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venerdì 13 ottobre 2023

La caduta della casa degli Usher - NO SPOILER

19:07
 Sono giorni che nelle storie di Instagram dico che per digerire Flanagan mi serve tempo, che non posso parlarne subito perché devo elaborare per bene, ma se siete mai passati da queste parti sapete bene che mi contraddico in continuazione, e quindi eccoci qua. 
Dopo qualche ora spesa a pensare agli Usher e alla fine della loro dinastia ho deciso di provare lo stesso a scrivere qualcosa a caldo. Per una riflessione più strutturata e magari anche full spoiler potrei fare una live la settimana prossima su Twitch, sempre compatibilmente col periodo infelice.
Vediamo se esce qualcosa di sensato.




Nel suo ultimo lavoro per Netflix, Mike Flanagan ha deciso di trarre ispirazione dai racconti di Edgar Allan Poe. Il livello di ispirazione è lo stesso delle serie precedenti, ovvero piuttosto vago. Dal racconto che dà il titolo alla serie prende la famiglia protagonista, ovviamente, gli Usher. Questi, di Usher, sono magnati dell'industria farmaceutica, vessati da un avvocato - Dupin, chi altro? -  che da anni prova ad incastrarli perché il loro prodotto di punta ha effetti collaterali molto più gravi di quelli dichiarati. Quando i membri della famiglia cominciano a cadere come foglie d'autunno il patriarca, Roderick,  decide di confessare a Dupin le sue colpe, in un lungo racconto che spiega perché degli Usher non sia rimasto più nessuno.

Non so quanto sia appropriato giudicare un prodotto in relazione agli altri del suo showrunner, ma penso che in casi come quello di Flanagan sia un po' inevitabile. Tutto il suo lavoro è una lunga disamina sugli stessi temi e temo che per forza di cose qui mi ritroverò a fare diversi paragoni.
Per la prima volta il regista decide di parlare di una famiglia molto ricca. Non che abbia mai davvero parlato di povertà, le famiglie precedenti sono quasi sempre state borghesi, ma è la prima volta in cui si cimenta con un discorso di classe, e questo cambia le carte in tavola perché prende le tematiche a lui molto care (lutto, famiglia, rapporto tra fratelli, l'abuso di sostanze) ma per forza di cose le affronta in un modo diverso, perché cambiano le posizioni di partenza.
Nelle storie precedenti ci ha abituato ad amori immisurabili: Hugo, il padre dei Crain, ha perso i figli per quasi tutta la vita per proteggere l'immenso amore che avevano per la madre, in Bly Manor Henry priva i bambini della sua presenza affinché mantengano un ricordo pulito dei loro genitori, e così padre Pruitt mente sulla sua identità per la figlia. Sono tutti ritratti genitoriali costruiti su una concezione straordinariamente generosa dell'amore, che vede l'amante annullare se stesso per proteggere l'amato. La vita di figli tanto amati cambia e li rende le persone che sono proprio perché benedetti da un sentimento così altruista, nel bene e nel male. Tutto l'immenso amore che ha messo nelle prime tre serie, ma che è presente anche in alcuni dei film, qui viene messo da parte. 
Gli Usher sono troppo potenti per volersi davvero bene. Tolte di mezzo le madri - frequente in Flanagan, sono i papà il centro del discorso - rimane un uomo milionario con sei figli che non ha idea di cosa fare di loro. Raggiunta un'età consona li omaggia di un'importante soglia di denaro - condizionale, però, perché viene elargita solo se c'è una buona idea di business in cui andrà investita - e limita la relazione allo stretto indispensabile. Può permettersi di farlo perché nessuno dei figli reclama la sua presenza, almeno non direttamente. Questi figli avuti in giro per il mondo con molte madri diverse sono arrivati a lui in virtù della vita agiata che lui poteva offrire e non hanno chiesto altro. Lui ha chiesto loro di tenere bene il nome della famiglia, con investimenti sensati e senza troppe scelleratezze. Un rapporto basato sullo scambio economico di cui tutti hanno beneficiato fino a che, uno dopo l'altro, i figli hanno iniziato a morire.
Roderick, dal canto suo, non aveva altro da offrire, e si sono bastati. Quando è giunto per lui il momento della confessione a Dupin, non è stato un momento doloroso per salutare i figli, ma solo l'unica chiusura possibile ad un disastro annunciato. Aveva creato delle condizioni tali per cui la storia non poteva che finire così, e ha agito di conseguenza. Questa non è la storia di Hugo Crain, in cui un personaggio pieno di disperazione ci fa fare un viaggio che lo renderà l'eroe. Queste sono persone che non si vogliono bene perché nemmeno si conoscono. Condividono il sangue ma alcuni nemmeno condividono il nome, condividono sporadicamente dello spazio senza che tra di loro scorra alcuna parola buona. Roderick coltiva questo clima ostile, ponendo i figli uno contro l'altro come in una partita a scacchi in cui il solo vincitore possibile fosse sempre e solo il patrimonio. 
Annullata questa componente, che nei lavori precedenti era fondamentale, quindi, cosa resta? Resta un discorso sociale di straordinaria importanza, perché se non è l'amore che ti guida, cosa può essere? In questi otto episodi prova a dimostrarci che la sola risposta possibile dovrebbe essere la morale, ma che non esiste morale in chi ha troppo potere per mettersi in relazione all'altro. La caduta della casa degli Usher diventa un dialogo sull'etica personale, su quali valori ti guidano quando non hai una guida.
Privati della radice principale, quella famigliare, i figli di Roderick sono smarriti. Sono persone di immenso successo, con uno sconvolgente potere tra le mani, ma quando vengono messi di fronte alla possibilità di fare la scelta giusta non sanno nemmeno da che parte cominciare e prendono la sola strada possibile: quella egoista. Ogni episodio vede un personaggio messo di fronte alla possibilità di essere una persona migliore, e nel momento in cui si capisce che queste persone sono senza speranza si ha già la risposta. E infatti che siano tutti morti non è uno spoiler, è l'inizio della serie.
La loro posizione li ha privati del contatto con l'umanità, anche il più semplice, e sono diventati mostruosi. Inconsapevolmente, mostruosi, perché per otto episodi non vedremo mai la minima traccia di pentimento. La società, che loro comandano come fossimo in un teatro di marionette, non ha posto per loro, così lontani da non riuscire nemmeno a metterla a fuoco davvero.   Questo si riflette molto nelle vite sentimentali dei figli, nessuno dei quali ha una relazione equilibrata. Gli Usher, nelle loro relazioni, sono sempre in una posizione di comando: chi si fa gli assistenti, chi ordina al marito cosa fare della propria vita sessuale, chi tratta a pesci in faccia il fidanzato solo perché può. 
La domanda principale che si pone è che cosa dà valore alla nostra esistenza. Se è chiaro quale sia la risposta dei personaggi, e nello specifico di Madeline, la sorella di Roderick, è allo spettatore che si rivolge. Loro hanno avuto tutto, ma non hanno lasciato nulla. La legacy della persona che si è stati come si valuta? Quali sono gli elementi di te che resteranno nel mondo dopo che te ne sarai andato? E se non resta niente di buono, qual è il senso di stare qui? Una volta che tu avrai avuto una vita straordinaria, fatta di successi e lussi ma senza nessuno che dopo ti te ne faccia qualcosa, ha comunque avuto senso?
Gli Usher hanno le idee chiare, e subiscono le conseguenze di quello che ritengono essere il senso del loro posto nel mondo, ma tu, spettatore? 
Non intendo certo dire che fa della facile morale: è chiaro che i soldi non sono tutto e che la ricchezza vera risiede in altro, ma Flanagan non è così superficiale, e va oltre. Sei più rilevante tu, che hai cambiato il mondo, o la persona inferiore vicina a te, che ha fatto cose più piccole? Perché in realtà gli Usher, da un certo punto di vista, non escono sconfitti: sono tutti morti dopo vite vissute al massimo. 
Non è il senso della vita, quello che rimette in discussione, è quello della morte. L'andarsene che cosa significa? Che cosa comporta? Apre o chiude qualche possibilità? Valiamo di più per quello che facciamo quando ci siamo o quando ce ne andiamo?
Gli Usher hanno messo sulle proprie teste una sentenza, ma essendo pieni di potere hanno avuto il lusso di dimenticarsene, e quindi agire come se non si morisse mai. Roderick e Madeline, che portano sulle spalle il peso di milioni di morti causate dal loro farmaco, hanno il privilegio della memoria corta. Eppure la loro morte non porta giustizia, e in questa mancata catarsi sta la differenza con alcuni dei lavori precedenti: se in Hill House la famiglia Crain trova una chiusura e trova nella verità il modo per sopravvivere ad un grande dolore, gli Usher sono talmente lontani dal vivere comune che nemmeno ne hanno bisogno, tanto è vero che muoiono tutti facendo quello che li ha identificati in vita: qualcuno si droga, qualcuno annulla se stess3 (censura per non spoilerare), qualcun3 muore facendo il lavoro che l3 appassionava. Anche la piccola nota positiva che ci regala l'unica nella famiglia che non ha la rogna, non serve a bilanciare il male fatto da loro, perché non è investita nello stesso settore ma finisce su strade diverse, e forse è giusto così, proprio per mantenere quel tono privo di speranza.
Gli Usher di tutto il mondo non pagano per quello che fanno, non rimettono in discussione il valore della loro presenza sul pianeta ma anzi cercano in chi gli è inferiore elementi per continuare a legittimare le proprie nefandezze. Flanagan lo sa, e non li tutela mai. Li mette di fronte all'orrore delle loro esistenze lasciando che ad indignarsi sia solo lo spettatore ferito, toccato da un senso di giustizia che loro non avranno mai. 

È una serie più cattiva, che centellina l'immenso cuore del suo creatore perché quando si parla di stronzi non gli puoi dire stupidini, devi dimostrare tutti i modi in cui sono stronzi, tutti i modi in cui non potrebbero essere altro che stronzi, tutte le maniere in cui la vita ha insegnato loro solo ad essere stronzi. Lo grida con tanta intensità che alla fine, ovviamente, lo spettatore con un po' di sentimenti soffre per loro, vittime dello stesso sistema di cui hanno così a fondo goduto. Poiché comunque quel cuore lì lui ce l'ha, ci mette tante ore per farti vedere che tutto quell'amore lì negato, che la serie ha tenuto chiuso fuori, era la sola cosa che serviva a tutti, e che nessuno è stato in grado di elargirla, prima ancora che di trovarla.
Stupido Flanagan, mi fa piangere anche per i miliardari. 

lunedì 27 marzo 2023

Ho guardato un po' di serie tv

12:39
 In questi giorni in cui la sorte mi ha concesso un po' più tempo libero del consueto ho avuto la possibilità di recuperare molte più serie tv del solito. Preferisco sempre i film alla serialità, ma mi serve compagnia quando cucino, o quando sono troppo stanca per un film intero, quindi ho raccolto un po' di visioni di cui mi fa piacere parlare insieme.
Pronti? Temo sarà un post fiume.




Lo scorso mese mi sono dedicata ad un rewatch di The Big Bang Theory, che avevo cominciato all'epoca della sua uscita e mai concluso. È uno di quei prodotti che le persone della mia Vita Vera© amano molto mentre la mia bolla del web detesta appassionatamente. Io, con una diplomazia che non mi appartiene, in questo caso mi colloco nel mezzo. Non mi diverte quanto diverte altri, mi fa decisamente ridere meno, principalmente perché ho passato metà del tempo incazzata. I quattro subumani di genere maschile che sono protagonisti sono ripugnanti, al limite della violenza nei confronti delle loro compagne, viscidi insicuri con tanto bisogno di buona terapia. Le ragazze, però, sono quelle che mi hanno fatto restare. Penny non si sottovaluta mai, se non quando le fanno notare la sua supposta inferiorità intellettiva, è deliziosamente autoironica e la sua crescita non la rende più simile ai suoi amici ma solo più sicura di sè. Certo, il suo finale è dolceamaro, visto che le accade qualcosa che non desiderava e viene fatto passare come segno di "maturazione", ma sono disposta ad accettarlo visto che nel momento finale viene riconosciuto il suo contributo significativo in anni di amicizia. Bernadette è priva di etica, concentrata sul lavoro e la carriera, che non ha paura di imporsi. Amy, la mia preferita, è molto significativa: ha un ruolo di rilievo nello STEM, e non dimentica di incoraggiare le giovani donne nel suo discorso finale, ma soprattutto è quella che più di tutte beneficia dell'amicizia femminile, che la tira fuori dal suo guscio imposto da anni vissuti con una madre complessa, che la rende libera di essere se stessa, che la accetta anche quando è difficile comprenderla. Amy brama amicizia femminile e quando la trova la sua vita ha un'impennata in positivo che la sua relazione sentimentale non le darà mai.
Sto con questo insinuando che TBBT sia una serie femminista? Assolutamente no, e ho anche il sospetto che alcune delle cose positive siano quasi involontarie. Amy Farrah Fowler, sono qui solo per te. 




Mi vesto come una diciassettenne che ascolta solo pop punk ma potete giurarci che Next in Fashion lo guardo appena esce. Ho capito col tempo che mi appassionano le persone che hanno grande talento e pertanto i reality talent mi divertono parecchio. Mi piace vedere gente che ha evidentemente una mente superiore e che dal nulla riesce a creare qualcosa, in questo caso vestiti. La seconda stagione ha cambiato la co-host, Gigi Hadid ha preso il posto di Alexa Chung e sebbene preferissi la prima devo dire che la modella non se l'è cavata male. I concorrenti erano magnifici, e ho parecchio faticato a trovare un preferito anche se la vittoria mi ha reso piuttosto soddisfatta. 




Ho finalmente recuperato la tanto chiacchierata The Bear, e ho capito perché ha fatto così tanto parlare di sé. Mai avrei pensato di finire così coinvolta dalle sorti di un piccolo e piuttosto marcio diner di Chicago, eppure l'effetto Jeremy White ha colpito anche me. Se l'effettiva sopravvivenza del locale è un punto di grande coinvolgimento, è agli umani che ci lavorano dentro che si rivolge tutto l'affetto di chi la serie l'ha messa in piedi. Sono persone che in modi differenti si trovano a dover affrontare un lutto importante e che non sanno come comunicarsi che tutti vogliono la stessa cosa. Ci sono menti forgiate dalla propria storia personale che sono così diverse da cozzare costantemente ma che devono imparare a convivere perché hanno un obiettivo in comune e lo stesso peso sul cuore. Ogni piccolo gesto, quindi, nella frenesia della vita della ristorazione, diventa fondamentale per passarsi messaggi. Un grembiule di un colore diverso, un colpo sparato per aria per spaventare, una rissa tra gang placata con dei panini, la ricetta perfetta per il donut migliore possibile. Non si comunica a parole, ci si siede vicini a fumare insieme per mandare in fumo i pensieri sgradevoli e si torna a comunicare lavorando insieme.
Un piccolo gioiello di cui non vedo l'ora di vedere il seguito.




L'ho guardata principalmente per l'amore della mia vita Ewan McGregor? Ovviamente.
So che tutti i grandi amanti di Star Wars hanno quasi detestato Obi-Wan Kenobi, però io no. Era forse una storia che avrebbe potuto essere un film? Credo di sì, con i giusti tagli avrebbe potuto essere una storia carina e accattivante. Hanno deciso di farne un prodotto seriale probabilmente ancora scottati dai fallimenti di cose come Solo (che a me aveva anche divertito, ma si sa che sono di bocca buona), e il risultato è molto diluito. Ho amato pazzamente la piccola Leia, cavallina imbizzarrita e senza paura, e ho amato Obi-Wan, per quel mio consueto debole per i personaggi tormentati, avrei solo voluto vederli più "concentrati". Però non credo affatto sia la delusione che tanti hanno descritto.




Tra le cose guardate come spegni-cervello c'è stata la seconda stagione di Dinner Club, la serie di Prime nella quale Cracco porta in giro per l'Italia alcune personalità dello spettacolo per conoscere le specialità locali per poi cucinarle insieme per gli altri partecipanti. Cracco mi sta simpatico come un attacco di cervicale, ma in ogni stagione ci sono persone che sia a me che al Moderatore piacciono, e quindi tutto sommato abbiamo tollerato il cuoco. Se nella prima stagione c'era il nostro venerato Mastandrea a portare sulle spalle il peso del programma intero, in questa Giallini e Zingaretti ci hanno dato discrete soddisfazioni. C'è da dire che la vera scoperta però è stata Sabrina Ferilli, presente in entrambe le stagioni. Con ogni probabilità abbiamo scoperto l'acqua calda, ma l'attrice è matta come un cavallo, sboccata e spontanea ed è diventata la nostra preferita. 
A parte questo, lo sguardo divertito con cui il cuoco guarda e si rivolge ad alcune delle persone che incontrano sul loro percorso è di violenta superiorità (ha bene da fare il piacione, ma si vede eccome), ai limiti del perculo, e questo è imperdonabile. Che se ne vada affanculo nei suoi locali di lusso e non vada a disturbare la gente reale che fa il suo lavoro.




Avevamo guardato le prime stagioni di LOL perché i meme su Twitter erano sinceramente bellissimi. La prima stagione in effetti era stata piacevolissima, complici buoni nomi coinvolti e la - almeno parziale - spontaneità della prima volta. La seconda stagione aveva avuto dalla sua un cast pure migliore, e infatti non ci aveva deluso. Questa terza sinceramente fiacca, noiosa, di un cringe quasi senza precedenti. Sono riusciti a far sembrare piatta Marina Massironi e questo è ai limiti del penale. Un vero flop.




Avevo letto il romanzo di recente e non ho resistito al richiamo della serie tv che è appena arrivata su Prime. L'ho trovata un lavoro ottimo. Atmosfera, costumi, musica, interpreti: è tutto davvero bellissimo. Le canzoni scritte per la serie sono magnifiche, i concerti sono una meraviglia, il modo in cui si parla dei media e della loro influenza è importante. Sceglie persino di dedicare un po' più di attenzione ad  un personaggio nero e queer che nel libro era trascurato. Si respira l'aria del tour musicale del tempo, si mette a fuoco la pericolosità di una vita vissuta sul filo del rasoio, si mostra la complessità delle relazioni e non si fa un ritratto edulcorato dell'amore, ma anzi si evidenzia come anche le storie più belle hanno momenti orrendi e difficili. Ci sono personaggi spezzati da vite complesse, da famiglie sbagliate, da amori malsani che fanno il male di tutti i coinvolti. Le sue tre protagoniste femminili sono così carismatiche che da oggi vorrei solo essere il cosplay di tutte e tre, con i loro capelli stupendi e i loro vestiti magnifici.
Eppure si arriva al finale, che decide deliberatamente di buttare tutto nel water e tirare lo sciacquone. In 9 episodi si è costruita la storia di Billy affinché capisse quale strada prendere, quale vita scegliere, quale persona essere, per poi, negli ultimi minuti, liberarsi di tutto quanto. Se quello che accade è perfettamente nelle corde del personaggio di Camila, è del tutto sbagliato per quello di Billy, che tossico era nel primo episodio e tossico si è rivelato fino alla fine, e di certo non faccio riferimento al suo abuso di sostanze stupefacenti. Che immenso peccato, che spreco di ottimo materiale, che brutto.




Mi sono consolata ricominciando la mia serie teen preferita: Veronica Mars. La storia della giovane investigatrice privata del liceo di Neptune ci aveva conquistato tutti, nei primi anni 2000, perché tutti volevamo essere lei: cool, sicura di sé, senza morale ma con un forte senso di giustizia che le fa aiutare chiunque, forte e bellissima. Veronica aveva conoscenza nei luoghi malfamati della città, amici tra i criminali locali e persone potenti in debito con lei. Eppure era l'outsider, quella esclusa e che il resto della scuola prendeva in giro, cosa che la rendeva ben più simile a noi comuni mortali.
In tutto questo appeal della sua protagonista, la storia funzionava, e oggi lo posso dire col distacco del tempo, perché si trattava di gialli ben costruiti, di mistery in cui non si temeva di mettere nulla in discussione. Le famiglie, l'autorità locale ma non solo, i ricchissimi 09ers, l'intero sistema giudiziario statunitense: tutto è potenzialmente sbagliato se ci si mette in mezzo una ragazzina che non ha nulla da perdere. Veronica, guardata con gli occhi di un'adulta (sob) è una pazza incosciente, incapace di imporsi limiti ragionevoli, incapace di comunicare realmente con chi la circonda se non vi è costretta, confusa ed emotivamente caotica: è un'adolescente come tutti gli altri, e per questo la amiamo tanto e l'abbiamo tanto amata quando avevamo la sua età. Era quello che eravamo, ma al tempo stesso molto più figa di quanto saremmo mai stati. Le voglio molto bene e sono felice sia arrivata su Prime, per tornare a Neptune a giocare alla detective insieme a lei.
Dalla comodità del mio divano, però, che io incosciente così non lo sono mai stata.


lunedì 10 ottobre 2022

The Midnight Club

16:51
 Qualche giorno fa ho chiesto su Instagram se fosse meglio parlare della nuova serie di Mike Flanagan, arrivata il 7 ottobre su Netflix, per iscritto, qui sul blog, oppure in live il prossimo mercoledì, il 12 ottobre. Ha vinto la terza opzione, quella di discuterne in entrambe le sedi, quindi eccoci qui. Se vi interessasse partecipare anche alla live il link è qui di fianco, nel banner. 
Ho deciso che qui faremo una chiacchierata più emotiva, sulle sensazioni a caldo che la serie mi ha lasciato, mentre in live cercherò di arrivare più preparata per una chiacchierata più strutturata. Un altra differenza sarà nella presenza di spoiler: questo post non ne avrà, la live sì.

Questa distinzione fa sì che io in questa sede mi permetta di iniziare la chiacchierata con una piccola parte di fatti miei, che per forza di cose influenzano quelle sensazioni a caldo di cui sopra. 
Il cancro fa parte della mia vita da quasi due anni. È entrato nella mia famiglia con calma, quasi come se lo stessimo aspettando. È uno di quei tumori causati dalla vita, dagli errori di chi oggi se lo porta appresso, ed è quasi come se l'avessimo visto arrivare. Adesso è qua e pare non abbia intenzione di terminare il suo soggiorno a breve, il che per forza mi ha reso una spettatrice di The Midnight Club particolarmente provata. 
È stata una visione impegnativa, ma del resto Flanagan semplice non lo è mai.




La serie, tratta da un romanzo omonimo di Christopher Pike, racconta di un gruppo di ragazzi colpiti da diverse malattie, tutte allo stadio terminale. Per avere un fine vita il più confortevole possibile vivono in un hospice, dedicato agli adolescenti e gestito dalla dottoressa Stanton. Ogni notte, a mezzanotte, si svegliano e si radunano in una sala, con il vino - o la camomilla - e un camino acceso a scaldarli, per raccontarsi delle storie. Lo chiamano il Midnight Club.

Everybody likes a great story.


Già da quel poco scritto su, avrete riconosciuto il primo grande tema del Nostro: la morte. È dai tempi di Absentia che vediamo Flanagan parlare in modi diversi dell'assenza di chi amiamo. La morte è stata un elemento fondamentale di quello che ha fatto finora, ma in questo caso fa un cambiamento radicale: sposta il focus. Se finora abbiamo l'abbiamo visto parlare del fine vita dal punto di vista di chi sopravvive, adesso rivolta completamente la faccenda, per dare tutta l'attenzione a chi sta morendo. 
È molto più facile - da spettatori - confrontarsi con questa visione della morte, perché è quella che conosciamo. In un modo o nell'altro abbiamo incontrato questo aspetto dell'esistenza. Molti meno di noi, invece, sono stati messi di fronte al fatto che la propria vita stesse finendo. Se finora il suo parlare di morte ci ha aiutato a convivere con i nostri lutti, quelli della vita reale, questa volta ci ha messo di fronte a qualcosa che la maggior parte di noi, quella fortunata, non conosce se non per vie traverse.
Lo ha fatto spostando la morte un po' più in là, ma dichiarandola subito. Apre la serie dicendoci nei primi minuti che la protagonista non sopravviverà, e come lei nessuna delle persone che la circonderanno nel corso degli episodi. 
Sebbene la morte sia l'unico elemento comune di tutte le esistenze, tendiamo a mettere da parte il pensiero che ci sia perché possiamo permettercelo. È costante, ma distante. Ai protagonisti di Midnight Club questa distanza non è concessa, e immediatamente il pensiero che potrebbe avvenire da un momento all'altro cambia l'aria che si respira nella serie. L'atmosfera è cupa e pesante perché si respira la morte. È una cappa che sta sospesa sulle loro vite. È per via della morte che stanno tutti lì, è per via della morte che questa famiglia stupenda e scassata e affettuosa è nata. 
Quando la morte è un po' più vicina il pensiero non si cancella mai. Sta lì, come un avvoltoio che ti osserva da lontano mentre prosegui nella tua quotidianità. E loro, dell'avvoltoio che li guarda, non ne parlano quasi mai.
I ragazzi stanno insieme tutto il tempo che hanno a disposizione, perché ne hanno poco e se lo divorano tutto. Si presentano con i nomi delle loro malattie "Ciao, cancro alla tiroide.", "Ciao, leucemia." ma poi riprendono a parlare delle cose degli adolescenti normali: le ragazze, le relazioni, la playstation. Ma un momento di tregua, Flanagan, di reale alleggerimento, questa volta non ce lo concede mai. Se abbiamo avuto momenti, nelle serie precedenti, di distaccamento dal dolore, in questo caso non c'è pietà.
Nell'hospice ci sono tutto il giorno. Se escono per fare esperienze da giovani sani, queste saranno sporcate dal rapporto della società con la malattia. Se cercano relazioni, saranno influenzate dalla malattia. Se trovano una comunità che somiglia loro, non se la potranno godere, per via della malattia. Ci sono momenti di sollievo, di sorrisi (risate mai), di miglioramento, ma tutti sono insozzati dalle diagnosi. 
Nella mia esperienza, è davvero così. Stai bene, pensi ad altro, crei buoni ricordi. Alla sera, però, quando fai un bilancio di come sta andando, niente va mai bene davvero.
Non che io possa davvero identificarmi, perché qui Flanagan fa qualcosa di fondamentale: non solo sposta il focus ma elimina del tutto chi circonda i malati. Non è di loro che gli importa parlare. Questi giovani hanno delle famiglie, alcune molto belle e altre molto problematiche, ma non si parla quasi mai di loro in relazione alla malattia, o al fatto che i propri ragazzi stanno morendo. C'è una scena molto significativa in questo senso, quella della famiglia di Kevin per intederci con chi abbia visto la serie, che resta su questo tema, ma è quasi l'unica. Anche in quella, però, non è di Kevin come individuo che si parla, ma solo della sua eredità sul fratellino minore (perché sapete che MF ha pure una fissa per i fratelli). Lui non conta. Il padre affidatario di Ilonka non vuole affrontare il tema, per lui è troppo. I genitori di Cheri non si ricordano manco di avere una figlia. La madre di Spencer ha un problema con l'omosessualità del figlio, ma del fatto che lui stia morendo non ne parla. Anya è sola. 

I ragazzi, quindi, sono mollati a se stessi. Il supporto della dottoressa Stanton non è quello di cui hanno bisogno. Poiché stanno per mancare, è di raccontarsi che hanno bisogno, e lo fanno con le loro storie. Chiusi in una stanza, lontano dalla Vita Vera, quella che scorre di giorno senza che nemmeno ce ne rendiamo conto, hanno bisogno di esplorarsi, perché sono proprio in quell'età in cui stanno diventando persone complete e indipendenti, e poiché non è previsto per loro un futuro pieno di tempo in cui conoscersi, lo fanno di notte. Danno nomi inventati a personaggi di cui hanno bisogno per darsi un volto e guardarsi da fuori, per descriversi agli altri cercando di mantenere la giusta distanza per "vedersi" meglio. In un momento in cui il loro corpo li sta tradendo, la loro mente ha ancora bisogno di costruire, elaborare. Alcuni di loro hanno un passato difficile con cui devono fare i conti, e lo lasciano sulle spalle dei loro personaggi, perché il loro carico sia meno pesante. Altri hanno bisogno di perdonarsi. Altri ancora non sono in grado di guardarsi con lucidità, e sono attanagliati dai sensi di colpa. 
Sono ragazzini pieni di vita interiore, pieni di cose da dirsi, con le gole riempiti delle parole che non avranno tempo di dire. E quindi giocano, esplorano, si spaventano e si consolano. Usano le storie come la più suprema delle cure palliative, anche se finisce sempre che piangono tutti quanti. Ogni tanto si fischiano se la storia non funziona.
Quello che sta accadendo loro è troppo, e quindi lo si affida a qualcun altro, ad un alter ego di finzione, che il cancro non ce l'ha per davvero. Aprono se stessi ai loro amici come spesso gli adulti non sono in grado di fare, concedono al piccolo pubblico i propri pensieri più intimi, mascherati da favola della buonanotte. Si fanno paura, si coccolano, si intrattengono.
Sperano.

Gli otto protagonisti sono in stadi differenti dell'accettazione della malattia. Sono persone diverse che, in quanto tali, affrontano quello che gli sta accadendo in modo diverso, eppure non si giudicano mai. Ilonka non ci può convivere, con questo pensiero, Anya nasconde un dolore grande quanto il mondo intero dietro ad un muro di ostilità e diti medi. Spencer ha un carico così impegnativo sulle spalle, che non deriva solo dalla malattia ma da tutta la sua storia, che il fatto di essere malato è quasi secondario. Cheri è sola, sola, sola. Circondata di oggetti, ma con così tanto gelo intorno da doversi costruire delle storie anche di giorno, per sopravvivere alla straziante solitudine di una ragazzina che sta male e non ha nessuno con cui piangere per la propria condizione. Kevin è l'adulto del gruppo: è sereno, convive pacificamente con quello che gli succede, sorride a tutti con un candore commovente e tutta la sua tranquillità cerca di donarla a chi lo circonda, perché è uno splendore di essere umano. Natsuki, invece, è clinicamente depressa, eppure è quella che parla dall'interfono alle amiche in isolamento, per non farle sentire sole. Sandra ha il suo Dio, la sua fede, ad aiutarla a gestire questo cammino.
Sono diversi, sono capitati insieme per caso o per destino se ci credete, eppure nessuno guarda agli altri con sdegno, invidia, giudizio, malizia. Sono così aperti a comprendersi, ad abbracciare l'uno il modo dell'altro di sopravvivere, giorno per giorno, all'esatto opposto di sopravvivenza. Quando ci sono screzi, perché sono pur sempre 8 adolescenti chiusi a vivere insieme nella stessa casa, sono presto risolti. Si vogliono troppo bene perché qualcosa li allontani davvero.
Quando qualcuno inizia a mancare, e non è spoiler perché è pur sempre un hospice, non si lasciano andare a gesti estremi nel manifestare il proprio dolore - cosa che comunque non avrebbero giudicato - ma cercano l'uno nell'altro il supporto necessario per continuare a vivere, un altro po'.

Flanagan ha così a cuore questi ragazzi e le loro tristi storie, che ce le racconta con la stessa cura che hanno loro nel raccontare se stessi. Non c'è niente di sorprendente, in questo: che fosse un narratore di sorprendente eleganza lo sapevamo già. Che fosse in grado di toccare l'anima di chi assiste alle sue opere lo avevamo già sperimentato. In questo caso abbatte ogni muro. Non solo non c'è niente di male a piangere, ma bisogna farlo. Bisogna soffrire e buttarle fuori, quelle cose brutte che abitano nella mente e nel cuore quando stiamo male, perché non c'è niente di valoroso nel soffrire in silenzio. Chi ha il cancro (come anche tutte le altre malattie di cui la serie parla) non è un guerriero. Non serve, come lo fa chiamare dalla Stanton, il linguaggio da guerra. Non c'è valore nel tenersi dentro la sofferenza, non c'è debolezza nel dire, a chi lo si desidera, che si sta male. 
La vita non può e non deve essere una battaglia, e non deve esserlo nemmeno la morte.

Ogni volta di più Flanagan mi insegna come devo fare, per deporre le armi. Ho parlato a lungo della malattia di mio papà con una persona della mia vita che a sua volta l'ha conosciuta da vicino, e che si è sempre spesa in parole splendide nei miei confronti, complimentandosi per la mia forza. 
Mike, però, lo sa bene che non sono forte per niente. Che Anya è più forte quando si lascia andare, Ilonka quando accetta, Kevin quando lascia andare il senso di colpa, Cherie quando esce dalla stanza.
Io, che da tanti anni tengo il fucile sempre sottobraccio, ci devo lavorare ancora un po'.

martedì 15 marzo 2022

The Marvelous Mrs Maisel - stagione 4

14:54

 Questa settimana avrei avuto mille cose da fare, lavatrici da stendere e lenzuola da sistemare, ma soprattutto live da preparare e podcast per cui studiare, ma venerdì scorso sono uscite le due puntate finali di una delle migliori serie degli ultimi anni e non avrei potuto rimandare oltre.


Sapete cosa fanno le persone serie? Guardano un prodotto, ne leggono in giro, studiano, si informano, si prendono il tempo di prepararsi per bene per giungere al momento di parlarne preparati e con le opinioni ben formate. E poi ci sono io, che ho chiuso Prime da 5 minuti e sono già qua con Blogger aperto per salutare Midge, per la penultima volta.

La serie avrà ancora una stagione, e poi ci toccherà salutarla per sempre.




In questa quarta volta in cui ci incontriamo, Midge e Susy devono convivere con il fatto che Shy Baldwin le ha piantate in aeroporto, e che il tour europeo in cui le aveva coinvolte è saltato. Convivono con l'evento come possono, leccandosi le ferite e ripartendo da quello che possono. Midge diventa comica fissa in uno strip club e Susy cerca di far crescere il proprio lavoro come manager cercando nuovi talenti.


Questa stagione, quindi, trae le sue fondamenta da un elemento che nella serie non è mai mancato ma che qui la fa da padrone: il fallimento. Midge ha sbagliato, ha rischiato di fare outing ad una persona omosessuale che non aveva alcuna intenzione di rivelare i fatti propri al mondo, ha tradito un amico, ha fatto un errore che le sta facendo perdere tutto. 

Con la coda tra le gambe, ferita ed umiliata, torna al suo quartiere. Deve affrontare il momento in cui dovrà confrontarsi con la sua famiglia, che non avendo mai creduto nelle sue reali possibilità di carriera rischia di trovare in questo episodio una conferma dei propri timori, deve leggere articoli che la ridicolizzano, che speculano su quanto accaduto, e finisce per conservarli, come a ricordo perpetuo, deve adeguarsi ad un lavoro che potenzialmente rovinerebbe la sua immagine. 

Non solo: sbaglia a continuare ad esporre la sua famiglia, sbaglia a dare a Lenny Bruce quello che lui non vuole, sbaglia a fidarsi di Sophie Lennon. È una donna di straordinario talento, ma non ne azzecca una, ed è un ritratto che desideravo vedere da tempo. Stimola la creatività come per me nessun altra serie ha fatto prima, ma non lesina mai nel mostrare cosa succede quando si investe in un lavoro del genere: si sbaglia, e ogni sbaglio è pagato caramente.


Susy, dal canto suo, in queste circostanze eccelle. Non si concede mai un momento di sconforto perché così chiaro è il suo obiettivo che nulla è un vero fallimento, solo un intoppo lungo la strada da sistemare. Susy è magnetica, non solo perché il suo carattere totalmente incurante delle opinioni del prossimo la rende una manager francamente perfetta, ma anche e soprattutto perché non si smarrisce mai. Non perde di vista il suo obiettivo, perché sa quello che le serve, e quello che le serve è tenere la calma, anche nella frenesia che la circonda costantemente. Forse fa errori di valutazione, forse deve correre alla ricerca di modi per tirare se stessa e i suoi clienti dai casini, ma vederla crescere così radicalmente in questa stagione è così rinfrescante che la mette davvero al centro della scena. Sempre da sola, senza chiedere nulla a nessuno. Quando si appoggia ad altri è solo per terzi o per circostanze che riguardano più persone, mai per se stessa o per la sua carriera. A quello ci pensa da sola.

Midge è il fascino, è la donna che spesso se la cava perché il suo essere bellissima (pretty privilege?) le concede tempo e spazio, ma è solo lavorando con Susy che ottiene i risultati. Quello che rende Midge il personaggio irresistibile che è, però, naturalmente non è il bel faccino: è il suo costante rivendicarsi. Vuole esibirsi in uno strip club, perché in quel momento, dopo la batosta che ha preso, ha bisogno di uno spazio di libertà assoluta, in cui non sentirsi giudicata, in cui esprimersi come la persona sboccata che è, e fa quello che le riesce meglio: lo trasforma in un regno femminile. Non accetta più che la sua voce venga zittita, non vuole scendere a compromessi, non accetta che a lei non vengano concesse cose che agli uomini vengono concesse continuamente.

Midge però non è esente da giudizi: aveva sbagliato con Shy, sbaglia in questa stagione con Susy dando per scontata una sessualità che non la riguarda, sbaglia quando è incredula perché la figlia di un senatore lavora allo strip club. Puntualmente, però, incontra persone che la rimettono al proprio posto, che se ne fregano delle sue buone intenzioni e la riprendono quando si comporta male. E lei a questo punto si scusa, si rimette in discussione, si prende in giro. Si intrufola in un matrimonio a cui è stata invitata con scopi poco puliti solo per scusarsi, e sfrutta l'occasione per fare il minimo che può per rimediare. 


L'errore che ha commesso con Shy ha dato un nuovo corso alla sua vita e alla sua carriera, e la sola cosa che Midge aveva da portare con sé in questo nuovo percorso era la sua personalità: l'ha usata per rendere il club un luogo accessibile per le signore, l'ha usata per aiutare Joel quando ne ha avuto bisogno, per supportare la sua famiglia in difficoltà, per continuare a costruirsi la strada che è certa la stia aspettando.

E vedere una donna così, che si muove per i corridoi degli edifici con le sue scarpe scomode e la voce troppo alta, che impartisce ordini senza aver paura che le venga risposto di no, che qualcuno la sostituisca, che qualcuno si prenda gioco di lei: Miriam Maisel crede in se stessa sempre di più, è consapevole del proprio talento sfacciato, del proprio potere, della propria influenza. Sono felice di vederla sullo schermo, perché mi insegna quello che dovrei essere. 

Proprio io, che non credo in me stessa nemmeno quando faccio la lavatrice perché metti caso che ho sbagliato il lavaggio e ho fatto un bordello, che mi lancio in mille progetti aspettandomi sempre che sfracellino al suolo in un paio di mesi, guardo lei e imparo, e osservo ammirata cosa si ottiene quando la determinazione è la sola cosa che si ha. Ma soprattutto, la vedo sfruttare le sue fragilità e renderle arte. Midge usa la sua complicata e caotica vita per trarne i suoi spettacoli migliori. E lo so che è il più banale dei concetti relativi all'arte e alla sua composizione, usare i dolori e le tragedie per farne qualcosa di buono, ma è vederlo applicato alla commedia che mi fa così sognare. I suoi spettacoli in questa stagione sono più amari, più cinici, e per questo, forse per la prima volta nella serie, il suo pubblico è sempre femminile, anche fuori dallo strip club. Si esibisce per le donne, e nel farlo sa che non possiamo ridere e basta, perché ci sono troppe cose che non vanno. E allora ridiamone pure, intanto che ci asciughiamo quel paio di lacrime che ci ha fatto versare. 

Non può che essere così, perché per quanto sia detestabile rimarcarlo, Midge non è solo una comica, è una comica donna, negli anni '60, in cui ci si aspettava che mollasse il lavoro per correre al capezzale dell'ex suocero, in cui avere dei bambini era una limitazione, in cui andare a letto con un uomo sposato rendeva te la cattiva, in cui puoi pure fare i tuoi spettacolini sul palco, ma se per favore non dici fuck è meglio. Non si può concepire che facesse solo ironia, doveva essere dolceamara e funziona sempre in maniera strepitosa. 


Ognuna delle donne di questa stagione è forzata ad affrontare elementi di difficoltà dovuti al proprio genere: Susy deve chiedere alla sorella di prostituirsi, Mei deve capire come gestire una gravidanza e gli studi di medicina, Rose e Imogene devono vivere in un mondo in cui la solidarietà femminile non è contemplata e devono combattere con la loro concorrenza, la giornalista che parla male di Midge è costretta a cavalcare il successo dato dal distruggere un'altra donna, perché era così che si campava in un mondo di maschi. 


In questo periodo in cui la mia emotività è traballante, Mrs Maisel è stata la consueta boccata d'aria fresca, che mostra in un modo brillante e genuinamente divertente che se sei una donna non avrai mai niente di semplice. Che avrai bisogno di lavorare il doppio, che alcune circostanze ti richiederanno di avere bisogno di un supporto maschile, che ci viene richiesto un equilibrio che agli uomini non è necessario, nonostante quello che le dice Lenny Bruce sul finale. 

Però mostra anche che quella determinazione lì ti salva la vita, che avere il coraggio di essere sempre indiscriminatamente se stesse, senza paura di essere troppo, di prendersi troppo spazio, di dare fastidio, è il solo modo di sopravvivere, di essere corrette verso noi stesse, di diventare quello che si desidera. 

Ed è esattamente il messaggio di cui avevo un gran bisogno. 

mercoledì 3 novembre 2021

Il mio saluto a Brooklyn99

08:57

 Dico costantemente che non mi piace ridere poi finisce che tutti i post sulle serie tv sono sulle comedy. Portate pazienza con me, mi contraddico costantemente.

Il punto è che è finito Brooklyn99 e devo parlarne per restare ancora un po' in compagnia di personaggi che ho tanto amato.


foto scelta solo per la presenza di Cheddar


Il 99 è un distretto di polizia di New York. La serie cominciava con l'arrivo del nuovo capitano, Raymond Holt, un uomo coltissimo ma, per così dire, più algido di Nicole Kidman ai suoi tempi d'oro. Tutta la variegata squadra ha dovuto adattarsi a questo nuovo leader e nel corso di 8 stagioni li abbiamo visti diventare non solo colleghi, non solo amici, ma famiglia, la classica delle storie di "famiglia per scelta" che tanto mi piacciono.

Sì, è una serie sulle guardie, e sì, è una serie sulle guardie che a me piace. È incredibile, ma è così, voglio così tanto bene a questi sbirri che ogni tanto mi dimentico di che lavoro facciano. 


Questa povera serie è stata cancellata, poi recuperata, poi cancellata di nuovo. Ogni anno con il 99 poteva essere l'ultimo e ce lo siamo goduto come tale. Solo che poi l'ultimo anno è arrivato davvero e adesso col cavolo che sono pronta. Non posso concepire gli anni a venire senza nuovi momenti di Jake Peralta, il mio uomo preferito di ogni serie tv di ogni tempo, e temo mi ritroverò a riguardarlo più spesso di quanto non sia pronta ad ammettere. 

In questa ultima stagione si fanno inevitabilmente le cose che ci aspettavamo: non mancano gli episodi ricorrenti come quello dell'Heist, quello di Doug Judy, quello con la famiglia Boyle...ritornano personaggi del passato per farci un saluto, come naturalmente Gina Linetti (non mi stancherò maimaimai di dirlo, questa scoppiata di Chelsea Peretti è la moglie di Jordan Peele, che ridere!) e Adrian Pimento, e come al solito si cerca di tenere uno sguardo aperto sull'attualità. E qui, temo, arriviamo alla parte problematica, che vorrei TANTISSIMO non ci fosse.


Qualche stagione fa si era fatto un episodio molto carino sulla violenza sulle donne, che toccava diversi punti fondamentali pur restando nel terreno della comedy. Si ricordava che quello delle forze dell'ordine è un ambiente di lavoro strettamente maschile e pertanto spesso tossico, si ricordava che in un numero imbarazzante di situazioni denunciare per la vittima potrebbe essere la vera sconfitta, che gli uomini potenti spesso ne escono intoccati, e che anche gli uomini migliori (sì, come Peralta) sono ciechi di fronte alla sistematicità della misoginia. Finiva in modo un pochino paraculetto, ma era un bell'episodio.

Nella stagione 8 si cerca di guardare ancora al mondo reale, e stavolta il punto del discorso, che ormai la serie non poteva continuare ad ignorare, è stato il fatto che un giorno sì e l'altro pure una persona nera negli Stati Uniti muore per mano della polizia. Trovo che però questo sia stato trattato in modo blando, superficiale, un contentino dato alla società per dimostrare che comunque non si è nascosta la testa sotto la sabbia. Mi dispiace, non mi basta. Nella serie ci sono quattro persone non bianche: il capitano Holt e il sergente Jeffords che sono afroamericani, e Rosa Diaz e Amy Santiago che sono latine. La scelta che fa la serie, e lo riporto perché non è spoiler, è di mettere la situazione in mano a Rosa, che sceglie di dimettersi dal lavoro dei suoi sogni perché non può continuare a far parte di un corpo che uccide le persone che le somigliano (cit quasi letterale). Bene, giusto. Rosa però finisce a fare una cosa: decide di mettersi in proprio, lavorando proprio a difesa di quelle persone che della violenza della polizia ne sono vittime. Il problema è che questa storyline si vede in un episodio e basta. No raga serve altro. (Anche riguardo alla violenza sulle donne serve ben altro, sia chiaro, ma almeno quello era un bell'episodio). Si vedono accenni al fatto che la polizia copra i suoi colpevoli, che i superiori siano consapevoli del problema ma poco disposti a rivoluzionarlo, però la faccenda muore lì. E non può essere una ragione contrattuale di Stephanie Beatriz, che ritorna per tutta la stagione pur non lavorando più al 99. Peccato cavolo, con un bel cast multietnico e diverse tematiche sociali spesso affrontate si poteva fare di più.

Il 99 è una serie che ha spesso parlato delle difficoltà che Holt ha dovuto sopportare per costruirsi la sua carriera, in quanto primo uomo nero gay del suo distretto, o del coming out di Rosa. Ogni personaggio incontra nella sua storia un qualche tipo di difficoltà dovuto al suo non essere inserito in una sorta di "casella della normalità". Solo che in questa circostanza avrei voluto più partecipazioni di tutti. Un vero, vero peccato. e l'occasione sprecata di lasciar parola ad attori anche molto amati come Terry Crews che sono poc e che avrebbero potuto davvero fare qualcosa di significativo.


Per quanto riguarda il resto, è una stagione davvero deliziosa. Salutiamo personaggi tanto amati dando a ciascuno di loro un degno proseguimento, che non è una chiusura ma solo l'apertura di infinite nuove possibilità, che non si limitano alla loro vita professionale ma che includono una crescita personale, una rimessa in discussione delle priorità, un nuovo approccio alla vita.

Boyle scopre cose nuove di sé, ma soprattutto scopre di non dover dipendere da Jake pur continuando ad amarlo della più bizzarra e genuina forma di amore fraterno. Holt scopre l'equilibrio e ci dimostra come la vicinanza a persone che ci mettano a nostro agio ci ammorbidisca sempre, anche se siamo mastodontici pezzi di marmo. Amy scopre che le famiglie hanno tutte immagini e ruoli differenti, e Jake scopre che le priorità della vita cambiano crescendo, e che lasciare andare quelle vecchie non è un male. Ci si saluta con la consapevolezza che tutti ci si stia muovendo per il meglio. 


È soprattutto il finale di Jake quello che mi ha commossa. Per stagioni intere lo abbiamo visto come un bambinone, e questo non era solo un aspetto negativo. Il suo restare così "giovane dentro" gli ha permesso di non sporcarsi mai con quella mascolinità tossica che così tanto permea un lavoro come quello del detective. Jake per 8 stagioni ha pianto, ha ammesso i suoi sbagli, ha fatto figuracce e poi è tornato sui suoi passi, è stato sgridato, rimesso al suo posto, ridimensionato. Non si è mai nascosto dietro a giustificazioni, però, non ha mai incolpato altri, non ha mai sminuito i suoi errori. Ha parlato con candore dei suoi traumi, delle sue mancanze, delle assenza della sua vita. Si è innamorato di una donna molto più colta di lui, più brillante, con infinite più possibilità di carriera, e la loro relazione è ritratta come una storia sana, pulita, di genuino supporto. Non è mai in soggezione rispetto ad Amy ma anzi, più lei è forte e sicura di sé più lui la guarda con ammirazione. Amy, dal canto suo, non lo prende in giro, se non molto bonariamente, per tutti i passi che deve ancora fare ma anzi festeggia con lui ogni piccola vittoria. Sono una delle coppie più belle ritratte sul piccolo schermo perché non necessitano dei gesti estremi a cui il mondo della finzione ci ha abituato. Sono una coppia normale, e funzionano. Ma soprattutto lui è Andy Samberg, e si ama a prescindere.


Mi mancheranno molto le genuine risate che mi ha fatto fare il 99. Quando guardavo The Office lo sapevo che qualcosa non quadrava, che alcune cose non avrebbero fatto bene a qualcuno, che scegliere di mettere in scena un personaggio come Micheal Scott è difficile ed è ad un passo minuscolo dal disastro, proprio perché è disastroso lui. È un equilibrio complesso. Il 99 no. È una serie più semplice se vogliamo, di quel colosso che sta nella Dunder Mifflin, ma è più pulita. Fa fare risate così di cuore che te le porti dentro, in mano a personaggi che sono così deliziosamente sopra le righe che non possono fare altro che prendersi il tuo cuore e tenerlo con sé un pochino. 

Il mio di sicuro.

lunedì 27 settembre 2021

Midnight Mass

16:59

 Avevo scritto su Instagram (il link per seguirmi se vi va è qui di fianco!) che mi sarei presa qualche giorno per scrivere della nuova serie di Mike Flanagan sul blog. Il punto è che l'ho finita ieri sera, e stamattina mentre passavo sulla cassa del supermercato i prodotti ignorando chiunque li avesse comprati non ho saputo pensare ad altro. Nemmeno mentre guidavo stamattina prima dell'alba con gli occhi ancora incrostati di sonno, e nemmeno al ritorno, mentre mi mangiavo un tramezzino in auto. 

Voglio parlarne subito, e sapevo sarebbe stato così, inutile fingermi la persona rilassata che non sono.





La vicenda è ambientata nella piccola Crockett Island, abitanti 127. Riley vi fa ritorno dopo un periodo passato in carcere e lì ritrova la sua famiglia e la sua ex fidanzatina del liceo, Erin, ormai donna adulta e in visibile stato di gravidanza. La piccola comunità è toccata da un evento: lo storico sacerdote Monsignor Pruitt si è malato durante un viaggio spirituale e al suo posto la curia ha mandato il giovane padre Paul, carismatico, capace di prediche che rendono le sue messe esperienze nuove. Nel corso della storia faremo la conoscenza di vari abitanti dell'isola: Beverly, la perpetua, Leeza, la giovane con una disabilità motoria causata da un brutto "incidente", lo sceriffo Hassan, unico membro musulmano della comunità, Joe, l'ubriacone del villaggio, Sarah, il medico, e le loro famiglie. È una serie corale come se ne sono viste poche, perché nessuno è secondario. Ogni personaggio è guardato con sguardo così approfondito che in due episodi li sentiamo vicini come se li conoscessimo da sempre.


Quando crei qualcosa come The Haunting e poi decidi di interromperla perché hai altri progetti, la gente come me non la prende benissimo. Ripongo in Mike Flanagan la fiducia più cieca, però The Haunting of Hill House è diventata così importante per me che non ero pronta a lasciarla andare per avere qualcosa di nuovo. Bly Manor era già un modo per allontanarsene, ma manteneva lo stesso calore, la stessa impostazione. Arrivando con queste premesse alla visione di Midnight Mass sono rimasta per forza di cose quasi delusa dai primi due episodi. Il calore, la familiarità, l'immediatezza di Hill House qui non c'erano. Prometto che il post non sarà un confronto tra le due, portate pazienza con me, sto ancora riordinando i pensieri. 

Laddove mi era stato sufficiente vedere i Crane per 5 minuti per cadere inesorabilmente innamorata di tutti quanti, qua la costruzione è più lenta. In una serie che dura solo (S O L O) sette episodi, prendersene due belli pieni per introdurci e farci sentire a casa sull'isoletta sono un bel lusso che il regista si è preso. A visione terminata non posso dire che siano pesati nell'economia della storia, perché da un certo punto in poi il coinvolgimento emotivo tramortisce quasi e il fluire della vicenda non arranca mai. Ovviamente, e come sempre, aveva ragione Flanagan. Servivano due episodi così, misurati e composti, perché poi Midnight Mass diventa impegnativa, e quando lui decide di metterci il carico da mille lo fa senza paura di far male a chi vi assiste.


Spero non passi il messaggio che la serie è impegnativa nel senso di respingente, noiosa, pesante. Non è così. Ha del miracoloso, per restare in tema, il modo in cui F. sia in grado di costruire qualcosa di così difficile in un universo narrativo nel quale riesce ad inserirci immediatamente come membri attivi, e di conseguenza molto partecipi di quello a cui assistiamo. Non siamo solo fruitori del mondo che ha creato, ne siamo completamente immersi. Non fare una binge di Midnight Mass è pure meglio: si sentono gli odori del mare, del pesce appena pescato e dell'incenso anche quando la tv è spenta. Segue lo spettatore per tutta la sua durata, perché è tanto immersiva l'esperienza che non ci si stacca dalla Crock Pot solo perché è finito un episodio. 

E lo è così tanto, in maniera così prepotente rispetto a tutte le altre serie tv mai scritte, perché nessuno parla delle persone come lo sa fare Mike Flanagan. Questa non è una serie sugli eventi, che pure ci sono e sono parecchio intriganti (e messi in scena come Cristo comanda, per restare in tema, è la serie della maturità di F e si vede), è una serie sulle persone. Su come gli eventi toccano le persone, su come una piccola comunità si muove, respira, vive. Su come crescere lontani dal resto del mondo renda tutti uniti attraverso un filo invisibile. Riley e Erin non si vedono da anni, perché hanno entrambi per un po' lasciato l'isola. Quando si ritrovano, è tutto come prima. Romanticamente potrebbe essere anche solo perché si sono sempre amati, oppure il fatto che nessuno, a parte loro stessi, può comprendere cosa significhi lasciare un posto come quello, che diventa parte della tua identità, e poi tornarvi, diversi ma sempre uguali.


Facciamo una parentesina di cavoli miei come al solito? Ma facciamola.

Io sono atea da tanti anni, ma ho frequentato l'ambiente della parrocchia del mio paese a lungo. Non l'ho solo frequentato, sono stata un membro attivo della parrocchia, ho fatto catechismo anche DOPO la Cresima, ho mangiato pizze a casa di preti, ho cantato in cori e pulito teatri luridi dopo spettacoli del Grest. La cultura cattolica fa parte del mio vissuto, con l'aggravante che oggi è una delle cose che mi spaventa di più al mondo. L'estetica cristiana è spaventosa, la Bibbia presa alla lettera un macabro libro dell'orrore, le croci mi inquietano, la fede mi allarma. Però una cosa è vera, e va riconosciuta: per chi ce l'ha davvero, la fede è una lente sul mondo che può dare consolazione vera, e io per quella cosa qua provo sincera invidia. Midnight Mass fa il più importante racconto della fede che ho mai visto in tv, quello più sincero. 

Tutti i personaggi hanno un rapporto con la Chiesa: chi, come Riley, ha un rapporto finito; chi come Erin, ha una relazione che sta ricominciando; chi, come Bev, ne ha fatto il solo senso della vita o chi, come Hassan, è riuscito a mantenere un rapporto sano con la propria spiritualità. La Chiesa, nella persona di Monsignor Pruitt prima e di padre Paul poi, è il centro di ogni dinamica relazionale, è la routine, è Casa. In mezzo alle situazione disperate che tutti si trovano ad affrontare, economiche, psicologiche, di salute fisica, la piccola chiesetta di Saint Patrick sta lì, ad accogliere. A dare speranza. A ricordarci che se ci comportiamo bene ci aspetterà la felicità eterna, che non dobbiamo avere paura di nulla perché le nostre spalle sono sempre coperte da un essere superiore e che ci ama e ci protegge sempre, e che se anche la paura ce l'abbiamo dobbiamo abbracciarla, accoglierla, perché ci sono date solo difficoltà che siamo in grado di affrontare e che pertanto ne usciremo sempre vincitori. Erin aveva bisogno di questo, quando è tornata, di calore e senso di appartenenza. Per un periodo, poi, quando perde che le aveva dato calore da dentro di sè, smette di frequentarla. Bev, donna atroce e spaventosa, è ritratta in realtà come una persona profondamente sola, che ha cercato nella Chiesa e in Dio i soli compagni di una vita disperata che lei maschera come perfettamente realizzata. Si sente eletta, benedetta, illuminata da una luce divina che la rende migliore degli altri, quando in realtà è una miserabile, una donna che non ha saputo costruire nulla per se stessa e che nel ruolo che si è costruita e imposta ci si è infilata dentro, al sicuro da tutto il resto del mondo. Si è ritagliata uno spazio in cui sentirsi sicura, migliore, per legittimare se stessa nel suo sentirsi superiore a chiunque altro.

Non è un caso che loro due siano tra le poche che la Chiesa continuavano a frequentarla anche nei momenti di minor affluenza. Loro e Leeza, ma di lei parliamo poi. Il resto della popolazione torna a sedere tra i banchi di S.Patrick quando avviene un miracolo. Neppure questo stupisce: se la Chiesa può questo, allora tutti sentono di avere diritto a qualcosa di buono. Il luogo sacro ritorna luogo di speranza, di preghiera. Perché siamo tutti così, ci sentiamo tutti legittimati a chiedere qualcosa in cambio delle belle persone che siamo. Flanagan lo sa, ma non ci giudica. Ci mette in mostra, ci racconta, ma sempre senza uno sguardo giudicante. Perché lo sa che siamo stati tutti imbrogliati da secoli di propaganda cattolica, in cui il bene esisteva solo in quanto frutto di ricompensa certa, in cui ci veniva fatto credere di essere Amati da Lui, e che questo ci rendesse speciali e, quindi, intoccabili. Non è un caso neppure che uno dei personaggi, nel tentativo di ferire Bev, le dica che Dio ama lei tanto quanto ama gli ubriaconi e gli assassini. Perché tanta e tale è stata l'influenza dell'uomo in quello che stava nelle Scritture che pure il più basilare concetto cristiano, l'uguaglianza tra le persone, l'amore verso il prossimo, è oggi una lontana utopia, e Bev questo aspetto lo incarna alla perfezione. È crudele verso gli uomini e gli animali (non mi stancherò mai di gridare il tw per quanto riguarda la violenza sugli animali, occhio che fa malissimo), è razzista, misogina, invadente, snervante. Riesce ad essere al tempo stesso un perfetto riassunto di tutto quello che la Chiesa non vuole e anche quello che la Chiesa, in effetti, è. E la si detesta, sia chiaro, la stronza mangia particole (cit. la mia amica Silvia). La si detesta perché siamo umani funzionanti ed empatici, ma Flanagan riesce comunque a regalarle quella patina di atroce solitudine, di tristezza, di dolore, che riescono ad emergere anche nella seconda metà della serie, in cui si palesa in modo ancora più prepotente come la persona squilibrata che è. E soprattutto nel suo infelice finale, dove si vede quanto niente con lei funzioni, quanto niente ormai potrebbe cambiarla più, neppure il peggiore degli scenari possibili. Lei, da tutto quello che accade, non ha imparato niente. Vuota era, e vuota è rimasta, riempita solo dell'aria gonfia che è la religione.

Alla fine di tutto la serie parla di disperazione. Ogni personaggio ha sensi di colpa, dolori passati e presenti, vuoti, fragilità. E tutti si riversano lì, nel luogo in cui avvengono i miracoli, perché se c'è spazio di redenzione per gli altri allora ci deve essere anche per me. Riley ha pagato il suo conto con la società ma è ben lontano dal saldare quello verso se stesso, ed in mano all'interpretazione di Zach Gilford (che amo da quando era Matt di Friday Night Lights) ci regala un personaggio con gli occhi spenti, incupiti da quello che ha fatto e da quello che gli capita nella serie. Con lui, una Kate Siegel che ha finalmente il ruolo da protagonista che merita. Qui è una Erin eccezionale: intensa, con gli occhi giganti spalancati prima di tutto dentro se stessa, perché capace di analisi e conoscenza di sè invidiabili. I due si parlano, discutono di massimi sistemi sul divano di casa, scardinando le proprie certezze sulla vita e il suo senso, sulla morte e il suo significato. Ci sarebbero trattati interi da scrivere, sui dialoghi e sui monologhi di questa serie magistrale. Perché è una serie in cui si parla tantissimo, in cui non si fa altro che discutere delle cose. Si parla, si litiga, si chiarisce, si predica, in cui prova a parlare anche chi non è abituato a farlo, come il padre di Riley. Parla Leeza, quando si sente nella posizione migliore per farlo, nella scena più atroce della serie, il confronto con l'uomo che l'ha resa paralizzata dalla vita in giù, Joe Collie. Lei parla, parla, parla, vomita addosso all'uomo tutto l'odio e il rancore che non era riuscita a elaborare prima, in una capacità di autoanalisi sconvolgente, lasciando il pover'uomo in condizioni pietose. Ho provato così tanto dolore, per Joe Collie, in questa serie, che ho dovuto interrompere un paio di volte la visione, per andare a prendere una boccata d'aria fresca e ricordarmi che era solo finzione. Il ruolo è interpretato da Robert Longstreet, e meritava una menzione perché mi ha cavato il cuore. Un uomo incapace di mettere in parole i suoi pensieri, che può solo piangere disperatamente mentre una ragazzina gli vomita addosso tutto l'odio di cui è capace, che soffre ancora di più quando viene perdonato. Un uomo senza gli strumenti emotivi per perdonarsi da solo, incapace di fare altro se non scusarsi ripetutamente, soffocato, inascoltato. Un uomo che inizia a parlare solo quando trova un altro disperato come se stesso, un altro annientato dalle proprie scelte, un altro che deve convivere con le conseguenze delle proprie decisioni. Personaggi come Joe Collie parlano alla mia storia personale e non posso prescindere da questa consapevolezza quando mi rendo conto che sono quelli per cui soffro di più. F., però, li ritrae in maniera così complessa, così autentica, che è impossibile non trovare qualcosa di sé e del proprio trascorso in uomini come lui, con i quali il mondo ha fallito, verso i quali la società è colpevole. 


Midnight Mass finisce nell'unico modo possibile, e non era scontato. Poteva avere un finale più tradizionale, poteva riavvicinarsi a certi aspetti dell'horror più canonico, poteva farci sognare con una dolce storia d'amore, poteva dare redenzione. Sceglie di non farlo, di toglierci le certezze da sotto i piedi, di privarci del sollievo. Sceglie di parlare di sacrificio, che non è più nel senso cattolico ma solo genuino amore per chi si intende salvare, parla di chi sceglie di restare insieme fino alla fine, in un ultimo momento di comunione spirituale. Nel mezzo, tra quell'inizio modesto e il suo finale in fiamme, la serie riesce a fare uno straordinario ritratto dell'umanità, delle sue fragilità, dei suoi meccanismi di protezione. Parla di adolescenti in modo affettuoso, di scienza e religione, di appartenenza, di perdita, di razzismo, parla di relazioni lunghe anni fatte di piccoli momenti di candore, parla di convivere con quello che si è, di quanto accettare quello che la vita ci pone di fronte sia un concetto sopravvalutato, di quanto siamo sempre parte di qualcosa di più grande.

Se dare a questa frase un significato religioso, o cosmico, o pessimista, sta a noi. 

sabato 18 settembre 2021

Sex Education - stagione 3

16:51

 L'abbiamo aspettata tanto, e come accade sempre in questi casi, me la sono bruciata troppo in fretta.

Signori, parliamo della terza stagione di Sex Education.




La serie parla di un gruppo di adolescenti alle prese con la scoperta della propria sessualità e della vita adulta. In questa stagione li vediamo affrontare alcune novità, una su tutte una nuova preside a scuola, Hope, rigida, bigotta e che introduce una serie di nuove regole volte a rovinare la vita dei nostri giovani preferiti.


La serie si conferma, proprio come l'avremmo previsto, il prodotto delizioso e fresco che era stato per le prime due stagioni, in grado di toccare temi giganti, di estrema attualità, in grado di mettere il focus nei punti giusti, con il dialogo giusto e i personaggi giusti. 

Ora, pare scontato dover fare una premessa. In un mondo ideale i disabili non sono solo disabili, le persone della comunità LGBTQ+ non sono solo tali, le persone nere non sono solo la pelle, la diversità è una caratteristica del mondo punto e basta. Lo so io, lo sapete voi, lo sanno bene gli autori della serie. Però siamo in un mondo in cui Barbara Palombelli può dire in tv che è giusto chiedersi se le donne ammazzate avessero esasperato i loro compagni, capite bene che una serie tv come questa non è solo importante, è fondamentale. 


Rappresentazione


Parliamo di questo, quindi, per primo. 

Sex Ed è una serie che parla di tutti, a tutti, per tutti. Ci sono sono persone di ogni orientamento, identità, abilità, origini. E non per tutti la loro "diversità" fa parte della storyline. Per qualcuno sì, perché una serie che parla di adolescenti non può lasciare fuori l'elemento della scoperta di sé, ma non è mai la sola cosa che accade. Isaac, il personaggio con una disabilità, è un personaggio facilmente detestabile, arrogante, irrispettoso, che odiamo anche perché siamo dei 15enni che vorrebbero Otis e Maeve insieme. Poi è anche una persona che per muoversi ha bisogno della sedia a rotelle, ma il come e il perché gli sia necessaria non sono rilevanti, e pertanto (se non mi sbaglio) non escono mai nel discorso. Cal, il personaggio non binary, non ha una storia di scoperta di sè, arriva ed è già a posto con sé. Certo, col tempo avrà bisogno di realizzare che il suo percorso con la propria persona non è ancora finito, e questo impedirà lo sviluppo di certe relazioni, ma è corretto anche questo, perché parliamo di un* diciassettenne. Non sarebbe complet* nemmeno se fosse una persona cis. Cal è doppiamente interessante perché non è attivist*, non alza la voce per la sua comunità, non si mette nemmeno in gioco, non vuole nemmeno litigare un pochino. Non c'è bisogno che ogni singola persona appartenente ad una comunità lo sia, e Cal non vuole. Vuole divertirsi, farsi tante canne, fare le gare di corsa, godersela. Accetta di mettersi in gioco un po' di più solo quando la situazione si aggrava al punto da compromettere il suo benessere, ma quello non è più attivismo, è sopravvivenza. 

Viv, la head girl della scuola, è nera. Il suo essere nera è assolutamente rilevante nella sua vicenda, quindi viene trattato di conseguenza. La sua storia in particolare è molto bella perché a noi spettatori grandicelli è chiaro che il suo ruolo ruffiano e che appare detestabile sia invece solo il frutto di una grande necessità: Viv è una persona che deve combattere più degli altri per avere accesso ad un'istruzione di un certo livello, e deve scendere a compromessi. Lo sa, lo ammette, e le persone in torno a lei devono accettarlo, anche se a volte è difficile. 


Violenza


Nella scorsa stagione la tenerissima Aimee è stata vittima di una molestia. La serie, che è intelligente, non se ne è dimenticata, e il tema ritorna, perché la violenza si porta appresso delle conseguenze che durano nel tempo. Aimee, nota in tutta la scuola per la sua passione per il sesso, non riesce più a farsi toccare dal suo ragazzo. 

Quello che le è successo è stato così d'impatto da cambiare profondamente la sua persona, al punto che, come le dice chiaramente Jean durante una sessione della terapia a cui Aimee accetta di sottoporsi, potrebbe non tornare mai più quella di un tempo. Posto che nel cambiamento non c'è nulla di negativo, quello che attraversa Aimee è particolarmente interessante da vedere perché passa in primo luogo dalla conoscenza di sé. Se prima la sua sessualità era libera e spensierata, ora quello che le importa è di conoscersi, amarsi, riconoscersi come individuo anche senza la componente sessuale che prima la caratterizzava. Conoscere il suo corpo di donna, le sue caratteristiche, e le sue diversità la arricchisce, la rende più matura, e anche se questo non cancellerà mai quello che le è successo di sicuro le aprirà molte porte. Non vedo l'ora di vederla nella prossima stagione, le voglio bene come se fosse una sorellina minore e mangerei volentieri uno dei suoi cupcake con le vulve.


Genitori e vita adulta


Jean in questa stagione è strepitosa. Parliamo di una donna di 48 anni che resta involontariamente incinta e che deve portarsi a casa le conseguenze di una gravidanza inaspettata. Una su tutte la violenza ostetrica: in una scena agghiacciante le viene ripetuto, evidenziato, sottolineato fino allo sfinimento che forse una gravidanza a quell'età ce la potevamo anche risparmiare. Quando osa alzare la voce per protestare viene fatta passare per una Karen qualunque che vuole parlare con il tuo manager. Per fortuna il suo è un personaggio fortissimo, pieno di determinazione e consapevolezza (perché lei sì, quel percorso che Aimee sta ancora facendo l'ha già fatto), che si mette in costante discussione. 

Adoro che sia rappresentata finalmente una donna che non ha alcuna voglia di una famiglia tradizionale. Ama suo figlio, è una madre presente e anche spesso opprimente, ma non ha bisogno di un uomo con cui condividere la routine. Sta bene sola, con i suoi spazi e i suoi tempi, non ama la condivisione, non accetta i compromessi. L'ipotesi della famiglia tradizionale la spaventa, non la attrae. E finalmente.


Ma soprattutto, è di Ruby che vorrei parlare. Ruby, la Regina George della serie, in questa stagione è me da piccola e quindi me la porto nel cuore con tutto l'istinto di protezione di cui sono capace. Sfrontata, arrogante, ha costruito un'immagine di sè a protezione di quell'aspetto della propria vita che non può cambiare: la famiglia. Arriva da un contesto che la fa vergognare, e mostrare quello per lei è la forma massima di esposizione. Quando la più grande fragilità che hai arriva dall'ambiente che dovrebbe essere quello di forza, tu lo proteggi nei modi che puoi, spesso creandoti un'immagine che non ti rappresenti, proprio per tenere tutto lontano da lì. Perché tu sei e vuoi essere altro. La mia, di immagine, è crollata crescendo, ma Ruby è più tosta di me. L'ho adorata in questa stagione, lei e il suo strampalato papà.

Altrettanto interessante è il racconto che si fa del rapporto di Maeve con i soldi. Non sono una bella cosa, ne girano molto pochi, ma non si può chiedere aiuto. Anzi, lo si considera offensivo. Questa serie andrebbe mostrata nelle scuole proprio perché insegna come trattare il diverso anche quando il diverso è la bellissima brillante Maeve. Non si dà aiuto non richiesto, non si interviene per altri, non ci si intromette: le persone povere hanno una loro dignità, una capacità decisionale, una testa propria. Grazie dell'aiuto, ci pensiamo da soli. Anche perché quello che la serie fa è mostrare quante palate in faccia si prendano da chi l'aiuto lo deve, ovvero la società, qui nella figura della preside. Lo dice con autorevolezza, Maeve, si impone, si arrabbia, si incaponisce, e accetta aiuto solo quando è pronta ad aprirsi ad esso, non prima e non dopo. Questo è sacrosanto e non se ne parla mai abbastanza: l'aiuto non richiesto è carità, e quella non fa bene a nessuno.


Io voglio a Sex Education un bene grande, perché non è inclusiva, si include solo se si pensa di avere l'autorità di "introdurre" qualcuno in un mondo che si percepisce come proprio: Sex Ed è di tutt*, per tutt*. 



martedì 6 luglio 2021

Ho finalmente guardato la reunion di Friends

15:09

 Io lo so che nel 2021 Friends è una serie molto meno amata di quanto fosse fino a qualche anno fa. Di sicuro io non sono più la persona che qualche anno fa si è guardata tutte e dieci le stagioni in poche settimane, e di sicuro le mie opinioni si sono fatte più consapevoli.




 

Nonostante infatti sappia che la sitcom più famosa del mondo ha dei difetti sopra i quali oggi difficilmente passeremmo, io le voglio un bene dell'anima e gliene voglio così tanto perché mi ci sono identificata in ogni istante. Nel periodo in cui l'ho guardata per intero la prima volta uscivo tre volte la settimana con la mia compagnia, la mia famiglia per scelta. Quello che vedevo sullo schermo lo raccontavo poi la sera alla mia Monica, al mio Joey, alla mia Phoebe. Persone che sono nella mia vita da quando ho nemmeno 15 anni, che mi hanno vista crescere e che ho visto diventare adulti. Ho visto adolescenti prepuberali diventare adulti con la barba, ho visto ragazze timide con il cuore d'oro costruirsi con le unghie e i denti la carriera dei propri sogni. E li ho visti diventare le persone che sono oggi nello stesso bar di sempre, che ci serve sempre lo stesso aperitivo da quando eravamo minorenni e il prosecco in teoria non ce lo potevano dare, figuriamoci il negroni. Quel rapporto lì, così familiare, così intimo, così chiuso a chiunque fosse "esterno", lo conosco alla perfezione. E proprio quei miei rapporti lì hanno avuto la naturale evoluzione che hanno avuto quelli nella serie: si cresce, ci si accasa, qualcuno si trasferisce, qualcuno si sposa, qualcuno si allontana...

Eppure il solito prosecco al solito barettino di paese ogni tanto lo si prende ancora, e quando siamo sempre lì siamo sempre noi. Friends ha parlato di me e degli amori della mia vita come nessuna serie aveva fatto prima, e io questo lo adorerò per sempre, anche quando riconosco che sta serie l'intersezionalità che oggi per me è così importante non sa manco dove stia di casa, che abbia dei limiti e che sia un frutto della sua epoca.


Quindi, con questa premessa che suona un po' come una giustificazione, pare chiaro che io la reunion la dovessi vedere. Mi sono presa il mio tempo, ma oggi eccoci qua a parlarne. 

La notizia dell'episodio speciale aveva lasciato i fan tra il perplesso e il felice come una Pasqua. Io pure non è che me la sia vissuta con troppa partecipazione, devo ammettere. Eppure, una volta emerso che non si sarebbe trattato di un episodio classico ma più di una chiacchierata per amore dei vecchi tempi, ho iniziato a cedere all'entusiasmo. Questo per una semplice ragione caratteriale: io ho nostalgia anche delle cose che non ho mai vissuto, sono malinconica di costituzione, e queste operazioni con me funzionano sempre. E infatti, lo dico subito così chi non è troppo interessato può fermarsi qua, a me la reunion è piaciuta, ma con delle riserve. 

Quando finisco una serie tv che ho tanto amato mi ritrovo (come immagino molti altri) a passare le ore su Youtube a guardare interviste, bloopers, backstage, ogni cosa che possa tenermi in compagnia ancora un po' di personaggi che non sono pronta a lasciare. Finisco puntualmente sul video che ritrae l'ultimo giorno di riprese (c'è sempre un video dell'ultimo giorno di riprese) e a quel punto mi si deve raccogliere con una spugna perché piango fino a sciogliermi. Pensare che non si vedranno più, che non lavoreranno più insieme, la fine di un'epoca...mi commuovono, che ci devo fare. Quindi questa reunion è proprio stata pensata su misura per farmi fare il piantino. Non importa se è un meccanismo di una faciloneria imbarazzante, a me è bastato rivederli sul set per sentirmi di nuovo "a casa". 


L'episodio è una bella passeggiata sul viale dei ricordi, nella quale emerge chiaramente che oggi proseguire con la serie non avrebbe avuto alcun senso. Li abbiamo salutati quando è stato giusto farlo, quando non ci sarebbe stato altro da raccontare. Invece è stato bello parlare con gli attori non solo dei momenti divertenti sul set, dei ricordi da simpatico dietro le quinte, ma anche accennare a cosa possa avere significato per loro e le loro vite partecipare a qualcosa di così globalmente dirompente come è stato Friends. Avrei voluto che quel segmento fosse più lungo, sono state dette cose interessanti che avrei avuto piacere a sentire un po' più a lungo sulla portata popolare della serie, sul boom di notorietà. Piacevoli anche i momenti nei quali si è parlato dei casting, della scrittura, della produzione: una serie non è solo i suoi protagonisti, sebbene a finire sulla copertina di Rolling Stones siano stati solo loro. Eppure, e qui arriviamo alla nota dolente dell'episodio: questi spazi piacevolissimi, che avrebbero così meritato di ricevere più attenzioni, sono stati brutalmente tagliati con l'accetta in favore di momenti assolutamente evitabili come la partecipazione di guest star assolutamente irrilevanti nella serie. Carini i mariachi di Ross a Rachel? Ma sì, però se hai lì Tom Selick non puoi lasciare più spazio a lui? Oppure, lungi da me voler dire anche solo una cosa negativa su quella meraviglia di Lady Gaga che amo sempre di amore appassionato, ma il suo segmento è stato solo una perdita di tempo. Così come la sfilata degli abiti più iconici. Quest'ultimo nel dettaglio è una cosa che avrei gradito moltissimo, se la reunion fosse stata una stagione intera. Ma in un singolo episodio? Mi ha ricordato lo straziante musical di Kurt nella spregevole nuova stagione di Una mamma per amica. Inutile e perditempo. Queste persone hanno lavorato insieme per dieci anni, di cose da dire ce ne sarebbero state milioni, certamente più stimolanti di vedere Justin Bieber con una brutta postura e il costume da armadillo di Ross.


La vera cosa che ho sofferto, però, è stata la quasi totale assenza di Matthew Perry. Chandler non è solo il mio personaggio preferito: è me sullo schermo. Non che io sia una persona simpatica, anzi. Però sono hopeless, and awkward and desperate for love, proprio come lui in una delle sue scene più famose, e dio solo sa se nel suo costante prendersi per il culo io non ci abbia visto mille volte me stessa. Nel suo rifiuto delle cose difficili, nel suo cancellare tutto quello che non va, nel suo usare la presa in giro per palesare affetto, ci sono sempre stata un pochino anche io. Perry ha avuto durante le riprese della serie il periodo più infelice della sua vita, e non sorprende che la sua partecipazione alla reunion sia stata così marginale. Io, però, da semplice spettatrice, ne ho sofferto un pochino, e il fatto che lui attribuisse la responsabilità del suo essere un po' perso ad un intervento subito poco prima non è di gran consolazione. Per me una reunion di Friends in cui c'è così poco di Chandler è una reunion a metà. Umanamente mi dispiace molto, con ogni probabilità si sarebbe tagliato una gamba piuttosto che essere lì e io di sicuro non lo biasimo, ma da semplice spettatrice avrei desiderato altro. 


Ripensandoci a mente fresca direi che la reunion era stata pensata in un modo piacevole: ripercorrere quello che è stato e come è stato, parlare della produzione, ridere insieme di cose passate. Sulla carta poteva essere magnifico per chi alla serie vuole molto bene, ma ha per me superato un pochino la linea del paraculismo, nello specifico nelle scene delle interviste ai fan. Io credo nel potere delle storie, ho da dieci anni un blog in cui parlo di quanto ami le storie, e lo so che alcune di queste ti danno gli strumenti per imparare a gestire meglio quello che succede quando spegni lo schermo o chiudi il libro. Lo so bene. Eppure sentir dire che Friends ha aiutato una persona che voleva togliersi la vita è una cosa che fatico a mettere nella giusta prospettiva. Forse ho solo la fortuna di non sapere cosa significhi soffrire di una patologia come la depressione, e in tal caso mi scuso se questa opinione risulta offensiva o ignorante. Veder spiattellato così, in mezzo a Jennifer Aniston che piange per i ricordi e Matt LeBlanc che legge il proprio "Ho cagato qui" sui pannelli del set, però, mi sembra solo un modo per dire: "Visto come siamo stati bravi? Madonna che roba proprio buona, proprio gente di buon cuore siamo", che non solo non è mai un sentimento genuino ma che soprattutto è un sentimento che fa bene solo a se stessi. Un antipatico autocompiacimento assolutamente non necessario. Vent'anni dopo la gente ancora parla di Friends, nel bene e nel male, questo tono non serve. 


Mi rendo conto che alla fine questo post suoni molto negativo, ma giuro che nonostante queste cose a me è piaciuto vederli tornare sul set, risedersi sui divani e le poltrone, rimettersi i vestiti, ripetere le battute. Non avrei voluto un episodio in cui Monica e Chandler mettono in punizione i gemelli, o uno in cui Phoebe e Mike pagano il rogito. Mi è sembrata la scelta migliore, anche se non sviluppata al meglio possibile.


Ma soprattutto, la sola e unica critica che conta: perché non c'era Paul Rudd?


giovedì 11 marzo 2021

WandaVision

19:27
WandaVision è finito, e con lui le scorte di lacrime che avevo a disposizione per il mese.

La facciamo la solita premessa? Ma facciamola.
Come sa chiunque sia in una relazione di lungo corso, si arriva ad un punto in cui le passioni si mescolano. Lui viene sottoposto a più film dell'orrore di quanti ne voglia tollerare e io mi sono guardata tutto l'MCU. Poi è successo che mi sono affezionata ai tizi in calzamaglia (ma che modo di dire vintage è? bellissimo) e ho letto un paio di fumetti. Poca roba, giusto le cose più cattive tipo Planet Hulk. 
Questo per dire che su questo blog in generale, e quindi in questo post, troverete le opinioni di una che ha fruito praticamente solo dei film.
E, adesso, di una serie che l'ha ridotta ad uno straccio.
Ma non è bello venire sulla Redrumia e trovare solo cose scoppiettanti di allegria? 



Breve accenno di trama, perché poi andiamo in FULL SPOILER MA PROPRIO FULL FULL FULL.
Wanda e Vision sono una felice coppia fresca di casa nuova, e sono i protagonisti di una cotonatissima sit com anni '50. Sembrano usciti dai migliori manuali per signorine dell'epoca, ma ci è chiaro da subito che qualcosa non va, soprattutto perché arriviamo alla serie sapendo che Vision è morto, e che cosa sia lo scopriamo ripercorrendo la storia delle più famose sit com familiari della storia della tv. 

Avevo già scritto un lunghissimo post sulla serie, ma rileggendolo mi sono accorta che era una sbrodolata logorroica su quanto tragico fosse il personaggio di Wanda, sulla sua infelice sorte, su quanto ero triste per lei e su quanto era stato doloroso. 
Nulla di falso, sia chiaro. Ho davvero sofferto come una cretina, ma forse è il caso di argomentare un po' meglio. Diciamo che metterei un trigger warning per i cuori sensibili perché si piange davvero, ma giuro che poi mi fermo qua.

Anche perché quello che ho amato di WandaVision e del suo finale è che non si tratta di una delle sdolcinate faccende con la morale del "Se non ti uccide ti rende più forte". Wanda esce da Westview e sembra tutto ok (per quanto possibile, sia chiaro), fino a quando la vediamo nelle scene post credits. Wanda non solo non è guarita dai lutti della sua vita, ma è più incazzata che mai. E chi la biasima.
Quando Scarlet Witch ha fatto la sua comparsa Erre, che è la persona che mi fa da guida nell'esorbitante mondo dei supereroi a fumetti, mi aveva detto da subito che era in poche parole la più figa di tutte. Nasconderò al mio ego il fatto che probabilmente parlasse anche della bellissima Elizabeth Olsen per concentrarmi sul fatto che i poteri di Wanda sono strepitosi. Non solo sono impressionanti, ma sono anche inseriti in un personaggio molto umano e facile da amare, il che la rende ancora più forte. Anche Capitan Marvel ha una forza senza senso, ma è un'intollerabile snob, quindi non c'è proprio gara.
La serie non solo mette bene in mostra di cosa Scarlet Witch sia capace (cosa impressionante di per sè), ma mostra come i fenomenali poteri cosmici siano pericolosi in mano ai sentimenti umani. 
Wanda è ferita, soffre tantissimo, ed è anche incazzata durissima. L'enormità di quello che crea, assoggettando al suo dolore i suoi poteri, è impressionante. Ho adorato le scene in cui le persone prigioniere riprendevano conoscenza, perché erano la prova di quanto fosse crudele quello che Wanda stava facendo. 

Quindi, collegandoci a questo e in virtù della scena post credits: Wanda è la cattiva della serie?
Non dirò mai niente di cattivo contro quella che è diventata la mia preferita, scusatemi. Più un personaggio soffre più me lo sento vicino e mi ci affeziono e lei soffre come una dannata. Non credo però sia la villain, perché come nei più felici standard marvelliani, il vero cattivo è l'uomo bianco etero preferibilmente con un ruolo in una agenzia governativa. A fianco a lui, all'esterno di Westview, ci sono i comprimari della serie, che ho ricollocato nei propri film di provenienza solo grazie all'intervento del sopracitato Erre. Tranne Asian Jim, quello l'ho riconosciuto da me. (Sì, mi manca ancora The Office.)
Sono personaggi secondari deliziosi, che riempiono bene senza invadere lo spazio dei protagonisti, simpatici e interessanti. Ben scritti.
Poi, però, parlando di comprimari, succede il patatrac. Il vero fallimento della serie. Pietro Maximoff. Fan in visibilio, nerd di tutto il mondo uniti con bandierine celebrative pronti a festeggiare (finalmente!) l'arrivo degli amati X-Men nel MCU. Io faccio parte del gruppo, perché preferisco di gran lunga i mutanti agli Avengers, Giorni di un futuro passato è uno dei miei cinecomic preferiti. Evan Peters è arrivato calandosi dal cielo con ali angeliche a farci sognare. Prima di tutto perché il suo cazzonissimo Quicksilver è un adorabile cretino, e poi per tutte le implicazioni della sua presenza nella serie.
E invece no. La Paraculata Suprema. La Faciloneria Mephistofelica (Erre, sto diventando brava?). Il Martyrs dei finali dei cinecomics. (scusate, questa era esagerata.) Pietro non era davvero Pietro e i nostri cuori si sono infranti, di nuovo. In una serie struggente non ce n'era davvero bisogno, 'nfami. 
C'era gente che era scesa in cantina a ripescare spillati incellophanati a cercare risposte, c'erano forum infuocati, i server di internet rotti. Scusate, mi faccio prendere dal mio iperbolismo. Però mi dispiace, poteva essere una cosa bellissima e invece proprio no. 

Insomma, Pietro non era davvero Pietro, Vision e i bambini sono morti e Westview è tornata alla normalità, con quella frase di Monica che è stata peggio di una spolverata di sale su un graffio: "Non sapranno mai a cosa hai rinunciato per loro."
Vuoi altro, Marvel? Hai sentito che ho goduto un po' troppo per la dipartita dell'odiato Iron Man e hai deciso di punirmi così? Lo accetto. 

La serie finisce, negli episodi finali, per tornare ad essere un classico prodotto Marvel, con la sua battaglia bella grossa e importante e il resto che passa in secondo piano. Non la parte che ho preferito, come non è mai la parte che mi interessa dei film, però nel complesso è un prodotto ben più che godibilissimo. Non esattamente la ventata d'aria fresca che speravo restasse fino alla fine, ma mi sono comunque ritrovata in lacrime a soffrire come una cretina per un personaggio di finzione quindi immagino che abbia funzionato alla perfezione.

Concedetemi di concludere con una riflessione di parte e assolutamente superficiale: le supereroine donne sono le più forti di tutti, non c'è proprio gara. Ora, non so se anche questo sia parte del retaggio culturale per il quale una donna per far parte di un mondo maschile deve essere assolutamente superiore a chiunque o per lei non c'è posto, ma io penso di apprezzarlo. Tra Carol Danvers, Wanda, ma anche Wonder Woman. Non c'è spazio per la mediocrità, tra le donne supereroine.
Devo riflettere su come la penso su questa cosa, ma la bambina che è in me gongola e vorrebbe vederle spaccare tutto, nello specifico i culi dei compagni maschi. 


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