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giovedì 17 ottobre 2024

The Poughkeepsie Tapes

15:35

 Per questa nuova stagione di Nuovi Incubi mi ero prefissata di accompagnare ogni episodio con un post sul blog che fosse in qualche modo collegato con il film di cui abbiamo parlato nel podcast. L'episodio uscito martedì, che potete ascoltare qui sotto, è tutto dedicato a Behind the mask: the rise of Leslie Vernon, e ci ha fatto compagnia Chiara Sinchetto, che ringrazio anche qui e che vi invito a cercare sui social, è una persona carinissima e molto preparata.      



Quale film associare al delizioso Leslie, quindi, anche se con un paio di giorni di ritardo? 
A una cosa che non potrebbe essere più lontana dalla delizia. Se è vero, infatti, che anche The Poughkeepsie Tapes è un mockumentary che parla di un serial killer, proprio come Behind the mask, il modo in cui le due faccende sono messe in scene non potrebbe essere più diverso. Per il primo film vi invito, se vi fa piacere, ad ascoltare l'episodio, mentre se volete sentirmi dire quanto poco apprezzi il secondo potete restare qui.
Aspettatevi spoiler.




I filmati che danno il titolo al film sono quelli registrati dal Water Street Butcher, un brutale serial killer che sta seminando il terrore nella cittadina di Poughkeepsie, vicino a New York. Un gruppo di documentaristi sta girando un film proprio su di lui, e ricostruiamo le indagini grazie al contributo di agenti della polizia, FBI e parenti delle vittime. Nello specifico, seguiamo l'infelice vicenda della sua vittima prediletta, Cheryl, a cui sono dedicate la maggior parte delle videocassette ritrovate.

La fama del film lo precede: cercandolo su Google, infatti, si incontrano presto i consueti titoli sensazionalistici tipici di un certo modo di parlare di cinema dell'orrore. "Il found footage più disturbante che vedrete nella vostra vita", "La visione più estrema che farete", la solita sfilata di clickbait che ormai conosciamo bene. È indiscutibile, il film è molto forte e potrebbe urtare la sensibilità di qualcuno. Di sicuro ha infastidito la mia. È anche vero che la sua storia distributiva ha contribuito a questo status di culto che, mi permetto di dirlo, è quasi offensivo (aAaAhHhH lA CaNc3l CuLtUrEeEeE!!!1!). Presentato a Tribeca nel 2007 e comprato subito da MGM, sparisce dalla circolazione per anni. Se ne sono trovate, in quel periodo, un paio di versioni online, col sempre santo pensiero laterale, che però il regista giudica versioni incomplete e piene di falle. Arriva in vod nel 2014, e torna a far parlare di sè con più forza nel 2017, quando ne esce una nuova versione in DVD per Scream Factory. Oggi si trova nella sua versione completa online, ma non ha ricevuto distribuzione italiana.

Il film , come dicevo, è un falso documentario che alterna momenti canonici da true crime, con interviste e commenti degli esperti, a momenti presi direttamente dalle cassette del killer. L'intento del film è cristallino: mettere in discussione il crescente fenomeno del true crime. In quel periodo, infatti, le tv stavano iniziando a riempirsi di trasmissioni dedicate ai crimini, che sebbene siano sempre esistite, hanno iniziato a farsi da metà degli anni Novanta sempre più estreme e irrispettose. È di oggi la notizia della scomparsa del noto cantante Liam Payne, e quando ancora la notizia non era ufficiale il sito TMZ stava pubblicando delle foto in cui parte del corpo era visibile. Le foto, ora, sono state rimosse, ma sappiamo bene che nulla è mai davvero cancellato dal web. Il danno è fatto. 
The Poughkeepsie Tapes, quindi, cerca di far riflettere su questo, sull'inappropriatezza e la brutalità di mostrare gli eventi violenti, di dare le sorti delle vittime in pasto a chi non riesce a distogliere lo sguardo, ignorando sentimenti e sensibilità di chi ha amato quei corpi che osserviamo mutilati. È una critica santa, corretta. Ma il film è davvero in grado di elaborarla? A mio parere, no.

Ormai da queste parti ci conosciamo: non sono una bigotta e la violenza al cinema mi diverte parecchio. Però ci devono essere delle condizioni, altrimenti vale tutto. Per chiarezza: non mi addentrerò in un discorso francamente un po' noioso su cosa sia concesso o meno all'arte. Come singolo individuo, però, so cosa non voglio trovarci io. Non voglio, per esempio, la disonestà. Il film di Dowdle disonesto lo è, perché copre con l'ipocrita maschera della critica un atteggiamento che usa in prima persona. Scegliere di mettere in scena le cassette del killer non è di per sé sbagliato, ma lo è quando si sofferma un minuto di troppo sulla vittima che sobbalza sul palloncino che proprio non riesce a far scoppiare, quando mostra una donna così brutalizzata dal killer da avere la mente completamente annientata e decide di non soffermarsi sulle conseguenze anche psichiatriche di un simile dramma ma solo mettendo in scena un dolore impossibile da elaborare, senza accompagnarlo con un briciolo di spiegazione (è o no un documentario?). Se il terrore che provano le persone passa più tempo davanti all'obiettivo rispetto a tutto il resto, stai davvero cercando di analizzare un fenomeno o stai giocherellando con quello che ti è consentito fare? Non solo. Il terrore che le persone provano è in scena perché è il killer che ce lo ha messo. È dalle sue registrazioni che vediamo il peggio, e scegliere di incorporarle nel documentario finale significa lasciare a lui stesso la narrazione di sé. Se già i professionisti intervistati si muoiono sul piccolissimo confine che separa il raccapriccio dall'ammirazione (come vediamo in un fastidioso sorriso di un medico colpito dalla straordinarietà delle azioni compiute), lasciare che sia il killer stesso a parlare di sé è un grande passo oltre il limite del buonsenso. Abbiamo parlato spesso nel podcast del ruolo e del filtro del documentarista, che imprime nel film il suo sguardo sul mondo. Come si collega lo sguardo di chi sta registrando a quello del killer? Perché farli fondere insieme, fino quasi a sovrapporli? Del resto, non sarebbe proprio classico del killer spingere i professionisti a sottolineare la grandiosità delle sue azioni? Eppure, non si porta mai questa faccenda fino in fondo, e il discorso dello sguardo di chi registra, così vitale nel found footage, qui lo diventa meno. Chi ha montato questo documentario lo ha fatto con lo scopo evidente di lodare le azioni, sottolinearne la difficoltà e l'intelligenza che richiedono. Altrimenti perché mostrare i filmati? Perché proprio quelli che umiliano le vittime e non, per esempio, quelli in cui vengono torturate? È tutto un gioco di ego e non sono certa di quale ego sto parlando.

Al di là della mia sensibilità individuale, che per una volta mi concedo di utilizzare come filtro, penso che il suo eccesso sia paradossalmente quello che lo rende più fragile almeno da un punto di vista narrativo. Da quello visivo raggiunge benissimo l'obiettivo: vuole shockare, e lo fa. È un film che gioca sulla pretesa di autenticità, come molti altri prima di lui, e lo fa soprattutto nella sua parte finale, che gioca con la sua ipotetica uscita in sala. I poliziotti del documentario confidano in una distribuzione al cinema così che il killer, per la solita tendenza all'autocompiacimento, vada a vederlo più volte e loro possano così incastrarlo. In più, in questo ultimo atto vediamo finalmente un'intervista alla vittima sopravvissuta, Cheryl. Cheryl viene piazzata davanti allo schermo ed è evidente che è mancata una parte preparatoria, un momento precedente al ciak in cui si siano fatte due chiacchiere con lei, anche solo per capire se avesse, effettivamente, qualcosa da dire. Lasciare i suoi lunghi silenzi e le sue infinite ripetizioni serve solo a far fantasticare sulle atrocità che le sono state inflitte e che poco prima il documentario ci ha tenuto moltissimo a elencare nel dettaglio. Se un documentario deve essere, di sicuro è uno scadente. Poteva essere sfruttato come discussione della pena di morte, dell'importanza di comunicare le informazioni corrette alla stampa dando loro il giusto peso. Poteva incorporare il messaggio sulla fame del popolo bue, che attende la gente muoia "legalmente" per poter assistere all'evento, alla fretta di incastrare qualcuno. Semplicemente, non lo fa. Verrebbe da chiedersi: ma non è tutto lì il senso della critica? Mettere in luce scorrettezze e mancanza di professionalità?
Ci vogliono una scrittura perfetta, intenzioni chiare e attenzione a ogni dettaglio per riuscire a discutere delle operazioni disgustose di un certo tipo di giornalismo senza compiere gli stessi errori. Non penso, in tutta onestà, che quella di The Poughkeepsie Tapes ci riesca. 

martedì 17 settembre 2024

The Collingswood Story

11:51
 Come vi dicevo qualche post fa, la nuova stagione di Nuovi Incubi sarà tutta dedicata al found footage. Era partita con una programmazione ricchissima ma poco prima della partenza io e la mia cohost Lucia ci siamo chieste se fosse effettivamente il caso di accollarci così tanto, vista l'immensa quantità di film. Siamo già prolisse a sufficienza quando parliamo di un film per volta. Abbiamo quindi deciso di fare una stagione più snella - e quando vedrete quanto è lunga capirete quanto ironico sia che la definisca snella - ma io a tutto quel found footage non volevo rinunciare. È pur sempre il mio sottogenere preferito. Quindi l'idea è di affiancare a ogni episodio (o quasi) un post, ogni volta dedicato a film in qualche modo legati a quello protagonista dell'uscita del podcast. 
L'episodio uscito oggi è su My Little Eye, piccolo ma eccellente found footage del 2002 che ha anticipato di diversi anni temi e modalità a noi oggi così familiari. Nello stesso anno, però, di film piccoli, incredibilmente in anticipo sui tempi e per questo dimenticati troppo presto ce n'è stato un altro: The Collingswood Story.




Rebecca e Johnny hanno una relazione ma vivono lontani da quando lei ha iniziato a frequentare il college. Per riuscire a mantenere vivo il rapporto lui le regala una webcam e la introduce all'uso di un software per le chiamate che si colleghi al pc e permetta ai chiamanti di vedersi. La piattaforma è utilizzata da ogni tipo di weirdos dell'internet - del 2002, poi, ve li potete tranquillamente immaginare - tra cui una medium, Vera, che durante una chiamata conoscitiva rivela a Rebecca delle verità che cambieranno il corso della sua vita.

My Little Eye è stato il primo a introdurre diversi elementi: l'ambientazione nel reality show e le camere fisse arrivano da qui, per esempio. The Collingswood Story allo stesso modo introduce qualcosa: è a tutti gli effetti il primo horror screenlife.
Uscito nel 2002 e poi scomparso immediatamente, ha ricominciato a girare per qualche festival nel 2005, per finire poi tra i titoli da cestone dell'unieuro molto velocemente. Nessuno sapeva cosa farsene di una cosa del genere. Imperdonabile, perché davvero ha creato l'impossibile, anticipando non solo un nuovo modo di fare cinema ma anche un intero nuovo modo di comunicare. Se oggi le chiamate su Zoom sono diventate parte del quotidiano sia nella sfera personale che in quella lavorativa, nel 2002 era un discorso ancora quasi inimmaginabile, il che contribuisce a spiegare come mai non sia stato un fenomeno globale come il suo ispiratore Blair Witch Project era stato qualche anno prima. Al regista Michael Costanza mancava quindi la dimestichezza col mezzo che ha avuto, per fare solo un esempio, Rob Savage quando ha realizzato il suo bellissimo Host, e ha dovuto creare questo mondo da zero. Come si rende accattivante una storia in cui per tutto il tempo vediamo solo i volti di quattro persone che parlano? Come fa a rimanere narrativamente interessante? Come si scrivono dialoghi che devono sostenere quasi da soli l'intera vicenda? Come si costruisce la tensione potendo solo riprendere i visi? Si può, con queste premesse, introdurre un intero mistero in modo convincente? Oltre a ciò, il film ha la grande limitazione del software: poiché vediamo lo schermo del pc per intero, la parte riservata alla webcam è molto piccola perché piccolo è lo spazio sullo schermo che occupa la finestra del programma che i due utilizzano, limitando ancora di più le possibilità del regista. Costanza aveva mille "problemi" a cui trovare soluzione e quasi nessun prodotto precedente a cui appellarsi per cercare risposte. 
Il suo film risponde al desiderio voyeuristico a cui si appellano tutti gli screenlife: l'accesso alla parte più riservata di una persona, che oggi si trova nel suo telefono o nel suo computer. Nel 2024 questo ha ovviamente più mezzi per esprimersi: accesso alle mail, ai social, alle chat, alle veloci chiamate su FaceTime o addirittura alla cronologia del browser, il che rende gli screenlife più ricchi e gli spettatori più attivi nel cercare indizi e informazioni in varie parti dello schermo. Nel 2002 era più semplice, e il film sceglie solo di farci entrare nella conversazione privata tra due fidanzati. 

Il fidanzato Johnny è un primo elemento di interesse. Se chiacchierando con Rebecca lo troviamo affabile e premuroso, c'è sempre qualcosa in lui che ci fa storcere leggermente il naso: non riattacca immediatamente appena conclusa la conversazione con la ragazza ma rimane in ascolto, rimanendo spettatore passivo della sua vita quasi a volerla monitorare. Questo ci viene confermato dal suo migliore amico, che lo accusa, seppur scherzosamente, di aver regalato la webcam alla fidanzata proprio per avere ancora più controllo sulla sua vita. L'amico parla proprio di stalking. In più, per regalare una serata indimenticabile a Rebecca dà il suo numero ad alcuni dei weirdo dell'internet di cui sopra, sperando che le loro buffe telefonate l'avrebbero distratta dalla prevista serata dedicata allo studio. Una cosa oltraggiosa e pericolosa.
Parlando con la madre, Rebecca dice di essersi allontanata non solo per l'università, ma anche per avere uno spazio suo, un po' lontano da Johnny stesso. In questo il film gioca abbastanza bene, mantenendo fino all'ultimo secondo possibile l'ambiguità necessaria per farci sospettare che possa essere Johnny a mettere in pericolo Rebecca e non la medium Vera con le sue rivelazioni. 
Non che Vera sia esente da ambiguità: ogni volta che compare sullo schermo pare diversa dalla precedente: a volte immersa fino al collo nel suo personaggio oscuro e minaccioso, altre ridicolizzando il soprannaturale e tutti i creduloni che abboccano alle sciocchezze. In questo il film è chiaro: non bisogna fidarsi delle persone del web. A essere messo in discussione non è mai il mezzo ma sempre coloro che ne fanno uso, che non sono mai autentici e meritevoli di fiducia. Anche questo è un interessante cambiamento che resterà poco sviluppato nel corso del tempo. Internet - e oggi anche il mondo delle intelligenze artificiali - è da sempre ritratto come il demonio del nuovo millennio. Il focus è sempre stato sul mezzo, pur con le dovute eccezioni, mentre Costanza qui sceglie di lasciare la responsabilità del male tutta nelle mani degli uomini, che con le loro sette e i loro culti portano violenza e morte.

L'elemento legato al culto e alla risoluzione della storia di Collingswood che dà il titolo alla pellicola è in effetti proprio la sua parte più debole. È poco intrigante e un po' superficiale ma sono certa di vederla così proprio per le difficoltà legate alla scelta della videochiamata. Essere troppo in anticipo sui tempi ha significato non avere familiarità col mezzo perché, banalmente, non lo si usava. Non se ne conoscevano tempi e soprattutto potenzialità spaventose. Sebbene, soprattutto nella prima parte, ci siano momenti in cui genuinamente si teme per la sorte dell'ignara Rebecca, questo si perde molto nella seconda, quando si dedica tempo alla ricerca di informazioni sul culto che aveva sede nella città senza che si riesca davvero a legare questa storia alla protagonista. Il film ci dà le informazioni corrette per mettere insieme persone e circostanze, ma il senso di pericolo imminente, così chiave nel found footage, qui manca, e si arriva al finale poco intrigati e un po' delusi soprattutto dalla conclusione stessa. 
Oggi un regista che si approccia allo screenlife sa come posizionare la webcam per massimizzare la tensione, quali dialoghi tenere e quali scartare per tenere il ritmo fluido e realistico. Conosciamo internet così bene da sapere come sfruttarlo per trarne il massimo possibile in termini di funzionalità ed efficacia.

Se lo sappiamo così bene, però, è perché sono arrivati pionieri come The Collingswood Story a mettere le basi, e dimenticarceli come abbiamo fatto con lui è ingiusto e anche un po' triste.


lunedì 19 agosto 2024

Aspettando Nuovi Incubi: The Last Broadcast

14:41
Se la scorsa settimana ho deviato occupandomi di found footage nell'ambito televisivo, oggi ritorniamo a discutere del rapporto tra documentario e realtà, parlando di un film uscito l'anno prima di The Blair Witch Project e che, nonostante sia meno famoso, ha anticipato in modo sorprendente riflessioni sul genere che oggi diamo per scontate. Si chiama The Last Broadcast ed è diretto da Stefan Avalos e Lance Weiler.



Una crew composta da quattro persone è partita per un lavoro in mezzo alla natura: cercano infatti notizie sul celebre "Jersey Devil", una creatura nella cui esistenza nessuno crede davvero. A fare ritorno, però, è solo uno dei quattro, Jim. È coperto di sangue e il suo atteggiamento è un po' particolare. Questo basta: la polizia vuole un colpevole per le morti degli altri tre e Jim pare perfetto. Morirà in carcere con una condanna per omicidio. Il documentarista David Leigh, però, non è convinto che la spiegazione sia così semplice e decide di girare a sua volta un documentario per verificare come siano davvero andate le cose.

Quali sono le riflessioni sorprendenti che dicevo poco sopra e che rendono il film speciale e molto in anticipo sui tempi? Principalmente due: la creazione artificiale del mostro - e la sua autoconsapevolezza - e l'uso della strumentazione come parte attiva della narrazione.

Partiamo dal mostruoso. 
Il documentario si apre con Leigh che ci racconta della tragica occasione in cui sono morte tre persone, di una delle quali non si sono mai trovati i resti. Ce lo dice prima a parole, poi mostrandoci velocemente il modo in cui la notizia è stata riportata dai media più autorevoli come quotidiani o telegiornali. 
Questo non è un caso: nell'80, con la fondazione di CNN nascono i canali dedicati solo alle notizie. Lo chiamano il "24-hour news cycle", e contiene già nella sua premessa una fallacia: non ci saranno mai abbastanza notizie per riempire l'eternità promessa dalle 24 ore. Si tappano quindi i naturali buchi con notizie meno importanti, spesso grottesche e quantomeno originali, con buona pace della sopracitata autorevolezza. Il declino che oggi riconosciamo ben diffuso in tutto il giornalismo occidentale ha inizio da qui, dal desiderio di portarlo all'estremo a discapito di approfondimento e legittimità delle informazioni. Diciotto anni dopo, quando è uscito il film, il giornalismo aveva ormai assunto i toni sensazionalistici a cui oggi siamo abituati. Ecco che quindi serviva un film pronto a raccontarci i danni di questo trend: la stampa aveva già deciso che Jim fosse il colpevole e la polizia non ha indagato più dello stretto necessario. Come è stato possibile, come si è potuto accettare? Jim era la vittima perfetta di un sistema superficiale e frettoloso: era strambo e solo, due qualità imperdonabili nella iperperformativa America. Puntato un approssimativo dito contro di lui, la stampa ha fatto il resto, contribuendo a costruire il ritratto del mostro perfetto. Jim era orfano, autoproclamato sensitivo, così isolato che i soli a ricordarsi di lui erano la sua proprietaria di casa e il suo psicologo infantile, amante del demoniaco computer e appassionato di magia. Una ricetta che, ben combinata da chi ha distribuito le informazioni, è esplosiva. The Last Broadcast riflette su come è facile, nell'epoca delle notizie sempre disponibili, creare un Jim, prima dell'emissione di sentenze e di giudizi. Ci dice che i più deboli sono facilissimi da incastrare. basta alterare la realtà quanto basta per adattarla a un modello che ci serve per veicolare il messaggio in cui crediamo. Siamo nel decennio del processo mediatico a Monica Lewinsky, del resto. Il cinema ci ha mostrato come si fa, ma i risultati li aveva già mostrati la realtà.

E parlando di realtà alterata, passiamo alla strumentazione.
Durante la sua indagine Leigh entra in possesso del girato dei ragazzi defunti. Realizza presto che la polizia, per riuscire a incastrare Jim, non ha fatto uso di tutto il materiale disponibile, e assume una collaboratrice perché possa aiutarlo a lavorare con i video, che sono spesso danneggiati e hanno bisogno di una mano esperta. Shelly, la collaboratrice, mette mano letteralmente ai filmati: li taglia e cuce per mettere insieme gli stessi momenti ripresi da macchine diverse, li appoggia sul pavimento coperti di post-it per ricordare orari, luoghi e operatori. Nel found footage - per motivi evidenti - la riflessione sull'uso dell'attrezzatura nella diegesi è ricorrente, ma è molto interessante qui perché è su due livelli: The Last Broadcast è un finto documentario che parla di un finto documentario. Per distinguerli chiamerò primario il lavoro dei ragazzi uccisi e secondario quello di Leigh. Abbiamo quindi il materiale relativo al documentario primario che non solo compare in scena e viene manomesso da chi si occupa del secondario, ma è anche fondamentale per la risoluzione del caso che sta al centro proprio di quest'ultimo. Nel documentario primario vediamo spesso in scena dell'attrezzatura - microfoni, computer, luci - ma quasi mai la macchina da presa, a parte brevissimi istanti necessari solo a chiarire l'esistenza di altro girato, ma si vede nel secondario, in un momento specifico di cui parleremo andando in spoiler più avanti. Del primario è però proprio l'attrezzatura a risolvere il caso e a scagionare Jim: sulla pellicola si vede l'orario, provando che nel momento in cui lo si credeva impegnato a uccidere qualcuno Jim stava facendo altro. Questo ci serve nel film perché quello che ci stanno dicendo i due registi è che la pellicola riprende sempre e solo la realtà, e che è il modo in cui questa viene manomessa che conduce all'alterazione. È l'editing a modificare il modo in cui alla realtà abbiamo accesso, e pertanto sono le intenzioni di chi sta girando il secondario, tanto quanto sono state le intenzioni di chi si è occupato di diffondere le notizie a creare un ritratto mostruoso di un uomo innocente. Questo ovviamente si riaggancia al discorso sulla non neutralità del documentarista che abbiamo iniziato con Il cameraman e il maggiordomo. 

Nel prossimo paragrafo ci saranno spoiler.
È solo nel finale che vediamo a lungo e in modo più chiaro la presenza di una macchina da presa. Il film si stacca dal formato del found footage e ci mostra Leigh, che abbiamo scoperto essere il vero assassino, mentre si riprende. Negli ultimi istanti del film si è abbandonato il mockumentary per mostrarci, senza il filtro del documentarista secondario, che Leigh sta uccidendo anche Shelly, la sua collaboratrice colpevole di aver appena scoperto la sua colpevolezza. Infine, lo vediamo continuare a girare, inquadrando se stesso e cercando a lungo le parole giuste per portare a compimento la sua opera. Parlavo prima dell'autoconsapevolezza del mostro: parlavo di Leigh, ovviamente, che ha costruito un documentario intero con la missione di scoprire la verità che lui stesso era il solo a conoscere già. Poiché, mi ripeto, il documentario è sempre filtrato, lo è ovviamente anche questo secondario, guidato dalle indicazioni di un assassino che ci vuole mostrare il modo in cui l'ha fatta franca e ha mandato a morire in carcere un uomo innocente. Lo ha fatto in modo scaltro e intelligente, raccontandoci di come tutto il sistema delle informazioni benefici economicamente dalle tragedie personali, e quindi di come lui stesso, girando il secondario, conti di fare lo stesso. Non solo sa di essere un mostro, sa che lo sono tutti quelli che della sua mostruosità ne beneficeranno e sa che non sarà l'ultimo, il broadcast che dà il titolo al film.
Fine spoiler.

Se tutto questo non fosse sufficiente a rendere The Last Broadcast un film sorprendente, va anche ricordato che ha avuto un budget di 900 dollari, una distribuzione ridicola e immediatamente dopo è stato seppellito dall'uscita di uno dei film più importanti della storia del cinema. Ha un look cheap che contribuisce a dare autenticità e, se posso, pure un aumento della paurella e a quasi 30 anni dalla sua uscita rimane una riflessione lucida e attenta su quanto i diversi, gli ultimi e i soli possano in un istante diventare vittime di un sistema che non li accetta.
La solita leggerezza scanzonata del cinema dell'orrore.



lunedì 12 agosto 2024

Aspettando Nuovi Incubi: Ghostwatch

17:12
 La scorsa settimana abbiamo iniziato questa mini rassegna in attesa della stagione di Nuovi Incubi dedicata al found footage parlando de Il cameraman e l'assassino. 
Per un'infarinatura generale prima di entrare nel vivo della stagione, però, non possiamo non affrontare il vasto tema della televisione, e cominciare a farlo con Ghostwatch mi sembrava una buona idea. 



Sebbene ormai il suo stato di culto renda quasi inutile quanto sto per fare, un piccolo riassunto sulla vicenda Ghostwatch, perché - come vedremo poi per quanto riguarda The Blair Witch Project - in una riflessione sul sottogenere a cui appartiene non possiamo prescindere dal contesto in cui è andato in onda. 
Era la notte di Halloween 1992. I telespettatori inglesi sono pronti a vedere su BBC1 un programma speciale proprio dedicato alla notte più spaventosa dell'anno. Michael Parkinson, noto conduttore di talk show, presenta una serata tutta dedicata alla storia di una famiglia che sostiene di vivere in una casa infestata. Sul luogo altri nomi noti della tv inglese: Sarah Greene e Craig Charles. Presto le manifestazioni cominciano a disturbare la tranquilla riuscita della trasmissione, facendosi sempre più spaventose. In nessun momento della messa in onda si è detto ai telespettatori che stavano assistendo a un prodotto di finzione e questo tiro mancino del canale più autorevole della tv inglese ha portato conseguenze non solo sul pubblico, ma sulla storia del found footage tutto.
L'inganno fu svelato prima della messa in onda sulla rivista Radio Times, ma non è stato sufficiente per evitare la cascata di eventi che sono seguiti. Più di undici milioni di telespettatori erano certi di stare assistendo a immagini reali e terrificanti, i dati riportano migliaia telefonate indignate all'emittente, sono arrivati studi sulle sue conseguenze che sono arrivati a sostenere che abbia causato il primo caso di ptsd in un bambino e purtroppo un suicidio.

questo link ci sono alcune testimonianze di chi ricorda quella sera e di come l'ha vissuta, è un post reddit che quindi va preso con le pinze come ogni cosa esca da quel social del demonio ma penso le testimonianze siano vere. È interessante da leggere perché oggi quello del found footage è un linguaggio che parliamo in tantissimi, ma non poteva essere così nel '92, quando questa cosa neppure aveva un nome. Metterlo in prima serata, davanti allo spettatore medio di un canale considerato serio e autorevole, quando la sola cosa simile era successa in radio decenni prima e di sicuro non conosciuta dal grande pubblico degli anni Novanta, è stata una scommessa quasi criminale. 

Portare il discorso finzione/realtà nella televisione è stato un passo fondamentale nel comprendere le dinamiche tra spettatore e prodotto e Ghostwatch ha portato tutto all'estremo: BBC1 era un canale affidabile, attento allo spettatore; i nomi coinvolti quelli di elementi fondamentali della tv, a cui va aggiunto l'elemento chiave del ruolo di Sarah Greene, fino a poco prima impegnata nella tv per bambini e quindi volto rincuorante e affettuoso; si è messa a disposizione la linea telefonica ufficiale di BBC, mettendo in sovraimpressione il numero a cui gli spettatori sapevano di potersi rivolgere. Significativo è proprio l'uso che si è fatto del telefono. Non solo il numero reale, quindi, già noto agli spettatori che hanno così aperto il cassetto mentale delle cose autentiche in cui è stato immediato aggiungere quello che stavano vedendo, ma anche le telefonate che avvengono durante la trasmissione. Le telefonate erano - e credo seppure in misura minore siano ancora - l'anello di congiunzione tra la tv e i suoi spettatori. Chiunque poteva alzare la cornetta e sperare di riuscire a mettersi in contatto con il proprio idolo. Non solo, poteva così avere parte attiva in quello che di solito riceveva passivamente dal divano di casa. Se lui o lei potevano chiamare e raccontare qualcosa, perché quelle chiamate che stavano vedendo avrebbero dovuto essere false? Arrivavano da qualcuno di comune, proprio come chi stava guardando. 
Tutti questi elementi scatenano un meccanismo complesso: sto vedendo davvero quello che credo di stare vedendo? Quello davanti alle tende è un fantasma o la mia mente mi inganna? 
Ghostwatch fa un lavoro validissimo perché usa il soprannaturale. Se Il cameraman e l'assassino avesse spacciato per reali le sue crude immagini avrebbe senza dubbio scatenato forti reazioni, ma ben diverse: l'esistenza dei serial killer è reale e indiscutibile. Ben diverso costringere le persone a immaginare come reali cose in cui la maggior parte della popolazione nemmeno crede. Si è preso la responsabilità di dire che i fantasmi ci sono, che infestano le case e che soprattutto fanno del male ai bambini. È facile per me dire oggi che noi avremmo capito, che noi saremmo stati più scaltri, ma non è così e dobbiamo ammettercelo: una fetta enorme delle persone fatica a riconoscere le immagini create con intelligenza artificiale da quelle reali. 
Quello che ha fatto, volontariamente o meno, è stato dimostrare in modo innegabile il potere del mezzo televisivo, mostruoso magnete che ha mosso le menti per decenni e che non solo non ha ancora interrotto la sua influenza ma che ha trovato nei social la sua naturale eredità. Ne è emerso un ritratto inquietante: la tv, che era sempre stata la fonte delle certezze, diventava ora angosciante. Non era più adeguata alle famiglie, rese vulnerabili dal rapporto con il mezzo che aveva preso il controllo sulle loro case. 

Ma a prescindere dalla sua storia, che film è Ghostwatch?
Sono di parte, lo considero fenomenale. 
La storia che racconta è simile a quella del poltergeist di Enfield, omaggiato anche nel secondo capitolo della saga dei Warren: una madre single e le sue due figlie subiscono da mesi gli attacchi di una presenza che sta rovinando la loro vita. Poiché nessuno crede loro si rivolgono alla televisione, nella speranza che mostrare gli eventi possa finalmente dimostrare che non stavano mentendo. 
Ha un ritmo che cresce lento ma inesorabile, conducendo a un finale scoppiettante e genuinamente spaventoso. Ha anche una delle scene che mi hanno spaventato di più nella vita, quella in cui realizzano di non stare vedendo in diretta quello che sta accadendo in casa ma che la presenza ha manomesso le immagini e che la prima volta mi ha fatto scendere il cuore nello stomaco. 
Ha mostrato per primo le reali potenzialità del mezzo, e ha giocato con il tema dello sguardo: siamo noi che stiamo guardando i fantasmi o loro a osservare noi? Il male era entrato nelle case attraverso l'oggetto più diffuso, grazie al volto più rassicurante?

Un film bellissimo che è anche un esperimento dai risvolti spaventosi: abbiamo delegato a qualcun altro la responsabilità di dirci cosa è vero e cosa non lo è. Se questo inevitabile rapporto di fiducia crolla, crolla tutto.

lunedì 5 agosto 2024

Aspettando Nuovi Incubi: Il cameraman e l'assassino

16:49

Questo post contiene spoiler.

TW: violenza sessuale, morte di bambini


L'ultima stagione di Nuovi Incubi, il podcast che tengo con la mia amica Lucia, è finita da un paio di settimane e io ho già il mancarone. Come ogni estate ci fermiamo per il mese di agosto ma questa pausa è anche segnata dall'attesa per la prossima stagione. Dopo mesi a struggerci per il nostro amato Mike Flanagan, infatti, è giunto il momento di passare al prossimo argomento: il found footage. Poiché Nuovi Incubi si concentra sul cinema dal 2000 in poi ho pensato fosse carino colmare questo mese di pausa con una piccola digressione su quello che è successo nel genere negli anni Novanta, prima della sua esplosione con The Blair Witch Project. Del resto il ff è il mio sottogenere del cuore, e non potevo perdere l'occasione di parlarne ancora più di quanto previsto dalla stagione - che sarà molto lunga e divertentissima. Sul blog cercherò di pubblicare un post ogni volta che esce un episodio, per esplorare quei film che per non tediarvi troppo a lungo abbiamo deciso di togliere dalla programmazione.

Cominciamo con un piccolo film belga del '92, Il cameraman e l'assassino.




Che l'horror giochi spesso su quanto è sottile il confine tra finzione e realtà non è certo novità del found footage, né del mockumentary. È da Orson Welles e la sua Guerra dei mondi radiofonica che ci si muove su un sentiero che è sottile e spesso pericolante, eppure è indubbio che nel 1992 quel linguaggio che oggi è così chiaramente codificato e che ci aiuta a etichettare come "found footage" un film ancora non era stato messo a fuoco con la chiarezza di oggi.
Non solo non erano ancora ben definite le regole della categoria, ma era anche poco chiaro come e quanto fosse legittimo inserire la vita reale - o quella supposta tale - in un genere di cinema che prevede proprio la ricerca della massima autenticità. Parlare de Il cameraman e l'assassino è significativo proprio perché comincia a porre delle basi sulla relazione tra violenza a cui si assiste e quella a cui si partecipa e a discutere del ruolo dello spettatore in questa dicotomia.

Nel film seguiamo Ben, un uomo dalla chiacchierata vivace e dalle opinioni molto nette, che oltre a essere un amante della musica e dell'architettura è anche un prolifico serial killer. Tre giovani aspiranti documentaristi lo seguono nelle sue giornate, finendo sempre più coinvolti in questa inusuale passione.

A differenza di quanto accaduto dal 1999 in poi, il film non ha mai pretesa di autenticità: manca per esempio l'elemento extra diegetico con cui si spiega che si tratta di una storia vera, che nei primi anni 2000 diventerà quasi un elemento immancabile nel genere. Eppure per certi aspetti è più aderente al mondo reale di tanti dei film che gli hanno fatto seguito. La mancanza di fondi, infatti, anche in questo caso come in quello di alcuni film che avranno i loro episodi dedicati, ha portato a dover ricorrere alla vita vera: la maggior parte dei personaggi hanno i nomi dei loro interpreti, come per esempio i tre registi che sono il killer e due membri della crew, i familiari del film sono proprio quelli del regista - interprete di Ben, si fa aperto riferimento a un caso di cronaca nera tra i più celebri della storia di Francia, l'omicidio di Grégory Villemin. Sfrutto l'infelice citazione per sottolineare il tono generale del film, che potrebbe non venire apprezzato: Grégory era un bambino di quattro anni e il suo omicidio ha agitato l'intero paese. Nel film il suo nome diventa quello del cocktail preferito di Ben. Il tono grottesco e dark che segna questa battuta è quello che pervade l'intero film che, ammetterò fin da questo momento e anche per questa ragione, non è certo tra i miei preferiti. Non amo il black humor e penso il ritmo del film sia zoppicante, a tratti insostenibile soprattutto nella seconda parte. Ritengo comunque importante parlarne per il suo contributo nello sviluppo del genere ma mi pareva onesto aprire chiarendo cosa ne penso.

Non inserendo diciture che creino un contesto per quello a cui stiamo assistendo, il film ci catapulta nel pieno della sua storia, aprendosi con un crudo omicidio a bordo di un treno. Non conosciamo le ragioni per cui i tre documentaristi abbiano scelto proprio Ben, ma neppure, facendo un passo indietro, perché ritrarre proprio un serial killer. Con questa scelta apre al primo tema: l'ego del regista. Durante una delle prime giornate trascorse con Ben avviene un incidente in cui perde la vita il tecnico del suono, non a caso il solo della crew originaria a non avere il nome del suo interprete. Nel commosso - ma presto ironico - commento del regista, inserito ovviamente tra il girato che sarebbe finito nel film concluso, questi fa riferimento ai rischi del mestiere, quasi a sottolineare che sapevano bene in che guaio si sarebbero cacciati con questo lavoro. Il tema, esplicitato in maniera ben più evidente in Cannibal Holocaust (1980, Ruggero Deodato), è quello che si chiede che cosa si è disposti a fare pur di avere una storia da raccontare. Il "dietro le quinte" di un omicida seriale è stata per loro una storia meritevole della loro attenzione, con buona pace dei rischi del mestiere. L'ego è un tema anche per quanto riguarda Ben, però, e non solo Remy e André. Il killer, infatti, oltre a godere molto della sua spregiudicatezza ha un livello tale di auto compiacimento che decide di contribuire finanziariamente al progetto, annullando molto presto l'obiettività dello stesso. Così facendo cancella la distanza tra i tre documentaristi e lui stesso, iniziando il processo che li porterà poi a diventare suoi complici. Non solo si offre di pagare per la realizzazione del film ma comincia a dividere con loro i soldi che trova nelle case delle sue vittime. 
Ormai siamo la stessa cosa, pare dire usando il linguaggio più universale di tutti, quello del denaro.

Questo avvicinarsi porta la crew a diventare a sua volta oggetto del documentario a cui stiamo assistendo. Lo spettatore non ha mai avuto, però, distanza dai tre, perché il film non è un mockumentary riuscito: siamo sempre consapevoli della presenza della macchina da presa, fin dai primi istanti, e Ben finisce per far diventare anche la strumentazione una parte del documentario stesso, chiedendo per esempio al tecnico del suono di avvicinare il microfono affinché si sentissero meglio le ossa spezzate. 
Coinvolgere gli strumenti è il modo per acquisire potere sui tre ragazzi: è Ben a fare le regole della sua narrazione. I ragazzi si lasciano andare prima semplicemente cominciando a comparire, ennesima rottura del documentario tradizionale, e poi cominciando a parlare. Fino a quel momento, infatti, si erano limitati a mostrare la vita di Ben, senza partecipare ma anche senza prenderne le distanze, simulando un documentario che non avrebbe dovuto avere pretesa morale ma solo desiderio di raccontare.
Vedere ogni giorno come Ben la passa liscia contribuisce a scatenare anche in loro desideri sopiti e a renderli sempre più parte attiva: prima aiutano e poi commettono per primi l'impensabile. C'è infatti una lunga sequenza di stupro in cui non sono solo complici ma i primi a compiere il reato. 
In questo lo spettatore come si posiziona? Ogni certezza relativa al documentario è messa per noi in discussione: non ci possiamo fidare di chi ci riporta le storie, perdiamo il senso dell'oggettività e ci chiediamo quanto noi, che continuiamo a seguire, siamo disposti ad accettare. Il titolo in francese, che significa qualcosa come "può accadere nel tuo quartiere" ci rimette al centro: siamo spettatori passivi di qualche atrocità? 

È un film importante perché prima di tanti altri ci parla del modo in cui fruiamo di prodotti che parlano del mondo che ci circonda, anni prima che la reality tv diventasse così centrale nelle nostre programmazioni. Parla sì di chi realizza, ma anche di chi osserva, di chi cerca in quella distanza apparente la giustificazione per non cambiare canale. Ci fa chiedere che cosa cerchiamo quando accendiamo lo schermo: a un personaggio abbastanza carismatico siamo disposti a perdonare tutto? Non sono poche le serie tv in cui ci affezioniamo per esempio a protagonisti che sappiamo essere discutibili, ma non sono pochi neppure i carcerati che ricevono lettere di ammirazione quotidianamente: dove si posiziona il confine tra quello che è lecito fare sullo schermo e quello che invece è concesso nella vita reale? In questo senso il film fa una scelta interessante decidendo di non farci mai empatizzare con Ben: non ha una backstory commovente, un trauma da elaborare, un passato tumultuoso. È solo un assassino, senza alcuna ragione. 
Quale regola determina se la macchina da presa va accesa in ogni momento per rappresentare la realtà nella sua interezza o se invece ci sono cose che è meglio lasciare lontano dallo sguardo? 
Il cameraman e l'assassino fa un buon lavoro nel ridiscutere quella che è solo all'apparenza la morale comune, il ruolo del documentario nel rappresentare la realtà e quello del documentarista che non può in nessun caso cancellare la sua presenza e la sua etica dal suo lavoro. 
L'estremo attrae, il reato seduce e la violenza incanta: come si convive con questa certezza? Il film è pessimista in questo: non si può assistervi senza desiderare di prenderne parte. Oggi sappiamo che la faccenda è molto più complicata di così, ma se il cinema continua a raccontarlo sempre meglio è perché qualcuno ha cominciato. Nonostante le mie reticenze, non posso non riconoscerglielo.







giovedì 29 settembre 2016

Streghe di Blair varie ed eventuali

18:42
Da quando il trono di Sfigheira mi è stato consegnato, me ne sono successe di tutti i colori.
Una su tutte: 
'Ah, quest anno faccio proprio la tessera del cinema, eh! Così risparmio e ci posso andare spesso!'
E quelli del cinema:
'Cosa dite, quei giganteschi e infiniti lavori li facciamo quest anno? Così niente di decente o anche solo accattivante verrà messo in tabellone?'
Fine.

Tutti state parlando del remake di The Blair Witch Project, che mi sarebbe piaciuto tanto vedere in sala. E io non ci posso andare.
Ergo, con fare risentito e conseguente pestata offesa di piedi per terra, eccomi qui, nell'amarezza di casa mia, a fare una minimaratona di streghe di Blair.

The Blair Witch Project (1999)


Tutto quello che sta 'dietro' al primo film della serie delle streghe di Blair mi piace da matti. L'idea, la quasi totale assenza di copione, i pochissimi soldi investiti, la strepitosa campagna marketing. Quando ne leggo in giro gongolo. Mi basta poco? Mi basta poco.
[Se non sapete di cosa sto parlando, eccovi serviti: il BWP parla di tre ragazzi che si avventurano nei boschi della fittizia cittadina di Burskittville, armati di un paio di telecamere, per realizzare un documentario sulle locali leggende a proposito di streghe, sparizioni di bambini, boschi infestati..]
Poi inizia il film, ed Heather inizia a parlare. Guardate, vi posso giurare che questo non inficia il mio giudizio sul film (a me BWP piace ed è sempre piaciuto, a partire dal titolo che amo), ma se non comunico per iscritto la mia ostilità verso questa DEFICIENTE rischio di esplodere. 
Gli errori sono umani. Sono entrati nel bosco, si sono persi, capita. Si sono persi seguendo le indicazioni di una tipa che si è detta convinta di sapere la strada giusta. Non ha minimamente preso in considerazione la possibilità di essersi sbagliata: lei sa la strada. L'errore è umano, ma se insisti allora ti meriti gli insulti in caps lock nei post degli sconosciuti su internet. Fin qui, potrei anche perdonarti, Heather. 
Poi, però, succede che Mike, in un momento di rabbia e sconforto, calcia via la cartina, e le loro possibilità di ritrovare la strada diminuiscono notevolmente. Idea geniale? No, ovviamente. Cosa fa Heather? Quella che, ricordiamo, non solo li ha condotti qui, ma ha anche contribuito attivamente al loro perdersi? Lo copre di insulti, urla, lo morde.
Allora sei pazza. Qual'è il tuo problema, bimba? Hai sbattuto la testa da piccola? 
Mike, ricordiamolo, è l'unico personaggio con reazioni umane fin dal principio. Ha paura, molta, è scoraggiato. Eppure riesce a difenderla quando Josh (anche lui giustamente incazzato nero) la aggredisce verbalmente ricordandole tutte le brillanti idee da lei avute nel corso del breve film. Poi la sento frignare che il film 'è l'unica cosa che le rimane' con quella detestabilissima voce che il doppiaggio italiano le ha donato e allora vorrei picchiarla. Ma picchiarla proprio forte. Il suo realizzare solo di fronte all'ovvio le sue responsabilità mi commuove tanto quanto mi aveva commosso quel coglioncello di Alexander Supertramp: per niente.
Aldilà del mio giudizio su Heather (che se mi conosceste sapreste essere applicabile ad un buon 80% delle persone che conosco), BWP è un bel film, di quelli in cui te la fai discretamente addosso pur vedendo poco e niente. È tutto buio e non ce ne dispiacciamo troppo. Non è tra i film che mi hanno sconvolta dalla paura, e non è nemmeno tra i miei preferiti, se vogliamo dircela. Però è un buon film, ogni tanto lo rivedo volentieri. E poi che i film finti amatoriali siano il mio feticcio è ormai cosa nota, e il mio guilty pleasure è nato da qui.

*Qua in mezzo ci andrebbe Blair Witch 2, che non ho alcuna intenzione di rivedere dopo essermi clamorosamente addormentata alla prima visione*

Blair Witch (2016)




Mi piace un sacco quando i remake/sequel sono così legati all'esistenza del primo film. Quando questo poi viene citato chiaramente scodinzolo allegramente.
L'introduzione quindi non può che piacermi: Heather, la deficiente di cui sopra, aveva un fratello minore. Questo, un po' ossessionato dalla sua scomparsa, parte con alcuni amici per tornare nel bosco di Burskittville e cercare nuove informazioni.
Che fai, non ce lo fai un documentario?
Ce lo fai, e speri che le giovini blogger di cinema della pauraccia non lo guardino subito dopo aver rivisto il tuo ispiratore. Perché se succede finisce che le blogger in questione a 35 minuti dall'inizio siano annoiate a morte, perché vedere ragazzi che camminano nei boschi e poco altro alla lunga può essere impegnativo.
Mi è piaciuta molto la tattica alla Lake Mungo: cosa che spaventa, sdrammatizzazione della stessa, poi la paura vera. Paura che effettivamente c'è, nella dimensione in cui un film con cose strane e indefinite che succedono nei boschi vi può fare paura. Sta anche un po' a sensibilità personale. Io, che sono piuttosto cagasotto, non mi sono sconvolta più di tanto, forse perchè le scene 'peggiori' erano state in parte rovinate dal trailer.
Stiracchiato il found footage, ma effetto mal di mare quasi scongiurato. Io, quantomeno, non l'ho sofferto.
Insomma, forse questa parte di post è piuttosto chiara anche nello 'stile': mi sono annoiata un po'. Ribadisco, BWP non è tra i miei preferiti della vita forever, però mi intrattiene con interesse fino alla fine, qua mi sono sentita meno coinvolta e meno spaventata.


Nei boschi, comunque, non prevedo di dormirci a breve. 

martedì 23 febbraio 2016

Cloverfield

08:50
Che poderose giornate di merda, signori.
So che le avete anche voi, e non starò certo qui a lamentarmi.
Ma oggi sono incavolata come una iena, quindi esigo mostri giganti che uccidono l'umanità. Voglio vedere gli esseri umani spazzati via dalla faccia della Terra, non li sopporto più, basta, voglio solo voi virtuali che notoriamente non siete persone vere.

Siamo a New York, alla festa che i suoi amici hanno tenuto per salutare Rob, in partenza per il Giappone, dove una sfavillante carriera lo sta aspettando.
Sembra che il problema più grosso della serata sia che il festeggiato si è lasciato scappare la donna dei suoi sogni, fino al momento in cui la terra inizia a tremare, ma non c'è nessun terremoto.

Raramente ho visto found footage COSì sforzati. La camerina a mano per me è l'amica che ti mette in imbarazzo ma che adori, ormai lo sapete bene, ma in questo caso, davvero, abbiamo tirato la corda un pochettino troppo.
Se vogliamo continuare a mettere dita in grosse piaghe, possiamo anche dire che difficilmente si sopravvive ad un elicottero che cade, così come non si corre se si è appena stati infilzati con qualcosa, e sempre nel mondo in cui siamo, la testa della Statua della Libertà non sembrerebbe avere quelle dimensioni.


Credete queste siano critiche mie?
Nossignori.
Stanno in giro sull'internet.
Tutte verissime, per carità, lo so io, lo sapete voi, e ci scommetterei le chiappe che quello che lo sa più di tutti è il signor JJ, che qui indossa il camice del produttore.

Ma onestamente, a qualcuno interessa?
Perché io ero sul divano ad ammirare grattacieli crollati, militari in posizione, una GIGANTESCA bestia che corre anche piuttosto veloce, strutture d'emergenza piene di feriti, pianti e disperazione.
E va bene così!
Questo volevo, oggi, e questo ho avuto.
Ne consegue che Cloverfield mi sia piaciuto.

Magari in un altro momento mi avrebbe fatto pietà, e questa consapevolezza mi porta come sempre a chiedermi perché mi ostino a scrivere dei film senza averci riflettuto nemmeno per un istante. E su quanto la vita reale influenzi il nostro modo di amare ciò che reale non è.
Ero incavolata nera (lo sono spesso, sob), ho visto una cosa che ha sollevato i miei pensieri dalla testa e che ha distrutto l'intera Nuova York, mi sono sentita meglio.
Quindi è vero che il cinema non deve essere solo drammi impegnati e filosofeggianti sul vero e profondo senso dell'esistenza. Ogni tanto vogliamo a tutti i costi mantenere l'allure dei cinefili intellettualoidi e ce lo dimentichiamo. (pluralis maiestatis)


In fondo va anche bene così. Leggiamo riviste sinistroidi che parlano di cinema d'essai dai titoli incomprensibili e dai significati che lo sono ancora meno, e il giorno dopo ululiamo cori da stadio di fronte ad uno dei principali simboli del mondo occidentale che viene decapitato da un mostro gigante.
Si chiama equilibrio, e ci sto lavorando.

lunedì 23 febbraio 2015

V/H/S 2

18:00
(2013, registi vari ed eventuali)

Pioveranno tanti spoiler su di noi quanti Oscar ieri sera a Birdman.

Per mesi, e mesi, e mesi, illustri blogger mi hanno fatto notare che sarebbe stata cosa buona e giusta guardare V/H/S 2 perché ci stava dentro un corto che era una BOMBA che io nemmeno me lo potevo immaginare.
Questo è il motivo per cui siamo qui oggi.

Non starò a ripetervi per la volta numero millemila che io ai mock ci voglio bene nonostante tutto. Però, insomma, è giusto sappiate che parto un pochino prevenuta da questo mio sconsiderato amore.

EPISODIO CORNICE
Un investigatore privato e quella che credo essere la sua ragazza stanno indagando sulla scomparsa di un ragazzo. Entrano in casa del giovane e mentre l'investigatore legge i diari per cercare indizi, la donna trova delle videocassette e decide di guardarle.
Pessima, pessima idea.
Episodio che francamente non mi ha colpito, piuttosto piatto e banalotto nella realizzazione, lascia il tempo che trova, ma tanto ce ne frega poco perché qua stiamo tutti aspettando l'episodio 3 che se a questo punto non dovesse piacermi sarebbe una bella delusione.
La parte conclusiva di questo episodio, e quindi del film, è la sola cosa che mi abbia suscitato un minimo di interesse.

PHASE I: CLINICAL TRIALS
In seguito ad un incidente un uomo perde la vista. Si reca in una clinica in cui gli impiantano in modo sperimentale un occhio bionico, con il quale registreranno tutto quello che vede.
Questa opzione casca proprio a fagiolo dal momento che con l'occhio bionico questo si mette a vedere dei fantasmi e a noi vedere i fantasmi ci aggrada.
N.C.S.
Non ci siamo.
Troppo spiccio, troppo sbrigativo.
Perché i fantasmi ti devono ammazzare se, come ti ha detto la tua amica, non è il fatto che tu li possa vedere a determinare la loro presenza lì? Loro ci sono a prescindere. Perchè ammazzarti adesso? E se proprio ti devono far fuori perché magari non gli piace esser visti, perché concludere la faccenda in modo così poco soddisfacente?
Due secondi e trac, morti tutti e corto finito.
Ah, va beh.


A RIDE IN THE PARK
Un giovane esce per farsi un tranquillo giro in bici nel bosco. Incontra una ragazza ferita, e scopre che a farle del male non sono stati degli animali, quanto piuttosto degli zombie.
Il mock è giustificato dal fatto che il ragazzo abbia una telecamerina installata sul casco che indossa, quindi anche in questo episodio la questione non rappresenta un problema. 
Niente di eccezionale nemmeno in questo caso. Se volessi fare la pignola direi: com'è che c'è un epidemia zombie e la cosa non si estende oltre al bosco? Cioè, nel 'mondo' del nostro investigatore e della sua ragazza sembrano non saperne niente. Non ti sconvolgi di fronte ad un video di zombie se sai che esistono, se la notizia è già trapelata.
Sottigliezze a parte, abbiamo una discreta dose di splatter che ogni tanto ci sta bene, per un corto che tutto sommato si porta a casa tranquillamente, senza eccellere ma insomma non siamo mica tutti Romero, e grazie tante.

SAFE HEAVEN
FINALMENTE.
Avevano ragione a dire che è bello?
Sì.
Fa paura?
Sì.
Una troupe di giovani decide di intervistare il capo di una comunità. Da subito sentono la puzza di setta, ma vogliono entrare nel loro 'Paradiso' e vedere da vicino di cosa si tratta.
Entrano e scoprono che è ancora peggio di quanto pensassero.
Non dura molto, questo corto (e graziearca', è un corto), ma ci concentra il concentrabile, riuscendo a inserire in un minuscolo spazio vitale (cit.) nell'ordine: un personaggio inquietante, apparenti violenze sui minori, tradimenti amorosi, comunità spaventose, suicidi di massa, uomini che camminano in mutande in tempi non sospetti e quando Birdman ancora non era uscito, sacrifici di feti se così si può dire, messe nere, una Bestia che esce come il buon Alien insegna, talmente tanto sangue che gronda dalle pareti e un finale tra il grottesco e il terrificante.
Una gran visione, anche se adesso mi scappa la pipì e non sono certa di sentirmela di andare in bagno da sola.


SLUMBER PARTY ALIEN ABDUCTION
Sono in una fase della mia crescita personale in cui mi ritrovo spesso a guardare i ragazzetti adolescenti come se avessero costantemente bisogno di una mazzata in testa.
Come se io fossi tanto più grande.
Per questo motivo, vedere una manica di giovini poco furbi venire rapiti ad uno ad uno dagli alieni, non lo so, mi ha arrecato una certa soddisfazione.
Credo sia stato anche merito del fatto che tutto sommato il corto non è affatto male, non siamo di fronte al più intelligente degli esemplari di pellicola horror, ma si guarda con un discreto piacere.

Si conclude il film con l'ultimo pezzo dell'episodio cornice, che secondo me è l'unico meritevole di attenzione.
L'investigatore, di fianco al corpo della sua ragazza (che nel frattempo, sì, è morta), trova una videocassetta con scritto 'Guarda' e lui PRONTI! guardiamolo.
Scopre che i video che ha visto la sua ragazza hanno una brutta influenza sul cervello di chi li vede. Il modo per liberarsi della 'maledizione' è girare a propria volta un video maledetto, a catena.
Ed è esattamente quello che sta facendo il ragazzo scomparso quando ammazza l'investigatore.
Molto, molto interessante.
Questo vuol dire che ora tocca a me far fuori qualcuno? E' questo che mi stai dicendo? Devo continuare la catena?
Perché se è questo che vuoi devo riconoscere che con tutti i film visti potrei avere maturato una discreta esperienza.



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