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giovedì 4 febbraio 2021

Classici del femminismo: Il secondo sesso

11:25

 Rieccoci alla consueta rubrica "La Mari apre mille rubriche e ne porta avanti la metà".

Mesi fa avevo iniziato una rubrica dedicata ai classici del femminismo. La rubrica in questione consta di ben un solo post, su Una donna di Sibilla Aleramo. Dopo quella lettura, che già mi aveva messa alla prova perché è un libro straziante, ho pensato che studiando i classici non sarei potuta scappare a lungo dal loro capostipite. Il classico dei classici. Il Guerra e pace dei testi femministi. E se da una cosa non si può scappare, meglio farla subito. Quindi eccomi qua, quasi un anno dopo, stanca e riportante ferite di guerra, a parlare di quel mastodontico capolavoro imprescindibile che è Il secondo sesso, di Simone de Beauvoir.



Scritto nel 1949, il testo più famoso della filosofa francese ha preso la storia dei femminismi e l'ha rivoluzionata. Leggerlo una settantina di anni dopo è un'esperienza, come dire, interessante. Immaginare la mole di lavoro che sta dietro la stesura di un testo del genere fa girare la testa. Del resto SdB parla per le donne e per farlo ha parlato, letto e studiato, un sacco di noi. Il libro, per tutta la sua imponente mole, è pieno di brani, citazioni, esperienze, testimonianze. Le note sono parte integrante della lettura, un Infinite Jest dell'esistenzialismo. 


Ma come si legge, oggi, Il secondo sesso? Questo non è un testo "attivista", per stessa ammissione della sua autrice. Le quasi ottocento pagine che lo compongono sono un approfondito saggio di natura filosofica, che solo nella sua parte finale, quella delle conclusioni, propone azioni concrete. Per tutto il corpo del testo, però, troviamo la donna vivisezionata. Prima da un punto di vista biologico, poi spirituale, poi sociale, poi storico, poi artistico. Non un solo aspetto viene lasciato fuori, la ricerca fatta è a 360 gradi. L'esplorazione passa dalle bambine, alle adolescenti, alle giovani donne, all'anzianità. Tocca le donne sposate, le innamorate, le prostitute, le sole, le vedove, le lesbiche. Se mai ho visto un esempio completo di rappresentazione, signori, è in Simone de Beauvoir. 

Quello che fa è molto semplice: prende ogni singolo aspetto della vita di una donna e la mette al confronto con quella di un uomo. Emergono le inevitabili differenze, che ci sono e guai a negarle, ed emerge insieme ad essere la totale inadeguatezza delle differenze sociali. Nessun tipo di distinzione tra i generi giustifica la differenza delle vite, mai. E credetemi se vi dico che di esempi ne prende, e tanti. 


La lettura, fatta oggi, e quantomeno per me, è davvero impegnativa. Il primissimo motivo è che, e qui faccio un mea culpa, non tocco un testo filosofico dalla fine del liceo. Amavo tantissimo la materia ma per qualche motivo l'ho lasciata andare ed è un modo di affrontare il mondo e il pensiero a cui devo semplicemente riabituarmi. Per questo l'ho trovato a tratti impegnativo e ho dovuto forzarmi di andare avanti e resistere alla tentazione di abbandonarlo per riprenderlo in un momento più "favorevole". La seconda è che leggerlo da donna è una continua bastonata sui denti. Pagina, dopo pagina, dopo pagina, per ottocento benedette pagine, la narrazione di soprusi, violenze, sopraffazioni, calpestamenti, logora dentro come un veleno. Quello che la donna subisce (presente voluto) dal momento in cui nasce a quello in cui se ne va è una costante sberletta in faccia, e il libro ne ripercorre ogni aspetto. Non è certo un page turner, anzi. Ogni tanto serve una boccata d'aria di sollievo.


Se oggi ho il mio bloggettino in cui posso dire tutto quello che mi pare e piace e ho un lavoro e posso convivere senza essere sposata lo devo indubbiamente a tutte quelle che sono venute prima di me e ne sono grata, ma leggere un testo di 70 anni e vedere quanto i cambiamenti siano stati superficiali se vogliamo, è angosciante. Toglie il fiato. Il capitolo sull'aborto avrebbe potuto essere scritto ieri, è terrificante. 

Dopo una battaglia per arrivare alla fine, sono giunta alle conclusioni. In queste, e in generale nella parte finale del testo, SdB sostiene che le donne siano quello che sono per il modo in cui la società le ha formate, e che sia per questo compito della donna trascendere le limitazioni che le sono imposte. Sto ovviamente semplificando un concetto molto più ampio. Nel 2021 è chiaro che questa visione sia privilegiata (consapevolmente, de Beauvoir era socialista e conscia della sua posizione borghese e di potere) ed escludente, che a moltissime donne del mondo non è concesso di "prendersi i propri spazi" o imporsi. Il movimento di liberazione della donna non può passare solo attraverso la scelta, per quello che lo desiderano, di una relazione aperta o di un lavoro che renda autonome. Si tratta di un processo ben più ampio della nostra lussuosa sfera occidentale (dove abbiamo comunque tantissimo ancora da fare e spesso poche possibilità di farlo), e oggi per fortuna ne siamo più consapevoli.

Questo di certo non annulla il valore immenso del libro, che ha travalicato i decenni ed è arrivato a noi ancora spaventosamente attuale. Il femminismo moderno ha nei confronti di de Beauvoir un debito immenso, e dal libro questo è cristallino.


Quello che è altrettanto cristallino, però, è che Il secondo sesso non è una lettura che consiglio a cuor leggero, e che forse io stessa avrei dovuto affrontare preparandomi di più. È intenso, assorbe energie e pensieri, richiede una concentrazione e un'attenzione che io non sempre in questo periodo, e per tutti gli scorsi mesi, ho avuto. Mi sarebbe piaciuto studiarlo a scuola, leggerlo insieme a qualcuno che da più giovane mi accompagnasse attraverso le infinite cose che si imparano. 

Chissà che prima o poi non si arrivi anche a questo, nelle scuole italiane.

martedì 26 marzo 2019

I parassiti, Daphne du Maurier

11:08
Mi sa che è da un po' che non scrivo di libri qua su, vediamo se mi riesce ancora.
(Su Instagram però ne parlo sempre e da brava egoriferita vi ricordo che se mi seguite lì mi fate tanto contenta.)
Questa volta tocca alla dea Daphne, ispiratrice dei Grandi.


I Delaney sono un incubo.
Sono tre fratellastri, Niall, Maria e Celia, nati da due geniali artisti di metà del '900. Padre cantante, madre ballerina, figli demoniaci. Viziatissimi, selvaggi, indisciplinati.
Li incontriamo in una noiosa domenica pomeriggio, ormai adulti, quando vengono chiamati 'parassiti'. Non importa chi li chiami così, tanto nulla esiste al mondo tranne loro. La cosa li porta a viaggiare in una giornata di ricordi e ricostruzione del loro passato, dove ci accompagnano fino alla fine del romanzo.

I parassiti è un romanzo che profuma di lusso e ostentazione, della vita caotica e fuori dagli schemi di chi fa l'artista di professione. Ha protagonisti che sono completamente fuori dal mondo 'reale' e coi piedi per terra di chi deve lavorare per vivere, di chi ha problemi comuni e nessuno che glieli risolva, di chi non ha governanti. Sono, a tutti gli effetti, i parassiti del titolo, che vivono del successo dei genitori senza mai concludere qualcosa di proprio , senza mai spingersi ad esplorare il mondo, senza mai chiedersi se ci sia una vita diversa da quella che hanno sempre vissuto. 
Stanno così, accomodati su poltrone di raso, che si lasciano scivolare di dosso l'insulto mentre parlano, e parlano, e parlano. D'altronde, non hanno altro da fare. 
Niall e Maria legati da un rapporto morboso che del fraterno ha ben poco, dipendenti l'uno dall'altra come dall'aria che respirano eppure incapaci di sentimenti reali per qualunque altra cosa o persona, legati solo all'altro e a se stessi, e Celia che ha sacrificato una vita al padre, schiva e mansueta come un agnellino, infelice e completamente annullata anche dai fratelli. Neppure lei, però, così all'apparenza distante dagli altri due, ha mai cercato di fare altro, di dare un senso alla sua esistenza. Lei è un personaggio splendido proprio perché ha accenni di quell'umanità che agli altri manca, ma è pur sempre una Delaney, e stare al mondo non le riesce bene. Tutti e tre sono stati in grado di prendere un talento e gettarlo al vento, perché anche i talenti più magistrali necessitano di essere seguiti e coltivati, e loro non hanno mai sentito il bisogno di farlo.

La bellezza della scrittura di Daphne du Maurier sta nel fatto che non si parli mai esplicitamente di ricchezza. Come non si parla mai del vero rapporto tra Niall e Maria, così come non si parla più di tanto della morte della madre, che viene solo accennata e poi mai più nominata. Non ne ha bisogno, perché disegna talmente bene i personaggi che tutto il resto è perfettamente comprensibile senza che se ne parli mai. Non ci sono descrizioni, non ci sono momenti di riflessioni esterne ai tre personaggi, non ci sono altro che i tre fratelli. Non serve altro che far agire loro per farci vedere alla perfezione tutto il mondo che ruota loro intorno. Solo che noi quel mondo qua lo vediamo, perché nel mondo reale abitiamo ogni giorno, mentre a loro tre scorre intorno come se non ci fosse. Ogni contatto con il mondo esterno alla famiglia Delaney è fallimentare. Sono troppo distanti dalla gente reale. Non riescono nemmeno a interagire con le persone, se non sono al loro servizio. Mamma e papà sono quelli che li hanno resi i parassiti che sono, eppure anche loro compaiono solo da lontano: figure quasi mitologiche e distanti quando i bambini erano ancora piccoli, e inesistenti da adulti, fatta eccezione per il rapporto di dipendenza che il padre ha nei confronti di Celia. Pur avendoli formati, non contano più nulla, perché nulla conta davvero.
Tutto è vano, lontano, non importante. 
Pur dicendolo sempre, però, la du Maurier non lo dice mai.
E questo è il motivo per cui è una dea.

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