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lunedì 27 settembre 2021

Midnight Mass

16:59

 Avevo scritto su Instagram (il link per seguirmi se vi va è qui di fianco!) che mi sarei presa qualche giorno per scrivere della nuova serie di Mike Flanagan sul blog. Il punto è che l'ho finita ieri sera, e stamattina mentre passavo sulla cassa del supermercato i prodotti ignorando chiunque li avesse comprati non ho saputo pensare ad altro. Nemmeno mentre guidavo stamattina prima dell'alba con gli occhi ancora incrostati di sonno, e nemmeno al ritorno, mentre mi mangiavo un tramezzino in auto. 

Voglio parlarne subito, e sapevo sarebbe stato così, inutile fingermi la persona rilassata che non sono.





La vicenda è ambientata nella piccola Crockett Island, abitanti 127. Riley vi fa ritorno dopo un periodo passato in carcere e lì ritrova la sua famiglia e la sua ex fidanzatina del liceo, Erin, ormai donna adulta e in visibile stato di gravidanza. La piccola comunità è toccata da un evento: lo storico sacerdote Monsignor Pruitt si è malato durante un viaggio spirituale e al suo posto la curia ha mandato il giovane padre Paul, carismatico, capace di prediche che rendono le sue messe esperienze nuove. Nel corso della storia faremo la conoscenza di vari abitanti dell'isola: Beverly, la perpetua, Leeza, la giovane con una disabilità motoria causata da un brutto "incidente", lo sceriffo Hassan, unico membro musulmano della comunità, Joe, l'ubriacone del villaggio, Sarah, il medico, e le loro famiglie. È una serie corale come se ne sono viste poche, perché nessuno è secondario. Ogni personaggio è guardato con sguardo così approfondito che in due episodi li sentiamo vicini come se li conoscessimo da sempre.


Quando crei qualcosa come The Haunting e poi decidi di interromperla perché hai altri progetti, la gente come me non la prende benissimo. Ripongo in Mike Flanagan la fiducia più cieca, però The Haunting of Hill House è diventata così importante per me che non ero pronta a lasciarla andare per avere qualcosa di nuovo. Bly Manor era già un modo per allontanarsene, ma manteneva lo stesso calore, la stessa impostazione. Arrivando con queste premesse alla visione di Midnight Mass sono rimasta per forza di cose quasi delusa dai primi due episodi. Il calore, la familiarità, l'immediatezza di Hill House qui non c'erano. Prometto che il post non sarà un confronto tra le due, portate pazienza con me, sto ancora riordinando i pensieri. 

Laddove mi era stato sufficiente vedere i Crane per 5 minuti per cadere inesorabilmente innamorata di tutti quanti, qua la costruzione è più lenta. In una serie che dura solo (S O L O) sette episodi, prendersene due belli pieni per introdurci e farci sentire a casa sull'isoletta sono un bel lusso che il regista si è preso. A visione terminata non posso dire che siano pesati nell'economia della storia, perché da un certo punto in poi il coinvolgimento emotivo tramortisce quasi e il fluire della vicenda non arranca mai. Ovviamente, e come sempre, aveva ragione Flanagan. Servivano due episodi così, misurati e composti, perché poi Midnight Mass diventa impegnativa, e quando lui decide di metterci il carico da mille lo fa senza paura di far male a chi vi assiste.


Spero non passi il messaggio che la serie è impegnativa nel senso di respingente, noiosa, pesante. Non è così. Ha del miracoloso, per restare in tema, il modo in cui F. sia in grado di costruire qualcosa di così difficile in un universo narrativo nel quale riesce ad inserirci immediatamente come membri attivi, e di conseguenza molto partecipi di quello a cui assistiamo. Non siamo solo fruitori del mondo che ha creato, ne siamo completamente immersi. Non fare una binge di Midnight Mass è pure meglio: si sentono gli odori del mare, del pesce appena pescato e dell'incenso anche quando la tv è spenta. Segue lo spettatore per tutta la sua durata, perché è tanto immersiva l'esperienza che non ci si stacca dalla Crock Pot solo perché è finito un episodio. 

E lo è così tanto, in maniera così prepotente rispetto a tutte le altre serie tv mai scritte, perché nessuno parla delle persone come lo sa fare Mike Flanagan. Questa non è una serie sugli eventi, che pure ci sono e sono parecchio intriganti (e messi in scena come Cristo comanda, per restare in tema, è la serie della maturità di F e si vede), è una serie sulle persone. Su come gli eventi toccano le persone, su come una piccola comunità si muove, respira, vive. Su come crescere lontani dal resto del mondo renda tutti uniti attraverso un filo invisibile. Riley e Erin non si vedono da anni, perché hanno entrambi per un po' lasciato l'isola. Quando si ritrovano, è tutto come prima. Romanticamente potrebbe essere anche solo perché si sono sempre amati, oppure il fatto che nessuno, a parte loro stessi, può comprendere cosa significhi lasciare un posto come quello, che diventa parte della tua identità, e poi tornarvi, diversi ma sempre uguali.


Facciamo una parentesina di cavoli miei come al solito? Ma facciamola.

Io sono atea da tanti anni, ma ho frequentato l'ambiente della parrocchia del mio paese a lungo. Non l'ho solo frequentato, sono stata un membro attivo della parrocchia, ho fatto catechismo anche DOPO la Cresima, ho mangiato pizze a casa di preti, ho cantato in cori e pulito teatri luridi dopo spettacoli del Grest. La cultura cattolica fa parte del mio vissuto, con l'aggravante che oggi è una delle cose che mi spaventa di più al mondo. L'estetica cristiana è spaventosa, la Bibbia presa alla lettera un macabro libro dell'orrore, le croci mi inquietano, la fede mi allarma. Però una cosa è vera, e va riconosciuta: per chi ce l'ha davvero, la fede è una lente sul mondo che può dare consolazione vera, e io per quella cosa qua provo sincera invidia. Midnight Mass fa il più importante racconto della fede che ho mai visto in tv, quello più sincero. 

Tutti i personaggi hanno un rapporto con la Chiesa: chi, come Riley, ha un rapporto finito; chi come Erin, ha una relazione che sta ricominciando; chi, come Bev, ne ha fatto il solo senso della vita o chi, come Hassan, è riuscito a mantenere un rapporto sano con la propria spiritualità. La Chiesa, nella persona di Monsignor Pruitt prima e di padre Paul poi, è il centro di ogni dinamica relazionale, è la routine, è Casa. In mezzo alle situazione disperate che tutti si trovano ad affrontare, economiche, psicologiche, di salute fisica, la piccola chiesetta di Saint Patrick sta lì, ad accogliere. A dare speranza. A ricordarci che se ci comportiamo bene ci aspetterà la felicità eterna, che non dobbiamo avere paura di nulla perché le nostre spalle sono sempre coperte da un essere superiore e che ci ama e ci protegge sempre, e che se anche la paura ce l'abbiamo dobbiamo abbracciarla, accoglierla, perché ci sono date solo difficoltà che siamo in grado di affrontare e che pertanto ne usciremo sempre vincitori. Erin aveva bisogno di questo, quando è tornata, di calore e senso di appartenenza. Per un periodo, poi, quando perde che le aveva dato calore da dentro di sè, smette di frequentarla. Bev, donna atroce e spaventosa, è ritratta in realtà come una persona profondamente sola, che ha cercato nella Chiesa e in Dio i soli compagni di una vita disperata che lei maschera come perfettamente realizzata. Si sente eletta, benedetta, illuminata da una luce divina che la rende migliore degli altri, quando in realtà è una miserabile, una donna che non ha saputo costruire nulla per se stessa e che nel ruolo che si è costruita e imposta ci si è infilata dentro, al sicuro da tutto il resto del mondo. Si è ritagliata uno spazio in cui sentirsi sicura, migliore, per legittimare se stessa nel suo sentirsi superiore a chiunque altro.

Non è un caso che loro due siano tra le poche che la Chiesa continuavano a frequentarla anche nei momenti di minor affluenza. Loro e Leeza, ma di lei parliamo poi. Il resto della popolazione torna a sedere tra i banchi di S.Patrick quando avviene un miracolo. Neppure questo stupisce: se la Chiesa può questo, allora tutti sentono di avere diritto a qualcosa di buono. Il luogo sacro ritorna luogo di speranza, di preghiera. Perché siamo tutti così, ci sentiamo tutti legittimati a chiedere qualcosa in cambio delle belle persone che siamo. Flanagan lo sa, ma non ci giudica. Ci mette in mostra, ci racconta, ma sempre senza uno sguardo giudicante. Perché lo sa che siamo stati tutti imbrogliati da secoli di propaganda cattolica, in cui il bene esisteva solo in quanto frutto di ricompensa certa, in cui ci veniva fatto credere di essere Amati da Lui, e che questo ci rendesse speciali e, quindi, intoccabili. Non è un caso neppure che uno dei personaggi, nel tentativo di ferire Bev, le dica che Dio ama lei tanto quanto ama gli ubriaconi e gli assassini. Perché tanta e tale è stata l'influenza dell'uomo in quello che stava nelle Scritture che pure il più basilare concetto cristiano, l'uguaglianza tra le persone, l'amore verso il prossimo, è oggi una lontana utopia, e Bev questo aspetto lo incarna alla perfezione. È crudele verso gli uomini e gli animali (non mi stancherò mai di gridare il tw per quanto riguarda la violenza sugli animali, occhio che fa malissimo), è razzista, misogina, invadente, snervante. Riesce ad essere al tempo stesso un perfetto riassunto di tutto quello che la Chiesa non vuole e anche quello che la Chiesa, in effetti, è. E la si detesta, sia chiaro, la stronza mangia particole (cit. la mia amica Silvia). La si detesta perché siamo umani funzionanti ed empatici, ma Flanagan riesce comunque a regalarle quella patina di atroce solitudine, di tristezza, di dolore, che riescono ad emergere anche nella seconda metà della serie, in cui si palesa in modo ancora più prepotente come la persona squilibrata che è. E soprattutto nel suo infelice finale, dove si vede quanto niente con lei funzioni, quanto niente ormai potrebbe cambiarla più, neppure il peggiore degli scenari possibili. Lei, da tutto quello che accade, non ha imparato niente. Vuota era, e vuota è rimasta, riempita solo dell'aria gonfia che è la religione.

Alla fine di tutto la serie parla di disperazione. Ogni personaggio ha sensi di colpa, dolori passati e presenti, vuoti, fragilità. E tutti si riversano lì, nel luogo in cui avvengono i miracoli, perché se c'è spazio di redenzione per gli altri allora ci deve essere anche per me. Riley ha pagato il suo conto con la società ma è ben lontano dal saldare quello verso se stesso, ed in mano all'interpretazione di Zach Gilford (che amo da quando era Matt di Friday Night Lights) ci regala un personaggio con gli occhi spenti, incupiti da quello che ha fatto e da quello che gli capita nella serie. Con lui, una Kate Siegel che ha finalmente il ruolo da protagonista che merita. Qui è una Erin eccezionale: intensa, con gli occhi giganti spalancati prima di tutto dentro se stessa, perché capace di analisi e conoscenza di sè invidiabili. I due si parlano, discutono di massimi sistemi sul divano di casa, scardinando le proprie certezze sulla vita e il suo senso, sulla morte e il suo significato. Ci sarebbero trattati interi da scrivere, sui dialoghi e sui monologhi di questa serie magistrale. Perché è una serie in cui si parla tantissimo, in cui non si fa altro che discutere delle cose. Si parla, si litiga, si chiarisce, si predica, in cui prova a parlare anche chi non è abituato a farlo, come il padre di Riley. Parla Leeza, quando si sente nella posizione migliore per farlo, nella scena più atroce della serie, il confronto con l'uomo che l'ha resa paralizzata dalla vita in giù, Joe Collie. Lei parla, parla, parla, vomita addosso all'uomo tutto l'odio e il rancore che non era riuscita a elaborare prima, in una capacità di autoanalisi sconvolgente, lasciando il pover'uomo in condizioni pietose. Ho provato così tanto dolore, per Joe Collie, in questa serie, che ho dovuto interrompere un paio di volte la visione, per andare a prendere una boccata d'aria fresca e ricordarmi che era solo finzione. Il ruolo è interpretato da Robert Longstreet, e meritava una menzione perché mi ha cavato il cuore. Un uomo incapace di mettere in parole i suoi pensieri, che può solo piangere disperatamente mentre una ragazzina gli vomita addosso tutto l'odio di cui è capace, che soffre ancora di più quando viene perdonato. Un uomo senza gli strumenti emotivi per perdonarsi da solo, incapace di fare altro se non scusarsi ripetutamente, soffocato, inascoltato. Un uomo che inizia a parlare solo quando trova un altro disperato come se stesso, un altro annientato dalle proprie scelte, un altro che deve convivere con le conseguenze delle proprie decisioni. Personaggi come Joe Collie parlano alla mia storia personale e non posso prescindere da questa consapevolezza quando mi rendo conto che sono quelli per cui soffro di più. F., però, li ritrae in maniera così complessa, così autentica, che è impossibile non trovare qualcosa di sé e del proprio trascorso in uomini come lui, con i quali il mondo ha fallito, verso i quali la società è colpevole. 


Midnight Mass finisce nell'unico modo possibile, e non era scontato. Poteva avere un finale più tradizionale, poteva riavvicinarsi a certi aspetti dell'horror più canonico, poteva farci sognare con una dolce storia d'amore, poteva dare redenzione. Sceglie di non farlo, di toglierci le certezze da sotto i piedi, di privarci del sollievo. Sceglie di parlare di sacrificio, che non è più nel senso cattolico ma solo genuino amore per chi si intende salvare, parla di chi sceglie di restare insieme fino alla fine, in un ultimo momento di comunione spirituale. Nel mezzo, tra quell'inizio modesto e il suo finale in fiamme, la serie riesce a fare uno straordinario ritratto dell'umanità, delle sue fragilità, dei suoi meccanismi di protezione. Parla di adolescenti in modo affettuoso, di scienza e religione, di appartenenza, di perdita, di razzismo, parla di relazioni lunghe anni fatte di piccoli momenti di candore, parla di convivere con quello che si è, di quanto accettare quello che la vita ci pone di fronte sia un concetto sopravvalutato, di quanto siamo sempre parte di qualcosa di più grande.

Se dare a questa frase un significato religioso, o cosmico, o pessimista, sta a noi. 

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