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martedì 17 settembre 2024

The Collingswood Story

11:51
 Come vi dicevo qualche post fa, la nuova stagione di Nuovi Incubi sarà tutta dedicata al found footage. Era partita con una programmazione ricchissima ma poco prima della partenza io e la mia cohost Lucia ci siamo chieste se fosse effettivamente il caso di accollarci così tanto, vista l'immensa quantità di film. Siamo già prolisse a sufficienza quando parliamo di un film per volta. Abbiamo quindi deciso di fare una stagione più snella - e quando vedrete quanto è lunga capirete quanto ironico sia che la definisca snella - ma io a tutto quel found footage non volevo rinunciare. È pur sempre il mio sottogenere preferito. Quindi l'idea è di affiancare a ogni episodio (o quasi) un post, ogni volta dedicato a film in qualche modo legati a quello protagonista dell'uscita del podcast. 
L'episodio uscito oggi è su My Little Eye, piccolo ma eccellente found footage del 2002 che ha anticipato di diversi anni temi e modalità a noi oggi così familiari. Nello stesso anno, però, di film piccoli, incredibilmente in anticipo sui tempi e per questo dimenticati troppo presto ce n'è stato un altro: The Collingswood Story.




Rebecca e Johnny hanno una relazione ma vivono lontani da quando lei ha iniziato a frequentare il college. Per riuscire a mantenere vivo il rapporto lui le regala una webcam e la introduce all'uso di un software per le chiamate che si colleghi al pc e permetta ai chiamanti di vedersi. La piattaforma è utilizzata da ogni tipo di weirdos dell'internet - del 2002, poi, ve li potete tranquillamente immaginare - tra cui una medium, Vera, che durante una chiamata conoscitiva rivela a Rebecca delle verità che cambieranno il corso della sua vita.

My Little Eye è stato il primo a introdurre diversi elementi: l'ambientazione nel reality show e le camere fisse arrivano da qui, per esempio. The Collingswood Story allo stesso modo introduce qualcosa: è a tutti gli effetti il primo horror screenlife.
Uscito nel 2002 e poi scomparso immediatamente, ha ricominciato a girare per qualche festival nel 2005, per finire poi tra i titoli da cestone dell'unieuro molto velocemente. Nessuno sapeva cosa farsene di una cosa del genere. Imperdonabile, perché davvero ha creato l'impossibile, anticipando non solo un nuovo modo di fare cinema ma anche un intero nuovo modo di comunicare. Se oggi le chiamate su Zoom sono diventate parte del quotidiano sia nella sfera personale che in quella lavorativa, nel 2002 era un discorso ancora quasi inimmaginabile, il che contribuisce a spiegare come mai non sia stato un fenomeno globale come il suo ispiratore Blair Witch Project era stato qualche anno prima. Al regista Michael Costanza mancava quindi la dimestichezza col mezzo che ha avuto, per fare solo un esempio, Rob Savage quando ha realizzato il suo bellissimo Host, e ha dovuto creare questo mondo da zero. Come si rende accattivante una storia in cui per tutto il tempo vediamo solo i volti di quattro persone che parlano? Come fa a rimanere narrativamente interessante? Come si scrivono dialoghi che devono sostenere quasi da soli l'intera vicenda? Come si costruisce la tensione potendo solo riprendere i visi? Si può, con queste premesse, introdurre un intero mistero in modo convincente? Oltre a ciò, il film ha la grande limitazione del software: poiché vediamo lo schermo del pc per intero, la parte riservata alla webcam è molto piccola perché piccolo è lo spazio sullo schermo che occupa la finestra del programma che i due utilizzano, limitando ancora di più le possibilità del regista. Costanza aveva mille "problemi" a cui trovare soluzione e quasi nessun prodotto precedente a cui appellarsi per cercare risposte. 
Il suo film risponde al desiderio voyeuristico a cui si appellano tutti gli screenlife: l'accesso alla parte più riservata di una persona, che oggi si trova nel suo telefono o nel suo computer. Nel 2024 questo ha ovviamente più mezzi per esprimersi: accesso alle mail, ai social, alle chat, alle veloci chiamate su FaceTime o addirittura alla cronologia del browser, il che rende gli screenlife più ricchi e gli spettatori più attivi nel cercare indizi e informazioni in varie parti dello schermo. Nel 2002 era più semplice, e il film sceglie solo di farci entrare nella conversazione privata tra due fidanzati. 

Il fidanzato Johnny è un primo elemento di interesse. Se chiacchierando con Rebecca lo troviamo affabile e premuroso, c'è sempre qualcosa in lui che ci fa storcere leggermente il naso: non riattacca immediatamente appena conclusa la conversazione con la ragazza ma rimane in ascolto, rimanendo spettatore passivo della sua vita quasi a volerla monitorare. Questo ci viene confermato dal suo migliore amico, che lo accusa, seppur scherzosamente, di aver regalato la webcam alla fidanzata proprio per avere ancora più controllo sulla sua vita. L'amico parla proprio di stalking. In più, per regalare una serata indimenticabile a Rebecca dà il suo numero ad alcuni dei weirdo dell'internet di cui sopra, sperando che le loro buffe telefonate l'avrebbero distratta dalla prevista serata dedicata allo studio. Una cosa oltraggiosa e pericolosa.
Parlando con la madre, Rebecca dice di essersi allontanata non solo per l'università, ma anche per avere uno spazio suo, un po' lontano da Johnny stesso. In questo il film gioca abbastanza bene, mantenendo fino all'ultimo secondo possibile l'ambiguità necessaria per farci sospettare che possa essere Johnny a mettere in pericolo Rebecca e non la medium Vera con le sue rivelazioni. 
Non che Vera sia esente da ambiguità: ogni volta che compare sullo schermo pare diversa dalla precedente: a volte immersa fino al collo nel suo personaggio oscuro e minaccioso, altre ridicolizzando il soprannaturale e tutti i creduloni che abboccano alle sciocchezze. In questo il film è chiaro: non bisogna fidarsi delle persone del web. A essere messo in discussione non è mai il mezzo ma sempre coloro che ne fanno uso, che non sono mai autentici e meritevoli di fiducia. Anche questo è un interessante cambiamento che resterà poco sviluppato nel corso del tempo. Internet - e oggi anche il mondo delle intelligenze artificiali - è da sempre ritratto come il demonio del nuovo millennio. Il focus è sempre stato sul mezzo, pur con le dovute eccezioni, mentre Costanza qui sceglie di lasciare la responsabilità del male tutta nelle mani degli uomini, che con le loro sette e i loro culti portano violenza e morte.

L'elemento legato al culto e alla risoluzione della storia di Collingswood che dà il titolo alla pellicola è in effetti proprio la sua parte più debole. È poco intrigante e un po' superficiale ma sono certa di vederla così proprio per le difficoltà legate alla scelta della videochiamata. Essere troppo in anticipo sui tempi ha significato non avere familiarità col mezzo perché, banalmente, non lo si usava. Non se ne conoscevano tempi e soprattutto potenzialità spaventose. Sebbene, soprattutto nella prima parte, ci siano momenti in cui genuinamente si teme per la sorte dell'ignara Rebecca, questo si perde molto nella seconda, quando si dedica tempo alla ricerca di informazioni sul culto che aveva sede nella città senza che si riesca davvero a legare questa storia alla protagonista. Il film ci dà le informazioni corrette per mettere insieme persone e circostanze, ma il senso di pericolo imminente, così chiave nel found footage, qui manca, e si arriva al finale poco intrigati e un po' delusi soprattutto dalla conclusione stessa. 
Oggi un regista che si approccia allo screenlife sa come posizionare la webcam per massimizzare la tensione, quali dialoghi tenere e quali scartare per tenere il ritmo fluido e realistico. Conosciamo internet così bene da sapere come sfruttarlo per trarne il massimo possibile in termini di funzionalità ed efficacia.

Se lo sappiamo così bene, però, è perché sono arrivati pionieri come The Collingswood Story a mettere le basi, e dimenticarceli come abbiamo fatto con lui è ingiusto e anche un po' triste.


sabato 24 agosto 2024

Longlegs: una recensione a caldo senza spoiler

13:37
 Sebbene il cinema sia un'arte che consente con agilità di ripetere l'esperienza di fruizione, soprattutto rispetto alla letteratura, io tendo a riguardare poco i film, perché le mie infinite lacune mi chiedono di dedicare tempo alle cose che non ho mai visto. Ogni tanto, però, arrivano dei film che mi scombussolano così tanto che desidero tornare nei loro mondi appena dopo esserne uscita. I due casi più recenti per me erano stati Deadstream e Late Night with the Devil. 
Ieri sera abbiamo finalmente visto il film più atteso e chiacchierato dell'anno, Longlegs. Questa mattina l'ho rivisto la seconda volta per confermare le impressioni iniziali: è il film del decennio.
Questa è solo una recensione a caldo, il film merita analisi infinite anche solo per la numerosa simbologia che lo attraversa. So, però, che lo vedrò all'infinito, e avremo tempo di riparlarne insieme. 




Sarà un'impresa riuscire a parlare del film senza spoiler ma voglio rassicurare chi legge che presterò enorme attenzione: meno se ne sa meglio è. Sono infatti, a visione terminata, un po' combattuta sulla gigantesca campagna pubblicitaria che lo ha preceduto: penso Perkins meriti questo e altro, perché è tra i nomi più grandi della sua generazione e fino a questo momento era passato troppo in sordina rispetto al suo immenso talento. Era ora di glorificarlo a dovere e bisogna anche ammettere che è stato divertentissimo. Dall'altro lato, però, i numerosi trailer hanno mostrato più di quanto avrei voluto si vedesse e purtroppo una visione così tardiva rispetto all'uscita americana ci ha penalizzato: le foto di Longlegs e del makeup di Cage giravano già da qualche settimana e sono certa che se non lo avessi visto prima mi avrebbe fatto impazzire di terrore. L'uscita italiana a novembre è semplicemente oltraggiosa e sconsiderata, oltre che poco lungimirante. Quest'anno le attese sono davvero sconfortanti. Ma torniamo al film, che per dirvelo in parole molto brevi parla di un'agente dell'FBI che a causa di una circostanza molto spiacevole finisce per occuparsi di un caso che i suoi colleghi non stanno riuscendo a risolvere da 30 anni, quello del serial killer Longlegs.

Può, nel 2024, trent'anni dopo Il silenzio degli innocenti, avere ancora qualcosa da dire un film del genere? Sì, in mano alla persona giusta. Perkins è la migliore persona disponibile per un'operazione di questo tipo. Lo è perché, come abbiamo visto nei suoi lavori precedenti, è un regista che lavora di atmosfera: i colori, la grana, la messa in scena. È tutto curatissimo affinché anche i momenti più silenziosi - qui tanti - siano efficacissimi nel condurci per mano attraverso un terrore che non ha bisogno di parole. Siamo negli anni Novanta, caratterizzati dal marrone dell'arredamento, dalle automobili spigolose e dall'inizio della tecnologia come la conosciamo oggi. Questa collocazione temporale è data da poco altro: la foto di Clinton nello studio, il telefono fisso e le cabine telefoniche, l'evidente riferimento al famosissimo caso di JonBenét Ramsey. Perkins è infatti uno a cui basta poco, perché il modo in cui maneggia gli elementi a cui sceglie di dare rilevanza è più che sufficiente a veicolare mood e sentimenti. Abbiamo un'indicazione temporale, sì, ma potremmo non averla: il male non ha età.
Qui ci serve che siano gli anni Novanta, perché Lee Harker - il personaggio di una quasi irriconoscibile Maika Monroe - deve usare la carta: scrive, taglia, ricuce. La realtà è composta di frammenti di carta a cui lei sta cercando di trovare un senso: foto, lettere, algoritmi scritti a mano su fogli che si possono modificare in base al bisogno, biglietti di compleanno, Bibbie da sfogliare. La tangibilità delle prove su cui lavora si alterna in modo brutale alle immagini digitali e mentali che la turbano: prima un test svolto dall'FBI per provare sue eventuali capacità soprannaturali, poi ricordi che si ricompongono frammento dopo frammento, poi visioni. Queste immagini vengono prima sottoposte a lei durante i test, e infine a noi spettatori, colpiti con violenza da quelli che ci arrivano come tentativi di far entrare questo impareggiabile sense of dread quasi a un livello subconscio. 
Oltre alle immagini rapide e misteriose che compaiono ci sono quelle lente e silenziose di cui sopra. In questi momenti non c'è affatto tregua dal malsano senso di tragedia impellente, anzi. Perkins lavora in modo straordinario sullo spazio negativo, come in precedenza era riuscito così bene a Flanagan in The Haunting of Hill House. Si realizza presto che il male è ovunque, anche e soprattutto quando non lo si vede. Ha permeato l'aria e l'ha riempita come un odore nauseante, eppure non è mai in scena in primo piano. Ne vediamo in primo piano le conseguenze sì, ma mai l'azione: quella è relegata allo sfondo, dietro le porte e sotto i piedi. Arriva, per citare Harker stessa, come qualcosa che ti picchietta sulla spalla per attirare la tua attenzione, lasciando il soffocante senso d'angoscia che dà la consapevolezza di essere sempre a un passo dall'oscurità. È come camminare per un marciapiede sentendo che tutti i lampioni alle tue spalle si stanno spegnendo. Lo sai, ma sono alle tue spalle e te ne accorgi solo perché la luce intorno a te si fa sempre più flebile. Il suo pessimismo è pari solo al suo eccellente ritratto del male e delle ragioni che lo portano a esistere.

È molto viscerale la risposta che suscita un film come questo, anche per il modo in cui tratta l'occulto. Quello che è sempre stato oggetto di studio, di analisi attraverso strumenti tecnologici volti a provarne in modo scientifico l'esistenza, torna qui a essere qualcosa di istintivo, naturale, che sopravvive a prescindere dalla fede. In Longlegs tutto è maledetto: le persone, le auto, gli oggetti, gli edifici. A guardarlo, con quel suo rosso che si alterna al gelo della neve e al bianco della casa, pare maledetto pure lui, il film. Pare punire noi che stiamo osservando questo mondo sciogliersi sotto la neve, proprio come guardiamo il true crime ogni giorno e assistiamo alle tragedie reali con un coinvolgimento innaturale. 

Parla, tra le altre cose, di identità: quella di Harker prima di tutto, alterata da un'infanzia vissuta in totale isolamento e che per la prima volta si approccia al mondo, quella della madre, attaccata a un passato che le riempie stanze e pensieri, di quelle delle figlie delle famiglie sterminate da Longlegs, la cui identità è rimessa in discussione con una singola telefonata, e quella del killer stesso. Si parla di come tenere le distanze da un lavoro che si prende ogni energia fino a farti perdere il contatto con la realtà, e di come si può avvicinarsi così tanto al male senza che questo si prenda un pezzo di noi. Che cosa ci rende diversi? Quanto crediamo di esserne immuni? E ancora, quanto di noi siamo disposti a sacrificare per cercare di non farlo entrare? È davvero una battaglia da cui qualcuno può uscire vincitore? Basterà un meraviglioso parallelismo in automobile a rivelare la risposta del film.

Questa infinità di cose ci arriva in modo così potente grazie a due protagonisti straordinari e irriconoscibili: Maika Monroe è dura, rinchiusa in una mente brillante ma di pietra, e Nicolas Cage, che ho sempre tollerato molto poco, è qui invece immenso. Ha uno sguardo, una voce e una gestualità che paralizzano e al tempo stesso sembrano voler veicolare un dolore mai espresso apertamente, riuscendo a causare sorrisi di disagio e brividi di terrore insieme. Incredibile.
Infine è Perkins che è una sorta di re Mida, che trasforma in oro tutto quello che tocca. Il suo occhio impareggiabile porta in scena - proprio come fanno i giganti - il bello del mostruoso. Nel fare paura come pochi altri usa sempre scene di una bellezza rarefatta che però non diventa mai artefatta, simbolica e raffinata ma concreta, realistica. Vedere il mondo attraverso gli occhi di chi ce lo mostra nel suo aspetto migliore è un enorme privilegio, anche quando questo significhi osservare il male con la stessa intensità. 
 
Ci sono tutti i film a cui state pensando: c'é Zodiac, Il silenzio degli innocenti, Seven, The Blackcoat's Daughter. Tutti capolavori, poco ma sicuro.
Questo, però, fa più paura.

lunedì 23 ottobre 2023

Redrumia33: settimana 3

18:15
Il fatto che sia già finita la terza settimana di ottobre è una cosa che non ho preso benissimo, prima di tutto perché vorrei fosse ottobre tutto l'anno e poi perché l'idea di arrivare alle temperature invernali davvero non mi riempie di entusiasmo. Se non altro mi sono goduta un'altra settimana piena di orrori cinematografici e mi sono divertita come una bambina sulle giostre.
Cominciamo.



Avevamo recuperato il controverso primo capitolo della saga con Taissa Farmiga per guardare il secondo, accolto ben più calorosamente. Sebbene a me fosse piaciuto anche il suo predecessore, è pur vero che il capitolo due è diverso, più intenso e più concentrato sulla storia da raccontare che sul desiderio di farlo spaventando. Il discorso sulla fede che spesso caratterizza il cinema demoniaco viene qui riproposto, ma al femminile. Non sono sacerdoti, quindi, ad avere dubbi sulla propria veste, ma suore, che devono affrontare il male per poter accogliere dentro di sé quello che considerano essere il bene. Invertire la consuetudine di genere rende il film, ai miei occhi, ancora più interessante, perché cambia il tono della riflessione e le riflessioni che se ne traggono. 
L'ho trovato più appassionato e intenso, con una Farmiga sempre al meglio delle sue capacità e una bella storia da raccontare.




A questo film ho dedicato una live che vi condivido, per non dilungarmi ancora su un film di cui ho parlato a sufficienza.







La mia ormai nota antipatia per Nicolas Cage aveva fatto sì che io rimandassi questa visione e questo è ingiusto nei confronti di un Nicholas che invece amo di amore appassionato: lo stupendo Hoult. Devo anche riconoscere che spesso i miei pregiudizi mi fanno prendere delle cantonate, ed è questo il caso: mi sono divertita come una pazza. Coreografato in modo delizioso, simpatico e con momenti interessanti quando decide di parlare di relazioni e autocoscienza, pur continuando a farlo in modo scanzonato e senza mai prendersi sul serio. Che questo non faccia pensar male: non si prende mai gioco di tematiche serie e importantissime, come la tossicità di alcune relazioni, sceglie solo un registro più leggero per affrontarle e secondo me lo fa in modo molto rispettoso.
Se Cage qui si lascia andare a fare il meme consapevole, è Hoult che si conferma adeguatissimo in questi ruoli scanzonati ma intriganti. Carinissimo.




Io e questo film non ci siamo capiti. Parla di una bambina, Mia, che dopo il suo settimo compleanno chiede alla madre di essere chiamata Alice, e sostiene di non essere più se stessa. Il nome non è nuovo a sua madre, e le richiede di scavare nel suo passato per restituire alla figlia la propria identità. 
Apre due temi molto canonici dell'horror, la maternità e il senso di colpa, solo che ho avuto la sensazione fosse un po' sfuggente e non centratissimo su nessuno dei due. Cerco di spiegarmi meglio senza fare spoiler: la prima parte vede una madre dover risolvere un problema della figlia, la seconda è quella che rivela che il problema, in realtà, è suo. La mia perplessità sta nella risoluzione. La madre ha fatto un errore, e deve pagarne le conseguenze, però non mi è chiaro perché debba essere punita nella sua maternità, completamente scollegata dall'errore che ha commesso. Non è la sua identità quella rimessa in discussione, viene punita non in quanto colpevole ma in quanto madre, e non sono sicura di essere uscita da questa visione soddisfatta. Alla fine non fa una vera riflessione sulla maternità, sul ruolo genitoriale, ma neppure una profondissima sulla colpa e l'elaborazione della stessa. Ha però alcuni momenti molto riusciti e due interpreti sopraffine. Non so, forse non ci siamo incastrati nel momento giusto.



Questo non è piaciuto a nessuno e ammetterò che io non ho grandi capacità di giudizio verso i film per famiglie però mi sono divertita. È una commedia molto classica di infestazione, con medium, scettici e vittime, quasi grottesca nei suoi eccessi ma con buone intenzioni. Alcuni momenti mi hanno fatto molto ridere perché ho l'umorismo di una di cinque anni, quindi alla medium che viene cacciata dalle scale con ancora la sedia sotto il sedere ho riso moltissimo, ma in generale l'ho trovato candido e sincero.
Ho una sola perplessità che credo sia legata al momento che sto vivendo. Molto spesso nel cinema che parla di lutto viene chiesto a chi resta di lasciar andare, e qui avviene lo stesso. Le persone sofferenti sono invitate ad andare avanti, ad abbracciare la nuova vita piena di possibilità. È un gesto che mi viene da considerare violento e non mi piace vederlo. Voglio tenermi stretto il mio passato e fare sì che mi aiuti a vivere un presente migliore e a costruire un futuro di cui essere fiera, non voglio "lasciar andare". È un concetto che non mi piace soprattutto quando viene suggerito ai bambini. Per il resto, c'è Danny De Vito, non penso serva altro.




Storico cult di fine anni '80 che a me ancora mancava e che ho recuperato perché l'ho trovato su Shudder. Queste squisitezze qui sono le cose che metto su quando mi serve del cinema confortevole: demoni, final girls, omicidi originali - molto apprezzato il braccio tranciato con una bara - adolescenti sciocchi e case abbandonate in cui fare sinistri festeggiamenti di Halloween. Qui c'è poco da spiegare, ognuno si rilassa a modo suo e niente come una roba del genere mi rimette in pace col mondo. Questo, poi, ha alcuni momenti iconici - la rapina al supermercato, un momento di rivendicazione del proprio corpo mica male, il rossetto nella tetta, potrei continuare all'infinito - e tanta, tanta voglia di fare quel cinema nato per intrattenere, senza secondi scopi, senza pedagogia, solo con la voglia di demoni e tanto sangue. Mi sono già affezionata.

lunedì 16 ottobre 2023

Redrumia33: settimana 2

15:55
Questa seconda settimana di visioni di ottobre ha subito una piccola battuta d'arresto: l'uscita de La caduta della casa degli Usher, di cui ho parlato qui in un post senza spoiler ci ha rubato una sera di cinema, e, insieme alla consueta uscita settimanale con gli amici, ha fatto sì che i film di questa settimana fossero solo cinque.
Ve li racconto.




Non mi dilungo su questo film che avevo sottovalutato perché gli ho dedicato una live, che vi lascio qui se vi andasse di vederla. Per sintetizzare: mi ha intrattenuto tanto perché la sua componente gotica è gradevolissima e bella a guardarsi, ma avrei voluto si prendesse più tempo per analizzare alcuni temi fondamentali della storia che racconta e che invece tralascia. Il resto è nella live.







Avevo una voglia matta di rivedere Ultima notte a Soho, il capolavoro di Edgar Wright, e averlo comodo su Prime mi ha convinta. Per me non è solo la cosa migliore del suo regista, che è talentuoso e molto colto, ma una delle cose migliori di sempre. 
Prende gli stilemi e le regole del giallo all'italiana per trasformarlo in una cosa modernissima, che omaggia i grandi e al tempo stesso critica senza pietà il sentimento nostalgico. Usa le caratteristiche base delle donne del giallo ma le rivoluzione, privandole completamente della componente erotica per omaggiarle di una storia completa e complessa. Usa la donna investigatrice e la donna omicida, ma entrambe sono più potenti perché la storia è su di loro che si concentra anziché sfruttarle solo per il bene del personaggio maschile. 
Per me questo è cinema perfetto, ho poco da aggiungere.




Mi sono guardata questa versione all black e moderna di Frankenstein perché è uscita su Shudder e ne sono rimasta piacevolmente colpita. Parla di una giovanissima appassionata di scienza, Vicaria, che è stanca dell'epidemia che colpisce il suo quartiere: la violenza. Vicaria, infatti, viene da una zona urbana complessa, in cui le difficoltà vengono affrontate come si può e spesso il solo modo possibile è quello dannoso. Si cerca di sopravvivere tra abuso di sostanze, violenze domestiche, attacchi da parte della polizia, istituzioni assenti o, quando presenti, solo dannose. Quando muore suo fratello lei non si rassegna, e cerca di riportarlo in vita grazie alle sue conoscenze scientifiche.
Non so bene perché mi aspettassi una commedia, o un film dai toni leggeri. Pensavo che il titolo fosse da prendersi alla leggera, e invece dice già il senso del film: The ANGRY Black Girl. Vicaria è l'eroina moderna che le giovani spettatrici dell'orrore si meritano. Non accetta di sottostare ad un clima di paura e oppressione, non teme le persone che la circondano anche quando sono evidentemente pericolose, e ha sulle spalle un carico che nessuna persona della sua età dovrebbe avere. Eppure non lo subisce, ma fa quello che può per ribellarsi ad un sistema ingiusto e prevaricatore, e sebbene faccia degli errori li fa con molta più consapevolezza di tutti gli adulti che la circondano e che, per scelta o per assenza della stessa, finisce che il sistema lo alimentano anziché combatterlo. 
E soprattutto, poiché è intelligente per davvero, cresce e impara dai propri errori, comprende cosa sia o meno giusto fare per il proprio bene e per quello degli altri, saluta quello che non può essere sistemato e si concentra sul presente. Un personaggio splendido in un film davvero carino.



Anche lui, arrivato nei giorni scorsi su Prime, lo avevo sottovalutato. Parla di una ragazzina la cui madre, ossessionata da un killer mascherato che ha attaccato le sue amiche anni fa, viene uccisa dallo stesso killer e decide di tornare indietro nel tempo nella speranza di liberarsi dell'assassino e salvare la vita alla madre. 
È strano che io abbia preso due cantonate così perché non sottovaluto quasi mai niente: sono di bocca buona, mi piace tutto ed è passata da tempo l'epoca in cui mi atteggiavo a cinefilina intellettuale con i gusti migliori degli altri (era una posa naturalmente, sono sempre stata una cretina). Invece proprio questa settimana due film a cui pensavo poco si sono rivelati piacevolissimi: Totally Killer è rumoroso ed eccessivo e prono al perculo, e mi ha divertita tantissimo. La protagonista torna alla fine degli anni '80, e anche in questo caso si prende un po' in giro l'effetto nostalgia che sembra diventare una follia collettiva ogni decennio. Questi anni '80 sono scorretti e sgradevoli, le persone si trattano malissimo e intrattenere una relazione sincera con qualcuno pare impossibile. Anche il modo in cui Jamie, il personaggio di Kiernan Shipka, li rimbrotta per la scorrettezza del modo in cui si esprimono è ben sottolineato. Qua non c'è niente di cui provare nostalgia, solo un gruppo di cafoni con la giacca di jeans da cercare di salvare prima di tutto dalla loro stessa stupidità. Mi sono molto divertita e per gli amanti di Ritorno al futuro gli easter eggs non si contano.




Ho visto in giro per il web quanto poco è stato amato il nuovo film di André Øvredal. Secondo me è proprio colpa del fatto che il nome del regista ci ha caricato di grandi aspettative, visto il notevole curriculum che ha preceduto questa uscita.
Anche se è vero che non tocca gli ottimi momenti del passato, a me è piaciuto. Il design di questo Dracula è fenomenale e mi ha spaventata come pochi prima di lui, ha un protagonista ben scritto e che suscita immediata empatia, e alcuni momenti di tensione sincera. 
Lungi dall'essere il lavoro migliore di Øvredal mi è sembrato comunque onesto ed efficace, penso si sia portato a casa con grande dignità la resa del senso di ineluttabilità tipico dei film che ti comunicano all'inizio che finiranno male. 

lunedì 9 ottobre 2023

Redrumia33 - settimana 1

11:53

 Tradizione di casa Redrumia vuole che ad ottobre si guardi un horror al giorno. Per me questa sarebbe la norma, da tenersi tutto l'anno, ma non posso rischiare il matrimonio, quindi mi limito a chiederlo come regalo di compleanno al mio povero marito che non è esattamente un grande appassionato.

Questi sono quelli che abbiamo visto in questa prima settimana.


Abbiamo naturalmente cominciato con l'horror più chiacchierato dell'anno, che mi sono persa al cinema con grande dolore. Alla fine forse per Riccardo è stato meglio così: è davvero spaventoso come il trailer ci aveva fatto intuire. Ho visto che sui social è un film piuttosto controverso quindi ci tengo a chiarire la mia posizione: sono tra quelli che l'hanno amato. 
Come ormai saprete, è una storia di possessione che vede un gruppo di ragazzi giocare con una mano che permette loro di farsi brevemente possedere. Quando permettono al fratellino di una ragazza della compagnia di partecipare, le cose si fanno ben più intense di una semplice goliardata.
Ne ho amato molti aspetti: quanto è spaventosa la prima parte, il modo in cui affronta il lutto in modo semplice ma non superficiale, il modo in cui racconta gli adolescenti, che non sono creature mostruose e senza cuore ma che a volte fanno degli errori gravissimi convinti di stare facendo la cosa giusta. È un film in cui i protagonisti sono costretti ad assumersi le responsabilità delle proprie scelte, e soprattutto vi è costretta Mia, che è in una fase delicatissima della propria vita: la mamma è morta, la sua vita sociale va malissimo, ed è la principale responsabile del disastro combinato col fratellino della sua migliore amica. Nel corso del film Mia deve imparare che spesso per mettere una pezza ai propri errori bisogna sacrificare qualcosa di proprio, e questa esplorazione conduce il film ad un finale che secondo me è magnifico e commovente. 
Un coming of age che si muove attraverso sbagli e sofferenze, in cui diventare migliori è possibile solo se prima si scivola sul terreno accidentato dell'esistenza. L'ho molto apprezzato anche se penso si perda un pochino nella seconda parte, con quel finale si è assolutamente fatto perdonare.




Questo l'ho riguardato per un progetto a cui sto lavorando e ogni volta lo apprezzo di più. Chi non lo ama non capisce il cinema degli anni duemila ed è un vero peccato, perché si perde un cinema scatenato e violentissimo, che riaccende spesso la mia fiammella di passione ogni volta che avverto un po' di calo. 
Non è stupido come ve lo ricordate, è perfettamente rappresentativo della sua epoca e al tempo stesso un'anomalia: costo ridicolmente superiore ai suoi contemporanei non ripagato dal successo che ci si aspettava, ma brutale e macellaio esattamente come tutti quelli dello stesso decennio. Non si riesce a distogliere lo sguardo, gli sono sinceramente affezionata.




Per poter recuperare il suo seguito uscito di recente e di cui in tanti mi hanno parlato bene, abbiamo recuperato il primo The Nun, che avevo ignorato alla sua uscita. Sbagliavo, ovviamente, perché per me è stata una visione simpatica. Per chi non lo conoscesse, è uno spin off del Warrenverse, in cui si esplora il passato del mio adorato Marchese dei Serpenti. Ha per me dei momenti molto buoni, di grande suggestione, ed essendo un horror religioso sapete bene che ha il mio cuore. Purtroppo avrei voluto osasse un po' di più, ma ho trovato belli affascinanti i momenti con la madre superiora e carino il modo in cui si riaggancia al suo universo narrativo. Raga io son contenta con poco.




Esattamente come col film sopra, anche Insidious 4 l'ho recuperato per poter vedere il 5, uscito quest'anno. La saga di Insidious per me è molto equilibrata, e i film sono tutti buoni. Questo, nello specifico, esplora il passato di Elise, costringendola a tornare nella casa d'infanzia, in cui il suo dono non era visto di buon grado. Oltre ad aver apprezzato la scelta di dedicare a lei e al suo percorso un capitolo intero, ho trovato questo il sequel più simpatico della saga, che dedicando un po' di spazio ai colleghi della medium dona un po' di leggerezza in una storia in cui invece di leggero non c'è nulla.
Parla bene di violenza domestica, della condanna del diverso, di come a volte l'unico modo per superare il passato è riportarlo nel presente. 
Molto carino, io faccio spesso l'errore di mettere questa saga in secondo piano e sbaglio, è tra le migliori degli anni recenti.



 
L'ultimo capitolo, infatti, lo conferma. L'esordio alla regia di Patrick Wilson è un film che riprende la storia da dove l'avevamo lasciata col secondo capitolo. Josh e la moglie hanno divorziato e lui e il figlio Dalton si sono sottoposti ad un'intervento di rimozione della memoria di quanto accaduto loro. Se Dalton ha vissuto 9 anni senza che questo avesse su di lui alcuna conseguenza, Josh è ben più provato: è un uomo smarrito, allontanato dalla famiglia, incapace di adattarsi ad una vita nuova e a recuperare una relazione sana col primogenito. Quando qualcosa nella memoria di Dalton comincia a muoversi c'è bisogno che il padre ritorni in sé, per salvare il figlio, se stesso, e quello che resta del loro rapporto.
Il modo in cui la relazione tra il padre e il figlio adolescente è messa in discussione è molto buono, anche se a tutti gli effetti la saga salva sempre i padri dando la responsabilità delle loro colpe a fattori esterni. Se si accetta questo, ne esce un film commovente, che vede un uomo doversi ricostruire dopo il momento più basso della sua vita, e che, come la medium nel film precedente, per poterlo fare deve lasciar spazio al passato nel suo presente. Bisogna sempre ripercorrere i propri passi per chiudere tutto quello che è stato lasciato aperto e poter proseguire facendo della propria storia un mattone su cui costruire un presente, e Josh ha bisogno di rimettere in discussione il proprio ruolo come genitore per poter davvero diventare una persona diversa nella vita del figlio.
Una bella conclusione, molto coerente con i messaggi dati nei film precedenti e con il percorso dei suoi protagonisti, sono rimasta molto soddisfatta.




Era qualche mese che mi volevo rivedere Shutter, uno dei film che mi fa più paura di sempre, quindi una sera in cui Riccardo era al lavoro me lo sono concessa. Lo ricordavo bene: fa parecchia paura. 
Non ho molto da dire di nuovo, perché ne ho parlato spessissimo su ogni piattaforma, ma per me è un ottimo rappresentante del cinema orientale, con la caratteristica fantasma vendicativa; un racconto importante su cosa sia la colpa e su cosa ci rende complici della sofferenza altrui. Per me ha uno dei finali più spaventosi e significativi di sempre. 
Per rivederlo aspetterò altri 4 o 5 anni, però, che vorrei evitare la prematura dipartita.




Altra uscita piuttosto chiacchierata del periodo è Nessuno vi salverà, variazione dell'home invasion che vede gli alieni al posto dei noiosi invasori umani. È un film senza dialoghi, che gestisce a mio parere molto bene questa sua caratteristica che risulta sempre molto naturale e mai forzata, coerente con la situazione iniziale che il film ci racconta: la sua protagonista è una giovane donna rimasta sola, in cattivi rapporti col vicinato per via di qualcosa accaduto nel suo passato e che una notte riceve una visita indesiderata. Anche in questo caso per me il punto di forza è il finale: una riflessione su solitudine, colpa e disperazione, in cui il diverso può essere l'unica soluzione per sopravvivere. Non ho amato il creature design degli alieni che un po' troppo spesso mi ha fatto sorridere e il mistero su cosa la nostra protagonista abbia combinato non ha nulla di misterioso. Non che per me la prevedibilità sia necessariamente un difetto, ma lo segnalo per chi in effetti la consideri tale.
Una visione comunque interessante che, se vi va, trovate su Disney+.


martedì 11 ottobre 2022

Redrumia32: parte 1

19:15
 Se siete da queste parti da un po' conoscete la tradizione del mese di ottobre, che non è solo la spooky season ma anche il compleanno della Vostra. Se non lo siete ve la racconto: condivido casa e vita con una persona a cui piace guardare i film ma che degli horror ha spesso paura quindi guardarli insieme significa spesso scendere a compromessi. Non mi dispiace, mi fa uscire dalla mia comfort zone e mi fa conoscere cose nuove, ma ad ottobre non transigo, e questo è l'unico regalo di compleanno che chiedo: un horror al giorno. 
Lui generosamente me lo concede e io ogni settimana - circa - faccio qui sul blog un riassunto delle cose a cui l'ho sottoposto. Ammetterò che questa settimana non abbiamo proprio azzeccato dei gran titoli, ma ve li racconto comunque. Giuro che di solito non sono cattiva così.







Siamo partiti con Umma, la storia di una donna che vive semi isolata con la figlia adolescente, con la quale gestisce un'azienda che produce miele. Lo zio la trova per portarle la notizia della morte della madre, e da quel momento la vita delle due smette di essere tranquilla.

Questo ha un intento semi buono, ma è pur vero che sappiamo bene di cosa sono lastricate le strade per l'inferno. Mi sta bene che si scelga di parlare di - resto volutamente vaga per evitare il rischio spoiler - di problemi delle donne di cui per ora ancora si parla poco, ma l'avrei tanto voluta vedere gestita meglio. Umma, la nonna, è una donna vittima di una circostanza che non ha cercato, che le ha lasciato traumi così grandi da renderla una persona diversa. Siamo sicuri, però, che la scelta di renderla la cattiva sia il modo giusto di farlo? Perché è passata a me come una faciloneria, un modo superficiale di gestire situazioni che superficiali non lo sono e non lo saranno mai.
Per dare un giudizio nel complesso, però, l'ho trovato tutto sommato dimenticabile.


si trova su Prime Video


Abby e Gretchen sono migliori amiche, con quella relazione da anime gemelle. Durante un weekend tra amiche, in una casa nei boschi, però, a Gretchen succede qualcosa di orrendo e da quel momento non sarà mai più la stessa. Possessione demoniaca o tremendo trauma? Abby farà di tutto per aiutare la sua amica.

All'inizio dell'anno avevo letto il romanzo da cui il film è tratto. Era una storia che prima di tutto parlava di differenza di classe (un lato di me però ricorda che Abby fosse anche nera, il che porta anche tutta una serie di altre implicazioni, ma se ricordo male correggetemi!). Gretchen era la bionda bambolina milionaria, figlia di una famiglia per bene con un nome e un'immagine da mantenere, Abby arrivava da una famiglia ben più umile. Frequentavano la stessa scuola, un prestigioso istituto privato, che Abby poteva permettersi solo grazie a borse di studio, che metteva a rischio cercando di aiutare la sua amica.
Questo elemento c'è anche nel film, che è tutto sommato piuttosto fedele per quanto riguarda il semplice svolgimento dei fatti, ma che pecca parecchio nel focus. Le differenze tra Gretchen e Abby, il privilegio di una e le difficoltà dell'altra, sono il cuore del libro. Qui sono solo accennate. Ci sono la perfetta bambolina che si libera dalle aspettative della famiglia da un lato e la disgraziata che non ha (quasi) niente da perdere ed è pronta a tutto per liberare la sua amica dalla nuova cosa che la infligge dall'altro, ma mi sembra si sfiori il punto senza mai toccarlo veramente.
Poi per carità, è una visione graziosa. Io però cercavo qualcosa d'altro.


lui invece è su Disney+


Norman e Claire hanno il matrimonio perfetto: sono bellissimi e ricchi, hanno una figlia modello che parte per il college e hanno superato con successo le difficoltà del loro passato. Dalle finestre della logo incantevole magione, però, Claire assiste alla vita dei vicini, ben lontani dalla loro perfezione, e se ne appassiona, al punto che quello che vede finisce per avere ripercussioni anche per la sua, di vita.

Lungi da me dire qualcosa di negativo su Zemeckis. Non sono ancora impazzita, e nel complesso mica si può dire che questo sia un brutto film, anzi. Fa quella cosa sempre attuale di mostrare come il marcio stia spesso nascosto alla luce del sole con delle sembianze luccicanti. Però diciamo che si nel periodo di Halloween andasse di vedere qualcosa di suo c'è sempre La morte ti fa bella. 
Con quello non si sbaglia mai.




La famiglia di Rini è colta da una serie di spiacevoli sventure: la madre si ammala e la famiglia si blocca per prendersi cura di lei, i proventi della sua precedente carriera da cantante sono ormai un ricordo del passato, e in casa ci sono anche i bambini più piccoli a cui badare. 
La morte della madre non migliora per nulla la situazione.

Io lo so che la devo chiudere qui con il cinema asiatico. Non ne ho nessuna cultura, avrò visto meno di venti film a voler restare abbondante, e tutte le circa venti volte me la sono fatta sotto senza pietà. Lo so che Indonesia e Cina e Giappone e Thailandia sono nazioni ben diverse ed è come mettere insieme il cinema francese con quello dell'Estonia, lo so. Ma la mia esperienza è stata questa, e temo abbia molto a che fare con la totale mancanza di familiarità. È tutto distante da me e da quello che conosco, non ho una competenza che mi renda qualcosa più accessibile e finisce puntualmente che sono annientata sul divano senza essere più capace di muovermi. 
Che cazzo di paura.
Fine della recensione.




Father Max è un prete farlocco che fa delle live in cui pratica esorcismi. Naturalmente è tutto uno show, tenuto in piedi dai due amici Max e Drew, ma fa un successo insperato. Le donne di tutto il mondo si strappano i capelli alla vista del prete belloccio, perché siamo pur sempre tutte le sorelle di Fleabag, e i due si godono il momento di gloria. 
Fino a che non va tutto malissimo, e lo show diventa più reale del previsto.

Allora, questo è buono. Rientra in quel filone che a me piace sempre tanto dell'horror social, in cui la nuova comunicazione diventa protagonista. Mi piace che metta tutto in discussione - anche se il discorso sull'autenticità è vecchio come il mondo stesso dell'intrattenimento - e che lo faccia questa volta con il sottogenere con cui più di tutti ho un rapporto di amore-odio: quello demoniaco. Naturalmente quando a dover recitare è la fidanzata di Drew la possessione diventa reale e tutti cominciano a farsela sotto, noi spettatori compresi.
Il posseduto seduto sulla sedia sotto lo sguardo di tutti non è una novità, lo avevamo già visto (visto si fa per dire, con le mani davanti agli occhi) in quel piccolo gioiello terrificante che è The Atticus Institute, un film da cui buon dio mi sono ripresa dopo settimane. Questo non fa altrettanta paura, ma ha una piacevole discesa verso gli inferi, un graduale ma efficace peggioramento della situazione che è stato molto piacevole da vedere. 
Sono solo rimasta leggermente delusa dal finale, è come se avesse costruito una strada molto carina da percorrere per arrivare ad un punto in cui la vista non è granchè.


è un originale Netflix


Il giovane Craig viene assunto dal vecchio miliardario Mr Harrigan perché gli legga delle storie. La relazione tra i due dura anni, ed è Craig ad iniziare l'anziano alle meraviglie degli smartphone. Il vecchio ne godrà per poco, perché morirà di lì a breve, e durante il funerale il suo giovane amico lo farà seppellire con il suo telefono in tasca. Tutto molto tenero, almeno fino a che il telefono di Craig inizia a ricevere dei messaggi che arrivano proprio dal telefono del signor Harrigan.

Questo è insipido. Come mangiare dell'insalata scondita: saziare ti sazia, ma che noia. Avrei voluto più tenerezza nella relazione tra i due - che pur c'è ma solo accennata - nella prima parte e ben più angoscia nella seconda. L'ho trovato ammosciato, insignificante. Poteva essere un coming of age interessante, un racconto di crescita e di distaccamento dal passato. Invece sono usciti i titoli di coda e io e il Moderatore siamo rimasti davvero sconcertati che potesse davvero finire così. Sembra nemmeno concluso. 
Quando King scrive qualcosa di poco adattabile lo sapete già che c'è Flanagan da chiamare, perché perdere tempo così?


si trova al canale di Midnight Factory


Ecco questo invece mi ha un po' fatta arrabbiare. 
Taylor e le sue amiche decidono, contro il volere della cugina Emma, di andare a fare uno scherzo alla nuova vicina che nemmeno conoscono, Julie, e la faccenda finisce molto male.

Lo so che la trama è scritta male, ma la colpa è del film. 
A me piacciono i film in cui capisci che tutto sta andando in merda, è pericolosissimo e fa tutto paura ma ancora non si capisce perché. Mi diverte, crea un'ottima atmosfera, gioca con l'immaginazione dello spettatore. Però ad un certo punto bisogna tirare le fila di quello che sta effettivamente succedendo in scena, perché va bene l'immaginazione dello spettatore, ma il film mica te lo devo scrivere io. 
Mi starebbe pure bene l'eccesso opposto: non dire nulla di nulla, lascia che tutto sia terrificante e spaventoso e finisca male senza che noi si sappia nulla del perché.
È questa ridicola via di mezzo che non ho tollerato. C'è una bambolina che compare e scompare in giro per casa. C'è un papà che ha commesso una cosa tremenda. C'è una signora indisposta per via della suddetta cosa tremenda. C'è Julie. C'è il gruppo di amiche. Tutto ammassato, tenuto insieme con lo sputo e la speranza e coperto di urla isteriche che ci ricordano che le cose stanno andando male.
Sono io che l'ho frainteso, sto film?
O è lui che è scemo?




QUESTO È BELLO!
Shawn è un influencer caduto in rovina: ha fatto una cappellata e il suo video di scuse non è servito a recuperare l'affetto dei suoi follower. Il suo successo era nato con una rubrica in cui affrontava le sue paure facendo cose matte tipo lanciare i sassi alle guardie (cosa che comunque non disapproviamo) e quindi ha deciso di tornare a far parlare di sè affrontando la sua paura più grande: i fantasmi. 
Armato di attrezzatura che costerà come la mia casa ma che comunque i grandi nomi dei social statunitensi si possono permettere, parte per passare da solo una notte in una casa infestata. Il tutto, ovviamente, in live streaming.

Lo ammetto, dopo una settimana come quella che avete letto fin qui, sono partita prevenuta. Ero pronta alla stronzata. E forse lo è. Ma è la stronzata più bella e divertente che ho visto nell'ultimo periodo. Il protagonista è un povero imbecille e il film non fa nulla per mascherarlo, si lancia in questa cosa da solo prendendo nessuna precauzione per la propria sicurezza e lanciandosi nel vuoto (una volta anche letteralmente e ho quasi rischiato di soffocare dalle risate). La prima metà del film è un insieme disordinato e caotico delle sue urla isteriche, perché non ha mentito e se la fa davvero sotto dalla paura.
È però anche vero che la paura è contagiosa, e mentre Shawn scappa a chiudersi negli armadi intanto cominciamo a farcela sotto un po' anche noi. Quando poi le presenze appaiono, perché appaiono eccome, il film diventa un omaggio ai grandi, quelli che il cinema lo facevano proprio sporchissimo e disgustoso. La casa è ripugnante perché abbandonata da decenni e quindi lurida, elemento che in pochi prima di lui hanno sfruttato, e le presenze disgustose. Ci sono dita nel naso, acque torbide, pipì in bocca. E non si smette mai, mai di ridere, anche quando è inquietante. Fa un uso molto intelligente del mezzo social, perché essendo un live stream abbiamo modo di assistere anche alla chat degli utenti connessi - che il film sfrutta benissimo - e questo contribuisce a dare al film e allo spettatore un elemento in più con cui giocare. 
Si prende gioco bonariamente ma in modo affilato del fenomeno degli influencer, della visibilità online, del rischio che si corre quando si è disposti a tutto. Ha un ritmo che non molla mai, è frizzante, spiritoso, ripugnante. Ne ho adorato ogni istante, mi sono spanciata dalle risate. 
So già che lo riguarderò spesso.


venerdì 10 giugno 2022

Gli anni '40: la Snake Pit Unit di RKO e Val Lewton

23:01
 Ci siamo lasciati alle spalle un decennio di mostri. La razionalità e l'amore per la pragmaticità avevano lasciato il posto al fantastico, all'inspiegabile, ad una scienza ottusa e limitata, quando non addirittura antietica e crudele.
Il punto, però, è che i mostri facevano soldi. Ne facevano parecchi costando poco e Universal, che era considerata una delle case minori (non faceva parte delle tanto chiacchierate major) stava attraversando sì un momento complesso, ma se continuava a sopravvivere era solo per l'orrore. Questo dettaglio non è passato inosservato a chi la circondava, e anche le altre case hanno iniziato a chiedersi se non fosse il caso di investire qualcosina nel brivido.
Tra queste, RKO, l'antenna sulla cima del mondo.


non assomiglia un po' allo zio dei Cesaroni, Val Lewton?


Radio-Keith Orpheum Pictures

Prima di addentrarci nelle produzioni del signore in foto, diamo un'occhiata alla casa di produzione che cos' tanta fiducia gli ha dato, l'RKO.
Lei sì, che era una major, una di quelle case gigantesche che del cinema curavano tutto, dalla creazione alla distribuzione. Come quasi tutte le sue simili, nasce dall'incontro di più persone che hanno capito le potenzialità economiche del cinema e che hanno deciso di investire in diversi ambiti della creazione cinematografica per avere più controllo e più guadagno possibile. Nello specifico, RKO nasce dall'unione di una storica azienda di elettronica, una catena di teatri e sale cinematografiche e una società di produzione. 
I suoi primi anni sono segnati da successi straordinari: si assicura i diritti per la distribuzione dei lavori Disney, scopre e investe sulla coppia dorata formata da Fred Astaire e Ginger Rogers, arrivava ad una quarantina di film l'anno che coinvolgevano alcuni dei più grandi nomi del suo tempo. Hitchcock, Bette Davis, Katharine Hepburn, Orson Welles, solo per citare i più famosi.
Oggi fa quasi ridere pensarlo, ma sono proprio alcuni di questi nomi che hanno quasi buttato giù l'antenna più famosa di Hollywood. La collaborazione tra i ballerini più famosi di sempre si interrompe, per dirne una, ma soprattutto Quarto Potere è un flop così potente che a qualcuno secondo me tremano ancora i denti. 
Bisogna correre ai ripari, e l'horror è sempre lì a braccia aperte ad accogliere chi ha bisogno di aiuto. Prima di questo momento aveva fatto qualcosina, il primo King Kong è opera loro, ma mancava una visione d'insieme, un progetto.
RKO allora, nel 1942, fonda un'intera unità a parte, dedicata solo al brivido, che chiamavano Snake Pit Unit, e la appioppano a tale Val Lewton, uno scrittore di origine russa che davvero di horror non sapeva niente e che ripeteva con una frequenza folle che lo avevano chiamato solo perché qualcuno aveva detto che i suoi romanzi erano orrendi e non ci si era capiti bene.
E alla fine quello che di orrore non sapeva nulla la storia l'ha fatta lo stesso.

Val Lewton


Nato in Russia, Vladimir Ivanovich Leventon arriva da una famiglia d'arte: la zia era Alla Nazimova, attrice e produttrice, che all'arrivo negli Stati Uniti della sua famiglia ha dato subito un impiego alla sorella nel suo mondo. 
Lui, però, non era troppo interessato al cinema, perché voleva scrivere. Si contano 18 lavori, tra narrativa, non fiction e poesia. Al cinema, quindi, arriva come sceneggiatore. Collabora spesso con David Selznick, finisce per essere tra gli autori non accreditati di Via col Vento. 
La sua strada, però, lo doveva condurre tra le tenebre, e quando RKO gli picchietta sulla spalla per chiedere una mano con la neonata sezione horror lui il lavoro lo accetta, ma ad una condizione: totale libertà creativa, che la casa gli concede senza nemmeno pensarci troppo. Questo patto aveva naturalmente delle regole. Le sue erano produzioni minori, decisamente low cost. Doveva girare in quattro settimane, con budget minuscoli che non rappresentassero fattori di rischio troppo rilevanti, doveva creare film che superassero mai un certo minutaggio, e doveva adattarsi ai titoli che gli venivano forniti, che è sinceramente la mia regola preferita. 
RKO, conscia del potere scatenato da Universal, ha deciso che i mostri tiravano un sacco (era vero, naturalmente) e quindi creava titoli ad hoc per riportare la gente in sala. Poco importava poi se di mostruoso non c'era nulla, si invocavano cat people, zombie, navi fantasma, e lui, insieme a tre registi straordinari con cui ha collaborato, ci faceva un po' quello che gli andava. E quello che gli andava era magnifico.

VL + Jacques Tourneur

A RKO non importava che i gatti fossero la paura più grande di Lewton, volevano un film che si sarebbe dovuto chiamare Cat People - Il bacio della pantera e lui era pregato di fornirlo, grazie molte.
Lui allora fa un film su una donna sessualmente repressa che nessuno si degna di ascoltare e loro se lo devono far andar bene perché con sto film spacca il botteghino. Non che ai critici dell'epoca sia piaciuto, erano persone abituate ad altro che ancora dovevano conoscere questo modo nuovo che i due stavano creando per parlare di cinema di paura. Costato nemmeno 150mila dollari, se ne porta a casa tra i due e i quattro milioni, capirete bene che i critici se possibile possono andarsi a posare. 
La coppia Lewton - Tourneur inizia con la storia di Irena, una disegnatrice di moda con un forte legame con le sue origini serbe, così forte da mettere i bastoni tra le ruote persino nel suo recente matrimonio con Oliver, che tanto la ama quanto è scemarello. 
Cat People è diventato un film segna epoche, di quelli che rivoluzionano quanto viene dopo. Un po' perché cambia radicalmente il linguaggio di genere, un po' per quanto drasticamente si distacca da quanto venuto prima, un po' perché introduce un tema che diventerà preponderante per tutto il decennio: la donna paranoica.
Introduce un nuovo modo di spaventare, che non si era ancora mai sperimentato, e prometto che ne parleremo qui e poi basta per il resto del post perché è la prima cosa che si dice quando si parla di Lewton. Cat People è un film sul non mostrato, che cela nelle ombre i suoi aspetti più spaventosi, che spaventava lasciando che l'immaginazione dello spettatore facesse tutto da sé. Questo, dopo che il pubblico era abituato alle grandiose rivelazioni del volto di Chaney, o dei mostri di Karloff, o dello sguardo di Lugosi, era una sensazione nuova. Qua non si spalanca una porta per far comparire Nosferatu in tutto il suo orrore, non lo si staglia in piedi sulla nave a mostrarsi in tutto il suo glorioso orrore. Qua le ombre ti seguono alle spalle, i rumori si avvicinano ma mai a sufficienza da fartene vedere la fonte, l'angoscia ti coglie lentamente per poi mostrarti, nella più famosa scena dell'horror anni '40, che quello in fondo era solo un bus. È una storia di disagio profonda e potente, della frustrazione di non sentirsi capiti, della perdita di sé e della propria rete sociale, di persone con potere che ne abusano (è forse questo il vero film rouge di questo blog?) a discapito di chi, al momento, si è smarrito. È una storia di una donna lasciata sola nella difficoltà, e nello stesso di un uomo così inconsapevole del mondo che lo circonda da non permettergli di comprendere la donna che ha preso in sposa. 
Non è solo un film straordinario in quanto tale, ma anche importante come fondamenta di un discorso che Lewton porta avanti per tutta la sua carriera nella casa cinematografica. Parla di frustrazione, certo, ma anche di morte, disagio esistenziale, solitudine. Parla del terrore dell'irrazionale. 
Se c'è una cosa che amo, però, di Cat People, è la fine che fa fare alla sua protagonista. Che muore, sì, ma muore libera. Dopo un'ora di film in cui la vediamo vessata da persone che continuano a chiederle di sforzarsi, di essere altro rispetto a se stessa, di snaturarsi, Irena muore senza cedere mai a quello che le viene chiesto da chi la circonda. Perde tutto, per mantenere la sua libertà, ma a letto con Oliver non c'è mai andata. 
Fa davvero ridere, oggi, pensare che un tale film, così tecnicamente ineccepibile ed elegante, sia a tutti gli effetti un B-movie. 
Tourneur a Lewton piace, e l'avrei davvero sfidato a dire il contrario, e l'anno dopo tornano a lavorare insieme per I walked with a zombie, che tutto il mondo dell'orrore riassume come una storia voodoo ispirata a Jane Eyre e se davvero questo non vi basta a considerarlo un capolavoro io e voi non possiamo volerci bene. Come abbiamo visto parlando di White Zombie, i ritornanti dell'epoca sono ben diversi da come li intendiamo oggi. Sono l'annullamento dell'anima, la cancellazione dell'individualità. Uno zombie nel senso haitiano del termine è un corpo vuoto che cammina, che fa molto comodo nelle piantagioni. In questo caso l'essere zombie è interpretato come un morbo, che oltre ai lavoratori locali ha colpito la magnifica moglie del proprietario della piantagione. Si ripercorrono tante delle cose che abbiamo visto nel film di Halperin, che forse qui vediamo più mature, ancora più complesse e approfondite. Senza assolutamente nulla togliere al film precedete, questa è roba di Tourneur, e la differenze è inevitabile. L'utilizzo della letteratura come punto di partenza è un altro elemento ricorrente del cinema di Lewton, del suo tentativo di elevare il genere in ogni modo in cui i suoi pochi mezzi glielo permettevano, e Ho camminato con uno zombi non è da meno. 
Anche lui, oggi, è oggetto di culto, come il suo predecessore, ma allo stesso modo non fu amato all'epoca: i critici non amavano il suo prendersi sul serio, lo chiamavano pretenzioso. 
Se tutta la sua produzione è priva di soprannaturale in senso stretto, Ho camminato con uno zombi è forse quello in cui l'assenza di mostri è ben più palese, ma in cui si richiede maggiormente di lasciarsi andare all'ignoto, al magico, allo spirituale. Lo si chiede a Betsy, l'infermiera giunta sull'isola per aiutare la moglie malata, lo si chiede ai due fratelli innamorati di lei. A personaggi così lontani dalla familiarità del mondo occidentale a cui appartengono viene chiesto di accogliere la possibilità di un mondo inesplicabile. La fine, poi, è canonicamente di Lewton: per accogliere la vita si deve abbracciare la possibilità della morte.
Ultima pellicola che Lewton produce per Tourneur è The Leopard Man, sempre nel '43. 
Abitualmente la nascita dei cosiddetti protoslasher, gli anticipatori del filone più recente, viene collocata negli anni '60, che tra Psycho e Peeping Tom hanno spalancato le porte a quello che è successo poi con Micheal Myers e gli altri. Gli anni '40, però, piccini piccini e tanto scordati da tutti, hanno dato a loro volta il loro contributo, e con le mani di chi, se non delle persone migliori del decennio? 
Il più diffuso villain del cinema dell'orrore degli anni '40 è l'uomo bianco, The Leopard Man ce ne parla diffusamente, raccontando di una serie di omicidi che terrorizzano una comunità e che cominciano proprio in concomitanza con la fuga di una pantera da un locale notturno. 
Naturalmente nessuno poteva pensare che quella splendida panterina piccina e troppo bella fosse davvero l'omicida, ma mi è stato poi fatto notare che io la trovo adorabile, ma io sono anche abituata a vedere gli animali al cinema. Le scene con la creatura, legata al guinzaglio come un animale domestico, sono state aggiunte per creare tensione, per incrementare il fattore spavento del film, e questi dettagli mi servono per capire quanto velocemente la nostra percezione del mondo sia cambiata, anche grazie al cinema. Se già i precedenti furono accolti tiepidamente, The Leopard Man è stato il minore di tutti, considerato debole persino dal suo stesso regista, che col tempo ha finito per considerarlo poco più che un unione poco fruttuosa di scene scollegate, o qualcosa del genere. A me piace particolarmente perché è il primo tra i lavori di Lewton in cui componente della quotidianità è molto forte. È un elemento che è sempre presente: i suoi film sono ambientati nelle grandi città, e ne viviamo sempre piccoli momenti che ci aiutano a percepire come più "distante", se vogliamo, l'elemento di intrusione, della rottura del quotidiano. Qui c'è una mamma che minaccia a cinghiate la figlia se non le obbedisce, ma anche una comune serata in un nightclub, la rivalità tra le donne che vi si esibiscono, una scena di lutto molto intima e dolorosa. Il cattivo, in questo caso l'omicida, è sempre qualcuno di disturbato, di problematico. Il male non è ritratto come una possibilità ingiustificata ed esistente in quanto tale, ma se ne va sempre a ricercare una causa, che sia un evento del passato, un trauma, o una fragilità. 
Lewton e Tourneur insieme hanno scritto un nuovo modo di raccontare le storie di paura, ma soprattutto un modo nuovo di guardare alle persone, colpevoli o innocenti che siano.

VL + Mark Robson

Lewton non era solo un produttore, ma forse la sua vera missione doveva essere scoprire talenti. Dopo la collaborazione con un signore da nulla come Tourneur, decide che è il momento di aprirsi a qualcuno di nuovo, e spunta sto Robson, che di lavoro in realtà fa l'editor. Lo colpisce al punto da volergli concedere la possibilità di dirigere, e gli offre un film che è un capolavoro: The Seventh Victim, il primo vero film della storia a parlare di sette sataniche, anni luce prima del Satanic Panic, di Rosemary's Baby, di Corman. E lo fa piazzandosi al confine tra l'horror puro e il noir, ricordandoci che questo collegamento che oggi diamo per scontato è proprio a Lewton che lo dobbiamo. Parla di una giovane donna che lascia il prestigioso collegio in cui studia per mettersi sulle tracce della sorella scomparsa. 
Alcuni momenti di The Seventh Victim sono così d'impatto che credo non li dimenticherò mai: la stanza vuota con solo un cappio appeso, l'estenuante scena di "convincimento", che chiamo solo così per non rivelare troppo, la morte dell'investigatore. È incredibile vederlo oggi sapendo quanto anticipo abbia avuto sui film che hanno parlato di satanismo, quanta sfacciata influenza abbia avuto su quelli che oggi consideriamo - giustamente - capisaldi del genere. In piena epoca Codice Hays questi ci hanno cacciato un suicidio, e il risultato era così bello da non poterlo toccare. 
Riprende poi alcuni dei temi fondamentali del nostro: la ricerca di un senso in una vita devastata dal disagio esistenziale, una condizione di solitudine dell'anima che nulla ha a che vedere con quella effettiva. È in effetti un film molto doloroso, per lo spettatore e per quasi tutti i suoi personaggi, perché ci priva di ogni speranza. Però quanto è bello?
Il film successivo di Robson è The Ghost Ship, forse quello che mi piace meno. Capirete però che il poverino è circondato di roba immensa, in fondo non è manco colpa sua. Di nuovo si parla di persone che devono convivere con il loro passato, ma i fantasmi sono solo gli spettri del senso di colpa, di ectoplasmi Lewton non parla ancora, almeno per quest'anno (che è sempre il '43). Parla anche di ossessione per l'autorità, per la disciplina militaresca e di come, per l'ennesima volta, la situazione di pericolo non abbia un'origine esterna ma solo ed esclusivamente interna alle dinamiche umane. 
Il tutto, in un film che doveva parlare di appendicite.
Sempre insieme a Robson Lewton mette al mondo Youth Runs Wild, che ancora non ho visto e che a quanto pare Lewton, a causa dei troppi cambiamenti imposti da RKO, detesta.
Subito dopo arriva Isle of the Dead, il film che segna l'ingresso di Boris Karloff in casa RKO. Lewton non l'ha presa proprio benissimo: in un percorso così volto ad allontanarsi dai mostri, inserire il volto più rappresentativo della categoria sembrava quasi una presa in giro. Karloff, però, era il più bravo di tutti proprio perché la sua rappresentazione della mostruosità non ha nulla a che fare con il sovrannaturale ma piuttosto il suo contrario. Parlava sempre dell'umanità insita nel mostruoso, e non c'era nessuno che meglio di lui potesse entrare nelle opere di Lewton, in cui era l'uomo in carne ed ossa a fare più paura. Qui è un generale che, durante la guerra dei Balcani si ritrova chiuso in una villa con altri ospiti perché sembra ci sia in corso un'epidemia di peste e si ritrovano tutti in quarantena. In realtà il nemico da affrontare naturalmente è ben più complesso della sola malattia, che già da sola non è che sia proprio una scampagnata. 
Se c'era un film adatto a confermare il fatto che Karloff sta bene in ogni contesto è proprio questo: il suo personaggio è controverso, non ha mai sempre ragione nè sempre torto, è detestato e testardo e solo alla fine sarà chiaro a tutti i personaggi da che parte stava. 
Per noi, invece, è cristallino: Karloff sta ovunque ed è sempre la scelta migliore possibile.
Anche in Bedlam Karloff dà il meglio che può, interpretando il direttore di un manicomio brutale e inumano, che rinchiude le donne che ostacolano il suo percorso verso la ricchezza e l'agio, costruito attraverso relazioni con i potenti del luogo. Bedlam è un film che adoro, che indubbiamente risente degli anni che si porta sulle spalle per quanto riguarda il dialogo sulla malattia mentale ma che riesce nonostante questo ad essere un buon passo avanti per la sua epoca. I pazienti sono usati solo come spalla per dare personalità a chi si occupa di loro, non hanno alcuna rilevanza individuale, sono strumenti, ma sono sicura capiate che non è una critica che posso fare prescindendo dall'età del film. È un film a volte semplicistico e superficiale nella divisione tra bene e male, ma ripercorre temi che ormai ci sono familiari (il trauma, il disagio psicologico, l'abbandono...) in un contesto quasi da commedia nera. 
In mezzo a mostri sacri come Tourneur e il signore che vedremo tra poco, è facile scordarsi di Robson. Lewton, però, lo ha notato in mezzo a tanti e ha fatto sì che potesse regalarci la sua visione sul mondo nichilista e severo del nostro produttore del cuore.

VL + Robert Wise

Robert Wise è horror royalty. È cinema royalty. Una di quelle personalità che hanno seminato oro mentre passeggiavano sul mondo. E se abbiamo avuto lo straordinario onore di poter assistere a quello che ha creato, è grazie a Lewton, e ad un sequel.
Siamo nel 1944, ed esce The Curse of the Cat People, perché Irena sarà pure morta fisicamente, ma la storia ci insegna che le donne libere non muoiono mai, e ci voleva un sequel. 
Un sequel in cui Irena nostra è un fantasma, un'apparizione che può vedere solo Amy, la figlia che Oliver e Alice hanno avuto insieme. Amy è una bambina diversa: fatica a socializzare, le compagne di scuola la evitano, è ingenua e fragile. La famiglia tenta di estorcerle nella maniera più sbagliata possibile una socialità forzata che non le appartiene e lei finisce per fare amicizia con la sola persona che le concede di essere se stessa: l'anziana Julia. 
L'esordio di Wise è una dolcissima favola nera, che continua nella narrazione che il suo produttore ha fatto fin dall'inizio, quella che parla di menti fragili ma anche solo diverse da quello che la società si aspetta da loro. Un film di rara delicatezza, in cui Irena è onnipresente non solo perché la bambina la vede ma anche perché continua ad ossessionare le menti di chi l'ha conosciuta, ma anche una storia di sincera e genuina amicizia tra due anime agli antipodi della vita, con in comune solo l'ingenuità con cui la affrontano. Bellissimo.
Nello stesso anno i due lavorano insieme anche a Mademoiselle Fifi, che poiché non horror puro ho saltato a piè pari per mancanza di tempo.
Ultima collaborazione è The Body Snatcher, di nuovo con Karloff e pure con una fugace apparizione di Lugosi. Qui torniamo su temi cari anche agli amici di Universal, perché siamo dalle parti dello scienziato che commette cose un po' sbagliate in nome della scienza, poi quando gli chiedono di fare la cosa giusta guarda l'orologio e si defila perché s'è fatta una certa. 
C'è qualcosa di poetico e sinistro nel modo in cui Wise ritrae i bambini (e lo so che starete anche pensando grazie graziella e grazie al ca*o, dato il futuro del regista in questione). Sono anime pulitissime, genuine, sincere e senza macchia alcuna. Hanno fede cieca negli adulti che le circondano (femminile perché si tratta di due bambine, ma se volete lanciamo il femminile universale a me sta bene), riconoscono dalla purezza dello sguardo chi ha a cuore il loro benessere e sanno identificare chi sia meritevole della loro fiducia. Amy e Georgina (la paziente del luminare che non ha tempo per lei) sono bambine diverse dalla normalità statistica: Amy ha problemi sociali, Georgina una disabilità fisica. Sono sole, accudite solo dall'affetto di qualche adulto che si prende a cuore la loro situazione, ma lontane dai coetanei, incapaci di accettarle. 
Allo stesse tempo, sono perfettamente consapevoli del mondo che le circonda: Amy perché percepisce anche l'assenza (il trauma dei suoi genitori e del loro passato) e Georgina perché è in grado di comprendere a quale medico può aprirsi e dire la verità sul proprio malessere, fosse anche solo indicargli dove prova dolore. Gli adulti, in tutto ciò, bazzicano intorno alle piccole trattandole come bambole di porcellana, mentre intorno a loro crollano le certezze. 
I genitori di Amy sono ancora sottomessi all'influenza di Irena, come se il tempo non fosse mai trascorso, il dottor MacFarlane non distingue il bene dal male. E loro, le bambine, sono sole a farsi spazio in un mondo angosciante e sinistro, in cui la finestra che dà sul futuro può essere sì luminosa, ma richiede comunque un percorso in mezzo alla nebbia. 
E nel cinema di Lewton, ormai lo sappiamo, la nebbia non è mai un buon segno, perché è nell'ombra che si nascondono le cattive notizie.


La Snake Pit Unit è durata solo 5 anni. Tempi diversi, in cui in un solo anno si poteva lavorare ad un gran numero di produzioni senza che la qualità venisse compromessa per i tempi stretti. In cinque anni ci ha regalato un nuovo modo di vivere l'orrore, nuovi modi di parlare di donne e del loro vissuto, nuovi nomi che col tempo sarebbero diventati parte fondante della storia del cinema e pure una discreta paura dei gatti.
Non male, per uno scrittore di romanzi "orridi".

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