Maisel è stata la consueta boccata d'aria fresca, che mostra in un modo brillante e genuinamente divertente che se sei una donna non avrai mai niente di semplice. Che avrai bisogno di lavorare il doppio, che alcune circostanze ti richiederanno di avere bisogno di un supporto maschile, che ci viene richiesto un equilibrio che agli uomini non è necessario, nonostante quello che le dice Lenny Bruce sul finale.
Però mostra anche che quella determinazione lì ti salva la vita, che avere il coraggio di essere sempre indiscriminatamente se stesse, senza paura di essere troppo, di prendersi troppo spazio, di dare fastidio, è il solo modo di sopravvivere, di essere corrette verso noi stesse, di diventare quello che si desidera.
Ed è esattamente il messaggio di cui avevo un gran bisogno.
mercoledì 3 novembre 2021
Il mio saluto a Brooklyn99
Dico costantemente che non mi piace ridere poi finisce che tutti i post sulle serie tv sono sulle comedy. Portate pazienza con me, mi contraddico costantemente.
Il punto è che è finito Brooklyn99 e devo parlarne per restare ancora un po' in compagnia di personaggi che ho tanto amato.
foto scelta solo per la presenza di Cheddar |
Il 99 è un distretto di polizia di New York. La serie cominciava con l'arrivo del nuovo capitano, Raymond Holt, un uomo coltissimo ma, per così dire, più algido di Nicole Kidman ai suoi tempi d'oro. Tutta la variegata squadra ha dovuto adattarsi a questo nuovo leader e nel corso di 8 stagioni li abbiamo visti diventare non solo colleghi, non solo amici, ma famiglia, la classica delle storie di "famiglia per scelta" che tanto mi piacciono.
Sì, è una serie sulle guardie, e sì, è una serie sulle guardie che a me piace. È incredibile, ma è così, voglio così tanto bene a questi sbirri che ogni tanto mi dimentico di che lavoro facciano.
Questa povera serie è stata cancellata, poi recuperata, poi cancellata di nuovo. Ogni anno con il 99 poteva essere l'ultimo e ce lo siamo goduto come tale. Solo che poi l'ultimo anno è arrivato davvero e adesso col cavolo che sono pronta. Non posso concepire gli anni a venire senza nuovi momenti di Jake Peralta, il mio uomo preferito di ogni serie tv di ogni tempo, e temo mi ritroverò a riguardarlo più spesso di quanto non sia pronta ad ammettere.
In questa ultima stagione si fanno inevitabilmente le cose che ci aspettavamo: non mancano gli episodi ricorrenti come quello dell'Heist, quello di Doug Judy, quello con la famiglia Boyle...ritornano personaggi del passato per farci un saluto, come naturalmente Gina Linetti (non mi stancherò maimaimai di dirlo, questa scoppiata di Chelsea Peretti è la moglie di Jordan Peele, che ridere!) e Adrian Pimento, e come al solito si cerca di tenere uno sguardo aperto sull'attualità. E qui, temo, arriviamo alla parte problematica, che vorrei TANTISSIMO non ci fosse.
Qualche stagione fa si era fatto un episodio molto carino sulla violenza sulle donne, che toccava diversi punti fondamentali pur restando nel terreno della comedy. Si ricordava che quello delle forze dell'ordine è un ambiente di lavoro strettamente maschile e pertanto spesso tossico, si ricordava che in un numero imbarazzante di situazioni denunciare per la vittima potrebbe essere la vera sconfitta, che gli uomini potenti spesso ne escono intoccati, e che anche gli uomini migliori (sì, come Peralta) sono ciechi di fronte alla sistematicità della misoginia. Finiva in modo un pochino paraculetto, ma era un bell'episodio.
Nella stagione 8 si cerca di guardare ancora al mondo reale, e stavolta il punto del discorso, che ormai la serie non poteva continuare ad ignorare, è stato il fatto che un giorno sì e l'altro pure una persona nera negli Stati Uniti muore per mano della polizia. Trovo che però questo sia stato trattato in modo blando, superficiale, un contentino dato alla società per dimostrare che comunque non si è nascosta la testa sotto la sabbia. Mi dispiace, non mi basta. Nella serie ci sono quattro persone non bianche: il capitano Holt e il sergente Jeffords che sono afroamericani, e Rosa Diaz e Amy Santiago che sono latine. La scelta che fa la serie, e lo riporto perché non è spoiler, è di mettere la situazione in mano a Rosa, che sceglie di dimettersi dal lavoro dei suoi sogni perché non può continuare a far parte di un corpo che uccide le persone che le somigliano (cit quasi letterale). Bene, giusto. Rosa però finisce a fare una cosa: decide di mettersi in proprio, lavorando proprio a difesa di quelle persone che della violenza della polizia ne sono vittime. Il problema è che questa storyline si vede in un episodio e basta. No raga serve altro. (Anche riguardo alla violenza sulle donne serve ben altro, sia chiaro, ma almeno quello era un bell'episodio). Si vedono accenni al fatto che la polizia copra i suoi colpevoli, che i superiori siano consapevoli del problema ma poco disposti a rivoluzionarlo, però la faccenda muore lì. E non può essere una ragione contrattuale di Stephanie Beatriz, che ritorna per tutta la stagione pur non lavorando più al 99. Peccato cavolo, con un bel cast multietnico e diverse tematiche sociali spesso affrontate si poteva fare di più.
Il 99 è una serie che ha spesso parlato delle difficoltà che Holt ha dovuto sopportare per costruirsi la sua carriera, in quanto primo uomo nero gay del suo distretto, o del coming out di Rosa. Ogni personaggio incontra nella sua storia un qualche tipo di difficoltà dovuto al suo non essere inserito in una sorta di "casella della normalità". Solo che in questa circostanza avrei voluto più partecipazioni di tutti. Un vero, vero peccato. e l'occasione sprecata di lasciar parola ad attori anche molto amati come Terry Crews che sono poc e che avrebbero potuto davvero fare qualcosa di significativo.
Per quanto riguarda il resto, è una stagione davvero deliziosa. Salutiamo personaggi tanto amati dando a ciascuno di loro un degno proseguimento, che non è una chiusura ma solo l'apertura di infinite nuove possibilità, che non si limitano alla loro vita professionale ma che includono una crescita personale, una rimessa in discussione delle priorità, un nuovo approccio alla vita.
Boyle scopre cose nuove di sé, ma soprattutto scopre di non dover dipendere da Jake pur continuando ad amarlo della più bizzarra e genuina forma di amore fraterno. Holt scopre l'equilibrio e ci dimostra come la vicinanza a persone che ci mettano a nostro agio ci ammorbidisca sempre, anche se siamo mastodontici pezzi di marmo. Amy scopre che le famiglie hanno tutte immagini e ruoli differenti, e Jake scopre che le priorità della vita cambiano crescendo, e che lasciare andare quelle vecchie non è un male. Ci si saluta con la consapevolezza che tutti ci si stia muovendo per il meglio.
È soprattutto il finale di Jake quello che mi ha commossa. Per stagioni intere lo abbiamo visto come un bambinone, e questo non era solo un aspetto negativo. Il suo restare così "giovane dentro" gli ha permesso di non sporcarsi mai con quella mascolinità tossica che così tanto permea un lavoro come quello del detective. Jake per 8 stagioni ha pianto, ha ammesso i suoi sbagli, ha fatto figuracce e poi è tornato sui suoi passi, è stato sgridato, rimesso al suo posto, ridimensionato. Non si è mai nascosto dietro a giustificazioni, però, non ha mai incolpato altri, non ha mai sminuito i suoi errori. Ha parlato con candore dei suoi traumi, delle sue mancanze, delle assenza della sua vita. Si è innamorato di una donna molto più colta di lui, più brillante, con infinite più possibilità di carriera, e la loro relazione è ritratta come una storia sana, pulita, di genuino supporto. Non è mai in soggezione rispetto ad Amy ma anzi, più lei è forte e sicura di sé più lui la guarda con ammirazione. Amy, dal canto suo, non lo prende in giro, se non molto bonariamente, per tutti i passi che deve ancora fare ma anzi festeggia con lui ogni piccola vittoria. Sono una delle coppie più belle ritratte sul piccolo schermo perché non necessitano dei gesti estremi a cui il mondo della finzione ci ha abituato. Sono una coppia normale, e funzionano. Ma soprattutto lui è Andy Samberg, e si ama a prescindere.
Mi mancheranno molto le genuine risate che mi ha fatto fare il 99. Quando guardavo The Office lo sapevo che qualcosa non quadrava, che alcune cose non avrebbero fatto bene a qualcuno, che scegliere di mettere in scena un personaggio come Micheal Scott è difficile ed è ad un passo minuscolo dal disastro, proprio perché è disastroso lui. È un equilibrio complesso. Il 99 no. È una serie più semplice se vogliamo, di quel colosso che sta nella Dunder Mifflin, ma è più pulita. Fa fare risate così di cuore che te le porti dentro, in mano a personaggi che sono così deliziosamente sopra le righe che non possono fare altro che prendersi il tuo cuore e tenerlo con sé un pochino.
Il mio di sicuro.
lunedì 27 settembre 2021
Midnight Mass
Avevo scritto su Instagram (il link per seguirmi se vi va è qui di fianco!) che mi sarei presa qualche giorno per scrivere della nuova serie di Mike Flanagan sul blog. Il punto è che l'ho finita ieri sera, e stamattina mentre passavo sulla cassa del supermercato i prodotti ignorando chiunque li avesse comprati non ho saputo pensare ad altro. Nemmeno mentre guidavo stamattina prima dell'alba con gli occhi ancora incrostati di sonno, e nemmeno al ritorno, mentre mi mangiavo un tramezzino in auto.
Voglio parlarne subito, e sapevo sarebbe stato così, inutile fingermi la persona rilassata che non sono.
La vicenda è ambientata nella piccola Crockett Island, abitanti 127. Riley vi fa ritorno dopo un periodo passato in carcere e lì ritrova la sua famiglia e la sua ex fidanzatina del liceo, Erin, ormai donna adulta e in visibile stato di gravidanza. La piccola comunità è toccata da un evento: lo storico sacerdote Monsignor Pruitt si è malato durante un viaggio spirituale e al suo posto la curia ha mandato il giovane padre Paul, carismatico, capace di prediche che rendono le sue messe esperienze nuove. Nel corso della storia faremo la conoscenza di vari abitanti dell'isola: Beverly, la perpetua, Leeza, la giovane con una disabilità motoria causata da un brutto "incidente", lo sceriffo Hassan, unico membro musulmano della comunità, Joe, l'ubriacone del villaggio, Sarah, il medico, e le loro famiglie. È una serie corale come se ne sono viste poche, perché nessuno è secondario. Ogni personaggio è guardato con sguardo così approfondito che in due episodi li sentiamo vicini come se li conoscessimo da sempre.
Quando crei qualcosa come The Haunting e poi decidi di interromperla perché hai altri progetti, la gente come me non la prende benissimo. Ripongo in Mike Flanagan la fiducia più cieca, però The Haunting of Hill House è diventata così importante per me che non ero pronta a lasciarla andare per avere qualcosa di nuovo. Bly Manor era già un modo per allontanarsene, ma manteneva lo stesso calore, la stessa impostazione. Arrivando con queste premesse alla visione di Midnight Mass sono rimasta per forza di cose quasi delusa dai primi due episodi. Il calore, la familiarità, l'immediatezza di Hill House qui non c'erano. Prometto che il post non sarà un confronto tra le due, portate pazienza con me, sto ancora riordinando i pensieri.
Laddove mi era stato sufficiente vedere i Crane per 5 minuti per cadere inesorabilmente innamorata di tutti quanti, qua la costruzione è più lenta. In una serie che dura solo (S O L O) sette episodi, prendersene due belli pieni per introdurci e farci sentire a casa sull'isoletta sono un bel lusso che il regista si è preso. A visione terminata non posso dire che siano pesati nell'economia della storia, perché da un certo punto in poi il coinvolgimento emotivo tramortisce quasi e il fluire della vicenda non arranca mai. Ovviamente, e come sempre, aveva ragione Flanagan. Servivano due episodi così, misurati e composti, perché poi Midnight Mass diventa impegnativa, e quando lui decide di metterci il carico da mille lo fa senza paura di far male a chi vi assiste.
Spero non passi il messaggio che la serie è impegnativa nel senso di respingente, noiosa, pesante. Non è così. Ha del miracoloso, per restare in tema, il modo in cui F. sia in grado di costruire qualcosa di così difficile in un universo narrativo nel quale riesce ad inserirci immediatamente come membri attivi, e di conseguenza molto partecipi di quello a cui assistiamo. Non siamo solo fruitori del mondo che ha creato, ne siamo completamente immersi. Non fare una binge di Midnight Mass è pure meglio: si sentono gli odori del mare, del pesce appena pescato e dell'incenso anche quando la tv è spenta. Segue lo spettatore per tutta la sua durata, perché è tanto immersiva l'esperienza che non ci si stacca dalla Crock Pot solo perché è finito un episodio.
E lo è così tanto, in maniera così prepotente rispetto a tutte le altre serie tv mai scritte, perché nessuno parla delle persone come lo sa fare Mike Flanagan. Questa non è una serie sugli eventi, che pure ci sono e sono parecchio intriganti (e messi in scena come Cristo comanda, per restare in tema, è la serie della maturità di F e si vede), è una serie sulle persone. Su come gli eventi toccano le persone, su come una piccola comunità si muove, respira, vive. Su come crescere lontani dal resto del mondo renda tutti uniti attraverso un filo invisibile. Riley e Erin non si vedono da anni, perché hanno entrambi per un po' lasciato l'isola. Quando si ritrovano, è tutto come prima. Romanticamente potrebbe essere anche solo perché si sono sempre amati, oppure il fatto che nessuno, a parte loro stessi, può comprendere cosa significhi lasciare un posto come quello, che diventa parte della tua identità, e poi tornarvi, diversi ma sempre uguali.
Facciamo una parentesina di cavoli miei come al solito? Ma facciamola.
Io sono atea da tanti anni, ma ho frequentato l'ambiente della parrocchia del mio paese a lungo. Non l'ho solo frequentato, sono stata un membro attivo della parrocchia, ho fatto catechismo anche DOPO la Cresima, ho mangiato pizze a casa di preti, ho cantato in cori e pulito teatri luridi dopo spettacoli del Grest. La cultura cattolica fa parte del mio vissuto, con l'aggravante che oggi è una delle cose che mi spaventa di più al mondo. L'estetica cristiana è spaventosa, la Bibbia presa alla lettera un macabro libro dell'orrore, le croci mi inquietano, la fede mi allarma. Però una cosa è vera, e va riconosciuta: per chi ce l'ha davvero, la fede è una lente sul mondo che può dare consolazione vera, e io per quella cosa qua provo sincera invidia. Midnight Mass fa il più importante racconto della fede che ho mai visto in tv, quello più sincero.
Tutti i personaggi hanno un rapporto con la Chiesa: chi, come Riley, ha un rapporto finito; chi come Erin, ha una relazione che sta ricominciando; chi, come Bev, ne ha fatto il solo senso della vita o chi, come Hassan, è riuscito a mantenere un rapporto sano con la propria spiritualità. La Chiesa, nella persona di Monsignor Pruitt prima e di padre Paul poi, è il centro di ogni dinamica relazionale, è la routine, è Casa. In mezzo alle situazione disperate che tutti si trovano ad affrontare, economiche, psicologiche, di salute fisica, la piccola chiesetta di Saint Patrick sta lì, ad accogliere. A dare speranza. A ricordarci che se ci comportiamo bene ci aspetterà la felicità eterna, che non dobbiamo avere paura di nulla perché le nostre spalle sono sempre coperte da un essere superiore e che ci ama e ci protegge sempre, e che se anche la paura ce l'abbiamo dobbiamo abbracciarla, accoglierla, perché ci sono date solo difficoltà che siamo in grado di affrontare e che pertanto ne usciremo sempre vincitori. Erin aveva bisogno di questo, quando è tornata, di calore e senso di appartenenza. Per un periodo, poi, quando perde che le aveva dato calore da dentro di sè, smette di frequentarla. Bev, donna atroce e spaventosa, è ritratta in realtà come una persona profondamente sola, che ha cercato nella Chiesa e in Dio i soli compagni di una vita disperata che lei maschera come perfettamente realizzata. Si sente eletta, benedetta, illuminata da una luce divina che la rende migliore degli altri, quando in realtà è una miserabile, una donna che non ha saputo costruire nulla per se stessa e che nel ruolo che si è costruita e imposta ci si è infilata dentro, al sicuro da tutto il resto del mondo. Si è ritagliata uno spazio in cui sentirsi sicura, migliore, per legittimare se stessa nel suo sentirsi superiore a chiunque altro.
Non è un caso che loro due siano tra le poche che la Chiesa continuavano a frequentarla anche nei momenti di minor affluenza. Loro e Leeza, ma di lei parliamo poi. Il resto della popolazione torna a sedere tra i banchi di S.Patrick quando avviene un miracolo. Neppure questo stupisce: se la Chiesa può questo, allora tutti sentono di avere diritto a qualcosa di buono. Il luogo sacro ritorna luogo di speranza, di preghiera. Perché siamo tutti così, ci sentiamo tutti legittimati a chiedere qualcosa in cambio delle belle persone che siamo. Flanagan lo sa, ma non ci giudica. Ci mette in mostra, ci racconta, ma sempre senza uno sguardo giudicante. Perché lo sa che siamo stati tutti imbrogliati da secoli di propaganda cattolica, in cui il bene esisteva solo in quanto frutto di ricompensa certa, in cui ci veniva fatto credere di essere Amati da Lui, e che questo ci rendesse speciali e, quindi, intoccabili. Non è un caso neppure che uno dei personaggi, nel tentativo di ferire Bev, le dica che Dio ama lei tanto quanto ama gli ubriaconi e gli assassini. Perché tanta e tale è stata l'influenza dell'uomo in quello che stava nelle Scritture che pure il più basilare concetto cristiano, l'uguaglianza tra le persone, l'amore verso il prossimo, è oggi una lontana utopia, e Bev questo aspetto lo incarna alla perfezione. È crudele verso gli uomini e gli animali (non mi stancherò mai di gridare il tw per quanto riguarda la violenza sugli animali, occhio che fa malissimo), è razzista, misogina, invadente, snervante. Riesce ad essere al tempo stesso un perfetto riassunto di tutto quello che la Chiesa non vuole e anche quello che la Chiesa, in effetti, è. E la si detesta, sia chiaro, la stronza mangia particole (cit. la mia amica Silvia). La si detesta perché siamo umani funzionanti ed empatici, ma Flanagan riesce comunque a regalarle quella patina di atroce solitudine, di tristezza, di dolore, che riescono ad emergere anche nella seconda metà della serie, in cui si palesa in modo ancora più prepotente come la persona squilibrata che è. E soprattutto nel suo infelice finale, dove si vede quanto niente con lei funzioni, quanto niente ormai potrebbe cambiarla più, neppure il peggiore degli scenari possibili. Lei, da tutto quello che accade, non ha imparato niente. Vuota era, e vuota è rimasta, riempita solo dell'aria gonfia che è la religione.
Alla fine di tutto la serie parla di disperazione. Ogni personaggio ha sensi di colpa, dolori passati e presenti, vuoti, fragilità. E tutti si riversano lì, nel luogo in cui avvengono i miracoli, perché se c'è spazio di redenzione per gli altri allora ci deve essere anche per me. Riley ha pagato il suo conto con la società ma è ben lontano dal saldare quello verso se stesso, ed in mano all'interpretazione di Zach Gilford (che amo da quando era Matt di Friday Night Lights) ci regala un personaggio con gli occhi spenti, incupiti da quello che ha fatto e da quello che gli capita nella serie. Con lui, una Kate Siegel che ha finalmente il ruolo da protagonista che merita. Qui è una Erin eccezionale: intensa, con gli occhi giganti spalancati prima di tutto dentro se stessa, perché capace di analisi e conoscenza di sè invidiabili. I due si parlano, discutono di massimi sistemi sul divano di casa, scardinando le proprie certezze sulla vita e il suo senso, sulla morte e il suo significato. Ci sarebbero trattati interi da scrivere, sui dialoghi e sui monologhi di questa serie magistrale. Perché è una serie in cui si parla tantissimo, in cui non si fa altro che discutere delle cose. Si parla, si litiga, si chiarisce, si predica, in cui prova a parlare anche chi non è abituato a farlo, come il padre di Riley. Parla Leeza, quando si sente nella posizione migliore per farlo, nella scena più atroce della serie, il confronto con l'uomo che l'ha resa paralizzata dalla vita in giù, Joe Collie. Lei parla, parla, parla, vomita addosso all'uomo tutto l'odio e il rancore che non era riuscita a elaborare prima, in una capacità di autoanalisi sconvolgente, lasciando il pover'uomo in condizioni pietose. Ho provato così tanto dolore, per Joe Collie, in questa serie, che ho dovuto interrompere un paio di volte la visione, per andare a prendere una boccata d'aria fresca e ricordarmi che era solo finzione. Il ruolo è interpretato da Robert Longstreet, e meritava una menzione perché mi ha cavato il cuore. Un uomo incapace di mettere in parole i suoi pensieri, che può solo piangere disperatamente mentre una ragazzina gli vomita addosso tutto l'odio di cui è capace, che soffre ancora di più quando viene perdonato. Un uomo senza gli strumenti emotivi per perdonarsi da solo, incapace di fare altro se non scusarsi ripetutamente, soffocato, inascoltato. Un uomo che inizia a parlare solo quando trova un altro disperato come se stesso, un altro annientato dalle proprie scelte, un altro che deve convivere con le conseguenze delle proprie decisioni. Personaggi come Joe Collie parlano alla mia storia personale e non posso prescindere da questa consapevolezza quando mi rendo conto che sono quelli per cui soffro di più. F., però, li ritrae in maniera così complessa, così autentica, che è impossibile non trovare qualcosa di sé e del proprio trascorso in uomini come lui, con i quali il mondo ha fallito, verso i quali la società è colpevole.
Midnight Mass finisce nell'unico modo possibile, e non era scontato. Poteva avere un finale più tradizionale, poteva riavvicinarsi a certi aspetti dell'horror più canonico, poteva farci sognare con una dolce storia d'amore, poteva dare redenzione. Sceglie di non farlo, di toglierci le certezze da sotto i piedi, di privarci del sollievo. Sceglie di parlare di sacrificio, che non è più nel senso cattolico ma solo genuino amore per chi si intende salvare, parla di chi sceglie di restare insieme fino alla fine, in un ultimo momento di comunione spirituale. Nel mezzo, tra quell'inizio modesto e il suo finale in fiamme, la serie riesce a fare uno straordinario ritratto dell'umanità, delle sue fragilità, dei suoi meccanismi di protezione. Parla di adolescenti in modo affettuoso, di scienza e religione, di appartenenza, di perdita, di razzismo, parla di relazioni lunghe anni fatte di piccoli momenti di candore, parla di convivere con quello che si è, di quanto accettare quello che la vita ci pone di fronte sia un concetto sopravvalutato, di quanto siamo sempre parte di qualcosa di più grande.
Se dare a questa frase un significato religioso, o cosmico, o pessimista, sta a noi.
sabato 18 settembre 2021
Sex Education - stagione 3
L'abbiamo aspettata tanto, e come accade sempre in questi casi, me la sono bruciata troppo in fretta.
Signori, parliamo della terza stagione di Sex Education.
La serie parla di un gruppo di adolescenti alle prese con la scoperta della propria sessualità e della vita adulta. In questa stagione li vediamo affrontare alcune novità, una su tutte una nuova preside a scuola, Hope, rigida, bigotta e che introduce una serie di nuove regole volte a rovinare la vita dei nostri giovani preferiti.
La serie si conferma, proprio come l'avremmo previsto, il prodotto delizioso e fresco che era stato per le prime due stagioni, in grado di toccare temi giganti, di estrema attualità, in grado di mettere il focus nei punti giusti, con il dialogo giusto e i personaggi giusti.
Ora, pare scontato dover fare una premessa. In un mondo ideale i disabili non sono solo disabili, le persone della comunità LGBTQ+ non sono solo tali, le persone nere non sono solo la pelle, la diversità è una caratteristica del mondo punto e basta. Lo so io, lo sapete voi, lo sanno bene gli autori della serie. Però siamo in un mondo in cui Barbara Palombelli può dire in tv che è giusto chiedersi se le donne ammazzate avessero esasperato i loro compagni, capite bene che una serie tv come questa non è solo importante, è fondamentale.
Rappresentazione
Parliamo di questo, quindi, per primo.
Sex Ed è una serie che parla di tutti, a tutti, per tutti. Ci sono sono persone di ogni orientamento, identità, abilità, origini. E non per tutti la loro "diversità" fa parte della storyline. Per qualcuno sì, perché una serie che parla di adolescenti non può lasciare fuori l'elemento della scoperta di sé, ma non è mai la sola cosa che accade. Isaac, il personaggio con una disabilità, è un personaggio facilmente detestabile, arrogante, irrispettoso, che odiamo anche perché siamo dei 15enni che vorrebbero Otis e Maeve insieme. Poi è anche una persona che per muoversi ha bisogno della sedia a rotelle, ma il come e il perché gli sia necessaria non sono rilevanti, e pertanto (se non mi sbaglio) non escono mai nel discorso. Cal, il personaggio non binary, non ha una storia di scoperta di sè, arriva ed è già a posto con sé. Certo, col tempo avrà bisogno di realizzare che il suo percorso con la propria persona non è ancora finito, e questo impedirà lo sviluppo di certe relazioni, ma è corretto anche questo, perché parliamo di un* diciassettenne. Non sarebbe complet* nemmeno se fosse una persona cis. Cal è doppiamente interessante perché non è attivist*, non alza la voce per la sua comunità, non si mette nemmeno in gioco, non vuole nemmeno litigare un pochino. Non c'è bisogno che ogni singola persona appartenente ad una comunità lo sia, e Cal non vuole. Vuole divertirsi, farsi tante canne, fare le gare di corsa, godersela. Accetta di mettersi in gioco un po' di più solo quando la situazione si aggrava al punto da compromettere il suo benessere, ma quello non è più attivismo, è sopravvivenza.
Viv, la head girl della scuola, è nera. Il suo essere nera è assolutamente rilevante nella sua vicenda, quindi viene trattato di conseguenza. La sua storia in particolare è molto bella perché a noi spettatori grandicelli è chiaro che il suo ruolo ruffiano e che appare detestabile sia invece solo il frutto di una grande necessità: Viv è una persona che deve combattere più degli altri per avere accesso ad un'istruzione di un certo livello, e deve scendere a compromessi. Lo sa, lo ammette, e le persone in torno a lei devono accettarlo, anche se a volte è difficile.
Violenza
Nella scorsa stagione la tenerissima Aimee è stata vittima di una molestia. La serie, che è intelligente, non se ne è dimenticata, e il tema ritorna, perché la violenza si porta appresso delle conseguenze che durano nel tempo. Aimee, nota in tutta la scuola per la sua passione per il sesso, non riesce più a farsi toccare dal suo ragazzo.
Quello che le è successo è stato così d'impatto da cambiare profondamente la sua persona, al punto che, come le dice chiaramente Jean durante una sessione della terapia a cui Aimee accetta di sottoporsi, potrebbe non tornare mai più quella di un tempo. Posto che nel cambiamento non c'è nulla di negativo, quello che attraversa Aimee è particolarmente interessante da vedere perché passa in primo luogo dalla conoscenza di sé. Se prima la sua sessualità era libera e spensierata, ora quello che le importa è di conoscersi, amarsi, riconoscersi come individuo anche senza la componente sessuale che prima la caratterizzava. Conoscere il suo corpo di donna, le sue caratteristiche, e le sue diversità la arricchisce, la rende più matura, e anche se questo non cancellerà mai quello che le è successo di sicuro le aprirà molte porte. Non vedo l'ora di vederla nella prossima stagione, le voglio bene come se fosse una sorellina minore e mangerei volentieri uno dei suoi cupcake con le vulve.
Genitori e vita adulta
Jean in questa stagione è strepitosa. Parliamo di una donna di 48 anni che resta involontariamente incinta e che deve portarsi a casa le conseguenze di una gravidanza inaspettata. Una su tutte la violenza ostetrica: in una scena agghiacciante le viene ripetuto, evidenziato, sottolineato fino allo sfinimento che forse una gravidanza a quell'età ce la potevamo anche risparmiare. Quando osa alzare la voce per protestare viene fatta passare per una Karen qualunque che vuole parlare con il tuo manager. Per fortuna il suo è un personaggio fortissimo, pieno di determinazione e consapevolezza (perché lei sì, quel percorso che Aimee sta ancora facendo l'ha già fatto), che si mette in costante discussione.
Adoro che sia rappresentata finalmente una donna che non ha alcuna voglia di una famiglia tradizionale. Ama suo figlio, è una madre presente e anche spesso opprimente, ma non ha bisogno di un uomo con cui condividere la routine. Sta bene sola, con i suoi spazi e i suoi tempi, non ama la condivisione, non accetta i compromessi. L'ipotesi della famiglia tradizionale la spaventa, non la attrae. E finalmente.
Ma soprattutto, è di Ruby che vorrei parlare. Ruby, la Regina George della serie, in questa stagione è me da piccola e quindi me la porto nel cuore con tutto l'istinto di protezione di cui sono capace. Sfrontata, arrogante, ha costruito un'immagine di sè a protezione di quell'aspetto della propria vita che non può cambiare: la famiglia. Arriva da un contesto che la fa vergognare, e mostrare quello per lei è la forma massima di esposizione. Quando la più grande fragilità che hai arriva dall'ambiente che dovrebbe essere quello di forza, tu lo proteggi nei modi che puoi, spesso creandoti un'immagine che non ti rappresenti, proprio per tenere tutto lontano da lì. Perché tu sei e vuoi essere altro. La mia, di immagine, è crollata crescendo, ma Ruby è più tosta di me. L'ho adorata in questa stagione, lei e il suo strampalato papà.
Altrettanto interessante è il racconto che si fa del rapporto di Maeve con i soldi. Non sono una bella cosa, ne girano molto pochi, ma non si può chiedere aiuto. Anzi, lo si considera offensivo. Questa serie andrebbe mostrata nelle scuole proprio perché insegna come trattare il diverso anche quando il diverso è la bellissima brillante Maeve. Non si dà aiuto non richiesto, non si interviene per altri, non ci si intromette: le persone povere hanno una loro dignità, una capacità decisionale, una testa propria. Grazie dell'aiuto, ci pensiamo da soli. Anche perché quello che la serie fa è mostrare quante palate in faccia si prendano da chi l'aiuto lo deve, ovvero la società, qui nella figura della preside. Lo dice con autorevolezza, Maeve, si impone, si arrabbia, si incaponisce, e accetta aiuto solo quando è pronta ad aprirsi ad esso, non prima e non dopo. Questo è sacrosanto e non se ne parla mai abbastanza: l'aiuto non richiesto è carità, e quella non fa bene a nessuno.
Io voglio a Sex Education un bene grande, perché non è inclusiva, si include solo se si pensa di avere l'autorità di "introdurre" qualcuno in un mondo che si percepisce come proprio: Sex Ed è di tutt*, per tutt*.
martedì 6 luglio 2021
Ho finalmente guardato la reunion di Friends
Io lo so che nel 2021 Friends è una serie molto meno amata di quanto fosse fino a qualche anno fa. Di sicuro io non sono più la persona che qualche anno fa si è guardata tutte e dieci le stagioni in poche settimane, e di sicuro le mie opinioni si sono fatte più consapevoli.
Nonostante infatti sappia che la sitcom più famosa del mondo ha dei difetti sopra i quali oggi difficilmente passeremmo, io le voglio un bene dell'anima e gliene voglio così tanto perché mi ci sono identificata in ogni istante. Nel periodo in cui l'ho guardata per intero la prima volta uscivo tre volte la settimana con la mia compagnia, la mia famiglia per scelta. Quello che vedevo sullo schermo lo raccontavo poi la sera alla mia Monica, al mio Joey, alla mia Phoebe. Persone che sono nella mia vita da quando ho nemmeno 15 anni, che mi hanno vista crescere e che ho visto diventare adulti. Ho visto adolescenti prepuberali diventare adulti con la barba, ho visto ragazze timide con il cuore d'oro costruirsi con le unghie e i denti la carriera dei propri sogni. E li ho visti diventare le persone che sono oggi nello stesso bar di sempre, che ci serve sempre lo stesso aperitivo da quando eravamo minorenni e il prosecco in teoria non ce lo potevano dare, figuriamoci il negroni. Quel rapporto lì, così familiare, così intimo, così chiuso a chiunque fosse "esterno", lo conosco alla perfezione. E proprio quei miei rapporti lì hanno avuto la naturale evoluzione che hanno avuto quelli nella serie: si cresce, ci si accasa, qualcuno si trasferisce, qualcuno si sposa, qualcuno si allontana...
Eppure il solito prosecco al solito barettino di paese ogni tanto lo si prende ancora, e quando siamo sempre lì siamo sempre noi. Friends ha parlato di me e degli amori della mia vita come nessuna serie aveva fatto prima, e io questo lo adorerò per sempre, anche quando riconosco che sta serie l'intersezionalità che oggi per me è così importante non sa manco dove stia di casa, che abbia dei limiti e che sia un frutto della sua epoca.
Quindi, con questa premessa che suona un po' come una giustificazione, pare chiaro che io la reunion la dovessi vedere. Mi sono presa il mio tempo, ma oggi eccoci qua a parlarne.
La notizia dell'episodio speciale aveva lasciato i fan tra il perplesso e il felice come una Pasqua. Io pure non è che me la sia vissuta con troppa partecipazione, devo ammettere. Eppure, una volta emerso che non si sarebbe trattato di un episodio classico ma più di una chiacchierata per amore dei vecchi tempi, ho iniziato a cedere all'entusiasmo. Questo per una semplice ragione caratteriale: io ho nostalgia anche delle cose che non ho mai vissuto, sono malinconica di costituzione, e queste operazioni con me funzionano sempre. E infatti, lo dico subito così chi non è troppo interessato può fermarsi qua, a me la reunion è piaciuta, ma con delle riserve.
Quando finisco una serie tv che ho tanto amato mi ritrovo (come immagino molti altri) a passare le ore su Youtube a guardare interviste, bloopers, backstage, ogni cosa che possa tenermi in compagnia ancora un po' di personaggi che non sono pronta a lasciare. Finisco puntualmente sul video che ritrae l'ultimo giorno di riprese (c'è sempre un video dell'ultimo giorno di riprese) e a quel punto mi si deve raccogliere con una spugna perché piango fino a sciogliermi. Pensare che non si vedranno più, che non lavoreranno più insieme, la fine di un'epoca...mi commuovono, che ci devo fare. Quindi questa reunion è proprio stata pensata su misura per farmi fare il piantino. Non importa se è un meccanismo di una faciloneria imbarazzante, a me è bastato rivederli sul set per sentirmi di nuovo "a casa".
L'episodio è una bella passeggiata sul viale dei ricordi, nella quale emerge chiaramente che oggi proseguire con la serie non avrebbe avuto alcun senso. Li abbiamo salutati quando è stato giusto farlo, quando non ci sarebbe stato altro da raccontare. Invece è stato bello parlare con gli attori non solo dei momenti divertenti sul set, dei ricordi da simpatico dietro le quinte, ma anche accennare a cosa possa avere significato per loro e le loro vite partecipare a qualcosa di così globalmente dirompente come è stato Friends. Avrei voluto che quel segmento fosse più lungo, sono state dette cose interessanti che avrei avuto piacere a sentire un po' più a lungo sulla portata popolare della serie, sul boom di notorietà. Piacevoli anche i momenti nei quali si è parlato dei casting, della scrittura, della produzione: una serie non è solo i suoi protagonisti, sebbene a finire sulla copertina di Rolling Stones siano stati solo loro. Eppure, e qui arriviamo alla nota dolente dell'episodio: questi spazi piacevolissimi, che avrebbero così meritato di ricevere più attenzioni, sono stati brutalmente tagliati con l'accetta in favore di momenti assolutamente evitabili come la partecipazione di guest star assolutamente irrilevanti nella serie. Carini i mariachi di Ross a Rachel? Ma sì, però se hai lì Tom Selick non puoi lasciare più spazio a lui? Oppure, lungi da me voler dire anche solo una cosa negativa su quella meraviglia di Lady Gaga che amo sempre di amore appassionato, ma il suo segmento è stato solo una perdita di tempo. Così come la sfilata degli abiti più iconici. Quest'ultimo nel dettaglio è una cosa che avrei gradito moltissimo, se la reunion fosse stata una stagione intera. Ma in un singolo episodio? Mi ha ricordato lo straziante musical di Kurt nella spregevole nuova stagione di Una mamma per amica. Inutile e perditempo. Queste persone hanno lavorato insieme per dieci anni, di cose da dire ce ne sarebbero state milioni, certamente più stimolanti di vedere Justin Bieber con una brutta postura e il costume da armadillo di Ross.
La vera cosa che ho sofferto, però, è stata la quasi totale assenza di Matthew Perry. Chandler non è solo il mio personaggio preferito: è me sullo schermo. Non che io sia una persona simpatica, anzi. Però sono hopeless, and awkward and desperate for love, proprio come lui in una delle sue scene più famose, e dio solo sa se nel suo costante prendersi per il culo io non ci abbia visto mille volte me stessa. Nel suo rifiuto delle cose difficili, nel suo cancellare tutto quello che non va, nel suo usare la presa in giro per palesare affetto, ci sono sempre stata un pochino anche io. Perry ha avuto durante le riprese della serie il periodo più infelice della sua vita, e non sorprende che la sua partecipazione alla reunion sia stata così marginale. Io, però, da semplice spettatrice, ne ho sofferto un pochino, e il fatto che lui attribuisse la responsabilità del suo essere un po' perso ad un intervento subito poco prima non è di gran consolazione. Per me una reunion di Friends in cui c'è così poco di Chandler è una reunion a metà. Umanamente mi dispiace molto, con ogni probabilità si sarebbe tagliato una gamba piuttosto che essere lì e io di sicuro non lo biasimo, ma da semplice spettatrice avrei desiderato altro.
Ripensandoci a mente fresca direi che la reunion era stata pensata in un modo piacevole: ripercorrere quello che è stato e come è stato, parlare della produzione, ridere insieme di cose passate. Sulla carta poteva essere magnifico per chi alla serie vuole molto bene, ma ha per me superato un pochino la linea del paraculismo, nello specifico nelle scene delle interviste ai fan. Io credo nel potere delle storie, ho da dieci anni un blog in cui parlo di quanto ami le storie, e lo so che alcune di queste ti danno gli strumenti per imparare a gestire meglio quello che succede quando spegni lo schermo o chiudi il libro. Lo so bene. Eppure sentir dire che Friends ha aiutato una persona che voleva togliersi la vita è una cosa che fatico a mettere nella giusta prospettiva. Forse ho solo la fortuna di non sapere cosa significhi soffrire di una patologia come la depressione, e in tal caso mi scuso se questa opinione risulta offensiva o ignorante. Veder spiattellato così, in mezzo a Jennifer Aniston che piange per i ricordi e Matt LeBlanc che legge il proprio "Ho cagato qui" sui pannelli del set, però, mi sembra solo un modo per dire: "Visto come siamo stati bravi? Madonna che roba proprio buona, proprio gente di buon cuore siamo", che non solo non è mai un sentimento genuino ma che soprattutto è un sentimento che fa bene solo a se stessi. Un antipatico autocompiacimento assolutamente non necessario. Vent'anni dopo la gente ancora parla di Friends, nel bene e nel male, questo tono non serve.
Mi rendo conto che alla fine questo post suoni molto negativo, ma giuro che nonostante queste cose a me è piaciuto vederli tornare sul set, risedersi sui divani e le poltrone, rimettersi i vestiti, ripetere le battute. Non avrei voluto un episodio in cui Monica e Chandler mettono in punizione i gemelli, o uno in cui Phoebe e Mike pagano il rogito. Mi è sembrata la scelta migliore, anche se non sviluppata al meglio possibile.
Ma soprattutto, la sola e unica critica che conta: perché non c'era Paul Rudd?