Sebbene il cinema sia un'arte che consente con agilità di ripetere l'esperienza di fruizione, soprattutto rispetto alla letteratura, io tendo a riguardare poco i film, perché le mie infinite lacune mi chiedono di dedicare tempo alle cose che non ho mai visto. Ogni tanto, però, arrivano dei film che mi scombussolano così tanto che desidero tornare nei loro mondi appena dopo esserne uscita. I due casi più recenti per me erano stati Deadstream e Late Night with the Devil.
Ieri sera abbiamo finalmente visto il film più atteso e chiacchierato dell'anno, Longlegs. Questa mattina l'ho rivisto la seconda volta per confermare le impressioni iniziali: è il film del decennio.
Questa è solo una recensione a caldo, il film merita analisi infinite anche solo per la numerosa simbologia che lo attraversa. So, però, che lo vedrò all'infinito, e avremo tempo di riparlarne insieme.
Sarà un'impresa riuscire a parlare del film senza spoiler ma voglio rassicurare chi legge che presterò enorme attenzione: meno se ne sa meglio è. Sono infatti, a visione terminata, un po' combattuta sulla gigantesca campagna pubblicitaria che lo ha preceduto: penso Perkins meriti questo e altro, perché è tra i nomi più grandi della sua generazione e fino a questo momento era passato troppo in sordina rispetto al suo immenso talento. Era ora di glorificarlo a dovere e bisogna anche ammettere che è stato divertentissimo. Dall'altro lato, però, i numerosi trailer hanno mostrato più di quanto avrei voluto si vedesse e purtroppo una visione così tardiva rispetto all'uscita americana ci ha penalizzato: le foto di Longlegs e del makeup di Cage giravano già da qualche settimana e sono certa che se non lo avessi visto prima mi avrebbe fatto impazzire di terrore. L'uscita italiana a novembre è semplicemente oltraggiosa e sconsiderata, oltre che poco lungimirante. Quest'anno le attese sono davvero sconfortanti. Ma torniamo al film, che per dirvelo in parole molto brevi parla di un'agente dell'FBI che a causa di una circostanza molto spiacevole finisce per occuparsi di un caso che i suoi colleghi non stanno riuscendo a risolvere da 30 anni, quello del serial killer Longlegs.
Può, nel 2024, trent'anni dopo Il silenzio degli innocenti, avere ancora qualcosa da dire un film del genere? Sì, in mano alla persona giusta. Perkins è la migliore persona disponibile per un'operazione di questo tipo. Lo è perché, come abbiamo visto nei suoi lavori precedenti, è un regista che lavora di atmosfera: i colori, la grana, la messa in scena. È tutto curatissimo affinché anche i momenti più silenziosi - qui tanti - siano efficacissimi nel condurci per mano attraverso un terrore che non ha bisogno di parole. Siamo negli anni Novanta, caratterizzati dal marrone dell'arredamento, dalle automobili spigolose e dall'inizio della tecnologia come la conosciamo oggi. Questa collocazione temporale è data da poco altro: la foto di Clinton nello studio, il telefono fisso e le cabine telefoniche, l'evidente riferimento al famosissimo caso di JonBenét Ramsey. Perkins è infatti uno a cui basta poco, perché il modo in cui maneggia gli elementi a cui sceglie di dare rilevanza è più che sufficiente a veicolare mood e sentimenti. Abbiamo un'indicazione temporale, sì, ma potremmo non averla: il male non ha età.
Qui ci serve che siano gli anni Novanta, perché Lee Harker - il personaggio di una quasi irriconoscibile Maika Monroe - deve usare la carta: scrive, taglia, ricuce. La realtà è composta di frammenti di carta a cui lei sta cercando di trovare un senso: foto, lettere, algoritmi scritti a mano su fogli che si possono modificare in base al bisogno, biglietti di compleanno, Bibbie da sfogliare. La tangibilità delle prove su cui lavora si alterna in modo brutale alle immagini digitali e mentali che la turbano: prima un test svolto dall'FBI per provare sue eventuali capacità soprannaturali, poi ricordi che si ricompongono frammento dopo frammento, poi visioni. Queste immagini vengono prima sottoposte a lei durante i test, e infine a noi spettatori, colpiti con violenza da quelli che ci arrivano come tentativi di far entrare questo impareggiabile sense of dread quasi a un livello subconscio.
Oltre alle immagini rapide e misteriose che compaiono ci sono quelle lente e silenziose di cui sopra. In questi momenti non c'è affatto tregua dal malsano senso di tragedia impellente, anzi. Perkins lavora in modo straordinario sullo spazio negativo, come in precedenza era riuscito così bene a Flanagan in The Haunting of Hill House. Si realizza presto che il male è ovunque, anche e soprattutto quando non lo si vede. Ha permeato l'aria e l'ha riempita come un odore nauseante, eppure non è mai in scena in primo piano. Ne vediamo in primo piano le conseguenze sì, ma mai l'azione: quella è relegata allo sfondo, dietro le porte e sotto i piedi. Arriva, per citare Harker stessa, come qualcosa che ti picchietta sulla spalla per attirare la tua attenzione, lasciando il soffocante senso d'angoscia che dà la consapevolezza di essere sempre a un passo dall'oscurità. È come camminare per un marciapiede sentendo che tutti i lampioni alle tue spalle si stanno spegnendo. Lo sai, ma sono alle tue spalle e te ne accorgi solo perché la luce intorno a te si fa sempre più flebile. Il suo pessimismo è pari solo al suo eccellente ritratto del male e delle ragioni che lo portano a esistere.
È molto viscerale la risposta che suscita un film come questo, anche per il modo in cui tratta l'occulto. Quello che è sempre stato oggetto di studio, di analisi attraverso strumenti tecnologici volti a provarne in modo scientifico l'esistenza, torna qui a essere qualcosa di istintivo, naturale, che sopravvive a prescindere dalla fede. In Longlegs tutto è maledetto: le persone, le auto, gli oggetti, gli edifici. A guardarlo, con quel suo rosso che si alterna al gelo della neve e al bianco della casa, pare maledetto pure lui, il film. Pare punire noi che stiamo osservando questo mondo sciogliersi sotto la neve, proprio come guardiamo il true crime ogni giorno e assistiamo alle tragedie reali con un coinvolgimento innaturale.
Parla, tra le altre cose, di identità: quella di Harker prima di tutto, alterata da un'infanzia vissuta in totale isolamento e che per la prima volta si approccia al mondo, quella della madre, attaccata a un passato che le riempie stanze e pensieri, di quelle delle figlie delle famiglie sterminate da Longlegs, la cui identità è rimessa in discussione con una singola telefonata, e quella del killer stesso. Si parla di come tenere le distanze da un lavoro che si prende ogni energia fino a farti perdere il contatto con la realtà, e di come si può avvicinarsi così tanto al male senza che questo si prenda un pezzo di noi. Che cosa ci rende diversi? Quanto crediamo di esserne immuni? E ancora, quanto di noi siamo disposti a sacrificare per cercare di non farlo entrare? È davvero una battaglia da cui qualcuno può uscire vincitore? Basterà un meraviglioso parallelismo in automobile a rivelare la risposta del film.
Questa infinità di cose ci arriva in modo così potente grazie a due protagonisti straordinari e irriconoscibili: Maika Monroe è dura, rinchiusa in una mente brillante ma di pietra, e Nicolas Cage, che ho sempre tollerato molto poco, è qui invece immenso. Ha uno sguardo, una voce e una gestualità che paralizzano e al tempo stesso sembrano voler veicolare un dolore mai espresso apertamente, riuscendo a causare sorrisi di disagio e brividi di terrore insieme. Incredibile.
Infine è Perkins che è una sorta di re Mida, che trasforma in oro tutto quello che tocca. Il suo occhio impareggiabile porta in scena - proprio come fanno i giganti - il bello del mostruoso. Nel fare paura come pochi altri usa sempre scene di una bellezza rarefatta che però non diventa mai artefatta, simbolica e raffinata ma concreta, realistica. Vedere il mondo attraverso gli occhi di chi ce lo mostra nel suo aspetto migliore è un enorme privilegio, anche quando questo significhi osservare il male con la stessa intensità.
Ci sono tutti i film a cui state pensando: c'é Zodiac, Il silenzio degli innocenti, Seven, The Blackcoat's Daughter. Tutti capolavori, poco ma sicuro.
Questo, però, fa più paura.
Buona analisi ma non sono d'accordo sul film del decennio (quale decennio?).
RispondiEliminaÈ un discreto film con una trama che, nel finale, si sfilaccia un po' al limite del credibile e non sostenuta (ahimè forse l'unico errore ma pesante) dall'interpretazione degli attori.
Peccato perchè cambiando marcia sul finale sarebbe stato si il film del decennio
Ciao! Il decennio 2014 - 2024. Quale interpretazione non ti è piaciuta?
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