lunedì 6 marzo 2023
lunedì 22 novembre 2021
La manutenzione dei sensi, quella dolce
Eccomi qua, dopo la bellezza di nove mesi – più o meno. A quanto
pare, la costanza non è il mio forte, ma nel mezzo sono successe innumerevoli
cose. Si è aperto e chiuso un altro lockdown, ho compiuto gli anni –
rigorosamente chiusa in casa per il secondo anno di fila, alla riapertura ho
fatto tante camminate faticosissime in montagna, ho scritto una tesi sulla mia
dolce Natalia e sono riuscita anche a laurearmi in presenza, con emozioni e
angosce connesse. Ho passato le mie ferie estive in un posto meraviglioso, una piacevole sorpresa e ho conosciuto persone che rimarranno nel mio
cuore.
Ho fatto corsi di editoria, uno tutt’ora in corso, ho
guardato tanti film – la maggior parte distrattamente – e tante serie tv. Ho vissuto
il mio primo Salone Internazionale del libro e sono diventata una bambina che
va per la prima volta a Disneyland. Ho letto tanti libri, gran parte dei quali
collegati alla mia tesi. Di tutti gli altri, una piccola parte rimarrà ancorata
e incollata nei miei pensieri. Alcuni sono stati troppo intimi per condividerli
con qualcuno, e quindi li ho tenuti per me.
Erano mesi che preparavo qualcosa di scritto e, invece, ieri
pomeriggio ho finito questa dolcezza, in un viaggio uggioso di ritorno da
Pavia. Mi sono resa conto che ai libri ci si affeziona senza un vero e proprio
motivo; a volte, ci sono delle virgole nascoste che rimangono latenti e che,
quando chiudi un libro, alla fine, ti viaggiano per il cervello, ti scavano.
«A cosa stai pensando?», mi aveva chiesto, proprio quando il
mio pensiero stava per essere archiviato nel cassetto della registrazione.
«Al fatto che mi piacerebbe abbracciarti». Ero stato sorpreso dalla mia sincerità. «Non lo faccio solo per non darti noia», avevo aggiunto cercando di ostentare indifferenza.
Lui non aveva risposto, rimanendo con le labbra serrate per un po’. Poi mi si
era premuto contro, puntando la testa sotto la mia ascella e cominciando a dare
piccoli colpi. Un pulcino che vuole uscire dall’uovo, vedere finalmente al di
là delle membrane lattiginose che avvolgono l’interno del guscio. Finché era sbucato
dall’altra parte, appoggiando la guancia contro il mio petto.
Lo avevo fissato.
«Mi sono abbracciato da solo», aveva detto con l’espressione buffa delle
occasioni insolite.
Estrapolata dal contesto di queste 250 pagine, sembra uno scambio
di battute da niente, quasi melenso, dolciastro, un po’ appiccicoso. Un’effusione
un po’ fastidiosa. E invece no, perché questo abbraccio Leonardo lo aspetta da
tanti anni, aspetta che venga spontaneo da un piccolo – ma ormai un po’ cresciuto
– Martino, mio dolce omonimo, che non ama gli abbracci. Non ama il contatto fisico,
le cose fuori posto, i rumori molto forti. Martino ha la sindrome di Asperger e
Leonardo lo scopre solo dopo qualche tempo che Martino fa parte della sua
famiglia. Un’appartenenza, in realtà, provvisoria perché è in affido temporaneo,
intanto che i servizi sociali cercano una famiglia tutta per lui.
Correrò il rischio di sembrare estremamente ripetitiva, ma la
dolcezza di questo romanzo è infinita. È in ogni personaggio, in ogni pendio
delle montagne tra cui Martino diventa un uomo, in ogni descrizione e in ogni
pensiero di un papà che diventa genitore per una seconda volta: per caso, distaccato
per non rischiare di affezionarsi ma, infine, incredibilmente papà. È la dolcezza
di un bambino che cresce con la consapevolezza di essere diverso dagli altri sulla carta e lo accetta, sentendosi comunque accomunato a ogni
persona che lui e Leo ospitano nella loro appartata casa di montagna. È la dolcezza di un
uomo di cinquant’anni che durante una notte insonne, in un letto diviso con il
vuoto, decide di lasciare Milano per trasferirsi nella casa dei sogni della sua
Chiara. È la dolcezza di Augusto, un padre, un montanaro, un nonno acquisito,
un uomo dalle poche parole, con le mani rovinate dal lavoro, ma un’anima aperta
a questo bambino, di cui non conosce niente, ma lo sente un po’ come lui. È la
dolcezza di Leonardo, che spera che i servizi sociali abbiano dimenticato i
documenti dell’affido temporaneo e che il tempo si sia dimenticato di
scorrere e di far scoccare la lancetta nel diciottesimo compleanno
di Martino. È la dolcezza di papà Leonardo, che si sente così lontano dalla
comprensione di questo figlio non suo, che Augusto capisce così bene.
Io non lo so se ho le parole giuste per trasmettere la dolcezza, l’inadeguatezza, la sincerità e l’affetto che ho riversato e ritrovato in questo libro. Faggiani sì, e le ho lette tanto bene.
Franco Faggiani, La manutenzione di sensi, Fazi, 2018 |
domenica 9 maggio 2021
Tre saggi sul cinema dell'orrore
Devo soffiare via la polvere dal blog, è un po' che non torno.
Presente quando dicevo che il 2021 mi stava mettendo alla prova? Pare che non sia ancora bene convinto dei risultati, ecco, e che mi voglia testare ancora un po'.
Mi sfogo usando molto di più Instagram, che è un po' più immediato, però poi quel posto qua comincia a mancarmi molto e quindi rieccoci, questa volta per parlare di libri.
All'inizio dell'anno sono entrata in possesso, attraverso modi che il fruitore medio di internet conosce alla perfezione, di un numero bello sostanzioso di saggi sul cinema dell'orrore, di quelli che si trovano su amazon a 50 paperdollari l'uno spediti dall'inferno con 70 milioni di euro di spese di spedizione. Parlo sempre per iperbole, ma ci siamo intesi.
Insomma, finalmente quest'anno ho ricominciato a fare la cosa che mi piaceva di più: studiare. Non che prima non lo facessi, ma adesso ho a mia disposizione una bella serie di libroni che accarezzo tutte le sere prima di andare a dormire.
Oggi parliamo dei primi tre.
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Foto di David Kennedy su Unsplash |
giovedì 4 febbraio 2021
Classici del femminismo: Il secondo sesso
Rieccoci alla consueta rubrica "La Mari apre mille rubriche e ne porta avanti la metà".
Mesi fa avevo iniziato una rubrica dedicata ai classici del femminismo. La rubrica in questione consta di ben un solo post, su Una donna di Sibilla Aleramo. Dopo quella lettura, che già mi aveva messa alla prova perché è un libro straziante, ho pensato che studiando i classici non sarei potuta scappare a lungo dal loro capostipite. Il classico dei classici. Il Guerra e pace dei testi femministi. E se da una cosa non si può scappare, meglio farla subito. Quindi eccomi qua, quasi un anno dopo, stanca e riportante ferite di guerra, a parlare di quel mastodontico capolavoro imprescindibile che è Il secondo sesso, di Simone de Beauvoir.
Scritto nel 1949, il testo più famoso della filosofa francese ha preso la storia dei femminismi e l'ha rivoluzionata. Leggerlo una settantina di anni dopo è un'esperienza, come dire, interessante. Immaginare la mole di lavoro che sta dietro la stesura di un testo del genere fa girare la testa. Del resto SdB parla per le donne e per farlo ha parlato, letto e studiato, un sacco di noi. Il libro, per tutta la sua imponente mole, è pieno di brani, citazioni, esperienze, testimonianze. Le note sono parte integrante della lettura, un Infinite Jest dell'esistenzialismo.
Ma come si legge, oggi, Il secondo sesso? Questo non è un testo "attivista", per stessa ammissione della sua autrice. Le quasi ottocento pagine che lo compongono sono un approfondito saggio di natura filosofica, che solo nella sua parte finale, quella delle conclusioni, propone azioni concrete. Per tutto il corpo del testo, però, troviamo la donna vivisezionata. Prima da un punto di vista biologico, poi spirituale, poi sociale, poi storico, poi artistico. Non un solo aspetto viene lasciato fuori, la ricerca fatta è a 360 gradi. L'esplorazione passa dalle bambine, alle adolescenti, alle giovani donne, all'anzianità. Tocca le donne sposate, le innamorate, le prostitute, le sole, le vedove, le lesbiche. Se mai ho visto un esempio completo di rappresentazione, signori, è in Simone de Beauvoir.
Quello che fa è molto semplice: prende ogni singolo aspetto della vita di una donna e la mette al confronto con quella di un uomo. Emergono le inevitabili differenze, che ci sono e guai a negarle, ed emerge insieme ad essere la totale inadeguatezza delle differenze sociali. Nessun tipo di distinzione tra i generi giustifica la differenza delle vite, mai. E credetemi se vi dico che di esempi ne prende, e tanti.
La lettura, fatta oggi, e quantomeno per me, è davvero impegnativa. Il primissimo motivo è che, e qui faccio un mea culpa, non tocco un testo filosofico dalla fine del liceo. Amavo tantissimo la materia ma per qualche motivo l'ho lasciata andare ed è un modo di affrontare il mondo e il pensiero a cui devo semplicemente riabituarmi. Per questo l'ho trovato a tratti impegnativo e ho dovuto forzarmi di andare avanti e resistere alla tentazione di abbandonarlo per riprenderlo in un momento più "favorevole". La seconda è che leggerlo da donna è una continua bastonata sui denti. Pagina, dopo pagina, dopo pagina, per ottocento benedette pagine, la narrazione di soprusi, violenze, sopraffazioni, calpestamenti, logora dentro come un veleno. Quello che la donna subisce (presente voluto) dal momento in cui nasce a quello in cui se ne va è una costante sberletta in faccia, e il libro ne ripercorre ogni aspetto. Non è certo un page turner, anzi. Ogni tanto serve una boccata d'aria di sollievo.
Se oggi ho il mio bloggettino in cui posso dire tutto quello che mi pare e piace e ho un lavoro e posso convivere senza essere sposata lo devo indubbiamente a tutte quelle che sono venute prima di me e ne sono grata, ma leggere un testo di 70 anni e vedere quanto i cambiamenti siano stati superficiali se vogliamo, è angosciante. Toglie il fiato. Il capitolo sull'aborto avrebbe potuto essere scritto ieri, è terrificante.
Dopo una battaglia per arrivare alla fine, sono giunta alle conclusioni. In queste, e in generale nella parte finale del testo, SdB sostiene che le donne siano quello che sono per il modo in cui la società le ha formate, e che sia per questo compito della donna trascendere le limitazioni che le sono imposte. Sto ovviamente semplificando un concetto molto più ampio. Nel 2021 è chiaro che questa visione sia privilegiata (consapevolmente, de Beauvoir era socialista e conscia della sua posizione borghese e di potere) ed escludente, che a moltissime donne del mondo non è concesso di "prendersi i propri spazi" o imporsi. Il movimento di liberazione della donna non può passare solo attraverso la scelta, per quello che lo desiderano, di una relazione aperta o di un lavoro che renda autonome. Si tratta di un processo ben più ampio della nostra lussuosa sfera occidentale (dove abbiamo comunque tantissimo ancora da fare e spesso poche possibilità di farlo), e oggi per fortuna ne siamo più consapevoli.
Questo di certo non annulla il valore immenso del libro, che ha travalicato i decenni ed è arrivato a noi ancora spaventosamente attuale. Il femminismo moderno ha nei confronti di de Beauvoir un debito immenso, e dal libro questo è cristallino.
Quello che è altrettanto cristallino, però, è che Il secondo sesso non è una lettura che consiglio a cuor leggero, e che forse io stessa avrei dovuto affrontare preparandomi di più. È intenso, assorbe energie e pensieri, richiede una concentrazione e un'attenzione che io non sempre in questo periodo, e per tutti gli scorsi mesi, ho avuto. Mi sarebbe piaciuto studiarlo a scuola, leggerlo insieme a qualcuno che da più giovane mi accompagnasse attraverso le infinite cose che si imparano.
Chissà che prima o poi non si arrivi anche a questo, nelle scuole italiane.
lunedì 11 gennaio 2021
La città dei vivi, Nicola Lagioia
Quando un libro spopola sui social io di solito, con i residui di bastiancontraresimo che mi restano, lo evito. O almeno aspetto che si siano calmate le acque per poi farmi un'opinione mia. In questo caso non potevo aspettare, e il motivo è molto semplice: è un true crime, e se avete letto questo blog di recente sapete che è stata la mia passione rivelazione del 2020.
Nello specifico, quella che racconta Lagioia è la storia dell'omicidio di Luca Varani, un ventitreenne romano, a opera di due giovani concittadini, Manuel Foffo e Marco Prato, nel novembre del 2016. Una storia molto vicina a noi ma che io conoscevo solo di sfuggita perché avevo già smesso di guardare i tg.
Questa volta non farò uno spoiler alert, perché la storia è di dominio pubblico e tutto quello che dirò è già di dominio pubblico. Quello che faccio è uno sgradevole alert: ho odiato questo libro, e quando una cosa non mi piace provo ad argomentarla in modo freddo e razionale per non essere troppo odiosa, ma fallisco ogni volta. Mi dispiace se sarò antipatichella.
Via il dente via il dolore, dicono, quindi inizierei subito con quello che non mi è piaciuto, così ce lo leviamo dai piedi.
Non amo la scrittura di Lagioia. Nella prima parte del racconto usa quello stile (tipicamente italiano, credo possiamo ammetterlo) che io non posso tollerare, delle frasette brevi ad effetto. Un pochino lo stile facebook, se vogliamo.
Le emozioni, quelle belle.
Gli abbracci, quelli stretti.
Io ho un problema con questo modo di scrivere, mi fa venire una rabbia ingestibile. Leggerei solo Saramago per un mese, dopo, per disintossicarmi da questo abuso. Personalmente, poi, questo stile con un'eccesso di emotività non mi piace affatto quando usato per parlare di true crime, ma questo è un gusto mio. Infatti è anche il motivo per cui odio il podcast Demoni Urbani. Mi fa venire il latte alle ginocchia.
Tornando al libro, nella parte finale, invece, ricerca uno stile più 'giornalistico', soprattutto raccontando la parte processuale. Peccato che finisca sempre per emergere quella forzatura, quella pesante ricercatezza che a me fa proprio sbroccare.
Un'altra cosa che non ho ben compreso è la costruzione del libro. Parte con una narrazione in terza persona, che ricostruisce passo passo gli eventi e i loro protagonisti. Più o meno a metà, poi, la narrazione è interrotta da inspiegabili testimonianze in prima persona di alcune delle persone collegate in vario modo ai nostri tre personaggi principali. Non parlano parenti vicini, fidanzati, ma sempre conoscenti, amici, ex colleghi, e infine gli altri ragazzi che durante i giorni di delirio e droga di Foffo e Prato erano stati in loro compagnia prima dell'arrivo di Varani. Forse queste ultime erano le uniche testimonianze con un senso, anche se il modo comunque non lo apprezzo.
Nella testa dell'autore, quale poteva essere lo scopo di farmi leggere mezza paginetta scritta in prima persona da una ragazza che ha fatto tre pompini a Foffo, esattamente? Perdonate il mio francese, ma il libro parla di pompini per un buon 40% del tempo, poi parliamo anche di questo.
Mi viene da pensare che volesse costruire una sorta di profilo degli assassini? Avrei voluto leggere l'opinione di esperti, allora, così ho solo perso il mio tempo. Come un ex collega abbia conosciuto Prato non mi serve saperlo. Non mi interessa. Quanto sesso orale abbia praticato alle persone non mi riguarda. Eppure ci sono pagine e pagine così. La mia prima critica è alle persone selezionate, la metà sono assolutamente irrilevanti. La seconda è al modo in cui le loro testimonianze sono riportate: una parte intera del racconto è così, poi si trancia via la parte in prima persona, grazie del vostro contributo, a mai più risentirci. Perché mai? Ricostruire tutto in modo fluido non era parte del tuo lavoro, Lagioia?
La persona di Nicola Lagioia anche nel libro compare sgomitando ad un certo punto, quando inizia a parlare del duro lavoro svolto sul caso e della sua ossessione. Perché non cominci da subito ma spunti dopo un po' è per me un mistero.
Torniamo poi alle cose che l'autore sceglie di riportarci e con quale, ridicola, frequenza.
Dopo la morte di Luca emergono voci insistenti su una sua presunta abitudine a prostituirsi. Il nostro autore ci tiene spesso a dire che lui non dà giudizi etici e che di sicuro questa cosa non giustificherebbe mai alcuna violenza, però ne parla in continuazione. Siamo sicuri che un giudizio non ci sia? Perché se davvero la questione fosse irrilevante allora nemmeno emergerebbe. O meglio, posso anche accettare che in un desiderio di completezza allora emerga velocemente anche quella faccenda lì, ma davvero Lagioia ne fa un argomento ricorrentissimo. Emerge dalle parole degli assassini, da quelle dei suoi amici, vengono persino riportate parola per parola le conversazioni messenger che la fidanzata di Luca aveva avuto con delle amiche del suo ragazzo. Ma esattamente, qual'è il fine? Posto che qualunque tipo di persona fosse stato Luca non avrebbe alcuna rilevanza in questo caso, visto che è stato ucciso praticamente per un colossale caso di sfiga, a cosa mi serve sapere cosa facesse del suo corpo quando era in vita? Che Luca fosse andato a casa di Foffo per vendersi o solo per partecipare ad un festino, non conta niente, non cambia niente. Eppure ci stiamo su delle ore. Il giudizio io lo vedo eccome, velato da quel fintissimo volerne parlare con dimestichezza che puzza di ipocrisia da casa mia a casa di Lagioia a Roma.
C'è un intero capitolo del libro che parla dei media. Di come i social abbiano appreso la notizia dell'omicidio e della tipologia di commenti che potete facilmente immaginare, tutti quanti accuratamente riportati senza censurare neanche uno degli slur omofobi usati. Ovviamente, Lagioia usa con una frequenza ridicola la parola froc*o, ma la mette sempre in bocca agli altri, perché lui è troppo corretto per dirla, ma figuriamoci se l'ha bippata una volta sola. Guarda come sono cattivi gli altri che dicono le brutte parole scorrette, disse l'elegante autore che le parole non le sostituiva mai.
A me non sembra così difficile, non usare termini dalla spiccata connotazione negativa, eppure per un motivo o per un altro ci si sente sempre legittimati a farlo.
Ovviamente, sui media la prima questione che salta all'occhio è che i due brutti pervertiti omosessuali hanno ucciso il povero giovane perché non voleva fare sesso con loro. Se siete sui social, sapete benissimo come funziona. La seconda è l'appartenenza politica e sociale delle famiglie coinvolte. Lagioia critica con la sua consueta superiorità, gli scimmioni dei social e i toni dei media, ma concentra una percentuale ridicola del suo romanzo (sì, parlo di percentuali perché leggo in digitale) a parlarci di quando e come e dove e con chi Prato facesse sesso. Di tutte le persone apparentemente manipolate ad avere rapporti sessuali di varia natura con lui. La sua ossessione per la sessualità dei due colpevoli è francamente ridicola e alla lunga diventa fastidiosa. Lunghe, lunghissime parti in cui è ritenuto necessario raccontarci che i due avevano fatto sesso in quel modo piuttosto che in quell'altro, e mai un intervento di un esperto che mi spiegasse perché questa cosa era considerata così rilevante, come vi dicevo più su. Cosa stai cercando di fare? Di farmi credere che raccontando tutto tutto tutto della sua vita (cosa che non fa, anzi sceglie bene su cosa portare la sua attenzione) io poi sia in grado di fargli un ritratto psicologico così approfondito da comprendere cosa sia successo la sera che Luca è morto? La maggior parte dei lettori non ha le competenze per fare diagnosi, perché non siamo tutti medici né terapeuti, e soprattutto un esperto non lo farebbe mai dalle pagine di un libro quindi davvero non riesco a capire.
Ma per quanto riguarda la parte politica e sociale? Pensate che riemerga mai più dal romanzo? Ma no, chiaro. Tutto superficiale, tranne quello che superficiale lo è davvero.
Il libro si legge molto velocemente, e se siete già interessati al true crime ancora di più, però non è questo il modo che piace a me. In qualche modo, però, sono arrivata alla fine, dopo inspiegabili capitoli in cui parliamo di traslochi della famiglia Lagioia (vi ricordate che all'inizio manco c'era? Ecco, ora parliamo dei suoi traslochi, bah.), e alla fine c'è la sola parte positiva del libro.
Marco Prato si toglie la vita il giorno prima del processo. Una persona che si toglie la vita non è mai una vittoria per nessuno, e in questo caso le cose da dire sarebbero tante. Prato era una persona che ci viene descritta come problematica da sempre, il suo suicidio non può e non deve passare come una cosa improvvisa. C'erano avvisaglie da sempre. La cosa su cui sceglie di soffermarsi Lagioia, però, è la situazione carceraria. Prato aveva iniziato il suo percorso carcerario a Regina Coeli, una realtà che era stata in grado di sfruttare le sue capacità, di tenerlo attivo da un punto di vista culturale e sociale. Viene poi trasferito per due volte nel carcere di Velletri, molto meno accogliente, per così dire. La prima volta gli avvocati erano riusciti a farlo riportare a Regina Coeli, la seconda ne è uscito morto. Il numero dei suicidi nelle carceri italiane è sconvolgente, ed è importante che se parli in un libro così popolare. La situazione può cambiare ma nessuno fa niente per farlo. Non credo che da domani cambierà qualcosa, ma ogni passo avanti è importante e ho molto apprezzato che Lagioia si sia così interessato alla situazione. Tutta la parte finale è dedicata a questo, mi ha fatto molto piacere notarlo.
Per quanto riguarda il resto, concedetemi una paraculatina finale perché mi sento in colpa a dire cose negative: scegliere di parlare di true crime è difficile, perché quelle persone lì, quei nomi che leggiamo sulle nostre pagine sono persone reali che stanno soffrendo cose che non possiamo nemmeno immaginare. Servono un equilibrio delicatissimo, una sensibilità rara. Io non credo di averli, anche se il mio podcastino investigativo me lo sogno la notte. Credo che Lagioia si sia sinceramente appassionato al caso in modo onesto e disinteressato, credo solo non sia stato in grado di narrarlo in un modo che io trovo adeguato.
Vado a consolarmi con la sesta idiotissima stagione di Brooklyn99, che è finalmente arrivata su Netflix.
lunedì 9 novembre 2020
Menzogna e sortilegio, Elsa Morante
Da quanto tempo che non parlo di libri sul blog! Vediamo se sono ancora capace.
Consueta intro di fatti miei: io e la mia amica Martina ci siamo rese conto che, pur leggendo fino a perdere la vista, avevamo entrambe una vergognosa lacuna in tutto quello che riguarda la letteratura italiana del '900. Quindi, armate di pennarelli colorati e voglia di rimetterci a studiare, ci siamo create un mini gruppo di lettura composto solo da me medesima e lei nel quale ci leggeremo, in modi e tempi assolutamente casuali e caotici come siamo noi, i classici che ci mancano. Partiremo con la sacra trinità composta da Morante - Moravia - Calvino e proseguiremo dove ci condurranno i cuori.
Siamo partite, leggere come sempre, con le 700 pagine che hanno segnato l'esordio di Morante.
Brevissimo ma necessario accenno di trama perché, come è risaputo, le autrici donne a scuola non si studiano e se non ci si avvicina da sé non si sa manco di cosa hanno scritto.
La narratrice è Elisa, e quella che ci racconta è la storia della sua famiglia e di come lei, rimasta sola, sia finita a vivere da una prostituta che l'ha accudita come una figlia. Ripercorriamo le vicende partendo da nonna Cesira, attraversando mamma Anna, il suo primo amore Edoardo e il futuro marito, papà di Elisa, Francesco.
DA QUI SPOILER
Sapevo che avrei amato questo libro, nonostante della Morante avessi letto solo L'isola di Arturo, perché c'è una cosa di lei che stanno dicendo tutti: è piena di elementi in comune con Ferrante. Chi è una delle mie autrici preferite della storia del mondo? Ferrante, esatto. Sapevo già che questo tipo di storie parlavano dritto ai miei sentimenti e che c'erano anche grandi probabilità che avrei sofferto come un cane.
Spoiler: ho effettivamente sofferto come un cane.
Posto che non sta a me dirvi l'importanza, nella letteratura del '900, di Morante e di un libro come Menzogna e sortilegio, parliamo di come una lettura del genere può segnare il singolo lettore più che tutta la letteratura successiva. Forse il fatto che oggi Ferrante pianti i picchetti sulle classifiche e non si schiodi da lì per settimane qualcosa, comunque, ce lo dice.
Quando si parla di saghe familiari si parla di una e si parla di tutte, soprattutto quando lo si fa come lo fa Morante qui. L'approfondimento con cui i suoi personaggi ci sono presentati è tanto dettagliato, tanto accurato, che riesce quasi difficile credere che siano inventati. Non c'è clemenza nel ritrarre queste persone, non si indora mai la pillola: sono persone difficili, che vengono da contesti difficili. Non c'è mai distinzione di classe, in questo. Laddove Anna e Francesco vengono da realtà umili con tutto quello che questo comporta, Edoardo viene invece da una famiglia ricchissima, ed è tanto difficile quanto gli altri. La differenza principale sta nella possibilità di scelta: Edoardo ha avuto modo di fare la vita che desiderava, di muoversi nel mondo a suo piacimento, di fare delle persone quello che più gli aggradava, sempre. Anna e Francesco, come Cesira prima di loro, sono stati costretti ad una vita di scelte. Di studi, di relazioni, di lavori. Nel loro caso sono sempre stati i soldi il pilota della vita: mollare gli studi per andare a lavorare, sposare una persona detestata per avere almeno da mangiare, vivere con persone che non si amano per avere un tetto sopra la testa.
Pur non giudicando mai attivamente i propri personaggi, Morante riesce a mostrare come sia proprio il rapporto con la povertà a distinguerli uno dall'altro. La sporca, degradata, dignità di Damiano, padre di Francesco, e lo spirito di sacrificio pieno di amore di Alessandra, la madre, si contrappongono alla vile inettitudine di Anna, che rifiuta di dare qualsiasi contributo economico per contribuire al sostentamento della famiglia, ripudiando l'idea del lavoro fin dall'infanzia. Eppure, Damiano viene ignorato, umiliato, lasciato, e Alessandra abbandonata, mentre Anna è destinataria di un amore cieco e disperato, proprio da parte delle persone che odia di più.
In ognuno di loro tutti abbiamo qualcuno da riconoscere. Un dettaglio, un modo di dire, un atteggiamento. Sono così comuni eppure così rari, così vivi eppure così lontani nel tempo, che sta a noi poi applicarli in quello che conosciamo. E una volta fatto, sono ovunque.
Quello che fa Morante è mostrarceli così come sono. Elisa è un narratore non affidabile per forza di cose, perché parla di cose troppo care a lei per essere sempre completamente oggettiva, ma è talmente lucida su cosa influenzi il suo giudizio che alla fine il ritratto che fa di tutti ne esce comunque onesto.
Nei giorni in cui leggevo la parte sull'infanzia e la gioventù di Francesco sono stata parecchio messa alla prova. Non entrerò più di tanto nei fatti miei dei quali può anche giustamente fregarvene molto poco, ma ha colpito in punti così chirurgicamente precisi, facendo ritratti a me così familiari di una situazione umile in cui si cerca disperatamente di restare dignitosi che a volte ho dovuto accantonare la lettura. Quel tipo di distanza che Elisa ha dovuto prendere per analizzare le cose io ancora non sono pronta a prendermela.
Per cui sì, penso sia evidente che un libro del genere vada letto e studiato a scuola. Da singola lettrice, però, mi sento di consigliarvelo con cautela: ci potreste trovare da un momento all'altro la vostra vita dentro.
martedì 21 luglio 2020
I libri che ho letto in spiaggia
Oltre ad un mare magnifico, paesaggi meravigliosi, cibo che non ci si crede e tramonti che belli così non li ho mai visti, la Puglia mi ha regalato il tempo di leggere, che a casa non è mai quanto vorrei.
Forse il libro esplora troppo poco questa dinamica di potere, che invece è fondamentale affrontare, e si concentra di più sulle conseguenze che la violenza ha sul carnefice piuttosto che sulla vittima, ma ogni cosa che parla dell'argomento da queste parti è benaccetta: che se ne parli, e che se ne parli sempre, da ogni prospettiva possibile.
I fantasmi di Rowan Oak, di William Faulkner.
Faulkner è uno di quegli autori a cui non mi sono mai avvicinata per soggezione. Ci sono cose che spesso evito di fare per la paura di non comprenderle come vorrei e finisce che giro in tondo non concludendo nulla. Però alla parola fantasmi non resisto, e ho fatto bene a sbloccarmi.
Quelli racchiusi in questa raccolta sono racconti senza tempo, di quelli che si raccontano intorno al fuoco mentre i marshmallow si bruciacchiano tra le fiamme. Si parla di famiglie del sud (degli Stati Uniti, che è ovvio ma non si sa mai), di leggende, di bambini curiosi. Leggo in giro che questo è niente rispetto ai capolavori dell'autore, ma di sicuro è una raccolta deliziosa, gotica, fiabesca.
Si legge in un pomeriggio.
Menzione speciale.
La prima cosa che avevo caricato sul kindle per le vacanze in realtà era I giorni dell'abbandono, della mia adorata Elena Ferrante. Non è arrivato in vacanza, perché l'ho letto nel weekend prima della partenza e ne sono uscita con il cuore spezzato. L'abbandono è quello Olga subisce quando il marito la lascia per un'altra. La storia più vecchia del mondo? Sì, ma è qui che sta il talento della Ferrante. Il suo ritrarre l'intimità delle persone, senza paura che risultino poco sopportabili o fastidiose, è spiazzante. Entra nel cuore dei suoi personaggi con una tale profondità che stupisce non parli sempre di se stessa. Sono persone così vere, per nulla costruite per piacerci ma anzi così forti nel loro essere quasi sgradevoli che ci costringono a chiederci quanto di noi ci sia, in quel ritratto così sincero.
Ora, che Ferrante sia una donna è chiaro perché ha un odio per gli uomini che è lampante, ma se così non fosse non farei fatica a credere che il suo sia uno pseudonimo per Domenico Starnone, perché il ritratto che entrambi fanno delle relazioni sentimentali è così cinico che dopo averli letti mi serve un po' di detox.
Meravigliosi entrambi, ma lei ha qualcosa in più, la trovo sempre eccezionale.
Vorrei dire che dopo questa sequela di letture che quantomeno per temi si sono rivelate tutte piuttosto intense mi sono presa un periodo per qualcosa di più felice e invece no, sto leggendo Il buio oltre la siepe, perché qua felici mai.
giovedì 12 marzo 2020
Persone normali, Sally Rooney
Soprattutto quelle di libri gettonatissimi che invece io detesto con tutto il mio cuore.
Avevo capito di considerare la Rooney una gran supercazzola col primo libro, Parlarne tra amici.
Il secondo non è una cazzola: è dannoso.
QUALCHE SPOILER INCAZZATO
La storia è quella di una ragazza e di un ragazzo, Marianne e Connell, e del loro rapporto, nato al liceo e proseguito all'università.
Basta, la trama è solo questa.
Nel complesso, come il precedente, è un libro che si legge alla velocità del luce, che ha una scrittura scorrevolissima e non troppo lungo.
Vorrebbe parlare di classi sociali, di problemi relazionali, dell'adolescenza, dell'incomunicabilità dei sentimenti, della crescita, del conoscere se stessi, e lo fa concentrandosi su solo due personaggi. Gli altri sono solo pedine intercambiabili che non solo non hanno alcuna rilevanza ma non hanno alcuna caratterizzazione, fatta eccezione per un paio di casi di cui parliamo dopo. Ad un certo punto nel romanzo c'è una morte e io sono riuscita a capire di chi si trattasse solo da una piccola frase legata ad un episodio (ripugnante) di qualche scena prima, altrimenti sarei ancora qui a pensare a chi fosse il povero defunto.
I problemi leggeri di questo libro sono questi, appunto: una superficialità nella costruzione dei secondari (ricordiamo sempre che, come dice Neil Gaiman, i secondari mica sanno di esserlo, diamogli un minimo di dignità), una scrittura senza infamia e senza lode, una costruzione della storia in scene, senza fluidità, che può piacere o meno e che a me non ha colpito. Se mi parli di un rapporto attraverso singole scene non se ne percepisce lo sviluppo ma solo le conseguenze di questo sviluppo, e a me non lascia nulla. Non ho tifato per la coppia nemmeno per un istante se non verso la fine presa per sfinimento. Vi prego restate insieme e dateci tregua.
I problemi pesanti sono ben altri. O meglio, è uno solo: la superficialità, che quando riguarda argomenti leggeri è solo una mancanza, quando riguarda argomenti ben più intensi diventa un danno.
Marianne, la nostra protagonista, è vittima di violenza domestica. Subisce da sempre una sistematica violenza psicologica che a volte è sfociata in quella fisica, da parte del fratello Adam. Come lo sappiamo? Perché ogni tanto, senza alcuna continuità né tra una scena e l'altra né con il resto della vicenda, vengono mostrati piccoli episodi. Insulti, pressione, sarcasmo, sputi. Marianne subisce inerme, e di questo di certo non le farò una colpa io. Nessun episodio ha un minimo di approfondimento, non si parla delle origini, non si parla di supporto, manca un briciolo di sostegno familiare (questo potrebbe anche andarmi bene, è una famiglia disfunzionale tutta, e ok), ci sono queste piccole scene di violenza buttate lì e basta. Cara la mia Sally Rooney, così non va. Non sfrutti la violenza per dare spessore al tuo personaggio. Se non lo abbiamo perdonato a Game of Thrones che per anni una serie tv strepitosa figurati se possiamo mandarlo giù a te. E se non fosse così, perché metterla, allora? Perché così approssimativa?
Ah, sì, ecco perché: per fare la scenetta romantica nella quale l'eroe salva la principessa dal mostro cattivo.
Ma, per piacere, ci vai a cagare?
Un argomento serissimo, importantissimo, che si poteva sfruttare per insegnare anche alle donne più fragili che se ne può uscire, liquidato con Connell che va a casa, urla contro il fratello violento, il fratello si rivela un piccolo triste vigliacco (davvero???) e finisce così. Ridicola. Ridicola e dannosa.
Ma passiamo al secondo grande tema trattato con i piedi dalla nostra amatissima: la depressione.
Ad un certo punto a Connell viene diagnosticata una grave depressione con importanti tendenze suicide. Si rivolge al servizio di consulenza fornito dal college, ne vediamo una seduta, e basta.
Basta davvero. Qualche pagina più avanti si dice che Marianne lo ha tanto aiutato nel suo periodo buio e basta. Finita lì. Una gravissima malattia mentale che uccide migliaia di persone ogni anno la liquidiamo così? Beh ha avuto aiuto dalla sua amichetta del cuore, ora è tutto ok.
Io queste cose me le aspetto dai romanzetti rosa che Newton Compton porta in libreria a 4,90€. Da un caso editoriale non solo mi aspetto ben più profondità, se no certe cose le lasci fuori, ma mi aspetto, ed esigo sinceramente, più responsabilità. Questo modo così infantile di trattare temi così fondamentali è inaccettabile per un libro che sta passando milioni di mani.
Forse non ho capito nulla, forse ho perso io dettagli di grandissima rilevanza. Però sto libro è una pagliacciata piena di luoghi comuni sugli adolescenti troppo superficiali per capire il mondo (tranne i nostri protagonisti, ovviamente, loro sono spesciali e diversi), sulla violenza, sulla malattia, e pure sull'amore.
E metti quella benedetta punteggiatura nei dialoghi che non sei Saramago, perdio.
martedì 7 gennaio 2020
Chiacchieratina su Casa di foglie
Ciao a tutti, buon anno!
Dopo un dicembre intenso colgo la fine delle feste come occasione per fare due chiacchiere insieme sul libro che ho letto a fine 2019.
Sì, avete di fronte l'ennesimo post su Casa di foglie.
Il mitologico volumone di Danielewski è tornato in libreria dopo, quanto?, quasi dieci anni?
Lettori disperati alla ricerca del libro online, sulle bancarelle, gente disposta ad immolare il proprio primogenito, lacrime versate e speranze perdute. Chi ha avuto la bella pensata di riportarcelo? Uno storico gruppo editoriale? Un editore miliardario? Una mastodontica realtà? No, 66thand2nd, un piccolo e recente editore indipendente che con questa mossa si è messa sulla bocca di tutti, a dispetto di un nome impronunciabile. Il tutto ha contribuito a creare l'alone di mistero intorno al libro, tale da spingere la sottoscritta me medesima a spendere la cifra di euro ventinove in una libreria.
Ricordo a chi mi conosce poco che io i libri in copia fisica li compro pochissimo e sempre usati, Casa di foglie mi è costato come una ventina delle mie letture abituali.
Ma di cosa parla, il libro più discusso del momento?
Non si può parlare di una trama in senso convenzionale, ma si può dire che c'è tale Johnny Truant, il nostro narratore, il tipo che porta il concetto di narratore inaffidabile ad un livello tutto nuovo. Johnny ha un amico, Lude. Nel condominio di Lude si è appena liberato un appartamento, perché Zampanò, il vecchio e non vedente proprietario, è morto. In casa di Zampanò si trovano le cose di una vita intera, ma soprattutto si trovano parole. Una montagna, una cascata, un fiume in piena di parole, su ogni superficie disponibile. Per quella che sembra essere stata una bella fetta della sua vita, il vecchio si è appassionato ad un documentario, intitolato La versione di Navidson, e sembra avere scritto un lungo e approfondito saggio sulla vicenda. Questa storia finisce per imprigionare la mente di Johnny, e la nostra insieme alla sua.
Ora, leviamoci l'ovvio.
Il punto principale di Casa di foglie, ciò che lo ha reso il libro famoso che è, è l'impaginazione. Il delirante, scombussolato, avviluppato modo in cui le parole sono disposte sulle pagine. Ci sono pagine bianche, con una sola frase, con una sola parola, pagine piene zeppe di parole fittissime e righe cancellate, colorate, sottolineate. Si tratta di un S, La nave di Teseo level extreme, un parco avventura letterario dal quale si scende con la testa che gira un po'.
Ma ne vale la pena? In effetti un'esperienza di lettura di questo tipo è certamente interessante, ma richiede anche pazienza, concentrazione, tempo. Ci vuole una storia che ne valga la pena.
Io a volte ne ho dubitato. Ci sono stati momenti in cui mi sono chiesta se non fossi incappata nella più clamorosa supercazzola editoriale del 2019. Eppure il libro non lo posavo mai. Ho vissuto giorni incatenata alla storia (alle storie) di questi personaggi tutti lentamente in discesa verso la follia. Ho letto di menti che perdevano il controllo, di vite rovinate, di case che ignoravano le leggi della fisica e ne sono stata completamente rapita. Ho letto diari, lettere, appunti, annotazioni, saggi, spunti, voli pindarici grandi come la casa in questione. Ed è stato bellissimo.
Quindi, sto Casa di foglie, vale tutto l'hype che si porta dietro non da ora ma da anni?
Sì, assolutamente sì. Un ritratto delle ossessioni come non avevo mai letti prima, un racconto marcio dentro ad una storia inquietante e che non diventa mai spaventosa ma sa come fermarsi mezzo passetto prima, diventando così non un canonico romanzo dell'orrore ma una storia che crea quella tensione che aleggia nell'aria anche intorno a chi si limita a leggere.
Certo, non fa per voi se amate le trame in senso classico: inizio, svolgimento, fine. Qua non ci sono risposte, e se Casa di foglie dovesse fare a voi l'effetto che ha fatto a me, smetteranno di esserci anche domande.
Si vive e basta.
giovedì 10 ottobre 2019
Signore e signori, Alan Bennett
Ora, con Signore e signori, è diventato uno dei miei preferiti.
Trattasi di una raccolta di sei monologhi per la tv scritti dal Nostro.
Quello uscito con Adelphi è un volumetto piccino, che si legge in un paio d'ore, ma che mi ha lasciato tante cose su cui pensare e quindi tanto di cui parlare.
Prima breve considerazione: io in digitale leggo spesso in inglese, in copia fisica in italiano, semplicemente perché i libri li compro usati e trovo più cose in italiano. Da quando leggo in inglese, però, noto il lavoro del traduttore più di quanto non facessi prima, ovviamente, e in questo caso io la traduzione, a opera di Davide Tortorella, l'ho adorata.
Per farvi un breve esempio: il primo monologo è quello di Peggy, una donna come tante (che è anche il titolo del monologo). Peggy parla mettendo gli articoli davanti ai nomi propri femminili, usa parole come moroso e riporta i dialoghi letteralmente. Io sono cremonese, e questa donna ha il mio linguaggio, e se da un lato capisco che ad un pugliese o ad un sardo possa fare meno effetto, per me è stato come leggere la storia di una delle "mie" signore. Finito il monologo ero commossa fino alle lacrime per Peggy, e la conoscevo solo da qualche pagina.
Non pensiate che la commozione sia dovuta solo alla familiarità linguistica. Ogni monologo ha una svolta inaspettata e amara, che ne cambia completamente il tono e lo rende così umano che è impossibile non amarli tutti quanti. I personaggi ritratti sono una variegata rappresentazione di quello che siamo, sono di età, generi e provenienza differenti, sono buffi, dolci, ingenui. A volte è sgradevole leggerli ma si finisce sempre, anche con quelli che ci possono apparire meno piacevoli, per provare una grande compassione per loro e le loro sofferenze.
C'è la signora che si crede fondamentale, quella che non crede lo siano gli altri, quella che si sopravvaluta, il giovane ignaro della gravità della sua situazione, l'alcolizzata inconsapevole. In ogni, breve, racconto incontriamo non solo la persona che parla ma spesso la sua comunità: vicini di casa, parrocchiani, compagni di stanza d'ospedale, crew. Non siamo mai soli, eppure in qualche modo lo siamo sempre, e i nostri personaggi, raccontandosi, ci mostrano come dentro ai nostri pensieri non ci siamo che noi, e che quello che ci succede intorno spesso non lo sappiamo leggere.
Quello che è ancora più interessante, oltre ai monologhi, sono le introduzioni.
Sono due, e Bennett le sfrutta in modo straordinario. Ci parla di come il monologo sia una diversa forma di narrazione, che non può prevedere narratori affidabili nè il linguaggio completo della prosa, che richiede al lettore uno sforzo di immaginazione e di comprensione in più. La storia ci è raccontata da un punto di vista parziale e spesso inconsapevole, sta a noi completarla, e questo per me è stato interessantissimo. Il solo monologo che avevo mai letto è Dolores Claiborne, e le cose sono troppo diverse per paragonarle. In questi brani l'immedesimazione nella persona che parla è totale, l'empatia stuzzicata a livelli inimmaginabili, e la breve esperienza di lettura è una delle più commoventi che ho fatto durante l'anno. Il tono colloquiale, le storie quotidiane, l'inconsapevolezza di cui sono composti rende questi monologhi speciali, e non fa che confermare che quella di Bennett deve essere un'anima candida. Ne abbiamo un piccolo assaggio, durante le introduzioni, che non solo parlano di cosa rappresentano questi racconti ma regalano anche piccoli accenni alla vita dell'autore.
Che piccolo tesoro sto volumetto.
(Scopro dopo avere pubblicato il post che ci sono su Youtube i monologhi letti da volti noti della tv inglese: mi do al binge watching e lo lascio anche a voi: li trovate qua)
mercoledì 7 agosto 2019
La quinta stagione, N.K.Jemisin
Ebbene, fatevi un favore. Prendete 15 euro dal vostro portafoglio e comprate La quinta stagione.
Se siete più furbi di me su Amazon ci sta tutta la trilogia in inglese, perché io son stata cretina ho preso solo il primo e adesso che non ho il seguito la mia vita ha smesso di avere significato.
Dare un'idea della trama di questo romanzo è quasi impossibile, ma cercherò di essere breve e vaga il giusto. In un mondo devastato da un clima ostile (l'Immoto) le persone vivono in città costruite col solo intento di sopravvivere. Tra gli abitanti di queste città si distinguono gli orogeni, umani che nascono con il dono di controllare la terra e gli elementi climatici. Essere orogeni, però, non è un dono. Le persone con queste capacità sono disprezzate dalla società e la loro presenza viene denunciata dalla stessa famiglia fin dalla tenera età. I bambini orogeni vengono portati al Fulcro, luogo in cui viene insegnato loro come controllare i propri poteri per essere utili alla società. Protagoniste del romanzo sono tre donne, tutte e tre orogene.
La quinta stagione è il vincitore dell'Hugo Award del 2016. Il suo seguito lo ha vinto nel 2017, il terzo volume della saga nel 2018. Non solo la Jemisin è la prima autrice afroamericana a vincerlo, ha deciso di portarselo a casa per tre anni di fila con tutti i volumi della saga. Un piccolo miracolo che l'edizione italiana, opera di Mondadori, ha deciso di celebrare con fascetta di elogi e quattro facciate (quattro) di stralci di recensioni entusiaste. Io scettica come la morte, secondo me per colpa della copertina che proprio non mi piace.
Ebbene, sono felice di dire che sono una cretina e che avevo torto marcio, perchè La quinta stagione è un romanzo strabiliante e io sono qui con un post entusiasta a cercare di dirvi perché.
Questo romanzo è un capolavoro di world building, e questo è il motivo per cui non vi voglio parlare più a fondo della trama. Il mondo in cui ha luogo, l'Immoto, è costruito con tale precisione che le nozioni si dispiegano per tutto il romanzo, fino all'ultima pagina. Non ci sono spiegoni iniziali che ci aiutino ad entrare nell'ottica di quello che leggeremo, anche se potrebbe sembrare sia così. Esattamente come se dovessimo spiegare l'Italia ad una persona straniera: conosci talmente bene quella realtà lì che non puoi dire tutto subito, ci sono dettagli e sfumature che escono per forza con il tempo e nel libro questo allargarsi della conoscenza è così coerente e ben fatto che per spiegare fatti anche molto complessi all'autrice bastano due frasi ben fatte. Non so come si faccia, a creare una realtà tutta nuova in un modo così preciso, ma la Jemisin lo ha fatto in un modo straordinario, che non perde fascino nemmeno di fronte ad un colpo di scena piuttosto prevedibile.
Forse, però, un'idea ce l'ho, su come abbia fatto: ha guardato alla nostra, di realtà. Il primo volume de La terra spezzata parla di diversità, di odio, di crescita, di fuga, di paura e di amore. Di senso di appartenenza e di senso di inadeguatezza. E lo fa parlando di tre donne, tre donne che per lo stesso motivo vengono allontanate dalla società e che devono convivere con una condizione di diversità che non possono nascondere. Lo fa descrivendo una società che le teme e quindi le detesta, le isola, le ripudia. Sono donne grazie alle quali la Jemisin parla della complessità del nucleo familiare, dell'amore materno, della paura e della solitudine. Di bambine coraggiose e adulte spaventate, di quanto siano diverse e uguali al tempo stesso.
La fantascienza di questa saga rientra in questo nuovo filone di narrativa 'ecologica' se così si può dire, anche se non ci sono riferimenti che colleghino per certo l'Immoto alla Terra. I collegamenti però sono inevitabili, e la possibilità che la nostra Madre Terra buona diventi un Padre Terra crudele che detesta i suoi figli è oggi più che mai credibile. Talmente tanto che il romanzo si è rivelato la lettura più immersiva dell'anno, e quest anno aveva rivali non da poco. Tra Nabokov, Dostoevkij, la Ginzburg e Buzzati, la Jemisin zitta zitta mi ha preso per mano e portato altrove, in una storia in cui sembra succeda poco e invece succede la vita, quella reale che si riesce a trovare anche in mezzo a pagine di fantascienza.
Un libro strepitoso, che ho finito da un paio di ore e già mi manca.
lunedì 8 luglio 2019
Le cose che ho letto finora nel 2019
RECUPERONI di cose famosissime che io ancora ignoravo
Io faccio tanto la bella che legge e si sente tanto colta, ma mi mancano da leggere tanti di quei libri Grandi e Famosi che a volte mi sento quasi sotto pressione.
Quest anno, quindi, è stato finora pieno di recuperoni di Imperdibili, sempre con la maiuscola.
Di qualcosina di sporadico ci sono stati post singoli, e in quel caso vi risparmio la ripetizione.
Il primo è stato Il deserto dei tartari. La mia storia d'amore con Buzzati è iniziata lo scorso anno (solo? solo) e prosegue nel 2019, perché la prosa di Dino Buzzati è una di quelle cose che mi fanno ringraziare di essere al mondo. Continuo a preferire Il segreto del Bosco Vecchio, ma c'è qualcosa nel suo modo di sistemare le parole che rende tutto il resto opaco. Appena finisco i due libri che sto leggendo voglio passare a Un amore.
Tutto il mio mese di febbraio è stato occupato da Delitto e castigo.
Io D. l'ho conosciuto con Le notti bianche, non ho letto altro. Questo è decisamente più impegnativo, per me è stato come scalare una montagna.
E io sono una da mare.
Non mi sentirete mai dire una sola parola negativa su Dosto, non sono mica matta. Diciamo però che prima di passare ad altro di suo devo far passare un periodo di decompressione.
Leggere Lolita a Teheran è stata una di quelle letture splendide che ti stacca la testa dal collo e se la porta a spasso per il mondo. Non è solo un modo diverso per parlare di letteratura, è un viaggio tra culture diverse e consapevolezza, è una finestra su un mondo che ignoravo e che invece è fondamentale conoscere. Bellissimo.
Ho quasi vergogna a dire che non avevo ancora letto La lotteria della mia venerata Shirley Jackson. Non è che ci sia molto da dire, dura pochissime pagine e ti ribalta la pancia, in un modo in cui nessuno ha mai più saputo farlo dopo di lei.
Il mio primo incontro con Lolita è stato qualche anno fa. Avevo mollato dopo poche pagine. Lo so che è la cosa più superficiale da dire, ma Lolita parla di un pedofilo, e allora non ero pronta ad andare oltre. Perché per me andare oltre ha richiesto impegno e concentrazione. Ne è valsa la pena? Sì, ovviamente, perché Nabokov ha fatto una cosa gigantesca parlando di una cosa difficile e senza paura, buttandosi (e facendo buttare noi) in una delle cose più grandi che siano mai state scritte. Forse questo è il più banale dei modi in cui parlarne, ma se i Grandi Capolavori sono universalmente considerati tali, un motivo c'è, ed è semplicemente che sono strepitosi.
Ultimo recuperone in ordine di tempo è stato Lessico familiare, di Natalia Ginzburg.
Ora, io non sono un'estimatrice dei prodotti che parlano di Olocausto. Piuttosto guardo un documentario, ma è solo questione di gusti personali. Il romanzo della Ginzburg, però, ha un modo così intimo di parlare dei propri cari che pur parlando di una famiglia in particolare parla di tutte quante. Mi ha colpita in fondo al cuore, dove ci stanno le cose che tiro fuori poco e malvolentieri.
MENO CLASSICI ma bellissimi lo stesso
Quando sono in crisi da 'Ho finito un libro magnifico e ora come faccio' io leggo Malaussène, e sono arrivata al terzo capitolo, La prosivendola, che non raggiungerà i livelli straordinari de La fata carabina ma che si conferma dolce e stralunato. Che saga magnifica.
Oltre a A head full of ghosts di Paul Tremblay, I parassiti di Daphne du Maurier e Fiori per Algernon di Daniel Keyes, che hanno i loro post singoli, ho fatto la conoscenza di Alice Munroe con il suo Chi ti credi di essere? forse uno dei più onesti racconti di donna che ho mai letto.
Ho finalmente letto La lunga marcia, che è uno di quei romanzi con i quali Stephen King mette nell'angolino dietro la lavagna tutti gli altri e insegna loro come si fa. Lo so che è super inflazionato il Re, è uno di quelli letti anche da chi non legge, ma il motivo è semplice: è uno di quelli bravi per davvero. La lunga marcia è un romanzo in cui non succede niente di niente neanche per sbaglio, e dentro in qualche modo ci succede tutto.
Per farmi un pochino male poi, mi sono letta La frontiera di Alessandro Leogrande e dopo la lettura ho deciso che non avrei mai più perso tempo a parlare di immigrazione con chi non ha letto niente di Leogrande. O si conosce o si tace. Lui ha conosciuto, tantissimo, e la sua conoscenza l'ha trasmessa a noi, e non c'è nulla di più importante.
Arrivata a quasi 30 anni ho la fortuna di sapere cosa mi piace e cosa no, e ormai è quasi impossibile che io arrivi a leggere cose che non mi piacciono, ma quest anno finora è stato un lusso. La lista di ciò che voglio leggere non cala mai, ma che soddisfazione.
mercoledì 24 aprile 2019
Due figlie e altri animali feroci, Leo Ortolani
Due figlie e altri animali feroci ne è la conferma.
Per leggerlo ho fatto una cosa da veri ricchi: ho comprato un libro nuovo in copia fisica. Non lo facevo da anni.
Era uscito per Sperling&Kupfer qualche anno fa, sparito dal catalogo e introvabile. Bao Publishing lo ha ripreso, rispolverato e ributtato fuori in una belle veste grande e cartonata, è uscito il 18 aprile se non sbaglio.
Santa Bao, prega per noi.
Leonardo e la moglie Caterina si sono lanciati in un percorso di adozione durato dieci anni. La chiamata è arrivata dalla Colombia, dove due sorelline di 3 e 4 anni erano pronte per mamma e papà: Johanna e Lucy Maria. Pregasi notare che Ortolani è parmense, quindi mio vicino di casa, quindi le bambine sono LA Johanna e LA Lucy e la cosa mi fa sorridere tanto. Il libro non è un racconto diretto della storia, ma è la raccolta delle mail che Leo mandava a familiari e amici dalla Colombia. Si tratta di un racconto intimo e sincero, di una cosa immensa come diventare genitori.
Ed è bellissimo.
Ci sono mille complicazioni legate all'adozione, e si vedono tutte. Non è un racconto che fa sembrare tutto in discesa, con la saccenza di chi "ce l'ha fatta" e ora sminuisce le difficoltà altrui. Tutt'altro. Le difficoltà si vedono e si leggono e non se ne fa mistero alcuno. Quello che passa, però, è il messaggio successivo: tieni duro, perché ne vale la pena.
Ortolani non si mette nemmeno nella posizione di dare consigli ai futuri genitori, ma ci mostra come si sguazza in un mare di novità senza che venga insegnato a nessuno come nuotare. E quello immagino sia spaventoso per tutti i genitori, non solo per quelli adottivi. Mentre quelli biologici però si portano a casa dall'ospedale un frugolino che non ha ancora capito di essere al mondo e finiscono per crescerci insieme giorno dopo giorno, quelli adottivi si trovano davanti umani in miniatura già composti. Hanno gusti, abitudini, un linguaggio, una vita prima di te. E tu devi sgomitare per entrarci dentro senza fare grossi danni.
Si percepisce, la delicatezza, in ogni lettera. Ma soprattutto si percepisce l'amore, che trasuda da ogni vezzeggiativo, da ogni lamentela, da ogni aneddoto. E soprattutto, il messaggio che sta nelle ultime lettere è un incanto: quando si adotta si fanno corsi, ci si prepara, si ascoltano i cosiddetti "teorici dell'adozione". Eppure ci sono cose che non si possono insegnare, e l'amore è la prima di queste. Sentirsi famiglia, un nucleo intero stretto che diventa rifugio contro tutto quello che sta fuori, e per creare una cosa così non ci sono teorici che reggano.
Il modo in cui Ortolani racconta il formarsi di questa fortezza è divertente (se avete mai letto qualcosa di suo lo sapete com'è, fa spaccare dal ridere, come dicono i critici seri), tenero e sincero.
Un regalo magnifico per chiunque stia per diventare genitore, biologico o meno, che non è mai troppo presto per iniziare a parlare di cacca.
lunedì 15 aprile 2019
Fiori per Algernon, Daniel Keyes
Ho pianto ogni pagina. Tutte, tutte quante. Non mi era mai successo prima.
Charlie Gordon ha un severo ritardo mentale. La famiglia e la società lo hanno rifiutato, ma lui questo rifiuto mica lo ha capito, e continua a vivere la sua vita con curiosità ed entusiasmo. Per questo quando si presenta la possibilità di sottoporsi ad un intervento chirurgico sperimentale che potrebbe aumentare l'intelligenza di chi vi si sottopone, Charlie è il candidato perfetto.
Lo conosciamo attraverso i suoi racconti, quando il processo per arrivare all'intervento è ormai avviato, lo vediamo operarsi e diventare intelligente, intelligentissimo.
Il resto è da leggere.
Io mi sono sempre sentita stupida. Non ho ritardi diagnosticati, non ho difficoltà a leggere e scrivere, niente del genere. Ma ho sempre sofferto molto il sentirmi meno degli altri, la mia mancanza di competenze specifiche (non ho fatto l'Università), cose del genere. Si tratta di un tema a cui sono sensibile, tutto qua.
Ve lo chiedo per favore: se anche voi siete sensibili a queste tematiche, per qualunque motivo, giù le mani da Algernon.
Senza ombra di dubbio è un libro magnifico. Ma non si può mica piangere così. La lenta presa di coscienza di Charlie verso tutta quella che è stata la sua vita pre-intervento è di un doloroso che non si riesce a dirlo. Una vita intera di vessazioni e angherie, di vigliacchi umani pronti a prendersi gioco del prossimo più fragile, dell'amore di una madre rifiutato perché non si sono rispettate le aspettative, di famiglie distrutte. Mai prima di questa lettura mi era capitato di confondere così tanto vita reale e finzione letteraria. Ho dovuto ricordare a me stessa più volte che Charlie non esiste. Anche se esiste, magari non si chiama Charlie ma Mario, Paolo, Silvia, Giordana...esiste ogni giorno perché viviamo in un mondo di persone cattive e vili e disposte a tutto per la facilità di una risata, anche al sacrificare la dignità altrui. La propria mai, quella è sacra. Ma quella degli altri, avanti, prego, prendetene e mangiatene tutti.
Ecco, capito? A me Daniel Keyes ha sta rendendo una di quelle che 'i kani sono meglio dll personeeee' e dio me ne scampi. Però le persone di quel libro qui, tutte quante, sono reali al punto che nemmeno i buoni sono buoni. Al punto che nemmeno chi voleva aiutarlo, sto Charlie, in fondo lo considerava un umano come gli altri.
Quando Charlie diventa intelligente, però, ecco che non lo vuole più nessuno. Ma bestie immonde che non siete altro, ma ringraziate che questo non ha costruito una bomba e vi ha fatti tutti saltare in aria!
Scusate, mi faccio trascinare. Ve l'avevo detto che mi aveva preso sul personale.
In un romanzo classificato come fantascientifico c'è un'immagine delle persone dura e analitica, di come cambiano in base alla percezione che abbiamo di loro, di come loro cambiano in base alla percezione che hanno di noi. Di cosa ci serva davvero per essere amati (colpo durissimo per la sinceramente vostra) e di cosa la gente si aspetti dagli altri.
Il tutto con uno stile di scrittura che cambia in base alla fase in cui si trova il suo protagonista e che leggiamo con un affetto sconfinato.
Dolce Charlie, che male al cuore mi hai fatto.