Visualizzazione post con etichetta libri. Mostra tutti i post
Visualizzazione post con etichetta libri. Mostra tutti i post

giovedì 12 marzo 2020

Persone normali, Sally Rooney

09:27
Se ormai sul blog ho quasi del tutto rinunciato alle recensioni singole dei film, che trovate sul mio letterboxd, non rinuncio a quelle saltuarie sui libri.
Soprattutto quelle di libri gettonatissimi che invece io detesto con tutto il mio cuore.
Avevo capito di considerare la Rooney una gran supercazzola col primo libro, Parlarne tra amici.
Il secondo non è una cazzola: è dannoso.


QUALCHE SPOILER INCAZZATO

La storia è quella di una ragazza e di un ragazzo, Marianne e Connell, e del loro rapporto, nato al liceo e proseguito all'università.
Basta, la trama è solo questa.

Nel complesso, come il precedente, è un libro che si legge alla velocità del luce, che ha una scrittura scorrevolissima e non troppo lungo.
Vorrebbe parlare di classi sociali, di problemi relazionali, dell'adolescenza, dell'incomunicabilità dei sentimenti, della crescita, del conoscere se stessi, e lo fa concentrandosi su solo due personaggi. Gli altri sono solo pedine intercambiabili che non solo non hanno alcuna rilevanza ma non hanno alcuna caratterizzazione, fatta eccezione per un paio di casi di cui parliamo dopo. Ad un certo punto nel romanzo c'è una morte e io sono riuscita a capire di chi si trattasse solo da una piccola frase legata ad un episodio (ripugnante) di qualche scena prima, altrimenti sarei ancora qui a pensare a chi fosse il povero defunto.

I problemi leggeri di questo libro sono questi, appunto: una superficialità nella costruzione dei secondari (ricordiamo sempre che, come dice Neil Gaiman, i secondari mica sanno di esserlo, diamogli un minimo di dignità), una scrittura senza infamia e senza lode, una costruzione della storia in scene, senza fluidità, che può piacere o meno e che a me non ha colpito. Se mi parli di un rapporto attraverso singole scene non se ne percepisce lo sviluppo ma solo le conseguenze di questo sviluppo, e a me non lascia nulla. Non ho tifato per la coppia nemmeno per un istante se non verso la fine presa per sfinimento. Vi prego restate insieme e dateci tregua.

I problemi pesanti sono ben altri. O meglio, è uno solo: la superficialità, che quando riguarda argomenti leggeri è solo una mancanza, quando riguarda argomenti ben più intensi diventa un danno.
Marianne, la nostra protagonista, è vittima di violenza domestica. Subisce da sempre una sistematica violenza psicologica che a volte è sfociata in quella fisica, da parte del fratello Adam. Come lo sappiamo? Perché ogni tanto, senza alcuna continuità né tra una scena e l'altra né con il resto della vicenda, vengono mostrati piccoli episodi. Insulti, pressione, sarcasmo, sputi. Marianne subisce inerme, e di questo di certo non le farò una colpa io. Nessun episodio ha un minimo di approfondimento, non si parla delle origini, non si parla di supporto, manca un briciolo di sostegno familiare (questo potrebbe anche andarmi bene, è una famiglia disfunzionale tutta, e ok), ci sono queste piccole scene di violenza buttate lì e basta. Cara la mia Sally Rooney, così non va. Non sfrutti la violenza per dare spessore al tuo personaggio. Se non lo abbiamo perdonato a Game of Thrones che per anni una serie tv strepitosa figurati se possiamo mandarlo giù a te. E se non fosse così, perché metterla, allora? Perché così approssimativa?
Ah, sì, ecco perché: per fare la scenetta romantica nella quale l'eroe salva la principessa dal mostro cattivo.
Ma, per piacere, ci vai a cagare?
Un argomento serissimo, importantissimo, che si poteva sfruttare per insegnare anche alle donne più fragili che se ne può uscire, liquidato con Connell che va a casa, urla contro il fratello violento, il fratello si rivela un piccolo triste vigliacco (davvero???) e finisce così. Ridicola. Ridicola e dannosa.

Ma passiamo al secondo grande tema trattato con i piedi dalla nostra amatissima: la depressione.
Ad un certo punto a Connell viene diagnosticata una grave depressione con importanti tendenze suicide. Si rivolge al servizio di consulenza fornito dal college, ne vediamo una seduta, e basta.
Basta davvero. Qualche pagina più avanti si dice che Marianne lo ha tanto aiutato nel suo periodo buio e basta. Finita lì. Una gravissima malattia mentale che uccide migliaia di persone ogni anno la liquidiamo così? Beh ha avuto aiuto dalla sua amichetta del cuore, ora è tutto ok.
Io queste cose me le aspetto dai romanzetti rosa che Newton Compton porta in libreria a 4,90€. Da un caso editoriale non solo mi aspetto ben più profondità, se no certe cose le lasci fuori, ma mi aspetto, ed esigo sinceramente, più responsabilità. Questo modo così infantile di trattare temi così fondamentali è inaccettabile per un libro che sta passando milioni di mani.
Forse non ho capito nulla, forse ho perso io dettagli di grandissima rilevanza. Però sto libro è una pagliacciata piena di luoghi comuni sugli adolescenti troppo superficiali per capire il mondo (tranne i nostri protagonisti, ovviamente, loro sono spesciali e diversi), sulla violenza, sulla malattia, e pure sull'amore.

E metti quella benedetta punteggiatura nei dialoghi che non sei Saramago, perdio.

martedì 7 gennaio 2020

Chiacchieratina su Casa di foglie

15:42
Vediamo se mi ricordo come si scrive un post.
Ciao a tutti, buon anno!
Dopo un dicembre intenso colgo la fine delle feste come occasione per fare due chiacchiere insieme sul libro che ho letto a fine 2019.
Sì, avete di fronte l'ennesimo post su Casa di foglie.


Il mitologico volumone di Danielewski è tornato in libreria dopo, quanto?, quasi dieci anni?
Lettori disperati alla ricerca del libro online, sulle bancarelle, gente disposta ad immolare il proprio primogenito, lacrime versate e speranze perdute. Chi ha avuto la bella pensata di riportarcelo? Uno storico gruppo editoriale? Un editore miliardario? Una mastodontica realtà? No, 66thand2nd, un piccolo e recente editore indipendente che con questa mossa si è messa sulla bocca di tutti, a dispetto di un nome impronunciabile. Il tutto ha contribuito a creare l'alone di mistero intorno al libro, tale da spingere la sottoscritta me medesima a spendere la cifra di euro ventinove in una libreria.
Ricordo a chi mi conosce poco che io i libri in copia fisica li compro pochissimo e sempre usati, Casa di foglie mi è costato come una ventina delle mie letture abituali.

Ma di cosa parla, il libro più discusso del momento?
Non si può parlare di una trama in senso convenzionale, ma si può dire che c'è tale Johnny Truant, il nostro narratore, il tipo che porta il concetto di narratore inaffidabile ad un livello tutto nuovo. Johnny ha un amico, Lude. Nel condominio di Lude si è appena liberato un appartamento, perché Zampanò, il vecchio e non vedente proprietario, è morto. In casa di Zampanò si trovano le cose di una vita intera, ma soprattutto si trovano parole. Una montagna, una cascata, un fiume in piena di parole, su ogni superficie disponibile. Per quella che sembra essere stata una bella fetta della sua vita, il vecchio si è appassionato ad un documentario, intitolato La versione di Navidson, e sembra avere scritto un lungo e approfondito saggio sulla vicenda. Questa storia finisce per imprigionare la mente di Johnny, e la nostra insieme alla sua.

Ora, leviamoci l'ovvio.
Il punto principale di Casa di foglie, ciò che lo ha reso il libro famoso che è, è l'impaginazione. Il delirante, scombussolato, avviluppato modo in cui le parole sono disposte sulle pagine. Ci sono pagine bianche, con una sola frase, con una sola parola, pagine piene zeppe di parole fittissime e righe cancellate, colorate, sottolineate. Si tratta di un S, La nave di Teseo level extreme, un parco avventura letterario dal quale si scende con la testa che gira un po'.
Ma ne vale la pena? In effetti un'esperienza di lettura di questo tipo è certamente interessante, ma richiede anche pazienza, concentrazione, tempo. Ci vuole una storia che ne valga la pena.
Io a volte ne ho dubitato. Ci sono stati momenti in cui mi sono chiesta se non fossi incappata nella più clamorosa supercazzola editoriale del 2019. Eppure il libro non lo posavo mai. Ho vissuto giorni incatenata alla storia (alle storie) di questi personaggi tutti lentamente in discesa verso la follia. Ho letto di menti che perdevano il controllo, di vite rovinate, di case che ignoravano le leggi della fisica e ne sono stata completamente rapita. Ho letto diari, lettere, appunti, annotazioni, saggi, spunti, voli pindarici grandi come la casa in questione. Ed è stato bellissimo.
Quindi, sto Casa di foglie, vale tutto l'hype che si porta dietro non da ora ma da anni?
Sì, assolutamente sì. Un ritratto delle ossessioni come non avevo mai letti prima, un racconto marcio dentro ad una storia inquietante e che non diventa mai spaventosa ma sa come fermarsi mezzo passetto prima, diventando così non un canonico romanzo dell'orrore ma una storia che crea quella tensione che aleggia nell'aria anche intorno a chi si limita a leggere.
Certo, non fa per voi se amate le trame in senso classico: inizio, svolgimento, fine. Qua non ci sono risposte, e se Casa di foglie dovesse fare a voi l'effetto che ha fatto a me, smetteranno di esserci anche domande.
Si vive e basta.

giovedì 10 ottobre 2019

Signore e signori, Alan Bennett

11:10
Che Alan Bennett fosse il genere di scrittore che piace a me lo avevo capito subito, quando ho letto La sovrana lettrice. 
Ora, con Signore e signori, è diventato uno dei miei preferiti.


Trattasi di una raccolta di sei monologhi per la tv scritti dal Nostro.
Quello uscito con Adelphi è un volumetto piccino, che si legge in un paio d'ore, ma che mi ha lasciato tante cose su cui pensare e quindi tanto di cui parlare.

Prima breve considerazione: io in digitale leggo spesso in inglese, in copia fisica in italiano, semplicemente perché i libri li compro usati e trovo più cose in italiano. Da quando leggo in inglese, però, noto il lavoro del traduttore più di quanto non facessi prima, ovviamente, e in questo caso io la traduzione, a opera di Davide Tortorella, l'ho adorata.
Per farvi un breve esempio: il primo monologo è quello di Peggy, una donna come tante (che è anche il titolo del monologo). Peggy parla mettendo gli articoli davanti ai nomi propri femminili, usa parole come moroso e riporta i dialoghi letteralmente. Io sono cremonese, e questa donna ha il mio linguaggio, e se da un lato capisco che ad un pugliese o ad un sardo possa fare meno effetto, per me è stato come leggere la storia di una delle "mie" signore. Finito il monologo ero commossa fino alle lacrime per Peggy, e la conoscevo solo da qualche pagina.

Non pensiate che la commozione sia dovuta solo alla familiarità linguistica. Ogni monologo ha una svolta inaspettata e amara, che ne cambia completamente il tono e lo rende così umano che è impossibile non amarli tutti quanti. I personaggi ritratti sono una variegata rappresentazione di quello che siamo, sono di età, generi e provenienza differenti, sono buffi, dolci, ingenui. A volte è sgradevole leggerli ma si finisce sempre, anche con quelli che ci possono apparire meno piacevoli, per provare una grande compassione per loro e le loro sofferenze.
C'è la signora che si crede fondamentale, quella che non crede lo siano gli altri, quella che si sopravvaluta, il giovane ignaro della gravità della sua situazione, l'alcolizzata inconsapevole. In ogni, breve, racconto incontriamo non solo la persona che parla ma spesso la sua comunità: vicini di casa, parrocchiani, compagni di stanza d'ospedale, crew. Non siamo mai soli, eppure in qualche modo lo siamo sempre, e i nostri personaggi, raccontandosi, ci mostrano come dentro ai nostri pensieri non ci siamo che noi, e che quello che ci succede intorno spesso non lo sappiamo leggere.

Quello che è ancora più interessante, oltre ai monologhi, sono le introduzioni.
Sono due, e Bennett le sfrutta in modo straordinario. Ci parla di come il monologo sia una diversa forma di narrazione, che non può prevedere narratori affidabili nè il linguaggio completo della prosa, che richiede al lettore uno sforzo di immaginazione e di comprensione in più. La storia ci è raccontata da un punto di vista parziale e spesso inconsapevole, sta a noi completarla, e questo per me è stato interessantissimo. Il solo monologo che avevo mai letto è Dolores Claiborne, e le cose sono troppo diverse per paragonarle. In questi brani l'immedesimazione nella persona che parla è totale, l'empatia stuzzicata a livelli inimmaginabili, e la breve esperienza di lettura è una delle più commoventi che ho fatto durante l'anno. Il tono colloquiale, le storie quotidiane, l'inconsapevolezza di cui sono composti rende questi monologhi speciali, e non fa che confermare che quella di Bennett deve essere un'anima candida. Ne abbiamo un piccolo assaggio, durante le introduzioni, che non solo parlano di cosa rappresentano questi racconti ma regalano anche piccoli accenni alla vita dell'autore.
Che piccolo tesoro sto volumetto.



(Scopro dopo avere pubblicato il post che ci sono su Youtube i monologhi letti da volti noti della tv inglese: mi do al binge watching e lo lascio anche a voi: li trovate qua)

mercoledì 7 agosto 2019

La quinta stagione, N.K.Jemisin

13:57
Siccome il blog è l'unico posto in cui ancora non l'ho detto, piccolo aggiornamento sulla mia vita: ho preso un cane. Un grosso cane nero che sembra Sirius Black e che è buono come un angelo. Mai una pipì, mai un dispetto, non so nemmeno come abbaia. Mi ha fatto un unico danno da quando lo abbiamo preso al canile: si è portato il mio lettore ebook sul suo cuscinone. Solo che con i suoi denti da fatina me lo ha scassato, portandoselo in giro. Risultato: non ho più il mio migliore amico (il lettore! Il cane è ancora qua) e mi tocca comprarmi i libri in copia fisica spendendo patrimoni.
Ebbene, fatevi un favore. Prendete 15 euro dal vostro portafoglio e comprate La quinta stagione.
Se siete più furbi di me su Amazon ci sta tutta la trilogia in inglese, perché io son stata cretina ho preso solo il primo e adesso che non ho il seguito la mia vita ha smesso di avere significato.


Dare un'idea della trama di questo romanzo è quasi impossibile, ma cercherò di essere breve e vaga il giusto. In un mondo devastato da un clima ostile (l'Immoto) le persone vivono in città costruite col solo intento di sopravvivere. Tra gli abitanti di queste città si distinguono gli orogeni, umani che nascono con il dono di controllare la terra e gli elementi climatici. Essere orogeni, però, non è un dono. Le persone con queste capacità sono disprezzate dalla società e la loro presenza viene denunciata dalla stessa famiglia fin dalla tenera età. I bambini orogeni vengono portati al Fulcro, luogo in cui viene insegnato loro come controllare i propri poteri per essere utili alla società. Protagoniste del romanzo sono tre donne, tutte e tre orogene.

La quinta stagione è il vincitore dell'Hugo Award del 2016. Il suo seguito lo ha vinto nel 2017, il terzo volume della saga nel 2018. Non solo la Jemisin è la prima autrice afroamericana a vincerlo, ha deciso di portarselo a casa per tre anni di fila con tutti i volumi della saga. Un piccolo miracolo che l'edizione italiana, opera di Mondadori, ha deciso di celebrare con fascetta di elogi e quattro facciate (quattro) di stralci di recensioni entusiaste. Io scettica come la morte, secondo me per colpa della copertina che proprio non mi piace.
Ebbene, sono felice di dire che sono una cretina e che avevo torto marcio, perchè La quinta stagione è un romanzo strabiliante e io sono qui con un post entusiasta a cercare di dirvi perché.

Questo romanzo è un capolavoro di world building, e questo è il motivo per cui non vi voglio parlare più a fondo della trama. Il mondo in cui ha luogo, l'Immoto, è costruito con tale precisione che le nozioni si dispiegano per tutto il romanzo, fino all'ultima pagina. Non ci sono spiegoni iniziali che ci aiutino ad entrare nell'ottica di quello che leggeremo, anche se potrebbe sembrare sia così. Esattamente come se dovessimo spiegare l'Italia ad una persona straniera: conosci talmente bene quella realtà lì che non puoi dire tutto subito, ci sono dettagli e sfumature che escono per forza con il tempo e nel libro questo allargarsi della conoscenza è così coerente e ben fatto che per spiegare fatti anche molto complessi all'autrice bastano due frasi ben fatte. Non so come si faccia, a creare una realtà tutta nuova in un modo così preciso, ma la Jemisin lo ha fatto in un modo straordinario, che non perde fascino nemmeno di fronte ad un colpo di scena piuttosto prevedibile.

Forse, però, un'idea ce l'ho, su come abbia fatto: ha guardato alla nostra, di realtà. Il primo volume de La terra spezzata parla di diversità, di odio, di crescita, di fuga, di paura e di amore. Di senso di appartenenza e di senso di inadeguatezza. E lo fa parlando di tre donne, tre donne che per lo stesso motivo vengono allontanate dalla società e che devono convivere con una condizione di diversità che non possono nascondere. Lo fa descrivendo una società che le teme e quindi le detesta, le isola, le ripudia. Sono donne grazie alle quali la Jemisin parla della complessità del nucleo familiare, dell'amore materno, della paura e della solitudine. Di bambine coraggiose e adulte spaventate, di quanto siano diverse e uguali al tempo stesso.

La fantascienza di questa saga rientra in questo nuovo filone di narrativa 'ecologica' se così si può dire, anche se non ci sono riferimenti che colleghino per certo l'Immoto alla Terra. I collegamenti però sono inevitabili, e la possibilità che la nostra Madre Terra buona diventi un Padre Terra crudele che detesta i suoi figli è oggi più che mai credibile. Talmente tanto che il romanzo si è rivelato la lettura più immersiva dell'anno, e quest anno aveva rivali non da poco. Tra Nabokov, Dostoevkij, la Ginzburg e Buzzati, la Jemisin zitta zitta mi ha preso per mano e portato altrove, in una storia in cui sembra succeda poco e invece succede la vita, quella reale che si riesce a trovare anche in mezzo a pagine di fantascienza.

Un libro strepitoso, che ho finito da un paio di ore e già mi manca.

lunedì 8 luglio 2019

Le cose che ho letto finora nel 2019

11:08
Di solito su Instagram scrivo sempre qualcosa sui libri che leggo, perché i libri sono La Cosa Più Bella Del Mondo e io voglio parlare di cose belle.
Però quest anno non so gestire nulla quindi invece che singoli post, o qui o su ig, faccio un mega riassuntone delle letture fatte, perché finora ho letto solo cose che ho tanto amato e questo è un grande lusso.


COSE A FUMETTI

Quest anno ho iniziato a leggere fumetti di supereroi. Lo so, faccio fatica a crederci pure io. Ma li ho qui in casa, sotto il naso, da quando io e Erre conviviamo, e mi sono fatta tentare. Ho letto qualcosa degli X-Men e Planet Hulk, per cominciare, e ora sono al lavoro su Deadpool. Non posso esprimermi ancora su nulla perché è un mondo talmente immenso che mette soggezione e fa venir voglia di desistere, ma mi ci sto impegnando, anche se a volte è difficile perché ho la sensazione che, soprattutto le cose più recenti, diano per scontate un mucchio di cose, e per chi è nuovo è frustrante. 
Planet Hulk però è cattivissimo e nulla ha a che vedere con quel Natale ad Asgard che vi ostinate a chiamare Thor: Ragnarok.

La vera rivelazione dell'anno per me è stata La mia cosa preferita sono i mostri, che non ha solo dei disegni stre pi to si (giuro, indimenticabili) ma che racconta, in modo per me inaspettato, storie tragiche e dolorose, passati tormentati e bambine coraggiose. 
Che bomba.

Infine, è tornato in libreria per Bao Due figlie e altri animali feroci, il racconto epistolare di Leo Ortolani sui giorni vissuti in Colombia, dove ha adottato le sue due figlie.
Ora, se conoscete lo stile di Leo sapete che è la persona più genuinamente divertente del mondo, che ha un tono leggero e dolcissimo e che non prendendosi sul serio, si fa prendere sul serio da chi lo ama. Immaginate come una persona così possa parlare di un argomento delicato come l'adozione. Lo fa con lettere splendide e buffe, in cui si racconta con una sincerità pulitissima. Il suo libro è delizioso, e anche molto commovente.

RECUPERONI di cose famosissime che io ancora ignoravo

Io faccio tanto la bella che legge e si sente tanto colta, ma mi mancano da leggere tanti di quei libri Grandi e Famosi che a volte mi sento quasi sotto pressione.
Quest anno, quindi, è stato finora pieno di recuperoni di Imperdibili, sempre con la maiuscola.
Di qualcosina di sporadico ci sono stati post singoli, e in quel caso vi risparmio la ripetizione.

Il primo è stato Il deserto dei tartari. La mia storia d'amore con Buzzati è iniziata lo scorso anno (solo? solo) e prosegue nel 2019, perché la prosa di Dino Buzzati è una di quelle cose che mi fanno ringraziare di essere al mondo. Continuo a preferire Il segreto del Bosco Vecchio, ma c'è qualcosa nel suo modo di sistemare le parole che rende tutto il resto opaco. Appena finisco i due libri che sto leggendo voglio passare a Un amore. 

Tutto il mio mese di febbraio è stato occupato da Delitto e castigo
Io D. l'ho conosciuto con Le notti bianche, non ho letto altro. Questo è decisamente più impegnativo, per me è stato come scalare una montagna.
E io sono una da mare.
Non mi sentirete mai dire una sola parola negativa su Dosto, non sono mica matta. Diciamo però che prima di passare ad altro di suo devo far passare un periodo di decompressione.

Leggere Lolita a Teheran è stata una di quelle letture splendide che ti stacca la testa dal collo e se la porta a spasso per il mondo. Non è solo un modo diverso per parlare di letteratura, è un viaggio tra culture diverse e consapevolezza, è una finestra su un mondo che ignoravo e che invece è fondamentale conoscere. Bellissimo.

Ho quasi vergogna a dire che non avevo ancora letto La lotteria della mia venerata Shirley Jackson. Non è che ci sia molto da dire, dura pochissime pagine e ti ribalta la pancia, in un modo in cui nessuno ha mai più saputo farlo dopo di lei.

Il mio primo incontro con Lolita è stato qualche anno fa. Avevo mollato dopo poche pagine. Lo so che è la cosa più superficiale da dire, ma Lolita parla di un pedofilo, e allora non ero pronta ad andare oltre. Perché per me andare oltre ha richiesto impegno e concentrazione. Ne è valsa la pena? Sì, ovviamente, perché Nabokov ha fatto una cosa gigantesca parlando di una cosa difficile e senza paura, buttandosi (e facendo buttare noi) in una delle cose più grandi che siano mai state scritte. Forse questo è il più banale dei modi in cui parlarne, ma se i Grandi Capolavori sono universalmente considerati tali, un motivo c'è, ed è semplicemente che sono strepitosi.

Ultimo recuperone in ordine di tempo è stato Lessico familiare, di Natalia Ginzburg.
Ora, io non sono un'estimatrice dei prodotti che parlano di Olocausto. Piuttosto guardo un documentario, ma è solo questione di gusti personali. Il romanzo della Ginzburg, però, ha un modo così intimo di parlare dei propri cari che pur parlando di una famiglia in particolare parla di tutte quante. Mi ha colpita in fondo al cuore, dove ci stanno le cose che tiro fuori poco e malvolentieri.

MENO CLASSICI ma bellissimi lo stesso

Quando sono in crisi da 'Ho finito un libro magnifico e ora come faccio' io leggo Malaussène, e sono arrivata al terzo capitolo, La prosivendola, che non raggiungerà i livelli straordinari de La fata carabina ma che si conferma dolce e stralunato. Che saga magnifica.

Oltre a A head full of ghosts di Paul Tremblay, I parassiti di Daphne du Maurier e Fiori per Algernon di Daniel Keyes, che hanno i loro post singoli, ho fatto la conoscenza di Alice Munroe con il suo Chi ti credi di essere? forse uno dei più onesti racconti di donna che ho mai letto.

Ho finalmente letto La lunga marcia, che è uno di quei romanzi con i quali Stephen King mette nell'angolino dietro la lavagna tutti gli altri e insegna loro come si fa. Lo so che è super inflazionato il Re, è uno di quelli letti anche da chi non legge, ma il motivo è semplice: è uno di quelli bravi per davvero. La lunga marcia è un romanzo in cui non succede niente di niente neanche per sbaglio, e dentro in qualche modo ci succede tutto.

Per farmi un pochino male poi, mi sono letta La frontiera di Alessandro Leogrande e dopo la lettura ho deciso che non avrei mai più perso tempo a parlare di immigrazione con chi non ha letto niente di Leogrande. O si conosce o si tace. Lui ha conosciuto, tantissimo, e la sua conoscenza l'ha trasmessa a noi, e non c'è nulla di più importante.

Arrivata a quasi 30 anni ho la fortuna di sapere cosa mi piace e cosa no, e ormai è quasi impossibile che io arrivi a leggere cose che non mi piacciono, ma quest anno finora è stato un lusso. La lista di ciò che voglio leggere non cala mai, ma che soddisfazione.

mercoledì 24 aprile 2019

Due figlie e altri animali feroci, Leo Ortolani

10:40
Due cose mi facevano desiderare ardentemente questo libro. Numero uno: sono molto affascinata dalle storie di adozione e quando il Dottore morirà e diventerò finalmente il Presidente del Mondo la prima cosa che farò sarà far adottare quasi chiunque. Numero due: esistono al mondo persone di un candore inspiegabile. Non sprovvedute, non ingenue, di certo non sceme. Solo, dotate di purezza e genuinità. Per qualche ragione, ho da sempre la sensazione che Leonardo Ortolani, detto Leo, sia una di queste persone. (E mi fa anche ridere fortissimo, ma quello è un altro discorso.)
Due figlie e altri animali feroci ne è la conferma.
Per leggerlo ho fatto una cosa da veri ricchi: ho comprato un libro nuovo in copia fisica. Non lo facevo da anni.
Era uscito per Sperling&Kupfer qualche anno fa, sparito dal catalogo e introvabile. Bao Publishing lo ha ripreso, rispolverato e ributtato fuori in una belle veste grande e cartonata, è uscito il 18 aprile se non sbaglio.
Santa Bao, prega per noi.


Leonardo e la moglie Caterina si sono lanciati in un percorso di adozione durato dieci anni. La chiamata è arrivata dalla Colombia, dove due sorelline di 3 e 4 anni erano pronte per mamma e papà: Johanna e Lucy Maria. Pregasi notare che Ortolani è parmense, quindi mio vicino di casa, quindi le bambine sono LA Johanna e LA Lucy e la cosa mi fa sorridere tanto. Il libro non è un racconto diretto della storia, ma è la raccolta delle mail che Leo mandava a familiari e amici dalla Colombia. Si tratta di un racconto intimo e sincero, di una cosa immensa come diventare genitori.
Ed è bellissimo.

Ci sono mille complicazioni legate all'adozione, e si vedono tutte. Non è un racconto che fa sembrare tutto in discesa, con la saccenza di chi "ce l'ha fatta" e ora sminuisce le difficoltà altrui. Tutt'altro. Le difficoltà si vedono e si leggono e non se ne fa mistero alcuno. Quello che passa, però, è il messaggio successivo: tieni duro, perché ne vale la pena.
Ortolani non si mette nemmeno nella posizione di dare consigli ai futuri genitori, ma ci mostra come si sguazza in un mare di novità senza che venga insegnato a nessuno come nuotare. E quello immagino sia spaventoso per tutti i genitori, non solo per quelli adottivi. Mentre quelli biologici però si portano a casa dall'ospedale un frugolino che non ha ancora capito di essere al mondo e finiscono per crescerci insieme giorno dopo giorno, quelli adottivi si trovano davanti umani in miniatura già composti. Hanno gusti, abitudini, un linguaggio, una vita prima di te. E tu devi sgomitare per entrarci dentro senza fare grossi danni.
Si percepisce, la delicatezza, in ogni lettera. Ma soprattutto si percepisce l'amore, che trasuda da ogni vezzeggiativo, da ogni lamentela, da ogni aneddoto. E soprattutto, il messaggio che sta nelle ultime lettere è un incanto: quando si adotta si fanno corsi, ci si prepara, si ascoltano i cosiddetti "teorici dell'adozione". Eppure ci sono cose che non si possono insegnare, e l'amore è la prima di queste. Sentirsi famiglia, un nucleo intero stretto che diventa rifugio contro tutto quello che sta fuori, e per creare una cosa così non ci sono teorici che reggano.
Il modo in cui Ortolani racconta il formarsi di questa fortezza è divertente (se avete mai letto qualcosa di suo lo sapete com'è, fa spaccare dal ridere, come dicono i critici seri), tenero e sincero.
Un regalo magnifico per chiunque stia per diventare genitore, biologico o meno, che non è mai troppo presto per iniziare a parlare di cacca.

lunedì 15 aprile 2019

Fiori per Algernon, Daniel Keyes

16:23
Quando ho iniziato a leggere Fiori per Algernon l'avevo detto: ero a pagine 5 e avevo twittato che sapevo avrei pianto.
Ho pianto ogni pagina. Tutte, tutte quante. Non mi era mai successo prima.


Charlie Gordon ha un severo ritardo mentale. La famiglia e la società lo hanno rifiutato, ma lui questo rifiuto mica lo ha capito, e continua a vivere la sua vita con curiosità ed entusiasmo. Per questo quando si presenta la possibilità di sottoporsi ad un intervento chirurgico sperimentale che potrebbe aumentare l'intelligenza di chi vi si sottopone, Charlie è il candidato perfetto.
Lo conosciamo attraverso i suoi racconti, quando il processo per arrivare all'intervento è ormai avviato, lo vediamo operarsi e diventare intelligente, intelligentissimo.
Il resto è da leggere.

Io mi sono sempre sentita stupida. Non ho ritardi diagnosticati, non ho difficoltà a leggere e scrivere, niente del genere. Ma ho sempre sofferto molto il sentirmi meno degli altri, la mia mancanza di competenze specifiche (non ho fatto l'Università), cose del genere. Si tratta di un tema a cui sono sensibile, tutto qua.
Ve lo chiedo per favore: se anche voi siete sensibili a queste tematiche, per qualunque motivo, giù le mani da Algernon.
Senza ombra di dubbio è un libro magnifico. Ma non si può mica piangere così. La lenta presa di coscienza di Charlie verso tutta quella che è stata la sua vita pre-intervento è di un doloroso che non si riesce a dirlo. Una vita intera di vessazioni e angherie, di vigliacchi umani pronti a prendersi gioco del prossimo più fragile, dell'amore di una madre rifiutato perché non si sono rispettate le aspettative, di famiglie distrutte. Mai prima di questa lettura mi era capitato di confondere così tanto vita reale e finzione letteraria. Ho dovuto ricordare a me stessa più volte che Charlie non esiste. Anche se esiste, magari non si chiama Charlie ma Mario, Paolo, Silvia, Giordana...esiste ogni giorno perché viviamo in un mondo di persone cattive e vili e disposte a tutto per la facilità di una risata, anche al sacrificare la dignità altrui. La propria mai, quella è sacra. Ma quella degli altri, avanti, prego, prendetene e mangiatene tutti.
Ecco, capito? A me Daniel Keyes ha sta rendendo una di quelle che 'i kani sono meglio dll personeeee' e dio me ne scampi. Però le persone di quel libro qui, tutte quante, sono reali al punto che nemmeno i buoni sono buoni. Al punto che nemmeno chi voleva aiutarlo, sto Charlie, in fondo lo considerava un umano come gli altri.
Quando Charlie diventa intelligente, però, ecco che non lo vuole più nessuno. Ma bestie immonde che non siete altro, ma ringraziate che questo non ha costruito una bomba e vi ha fatti tutti saltare in aria!
Scusate, mi faccio trascinare. Ve l'avevo detto che mi aveva preso sul personale.

In un romanzo classificato come fantascientifico c'è un'immagine delle persone dura e analitica, di come cambiano in base alla percezione che abbiamo di loro, di come loro cambiano in base alla percezione che hanno di noi. Di cosa ci serva davvero per essere amati (colpo durissimo per la sinceramente vostra) e di cosa la gente si aspetti dagli altri.
Il tutto con uno stile di scrittura che cambia in base alla fase in cui si trova il suo protagonista e che leggiamo con un affetto sconfinato.
Dolce Charlie, che male al cuore mi hai fatto.

martedì 26 marzo 2019

I parassiti, Daphne du Maurier

11:08
Mi sa che è da un po' che non scrivo di libri qua su, vediamo se mi riesce ancora.
(Su Instagram però ne parlo sempre e da brava egoriferita vi ricordo che se mi seguite lì mi fate tanto contenta.)
Questa volta tocca alla dea Daphne, ispiratrice dei Grandi.


I Delaney sono un incubo.
Sono tre fratellastri, Niall, Maria e Celia, nati da due geniali artisti di metà del '900. Padre cantante, madre ballerina, figli demoniaci. Viziatissimi, selvaggi, indisciplinati.
Li incontriamo in una noiosa domenica pomeriggio, ormai adulti, quando vengono chiamati 'parassiti'. Non importa chi li chiami così, tanto nulla esiste al mondo tranne loro. La cosa li porta a viaggiare in una giornata di ricordi e ricostruzione del loro passato, dove ci accompagnano fino alla fine del romanzo.

I parassiti è un romanzo che profuma di lusso e ostentazione, della vita caotica e fuori dagli schemi di chi fa l'artista di professione. Ha protagonisti che sono completamente fuori dal mondo 'reale' e coi piedi per terra di chi deve lavorare per vivere, di chi ha problemi comuni e nessuno che glieli risolva, di chi non ha governanti. Sono, a tutti gli effetti, i parassiti del titolo, che vivono del successo dei genitori senza mai concludere qualcosa di proprio , senza mai spingersi ad esplorare il mondo, senza mai chiedersi se ci sia una vita diversa da quella che hanno sempre vissuto. 
Stanno così, accomodati su poltrone di raso, che si lasciano scivolare di dosso l'insulto mentre parlano, e parlano, e parlano. D'altronde, non hanno altro da fare. 
Niall e Maria legati da un rapporto morboso che del fraterno ha ben poco, dipendenti l'uno dall'altra come dall'aria che respirano eppure incapaci di sentimenti reali per qualunque altra cosa o persona, legati solo all'altro e a se stessi, e Celia che ha sacrificato una vita al padre, schiva e mansueta come un agnellino, infelice e completamente annullata anche dai fratelli. Neppure lei, però, così all'apparenza distante dagli altri due, ha mai cercato di fare altro, di dare un senso alla sua esistenza. Lei è un personaggio splendido proprio perché ha accenni di quell'umanità che agli altri manca, ma è pur sempre una Delaney, e stare al mondo non le riesce bene. Tutti e tre sono stati in grado di prendere un talento e gettarlo al vento, perché anche i talenti più magistrali necessitano di essere seguiti e coltivati, e loro non hanno mai sentito il bisogno di farlo.

La bellezza della scrittura di Daphne du Maurier sta nel fatto che non si parli mai esplicitamente di ricchezza. Come non si parla mai del vero rapporto tra Niall e Maria, così come non si parla più di tanto della morte della madre, che viene solo accennata e poi mai più nominata. Non ne ha bisogno, perché disegna talmente bene i personaggi che tutto il resto è perfettamente comprensibile senza che se ne parli mai. Non ci sono descrizioni, non ci sono momenti di riflessioni esterne ai tre personaggi, non ci sono altro che i tre fratelli. Non serve altro che far agire loro per farci vedere alla perfezione tutto il mondo che ruota loro intorno. Solo che noi quel mondo qua lo vediamo, perché nel mondo reale abitiamo ogni giorno, mentre a loro tre scorre intorno come se non ci fosse. Ogni contatto con il mondo esterno alla famiglia Delaney è fallimentare. Sono troppo distanti dalla gente reale. Non riescono nemmeno a interagire con le persone, se non sono al loro servizio. Mamma e papà sono quelli che li hanno resi i parassiti che sono, eppure anche loro compaiono solo da lontano: figure quasi mitologiche e distanti quando i bambini erano ancora piccoli, e inesistenti da adulti, fatta eccezione per il rapporto di dipendenza che il padre ha nei confronti di Celia. Pur avendoli formati, non contano più nulla, perché nulla conta davvero.
Tutto è vano, lontano, non importante. 
Pur dicendolo sempre, però, la du Maurier non lo dice mai.
E questo è il motivo per cui è una dea.

mercoledì 16 gennaio 2019

The hate you give, Angie Thomas

13:31
Ho iniziato l'anno con il saggio nuovo di Harari, XXI lezioni per il 21esimo secolo, che racconta di spaventosi scenari per il futuro. Ho proseguito con un romanzo che parla delle realtà spaventose di adesso, soprattutto se sei nero e vivi negli Stati Uniti. 
Ha vinto la categoria Best of the best su Goodreads per il 2018, e per me è più che meritato.
So che è già uscito il film, e lo vedrò di sicuro, appena i personaggi avranno smesso di avere nella mia mente la faccia che ho dato loro.


Starr Carter frequenta una prestigiosa scuola privata. Ha amiche, gioca a basket, sta con un adorabile fidanzato che stravede per lei. Però Starr è nera, e non vive nel quartiere in cui vivono i suoi compagni. Dove vive lei droga, scontri, gang e povertà sono all'ordine del giorno. Lei ci prova a tenere un equilibrio tra questi due mondi così lontani, ma quando il suo amico Khalid viene ucciso da un poliziotto diventa tutto più difficile. Soprattutto perché lei è la sola testimone, e deve trovare la forza di parlare.

Si legge in un paio di sedute, The hate you give. Non è lunghissimo e ha una di quelle belle scritture semplici che scorrono come acqua fresca. Non ci prova nemmeno a fare il complicato, perché a complicare la faccenda ci pensa il tema trattato. O meglio, ci pensano i temi trattati, perché in una sola storia c'è racchiuso un mondo intero.
Starr è giovanissima, ma ha la durezza tipica di chi non può nemmeno uscire a giocare per strada per non essere massacrato. Da un criminale o da un difensore della legge. Da bambina i suoi le hanno insegnato come comportarsi in presenza delle forze dell'ordine, e la vita nella sua scuola, frequentata in modo quasi esclusivo da bianchi, le ha insegnato come comportarsi per non essere mai additata come 'quella del ghetto'. Parlare bene, con calma, mai essere scalmanate, o arrabbiate, o tristi. 
Ha una famiglia preziosa come l'oro, che la ama calorosamente. Eppure niente può proteggerla dal mondo, e infatti proprio lei, così lontana dalle dinamiche criminali del quartiere, si ritrova ad essere l'unica testimone di un omicidio brutale e ingiustificato. 
Non solo, perché l'omicidio di Khalil è la punta di un iceberg rivoltante: polizia che copre il collega colpevole, media che travisano la verità e la rivoltano a loro piacimento, amici che non comprendono, amici che non si vuole aiutare a comprendere, genitori che vorrebbero proteggerti e subiscono le conseguenze delle tue scelte. Una ragazzina con la sola colpa di essersi trovata nel posto sbagliato al momento sbagliato ha ora la responsabilità di far arrestare un omicida. 

Non si parla quindi solo di violenza della polizia verso la gente di colore, che è certamente la cosa più importante. Si parla anche di un'adolescente che deve fare chiarezza su chi sia e cosa voglia, su cosa la caratterizza davvero, sulle sue radici e sul suo futuro. Si parla di saper prendere decisioni forti, di capire che a volte bisogna decidere da che parte stare e accettare che si perderà qualcuno inevitabilmente lungo la strada, si parla di imparare a riconoscere il marcio, che spesso fermenta sotto i nostri occhi quando nemmeno ci accorgiamo della sua gravità, e di imparare anche a convivere con i propri rimpianti, perché quello che ci rende quello che siamo è anche il modo in cui reagiamo. Si cerca di far luce su come in molte realtà la criminalità sia la sola scelta possibile per restare vivi, sulla mancanza di prospettive per una marea di persone, sulla fine della speranza.

E si fa in un solo libro, che andrebbe portato nelle scuole, nelle piazze. 
Io lo porto qui.




giovedì 3 gennaio 2019

Fame, Roxane Gay

16:43
L'ultimo libro che ho letto nel 2018 è stato quello che mi ha dato la megamazzata finale, per chiudere in bellezza un anno che definirò solo complicato per non cadere nell'autocommiserazione già al 3 gennaio.
Però è stata una megamazzata di quelle che servono, che aiutano a rimettere bene a fuoco il mondo.


Roxane Gay è una scrittrice americana di 44 anni, nera, bisessuale. Ce le ha tutte per indispettire i buoni protettori della società, eh?
Ah, ne ha anche un'altra, di caratteristica: è obesa.
Questo è il libro in cui questa obesità viene sviscerata, dalle sue origini alle sue conseguenze.

Ce lo chiarisce subito, nelle prime righe, Roxane.
Questo non è un libro a lieto fine. Non è la storia di un miracoloso dimagrimento, non ci sono foto di before and after come vanno tanto di moda sui social delle personal trainer, non c'è un solo passo avanti. Roxane questo corpo qua mica lo vuole, ma è il suo e lo rispetta. E ce lo racconta.

Vorrei che arrivaste alla lettura neutri come ci sono arrivata io, da un lato, perché sto libro mi è passato sopra come un treno e sono ancora un po' frastornata, e così il suo messaggio arriva ancora più forte.
Dall'altro lato, però, non riesco mai a tenere per me le cose che amo molto, quindi eccoci qua.

Solito preambolo personale di cui potrebbe non fregarvi nulla: io sono ciccia. Non sono largamente obesa, sono 'solo' un po' sovrappeso. Sono ben più di dieci anni che combatto contro questa cosa, e siccome sono ancora ciccia direi che la battaglia è ancora ben lontana dall'essere vinta.
Nello scorso anno, però, il mio rapporto con il mio corpo è peggioratissimo. Se prima non mi piaceva ma nemmeno mi faceva piangere la notte, ora la notte, quando la mia insonnia mi tortura, è a quello che penso. Quando vado fuori a cena, quando devo spogliarmi per lavarmi, quando giro per negozi. Non compro vestiti da un anno con l'eccezione di una magnifica felpa che in quanto gigantesca mi nasconde.

Potete immaginare cosa ha fatto in un simile desolante panorama la storia della Gay? Mi ha preso l'anima e l'ha fatta a pezzettini piccoli piccoli, poi ha lanciato sti coriandoli per aria ridendomi anche in faccia.
Roxane Gay con un linguaggio quasi chirurgico non ha paura di niente. O meglio, io sono certa, e lei stessa lo ammette, che dire certe cose nel modo in cui le ha dette le sia costato una fatica indicibile. Ma a noi lettori arriva tutto con una schiettezza disarmante, con l'onestà di chi a queste cose ha pensato a lungo, e le ha vissute nella quotidianità. Le sue frasi sono nette e taglienti, e creano un alone di disagio nel lettore che obeso non è.
Perché il rapporto complicato con il proprio corpo lo comprendiamo tutti. Chi più chi meno, chi in forme e modi diversi, ma sono milioni le persone che non si amano. Dall'altro lato, però, chi non è obeso si trova nella posizione di sentirsi a disagio, leggendo, perché ci sono milioni di cose di cui non ci si rende conto. Non è solo il dover cercare online le foto dei ristoranti per vedere che sedie ci sono, o il dover comprare due biglietti aerei per volta. Più che altro è questione di sguardi della gente, di commenti, di persone che ti amano e cercano di aiutarti ma facendolo fanno ancora più male. Soprattutto, è questione di dignità personale, che viene inesorabilmente distrutta, perché pensando di non valere niente si permette agli altri di fare di noi quello che loro ritengono giusto. Ci si lascia usare, importunare, scrutare. La persona diventa il suo corpo, e il suo corpo diventa tutto quello che conta.
Che importa allora se Roxane è una donna molto intelligente, dal carattere solitario ma piacevole, dalla storia familiare dolcissima, dai valori importanti? Prima di tutto è grassa, e tutti, tutti, tutti, sappiamo che questa è la prima cosa che si ricorda parlando di lei. Tutto è così dolorosamente vero.

Non parlerò dei motivi per cui la Gay è grassa, nè degli altri importantissimi temi che escono nel libro.
Vorrei solo che chiunque di voi abbia anche solo il minimo problema con il proprio corpo questo libro lo leggesse, perché è profondissimo e semplicissimo allo stesso tempo, e perché parla talmente chiaro alla mente di chi non si ama che non può che essere d'aiuto.
Quando lo avete finito, poi, cercate di volervi un po' più bene.
A volte è tutto quello che serve per partire, anche se è la cosa più difficile.


martedì 4 dicembre 2018

Parlarne tra amici, Sally Rooney

16:21
Ormai avrete notato che cerco di scrivere sempre meno recensioni singole e mi dedico a post più strutturati, che funzionano molto meno ma che personalmente preferisco.
Soprattutto, non scrivo quasi più a caldo, ma a me il romanzo del momento ha fatto piuttosto pena quindi post polemico e via, post come se fossimo nel 2012.


La storia è quella di Frances, 21enne piena di sè e di opinioni, e della sua migliore amica/ex ragazza Bobbi. Le due studiano al college e si danno alla poesia, partecipando a serate di spoken words. In una di queste conoscono Nick e Melissa, una coppia più grande e sposata.

Ho una rabbia contro sto coso.
Partendo dal presupposto che io mi metto sempre nella posizione di pensare che il problema sono io e che potrei davvero non avere capito nulla, è davvero questo quello che vuole l'editoria oggi? Romanzi così? Che si spacciano come voci di una generazione e invece sono solo supercazzole?
Perché basta saperlo, uno se oggi vuole pubblicare caccia in piedi una storiella finta provocatoria (fintissima provocatoria), usa la tecnologia perché signora mia oggi i ragazzi parlano solo con quei telefoni lì e si sono persi i rapporti e bam, caso editoriale dell'anno.

Ogni personaggio di questo romanzo è un detestabile coglione. Perdonerete il francese che diventa la mia lingua madre quando sono inviperita.
Frances ha sì l'ingenuità dei primissimi vent'anni (che io ho passato da 5 minuti, me li ricordo), ha sì l'incertezza di chi si sta ancora costruendo, ma quanto se la sente calda?!
Lei e il suo sguardo di infinita superiorità rispetto agli altri, lei e il suo snobismo, il suo comunismo e il suo grande rispetto per i lavori umili, che però è solo enorme ipocrisia, perché lei non vorrebbe mai lavorare, lei è troppo creativa e poetica per lavorare, e ci fa due palle così su quanto lei piaccia al suo capo proprio perché non interessata al posto fisso, per poi farci intenerire con lei che salta i pasti perché è povera in canna e ha solo pane e acqua e il frigo vuoto e il suo amante mosso a compassione le compra la carne.
Io credo che personaggi così spregevoli solo Franzen li abbia mai scritti.
Bobbi, la sua migliore amica, una supercazzolona di quelle provinciali, che si riempie la bocca di discorsi filosofici che sono assurdi e davvero irrealistici dei quali non esisteva un senso nel romanzo e che davvero hanno fatto solo che pena.
Esempio per farvi ridere un po':


La coppia Nick e Melissa, poi, straordinaria. Una coppia di persone senza un briciolo di amor proprio, fondata su tradimenti e mancanze di rispetto ma che, pensa un po', si ama ancora, e resta insieme in nome di questo supposto amore che non vediamo mai, ci viene solo detto a parole.
Ridicolo.

E infine, come se non fosse sufficiente tutto ciò, il romanzo è tanto young perché i suoi personaggi parlano anche attraverso la tecnologia, Vera Nemica delle nostre relazioni.
Come comunicano?
Su Whatsapp? Su Telegram? Messenger?
No.
Per email.
Sipario.

domenica 11 novembre 2018

Thornhill, Pat Smy

11:26
Trovato nella sezione ragazzi della bibliotechina del mio paese, Thornhill mi ha catturata dal primo istante, per la sua mole, la sua forma compatta e il suo nero onnipresente.


Il racconto è quello di due bambine, Ella e Mary, delle loro due vite parallele e del momento in cui queste due vite si incrociano.

La particolarità del tomone è prima di tutto la struttura. Non è un fumetto vero e proprio ma un romanzo illustrato nel vero senso del termine, in cui pagine di narrazione in forma di diario si alternano a pagine di sole illustrazioni.

La storia parla di bullismo feroce, orfanotrofi, adulti incompetenti e superficiali, cattiverie atroci e solitudine lacerante. Lo fa con dovizia di particolari, senza lasciare granchè all'immaginazione. Mary è vittima di un mondo cattivo che non sa integrare il diverso, e per questo ha smesso di parlare. Cerca rifugio in bamboline che crea da sè, che diventano le sue uniche amiche. Il ritorno nell'orfanotrofio di Thornhill della sua bulla, però, la fa ripiombare in uno stato di disperazione dal quale nessuno sembra davvero interessato a farla uscire.

La considerazione che mi ha fatto fare Thornhill, che comunque consiglio per intensità, fascino e particolarità della struttura, è: come classifichiamo qualcosa per bambini? 
Come si decide se qualcosa è adatto o meno?
Perché è chiaro che conoscendo il singolo esemplare di cucciolo d'uomo si può stabilire quanto e se sia pronto per letture più impegnative o se invece sia meglio coccolarlo ancora un po' con storie più gioiose, ma come si fa una classificazione generale?
Se da un lato mi viene da pensare che i bambini siano pronti a tutto, dall'altro mi viene da pensare che un po' di protezione sia non per forza dovuta ma naturale. Ce l'abbiamo scritta da qualche parte in quello che siamo in quanto animali, la tutela dei più piccoli. Giusto due minuti fa stavo guardando su Instagram un video di una leonessa incattivita come la morte con due leoni che si avvicinavano ai cuccioli, mi sa che fa proprio parte della natura.
Ora, lungi da me voler passare messaggi pedagogici o educativi per i quali non ho la competenza, ma mi interessa sapere cosa fareste voi. Non perché io abbia bambini a cui passarlo, ma perché io alla biblioteca l'ho già riportato, e lui sarà tornato nella piccola zona fumetti insieme al mio amato Lupo Alberto e a Mafalda. E sta lì, in attesa che qualche bambino se lo porti a casa e speri di trovarci un'avventura inquietante e cupa.
Che per carità, per esserci c'è, ed è anche interessantissima.
Mi chiedo solo, con sincera curiosità e nessuna vena polemica, quanto siamo pronti a raccontargliela.

domenica 14 ottobre 2018

La trilogia di Cormoran Strike, Robert Galbraith

16:52
Il 18 settembre è uscito Lethal White, il quarto volume della saga di Cormoran Strike, la rinascita di J. K. Rowling con lo pseudonimo di Robert Galbraith.
Pare sia giunta l'ora di parlare dei primi tre.



Alla fine del primo libro, Il richiamo del cuculo, ero certa avrei mollato. Non è che non mi fosse piaciuto in toto, ma nemmeno mi sentivo rapita come devo essere se voglio continuare una saga che nemmeno volevo iniziare.

Facciamo un passo indietro.
Nella Redrumia i gialli sono i libri che leggo quando sto in crisi del lettore, il che mi capita più spesso del previsto ultimamente. Trovo questi sul mio hard disk adorato, li carico e decido che temporeggio con loro.
Risultato: divorati in tre settimane nette.

Cormoran Strike, oltre ad essere il proprietario di un nome pregiatissimo, è un investigatore privato di Londra. Figlio a malapena riconosciuto di una rockstar e di una groupie, privo di una gamba e del suo amore folle che lo lascia proprio all'inizio del primo romanzo, veterano di guerra e con ben pochi legami.
Nella sua vita entra Robin, che lui assume come segretaria e che si rivelerà molto di più.
Niente 'will they, won't they?' non è il romanticismo che ci interessa, e Robin ha un vistoso anello di fidanzamento al dito.
Il legame professionale è più che sufficiente.

Dicevamo, Il richiamo del cuculo. 
Per buona parte della lettura ho pensato di stare leggendo una sceneggiatura, il che non necessariamente è un male dato che è pure uscita la serie e avranno avuto buona parte del lavoro fatta. Però che palle. Dialoghi su dialoghi su dialoghi e interrogatori e consultazioni e incontri e chiacchierate e djesoo solo sa cos'altro avessero da dirsi sti stronzi che gli si saranno bruciate le dita a forza di fare le virgolette.
Il francese è la lingua nazionale in Redrumia, ormai lo saprete.
Però però però.
Alla fine mi ero detta che andava bene così, non avrei continuato la saga e buonanotte, era uscito il nuovo della Oates nel frattempo e potevo recuperare lui. Però a me il giorno dopo Cormoran mancava. E quindi via di nuovo, con il due e il tre.

Io alla fine li ho trovati sinceramente giallini mediocri. I personaggi non portano nulla di nuovo all'immaginario dell'investigatore privato in rovina e tormentato e nemmeno a quello della novella Veronica Mars inconsapevolmente bellissima ma anche brillante e tosta e senza paura.
Dei casi mi interessava francamente poco.
Quindi, vi chiederete, perché siamo ancora qua a parlarne?
Perché c'è una cosa che la Rowling sa fare ed è rendere umani i suoi personaggi in un modo che li fa entrare dentro al lettore e non li fa uscire più. Con una parola, una riga sola, li tira fuori dal cliché in cui rischiano sempre di finire e li rende credibilissimi, tridimensionali, e senza nemmeno accorgersene iniziano a stare a cuore. Con la sua scrittura semplicissima e senza fronzoli sa parlare delle persone in un modo onesto e profondo, e alla fine ci siamo dentro con tutte le scarpe, in questa improbabile coppia inglese bizzarramente assortita.

Il terzo romanzo, poi, parla di violenza sulle donne, tra le altre cose. E lo fa come solo una donna potrebbe fare: con dettagli crudeli, personaggi disgustosi e vittime che da sole devono rialzarsi. E quando si parla di argomenti così importanti in modo impeccabile (vedesi anche Broadchurch stagione 3, indimenticabile), non si può che cambiare idea su quanto detto prima.

Per la Rowling si passa sopra questo e altro.

giovedì 19 luglio 2018

Il segreto del Bosco Vecchio, Dino Buzzati

11:29
Prendetemi pure in giro se volete, lo accetterò.
Io, però, non avevo mai letto Buzzati.
La scuola mi aveva insegnato che la letteratura italiana era tutta stilnovisti e poeti frantumaentusiasmi. Calvino? Sconosciuto. Leopardi? Una noia mortale. Buzzati? Chi?
Sì, sto dando la colpa alla mia prof, che oltre ad avermi rubato la mia copia de Il giovane Holden mi ha fatto credere (inconsapevolmente, era una ciellina nazionalista) che il meglio era tutto all'estero.
E finisce che Buzzati me lo devo leggere a 27 anni.


Il Bosco Vecchio è un terreno ereditato dai Procolo, Sebastiano e Benvenuto da un parente defunto.
Uno è un colonnello in pensione e l'altro un ragazzino orfano e in collegio. Si trovano a condividere un'eredità fatta di piante ma anche di geni, gazze e venti.
E nessuno osserva il mondo in silenzio.

Vi racconto di un pomeriggio.
Erre per lavoro doveva andare in un paesino di montagna. Mi chiede di accompagnarlo, così gli posso fare compagnia durante il viaggio. Di fianco alla farmacia dove lui lavora c'è una pasticceria, quindi lo saluto, mi ordino un cappuccino pieno di schiuma, e mi siedo nel loro terrazzino. Ho una felpa pesante, l'arietta è quasi miracolosa, passano persone sorridenti con cani rumorosi e la tranquillità del paese è da sogno. Un auto ogni dieci minuti quando andava male.
Io e Dino Buzzati siamo stati insieme quel pomeriggio, e la coccola che quella giornata è stata per me è stata indescrivibile. Qualche tempo fa nel sentire la gente parlare di cose così banali mi avrebbe quasi fatto ridere, ma in un anno come quello che sto passando, e che non smette di prendermi e sbattermi ripetutamente contro il muro proprio di faccia, ho rivalutato tutto.
Se potete concedetevi un momento così. Un giro in bici al sole, una visita ad una fattoria con gli asinini e il fieno, una passeggiata di sera, un pomeriggio in montagna.
E se potete, fatelo con Buzzati.

Perché come mi è capitato di dire altre volte parlando del fantastico, nessun altro genere fa quello che fa lui. Ci prende e, pur facendoci godere immensamente del momento, ci prende e ci porta via. E io, con la mia felpa, il mio cappuccino e il cane sopra di me che abbaiava ad ogni passante, ci siamo fatti prendere volentieri. Ci siamo lasciati trasportare in un luogo magico dove le piante sono le padrone di casa, dove i venti fanno le gare e dove le gazze sono guardiani migliori di ogni cane. Dove le persone riscoprono il loro valore, dove i bambini smettono di essere piccoli e dove niente conta più della lealtà. Dove riemerge il buono di ognuno.
Il tutto, in una storia breve e quasi per bambini, di quelle che non hanno paura di parlare di cose cattive perché hanno uno scopo, e perché quello scopo lì è sempre ricordarci che siamo migliori di quanto crediamo.

Dopo quel giorno la mia testa bloccata si è sbloccata. Mi è arrivata un'idea che potrebbe (o forse no, se potete incrociate le dita per il mio futuro) risolvere una situazione brutta brutta. Ho cercato di riprendere in mano le redini del mio cervello e anche se la strada è lunga e spaventa, ogni tanto riesco ancora a pensare di potercela fare.
Non posso credere che Buzzati e quel pomeriggio lì non c'entrino niente.

sabato 26 maggio 2018

Accabadora, Michela Murgia

11:29
Al di là della fama che la precede, ho fatto la conoscenza diretta di Michela Murgia guardandola nel programma di Augias. In particolare, aveva fatto un intervento sul fumetto e il suo ruolo nell'editoria e nella cultura che avevo trovato perfetto, e da quel momento ho iniziato a seguirla sui social e ad adorarla.
Raccomando, in particolare, su Twitter, la sua rubrica #tuttimaschi, dove sottolinea come le prime pagine dei nostri quotidiani abbiano firme femminili quasi solo in casi di articoli di moda e tendenze e culi. Giusto per non farvi venire il fegato d'acciaio come viene a me.
Per completare il quadro mancavano i suoi libri e ho deciso di iniziare da quello che forse è ancora il suo più famoso: Accabadora.


Maria è l'ultima di quattro sorelle, figlia di una madre povera e vedova.
Quando Bonaria Urrai, una vecchia sarta del paese, la chiede come figlia dell'anima, quindi, la madre accetta senza pensarci troppo. Un figlio dell'anima è, come descritto due volte, un bambino nato due volte: dalla povertà di una donna e dalla sterilità dell'altra. Un'adozione senza contratti, enti, e marche da bollo.
Di notte Bonaria esce spesso, e Maria sembra non farsi troppe domande. Il suo 'lavoro' è quello di accabadora, ovvero di accompagnare alla morte le persone in condizioni gravissime. Un ruolo che non può che influenzare il rapporto con la bambina.

Ero certa che avrei trovato Michela Murgia bravissima. Ero molto meno certa che mi sarebbe interessato il tema, invece.

Per me Accabadora è stato fulminante. Divorato in poche ore, lascia dietro di sè la scia di sensazioni fortissime date dalla capacità della Murgia di trasportarci nel cuore di una terra anche le persone che, come me, non la conoscono.
Senza alcuna forzatura, con la semplicità tipica di chi non deve sforzarsi per riuscire bene in quello che fa, la narrazione è intensissima di sentimenti e atmosfera. Si respira l'aria del soffritto che Maria, arrabbiata e confusa, cucina, si vede lo sguardo combattuto di Bonaria, si sente il vomito di Andrìa e si prova il dolore di Nicola. Tutto è forte e vivissimo, descritto con un'efficacia che ha del miracoloso e che solo in lavori come quello della Ferrante avevo visto prima.
I rapporti mi sono sembrati così familiari, così noti, che li ho vissuti come fossero i miei. Bonaria e Maria si abbracciano poco e mai, a volte nemmeno si parlano, ma comunicano con i gesti e la fiducia e l'amore pulito e forte che nasce tra chi non ha legami di sangue ma solo di scelta.

Non è una lettura, è un'esperienza. Come entrare in una sala da tè profumatissima, e lasciarsi coinvolgere dalle storie di chi ci circonda. Come entrare in una chiesa di paese, riconoscerne l'odore di incenso anche dopo anni di lontananza, e sedersi tra le credenze e il folklore delle donne di una volta che accendono ceri e pregano per gli amati.
Certe espressioni della Murgia sono quasi un incanto: parla di 'emigrazione da sè' quando parla del suicidio di un emigrato o di 'furto dell'abito da sposa' quando parla di un matrimonio mai celebrato, per esempio.

La colpa è mia e solo mia, che finisco sempre involontariamente per snobbare la narrativa italiana senza una e una sola motivazione reale. La Murgia è una scoperta stupenda, alla faccia del mio snobismo.
E poi dicono che i social non servono a niente.

mercoledì 16 maggio 2018

Consapevolezza alimentare: The China Study

16:29
Qualche mese fa ho pubblicato un post, che trovate qua, nel quale parlavo di alcuni documentari a tema alimentare che mi ero sparata in un tentativo di convincermi a mettere giù le patatine fritte ora e per sempre.
La ricerca di motivazione continua, questa volta con un libro: il tanto famigerato The China Study.



Premessa obbligatissima: la comunità scientifica non dà alcun valore allo Studio Cina. Non è riconosciuto, non viene preso in considerazione come riferimento.
Insomma, è fuffa.
La cosa mi dà immensa gioia perché io, sto libro, l'ho odiato.

Partiamo dalle cose positive, perché non sembra che io stia scrivendo un post avvelenato per pura antipatia personale.
Il volume è bellissimo. Lo so, non conta niente ed è un discorso da feticisti della carta stampata che non ha alcun valore, ma lo amo. La dimensione, la copertina flessibile, la carta riciclata, i grafichetti. Sembra un libro scolastico e io i libri scolastici li venero come divinità della conoscenza.
La seconda cosa positiva è che offre sinceramente molti stimoli. Io mi nutro da cani. Mangio malissimo. Mi sforzo, ci provo, ma sono un disastro. La verdura mi fa quasi tutta schifo e la frutta è la mia nemesi. Non ci capiamo, non ci siamo mai avvicinate, è un rapporto che non è mai nato e finora era sempre andata bene così.
Risultato: sono ciccia, quindi forse così bene non è andata.
The China Study, oltre ai disastri di cui parleremo dopo, parla talmente tanto e talmente bene di queste meraviglie che la natura ci offre che io questo mese ho iniziato a mangiare i pomodori.
Non tutti, solo quelli oblunghi croccantini, ma è qualcosa.


Per quanto riguarda i disastri, invece, mettetevi comodi, sarà un lungo post.

Partiamo dalla presentazione che il libro dà di sè e del suo contenuto:
Lo studio più completo sull'alimentazione mai condotto finora
Un testo monumentale che sta sollevando un vero polverone intorno alla medicina convenzionale di tutto il mondo.
Il più importante testo epidemiologico mai realizzato
Wow.

Non è come quando l'editore decide di mettere sul retro o sulla copertina frasi da recensioni di scrittori famosi o di grandi testate. Qua è tutta materia del gentile professor Campbell. Al massimo del suo editore.
Leggendo però il tono tronfio, egoriferito e pomposo con cui il galantuomo parla di sè, non mi stupirei se tutte queste lodi fossero già scritte nella bozza mandata all'editor.
Si tratta nientemeno di 400 pagine di autoelezione di sé come il più grande, il migliore, l'unico che dice la verità, il Solo Portatore di Autorevolezza e Realtà nel marcio ed evidentemente volto all'estinzione della specie mondo della medicina convenzionale.

Migliaia di medici in tutto il mondo, ricercatori sottopagati, infermieri dispettosi, smascherati da Lui: T. Colin Campbell.
Inchiniamoci alla sua volontà.

Ci prova spesso, in mezzo alle pagine, a dire che bisogna eliminare tutto ma non farsene ossessionare, che è un percorso, che ci si arriva, ma la sua arroganza è snervante. Quello che più di tutto ho trovato snervante è il tono con cui apre il volume: l'adolescenza in fattoria, con gli animali, tutta la carne mangiata da tutti. Per tutto il romanzo, poi, si porta appresso questo tono da 'io ci sono passato, vi capisco, è dura', che gioca su una faciloneria insostenibile.

Si arriva a fare dichiarazioni che sono di una pericolosità gravissima.
Parliamo di malattie, e Campbell dice che i tumori possono avere origine genetica ma che possono anche essere 'stimolati', passatemi il termine per nulla scientifico, dal modo in cui ci nutriamo.
Io non ho competenze mediche, leggo e cerco di imparare qualcosa, quindi questa nozione la prendo e la metto nel bagaglio che sto cercando di costruire.
Dopo, però, si dice che l'alimentazione ha un ruolo fondamentale nella cura della malattia.
Questo non va bene.
Se scrivi un libro che chiaramente nasce per essere popolare e diffuso tra tutti, perché non si tratta di un articolo di settore pubblicato in riviste specializzate, gli dai quel tono familiare per avvicinare il lettore a te e alla tua storia e al tuo immenso lavoro, non lo freghi così. Non lo metti in un angolo con affermazioni micidiali e pericolosissime.
Se io fossi malata sarei disperata. Qualcuno riesce a mantenere lucidità e consapevolezza, io no. Io agonizzo a letto per qualche linea di febbre, con un tumore sarei annientata. Leggere una frase del genere mi farebbe campare di insalata mangiata direttamente dalla busta. Non va affatto bene, pare del miserabile complottismo antifarmaceutico che non fa il bene di chi dell'industria farmaceutica ha bisogno per vivere.

Esempio molto meno grave di un tumore: mia madre ha il diabete.
Segue una dieta e una cura farmacologica, che le permettono, insieme, di non sentire il calo di zuccheri, di andare in bicicletta senza essere affaticata, e di vivere una vita normale.
Dirle, domani: mamma, non prendere più le pastiglie di potassio che ti aiutano a stare in piedi, mangia come ti dice questo libro e passerà tutto da sè, significa innanzitutto che mia madre mi lancerebbe una seggiola e anche il libro, e poi che il giorno dopo la troverei sul divano incapace di muoversi perché le sue gambe non la sostengono.
Non. Va. Bene.

Ci mettiamo anche la fettina animalista?
Mettiamocela.
Uno studio intero, durato 30 anni, per giungere alla conclusione che gli animali non vadano mangiati condotto come? Sui topi.
Sembra Deodato che dice che facciamo schifo perché pur della fama (concedetemi la semplificazione) siamo disposti a tutto poi macella animali per un film.
Non fraintendetemi: io credo di essere a favore della sperimentazione animale in ambito medico.
Però puzza un po'.

Non ho competenze medico-scientifiche nemmeno per errore. So alcune cose sul mio corpo e basta, giusto perché ci devo abitare dentro. Non mi permetto, quindi, di dare giudizi sulle conclusioni a cui giunge, ma da cittadino comune mi devo fidare della comunità scientifica.
Qualcosa non va in questo studio, e su questo paiono essere tutti concordi.

Bisogna mangiare più frutta e verdura?
Siamo tutti d'accordo, soprattutto Studio Aperto nei mesi tra maggio e settembre.
Bisogna leggere questo libro per farlo?
Anche no.

Se però voleste approfondire l'aspetto scientifico dello Studio Cina e delle sue criticità, vi linko un blog, che ne parla in diversi post molto interessanti: https://deniseminger.com/the-china-study/


 
 

sabato 21 aprile 2018

La bussola d'oro, Philip Pullman

19:38
Continua il mio periodo di 'crisi creativa': scrivo poco e niente (più niente che poco) e leggo relativamente poco.
Nel mio recente viaggio in biblioteca terapeutico, però, ho recuperato La bussola d'oro, primo volume della mitologica saga Queste oscure materie. 
Nominato da mille milioni di persone, diventato ormai leggendario, ha fatto su di me un effetto completamente inaspettato: non mi è piaciuto.


Una trama velocissimissima per chi non sapesse di cosa sto per parlare: la storia è quella di Lyra, una bambina orfana ma appartenente all'aristocrazia inglese, che viene allevata nel prestigioso Jordan College. Lyra vive in un mondo in cui ad ogni persona è assegnato un daimon, creatura mutaforma da cui è impossibile separarsi, e in cui ad un certo punto iniziano a sparire i bambini. Insieme a queste sparizioni, fa la sua comparsa nella vita di Lyra la signora Coulter, che la porta con sè per trasformarla nella sua assistente.
Da questa partenza, per Lyra inizierà un'avventura che la condurrà fino ai ghiacci del Nord, tra orsi, streghe e Polveri.

Io lo so che le aspettative fanno male. Lo so, le ho sperimentate sulla mia pelle più volte, eppure davanti alla grande fama di libri o film è difficile restare neutrali. Io l'ho letto in edizione Salani, e dietro riportava queste recensioni:

Capito? Restateci voi, neutrali.

Ho un grande amore per le saghe fantastiche per ragazzi, immagino sia piuttosto palese. 
Provo a scrivere cose per ragazzi anche io, da tanto che le amo. 
Mi aspettavo quindi l'ennesimo colpo di fulmine, una breccia nel mio cuore così provato dalla crisi del momento, una folgorazione.
Niente, zero, nulla.

A me la scrittura di Pullman è piaciuta, ho trascritto alcune frasi nel mio quadernetto delle citazioni, le ho fotografate, le ho adorate. La delusione arriva proprio dalla storia, dalla sua costruzione, dai suoi personaggi.
Lyra, la protagonista, è la classica bambina ribelle. Non che ci sia niente di male in questo, sappiamo che è un personaggio che funziona e va sempre bene ricordare alle bambine che non devono per forza essere signorine per bene. A volte, però, ho trovato qualcosa che sembrava buttato lì tanto per darle una tridimensionalità che puzzava di forzato. Ribelle e caotica, sicura di sè e determinata, o timidina e pronta a tirarsi indietro? Spesso è stata una, spesso l'altra. Non le riconoscevo alcuni atteggiamenti che le sono stati attribuiti soprattutto nella seconda parte del romanzo, mi sembrava appartenessero ad un personaggio che non era lei. Alcuni atteggiamenti o pensieri sono stati buttati nel discorso magari solo con una frase, che sarebbe bastato evitare e non si sarebbe tolto nulla alla narrazione, anzi.
A proposito della narrazione, mi permetto un giudizio di una negatività che non uso mai perché di solito mi puzza di presunzione: a me non pare costruito benissimissimo.
Ci sono concetti che vengono buttati lì, invenzioni dell'autore che sono interessantissime ma che finiscono nel nulla, o limitate ad un breve spiegone finale. Ma sto aletiometro, come funziona esattamente? La teologia sperimentale, che mi aveva incuriosita da matti, viene lasciata scivolare via nel nulla. Sti orsi, chi sono, che vogliono, che fanno? E le streghe?
Vengono introdotte migliaia di invenzioni che mi stavano davvero intrigando e mi pare che a nessuna sia lasciato lo spazio che meritava.
Ho avuto la sensazione che ci fosse una storia da portare a casa e che andava finita, punto. L'avventura doveva concludersi per riaprire alla successiva e di tutto quello che intorno all'avventura è cresciuto si poteva fare a meno.
Mi sa che con un po' più di approfondimento qui uscivano almeno altri due libri, a star stretti.

Sono dispiaciutissima che non mi sia piaciuto. Ci speravo tanto perché quando ho questi momenti di crisi piuttosto intensa la narrativa fantastica per ragazzi mi aiuta sempre a rimettermi in pace col mondo.
Mi sa che ci vogliono le armi pesanti.
Prendo Neil Gaiman.

mercoledì 28 marzo 2018

Saggiumia: Saper vedere il cinema, Antonio Costa

13:57
So che queste introduzioni servono più a noi stessi per autogiustificarci che non a chi legge: non siamo tutti youtuber con migliaia di follower e fan devoti, e meno male.
Dall'inizio di questo anno un po' impegnativo, però, ho, nell'ordine: iniziato una programmazione che non sono riuscita a seguire, lanciato uno 'speciale' che non sono riuscita a fare e, addirittura, smesso direttamente di scrivere post.
Sono solo presissima da novità sul lavoro che mi tolgono moltissimo tempo ed energia, e quando sono a casa e potrei lavorare al blog e ai due libri con i quali sarei in ballo preferisco cazzeggiare e guardare Storie Maledette.
Cercherò di ridarmi un equilibrio nella gestione delle cose, per ora, però, mi limito a dirvi due paroline su un saggio che ho da poco finito di leggere.


Sapevo che prima o poi mi sarei dovuta mettere a leggere dei saggi sul cinema. Nella mia biblioteca giravo loro intorno da un po' per un motivo o per un altro li lasciavo sempre lì. Principalmente perché finora non ho mai letto molti saggi, ma l'ingresso nella mia vita del magnifico Yuval Noah Harari ha messo in me la voglia di non leggere altro che divulgazione, informazione, educazione.
Eccoci qui, quindi, a fare due chiacchiere sul libro di Costa.

Saper vedere il cinema si pone l'obiettivo di rendere la visione dei film un po' più consapevole. Non vuole essere un omnibus, non vuole rispondere ad ogni domanda possibile nè tantomeno ricostruire nel dettaglio la storia del cinema. Cerca di fare di tutto un po', dando un'infarinatura generale che è un ottimo punto di partenza.
Costa stesso, infatti, conclude ogni capitolo con un elenco di libri da consultare per chi fosse interessato ad approfondire ogni argomento. La lista è infinita e io non gli starò mai dietro, ma è interessante avere qualche titolo di riferimento.

Si parte, nella prima metà del testo, con la storia.
Dai primissimi esperimenti di quei fratelli francesi laggiù fino ai giorni nostri, si ripercorrono velocemente le tappe principali della storia più appassionante di sempre, con particolare attenzione a sottolineare cosa di un certo periodo o movimento abbia portato a quello successivo e così via. Si parla di esperimenti, delle major, dei registi più noti e dei loro lavori principali.
Come vi dicevo, non può e non vuole essere completissimo, ma è un modo secondo me perfetto per capire su cosa ci può interessare concentrarci.
Ci va di conoscere meglio la Nouvelle Vague? Bene, Costa ce la contestualizza un pochino, ci dà qualche nome, qualche film imperdibile e, alla fine, qualche suggerimento per informarci ancora di più. Forse se siete già buoni conoscitori, almeno un minimo più della zappa che sono io, un testo di questo tipo può risultare solo un evidenziare cose già note.
Al contrario, l'ho trovato un modo perfetto per iniziare. Ho annotato (sì, perché quando leggo i saggi prendo appunti, mi aiuta a tenere le cose più a mente) nomi, titoli, cose da leggere, persone da conoscere. Riesce nell'intento (che non è forse quello di tutti i saggi?) di portare a desiderare di più, altra conoscenza, altre informazioni, altro cinema.

La seconda metà, infine, è quella più interessante, quella 'tecnica'.
Anche qui, se il cinema già lo conoscete, non fa per voi, alcune cose le sapevo pure io ed è tutto un dire.
Costa, però, è stato bravissimo nel concentrare i concetti principali, dando loro un minimo di storia, di definizione e riempiendo il tutto con i soliti, utilissimi, esempi, che rendono il tutto più stimolante.
Si parla di make up, di effetti speciali, di montaggio e fotografia, e di che come un film si scrive. A parte una parte infinita in cui si sottolinea in modi estremamente dettagliati la differenza tra trucchi ed effetti speciali, che mi avrebbe spinto a spararmi in un piede, il resto è rapido e scorre preciso e scorrevole, senza l'effetto 'lezione scolastica', che è ciò che fino ad ora mi aveva allontanato dalla saggistica scritta per avvicinarmi, invece, al linguaggio ben più discorsivo e gradevole dei documentari che popolano non solo il mio cuore, ma anche Netflix.

Costa non si è solo conquistato le mie simpatie, ma anche un posto speciale nel mio quaderno degli appunti, che ora per colpa sua è pieno di freccine, post it e titoloni evidenziati.
Ché io avrò pure quasi 30 anni, ma niente mi rende felice come la cancelleria usata.

giovedì 22 febbraio 2018

Il morso della reclusa, Fred Vargas

10:20
Si intonino cori di angeli, si sventolino le bandiere della pace, si innalzino i cuori al cielo: HABEMUS NUOVO VARGAS!
Uscito in Francia a maggio dell'anno scorso e piovutoci addosso solo il mese scorso, è finalmente giunto tra le mie tremanti mani Il morso della reclusa, l'ultima indagine del venerato commissario Adamsberg.

L'ho detto una quantità di volte infinita: per me Vargas è praticamente la sola giallista che valga la pena leggere. Se siete amanti del genere gli autori interessanti sono un po' di più, ma se come me ne foste un po' pieni lei è la regina indiscussa, la sola che valga ancora la pena aspettare come un bambino aspetta il Natale.


Ne Il morso della reclusa Adamsberg, che si era rintanato in Islanda insieme al figlio, viene richiamato a Parigi per un caso un po' complicato. Con i suoi metodi poco convenzionali lo risolve rapidamente per poi inciampare, però, nel caso delle recluse.
Le recluse sono ragni non particolarmente pericolosi diffusi in Nord America. Pare piuttosto strano, quindi, che si siano registrate in pochi mesi diverse morti per morso di reclusa in Francia.
Adamsberg ha un prurito sulla faccenda e, come Lucio insegna, i pruriti vanno grattati fino in fondo o faranno prurito per sempre.
Lucio, per intenderci, è il vicino di casa di Adamsberg. Gli manca un braccio ma gli prude sempre, non aveva finito di grattarlo.

Siccome Il morso della reclusa è un perfetto romanzo di Vargas, che raccoglie tutti i motivi per cui le voglio un bene dell'anima, provo a dirvi in qualche punto perché per me lei è la numero uno.
Lista a punti perché sono pazza e mi piacciono le cosine ordinate fatte bene.

1. I casi
Sono generalmente, i suoi, casi piuttosto classici. Omicidi, violenze, vendette. Quello che li rende molto più interessanti dei classici Mary Higgins Clark o Patricia Cornwell, però, è che manca del tutto la banalità. Non sono mai casi folli, sono anzi tutti molto credibili. Quello che Vargas aggiunge è sempre un elemento che se vogliamo possiamo chiamare di 'disturbo'.
Piedi mozzati, fantasmi, cerchi disegnati per terra, tridenti come armi del delitto, il ritorno della peste...
Insomma, tutto normale, verosimile, quotidiano.
O forse no.

2. Lo stile
Il modo in cui scrive Vargas è tutto suo.
Non ha alcun bisogno di usare uno stile pomposo o un vocabolario ricercatissimo, ma è di un bravo...
Riesce ad essere semplicissima e accattivante, posarla è impossibile. Spesso rido a voce alta, spesso mi commuove per una frase soltanto. Il suo modo di comunicare è immediato, la storia si costruisce tutta intorno a te come un disegno e quando sollevi lo sguardo dalle pagine è come buttar giù un muro di nuvole, e tutto torna opaco e reale intorno.
Persino i titoli dei suoi romanzi sono stupendi.
Magnifica, magnifica, magnifica.

3. Jean-Baptiste Adamsberg
Il cuore pulsante delle storie, il commissario, il protagonista indiscusso di una saga magnifica.
Adamsberg è lo spalatore di nuvole che ha rubato il cuore a chiunque l'abbia incrociato nella propria vita da lettore. Affascinante, caotico, confuso e confusionario, ha picchi di dolcezza immensi e non si fa alcun problema a prendere a pugni il suo più caro collaboratore (di lui parliamo dopo).
Il suo nome fa tremare i telefoni di tutta la polizia di Parigi, non si scappa di fronte ad una chiamata di Adamsberg, e palpitare i cuori. Parla fin troppo per metafore e fuma solo se le sigarette sono rubate. Indimenticabile.

4. Il XIII arrondissement
Il commissariato di cui Adamsberg è a capo diventa presto casa. Popolato di strane abitudini, bizzarri personaggi e un gatto che non deambula in autonomia, è un magnifico luogo in cui tornare.
I casi sono sempre presi sul serio, ma le persone no. Il rapporto che lega i poliziotti tra loro è pieno di schiettezza e qualche botta ogni tanto. La stima è indiscussa e la premura con cui ognuno si prende cura dell'altro è dolcissima.
E poi c'è la divina Retancourt, che è la regina del commissariato, dei lavori duri e del gatto.

5. Adrien Danglard
Se domani per qualche trauma cranico subito dall'autrice i libri della saga di Adamsberg cominciassero a fare schifo io continuerei a leggerli in nome dell'amore che mi lega a Danglard. Il vice, il più vecchio collaboratore di Adamsberg, il mio personaggio del cuore.
Danglard è un uomo magnifico, che commuove immensamente.
Ha una cultura sconfinata che coltiva grazie alla sua memoria incredibile, parla spesso per citazioni e maschera il suo non essere bellissimo con l'eleganza. Ha cinque figli ed è stato abbandonato dalla moglie. Beve un po' troppo. Il suo pessimismo è inimitabile, la sua mancanza di fiducia nel mondo e nelle persone è ineguagliabile. Vive nell'eterna convinzione di non essere mai amato, di non essere mai abbastanza, fa degli errori e magari se ne accorge pure, ma a volte è troppo tardi e perde il controllo della situazione. Mi ricorda così tanto me, a volte, che leggerlo è quasi difficile.
Mi commuove come nessun altro, e per me è ancora meglio del suo capo.
Il paladino dei pessimisti, degli sbagliati, degli imperfetti e degli insicuri, dei fragilissimi e di chi si tutela dietro i libri letti e le nozioni imparate.
Quanto vorrei esistessi, Danglard.

Leggere Vargas è il modo migliore per regalarsi un momento fuori dal mondo.

Piccola postilla sull'edizione Einaudi.
Il volume costa VENTI EURO. Copertina flessibile, impaginazione quasi illegale. Il volume è lungo più di 400 pagine con un'impaginazione da telefono Amico Brondi per gli anziani.
Per carità, l'esperienza di lettura ne esce senz'altro semplicissima e per nulla affaticante, ma sono sempre venti benedetti euro (tre ore di lavoro per me che sono una barista) per una copertina flessibile di un libro in b/n lungo 400 pagine che sarebbe potuto esserne cento di meno.
Ci penso su bene prima di acquistare.
Poi acquista il mio moroso, che non fa il barista.
Io, però, rimango perplessa.

mercoledì 14 febbraio 2018

L'amore bugiardo, Gillian Flynn

16:35
Io mi rendo conto che parlare di questo film nel giorno di San Valentino possa suonare quantomeno cinico, ma non posso farci molto: pur amando moltissimo il 14 febbraio non sono una di quelle che impazzisce per le cose che parlano d'amore.
Oggi, quindi, niente storie romantiche nè dolcissime, per quello ci penserà stasera Del Toro quando sarò a vedere il film più atteso di tutta la mia vita.
Oggi, qui, parliamo di amori fedifraghi, vendicativi, cattivi, malati.
E buon San Valentino a tutti!🎔


Amy e Nick sembrano la coppia perfetta: bellissimi, intelligenti e dalla vita brillante e piena di interessi. Stanno benissimo e sono l'ideale della coppia libera e senza vincoli da scimmie ammaestrate, come si divertono a dire dei loro amici più gelosi.
Peccato che non sia proprio così, e alla prima difficoltà esca tutto il marcio di chi vuole mantenere una facciata di perfezione e un sottosuolo di menzogne, crudeltà e violenza.
Tutto questo ben di dio esce allo scoperto quando Amy scompare.

POST CON ANTICIPAZIONI, MA DEL TIPO CHE PROPRIO VI ROVINO TUTTO.

Arrivavo al romanzo avendo già visto il film, quindi conoscevo bene la storia e il finale.
Eppure, mi ha fregata.
Amy Dunne, la Mitica Amy, mi ha fregata come la peggiore delle bambocce.
Andiamo con ordine.
Il romanzo è narrato in prima persona da entrambi i punti di vista.
Di Amy leggiamo il diario, mentre Nick racconta la vicenda dal suo punto di vista.
Sapendo chi sia davvero Amy e cosa abbia davvero fatto, mi sarei aspettata di arrivare alla lettura un po' più sgamata. Niente da fare, a pagina 100 ero talmente affranta per lei, talmente sofferente che ero piena di comprensione.
Dopo, solo dopo, quando la Flynn ci ha ricordato che anche il diario era fasullo, sono rinsavita. La Flynn per me è stata bravissima.
Sarebbe stato facilissimo fare di Nick un uomo terrificante. Poteva essere un violento, farci passare tutte dalla sua parte e meritarsi ogni singolo secondo della sua vendetta. Invece no, Nick è solo un povero coglione. Irrispettoso e detestabile, ma non una cattiva persona. Ben Affleck per questo ruolo è stato perfetto, poco da dire, proprio in virtù del suo non essere un attore eccezionale. Un tonto con piena coscienza dei suoi difetti, però. Ogni mossa falsa di Nick (e dio solo sa quante ne fa, roba da ceffoni), è preceduta o seguita dal momento in cui si realizza l'errore, e ogni azione più o meno giusta necessita di troppo, troppo lavoro dietro per poter essere considerata 'naturale'.
Per questo motivo, per me, la Flynn è stata bravissima. Io ho provato per la trascurata Amy delle prime pagine un'empatia fortissima. Il dispiacere che provavo per lei era serissimo.
Mi capita spesso, con il mio ragazzo ma anche nelle altre relazioni con le persone, di non sapere cosa fare. Parlo? Sto zitta? La paleso questa mia perplessità o la tengo per me? Mi lamento o mando giù per passare da brava personcina che non si lamenta mai? Qual'è la cosa giusta? Cosa è meglio fare? Dove sta l'equilibrio?
Ho dovuto fotografare pagine intere nelle quali mi sentivo rappresentata come poche altre volte mi era successo.
Poi Amy è sparita.
Non ero shockata dagli eventi, ovviamente, ma ho provato un sincerissimo dispiacere che Amy non fosse quella che io avrei voluto fosse. Il che forse fa di me una seconda Nick.

Ormai lo sapete, non amo i gialli.
Ma la Flynn esplora le relazioni con profondità e sincerità, non ha paura di farci vedere i lati peggiori dello stare insieme, sia che si tratti di donne folli che vogliono incastrare il marito sia che si tratti di cose più semplici ma non meno dolorose, come un tradimento. Lo fa con una storia tesa, dolorosa e sfaccettatissima, impossibile da posare anche se non si ha la curiosità della fine.
Che comunque, quando arriva, un po' di male lo fa lo stesso.

Disclaimer

La cameretta non rappresenta testata giornalistica in quanto viene aggiornata senza nessuna periodicità. La padrona di casa non è responsabile di quanto pubblicato dai lettori nei commenti ma si impegna a cancellare tutti i commenti che verranno ritenuti offensivi o lesivi dell'immagine di terzi. (spam e commenti di natura razzista o omofoba) Tutte le immagini presenti nel blog provengono dal Web, sono quindi considerate pubblico dominio, ma se una o più delle immagini fossero legate a diritti d'autore, contattatemi e provvederò a rimuoverle, anche se sono molto carine.

Twitter

Facebook