La città dei vivi, Nicola Lagioia
Quando un libro spopola sui social io di solito, con i residui di bastiancontraresimo che mi restano, lo evito. O almeno aspetto che si siano calmate le acque per poi farmi un'opinione mia. In questo caso non potevo aspettare, e il motivo è molto semplice: è un true crime, e se avete letto questo blog di recente sapete che è stata la mia passione rivelazione del 2020.
Nello specifico, quella che racconta Lagioia è la storia dell'omicidio di Luca Varani, un ventitreenne romano, a opera di due giovani concittadini, Manuel Foffo e Marco Prato, nel novembre del 2016. Una storia molto vicina a noi ma che io conoscevo solo di sfuggita perché avevo già smesso di guardare i tg.
Questa volta non farò uno spoiler alert, perché la storia è di dominio pubblico e tutto quello che dirò è già di dominio pubblico. Quello che faccio è uno sgradevole alert: ho odiato questo libro, e quando una cosa non mi piace provo ad argomentarla in modo freddo e razionale per non essere troppo odiosa, ma fallisco ogni volta. Mi dispiace se sarò antipatichella.
Via il dente via il dolore, dicono, quindi inizierei subito con quello che non mi è piaciuto, così ce lo leviamo dai piedi.
Non amo la scrittura di Lagioia. Nella prima parte del racconto usa quello stile (tipicamente italiano, credo possiamo ammetterlo) che io non posso tollerare, delle frasette brevi ad effetto. Un pochino lo stile facebook, se vogliamo.
Le emozioni, quelle belle.
Gli abbracci, quelli stretti.
Io ho un problema con questo modo di scrivere, mi fa venire una rabbia ingestibile. Leggerei solo Saramago per un mese, dopo, per disintossicarmi da questo abuso. Personalmente, poi, questo stile con un'eccesso di emotività non mi piace affatto quando usato per parlare di true crime, ma questo è un gusto mio. Infatti è anche il motivo per cui odio il podcast Demoni Urbani. Mi fa venire il latte alle ginocchia.
Tornando al libro, nella parte finale, invece, ricerca uno stile più 'giornalistico', soprattutto raccontando la parte processuale. Peccato che finisca sempre per emergere quella forzatura, quella pesante ricercatezza che a me fa proprio sbroccare.
Un'altra cosa che non ho ben compreso è la costruzione del libro. Parte con una narrazione in terza persona, che ricostruisce passo passo gli eventi e i loro protagonisti. Più o meno a metà, poi, la narrazione è interrotta da inspiegabili testimonianze in prima persona di alcune delle persone collegate in vario modo ai nostri tre personaggi principali. Non parlano parenti vicini, fidanzati, ma sempre conoscenti, amici, ex colleghi, e infine gli altri ragazzi che durante i giorni di delirio e droga di Foffo e Prato erano stati in loro compagnia prima dell'arrivo di Varani. Forse queste ultime erano le uniche testimonianze con un senso, anche se il modo comunque non lo apprezzo.
Nella testa dell'autore, quale poteva essere lo scopo di farmi leggere mezza paginetta scritta in prima persona da una ragazza che ha fatto tre pompini a Foffo, esattamente? Perdonate il mio francese, ma il libro parla di pompini per un buon 40% del tempo, poi parliamo anche di questo.
Mi viene da pensare che volesse costruire una sorta di profilo degli assassini? Avrei voluto leggere l'opinione di esperti, allora, così ho solo perso il mio tempo. Come un ex collega abbia conosciuto Prato non mi serve saperlo. Non mi interessa. Quanto sesso orale abbia praticato alle persone non mi riguarda. Eppure ci sono pagine e pagine così. La mia prima critica è alle persone selezionate, la metà sono assolutamente irrilevanti. La seconda è al modo in cui le loro testimonianze sono riportate: una parte intera del racconto è così, poi si trancia via la parte in prima persona, grazie del vostro contributo, a mai più risentirci. Perché mai? Ricostruire tutto in modo fluido non era parte del tuo lavoro, Lagioia?
La persona di Nicola Lagioia anche nel libro compare sgomitando ad un certo punto, quando inizia a parlare del duro lavoro svolto sul caso e della sua ossessione. Perché non cominci da subito ma spunti dopo un po' è per me un mistero.
Torniamo poi alle cose che l'autore sceglie di riportarci e con quale, ridicola, frequenza.
Dopo la morte di Luca emergono voci insistenti su una sua presunta abitudine a prostituirsi. Il nostro autore ci tiene spesso a dire che lui non dà giudizi etici e che di sicuro questa cosa non giustificherebbe mai alcuna violenza, però ne parla in continuazione. Siamo sicuri che un giudizio non ci sia? Perché se davvero la questione fosse irrilevante allora nemmeno emergerebbe. O meglio, posso anche accettare che in un desiderio di completezza allora emerga velocemente anche quella faccenda lì, ma davvero Lagioia ne fa un argomento ricorrentissimo. Emerge dalle parole degli assassini, da quelle dei suoi amici, vengono persino riportate parola per parola le conversazioni messenger che la fidanzata di Luca aveva avuto con delle amiche del suo ragazzo. Ma esattamente, qual'è il fine? Posto che qualunque tipo di persona fosse stato Luca non avrebbe alcuna rilevanza in questo caso, visto che è stato ucciso praticamente per un colossale caso di sfiga, a cosa mi serve sapere cosa facesse del suo corpo quando era in vita? Che Luca fosse andato a casa di Foffo per vendersi o solo per partecipare ad un festino, non conta niente, non cambia niente. Eppure ci stiamo su delle ore. Il giudizio io lo vedo eccome, velato da quel fintissimo volerne parlare con dimestichezza che puzza di ipocrisia da casa mia a casa di Lagioia a Roma.
C'è un intero capitolo del libro che parla dei media. Di come i social abbiano appreso la notizia dell'omicidio e della tipologia di commenti che potete facilmente immaginare, tutti quanti accuratamente riportati senza censurare neanche uno degli slur omofobi usati. Ovviamente, Lagioia usa con una frequenza ridicola la parola froc*o, ma la mette sempre in bocca agli altri, perché lui è troppo corretto per dirla, ma figuriamoci se l'ha bippata una volta sola. Guarda come sono cattivi gli altri che dicono le brutte parole scorrette, disse l'elegante autore che le parole non le sostituiva mai.
A me non sembra così difficile, non usare termini dalla spiccata connotazione negativa, eppure per un motivo o per un altro ci si sente sempre legittimati a farlo.
Ovviamente, sui media la prima questione che salta all'occhio è che i due brutti pervertiti omosessuali hanno ucciso il povero giovane perché non voleva fare sesso con loro. Se siete sui social, sapete benissimo come funziona. La seconda è l'appartenenza politica e sociale delle famiglie coinvolte. Lagioia critica con la sua consueta superiorità, gli scimmioni dei social e i toni dei media, ma concentra una percentuale ridicola del suo romanzo (sì, parlo di percentuali perché leggo in digitale) a parlarci di quando e come e dove e con chi Prato facesse sesso. Di tutte le persone apparentemente manipolate ad avere rapporti sessuali di varia natura con lui. La sua ossessione per la sessualità dei due colpevoli è francamente ridicola e alla lunga diventa fastidiosa. Lunghe, lunghissime parti in cui è ritenuto necessario raccontarci che i due avevano fatto sesso in quel modo piuttosto che in quell'altro, e mai un intervento di un esperto che mi spiegasse perché questa cosa era considerata così rilevante, come vi dicevo più su. Cosa stai cercando di fare? Di farmi credere che raccontando tutto tutto tutto della sua vita (cosa che non fa, anzi sceglie bene su cosa portare la sua attenzione) io poi sia in grado di fargli un ritratto psicologico così approfondito da comprendere cosa sia successo la sera che Luca è morto? La maggior parte dei lettori non ha le competenze per fare diagnosi, perché non siamo tutti medici né terapeuti, e soprattutto un esperto non lo farebbe mai dalle pagine di un libro quindi davvero non riesco a capire.
Ma per quanto riguarda la parte politica e sociale? Pensate che riemerga mai più dal romanzo? Ma no, chiaro. Tutto superficiale, tranne quello che superficiale lo è davvero.
Il libro si legge molto velocemente, e se siete già interessati al true crime ancora di più, però non è questo il modo che piace a me. In qualche modo, però, sono arrivata alla fine, dopo inspiegabili capitoli in cui parliamo di traslochi della famiglia Lagioia (vi ricordate che all'inizio manco c'era? Ecco, ora parliamo dei suoi traslochi, bah.), e alla fine c'è la sola parte positiva del libro.
Marco Prato si toglie la vita il giorno prima del processo. Una persona che si toglie la vita non è mai una vittoria per nessuno, e in questo caso le cose da dire sarebbero tante. Prato era una persona che ci viene descritta come problematica da sempre, il suo suicidio non può e non deve passare come una cosa improvvisa. C'erano avvisaglie da sempre. La cosa su cui sceglie di soffermarsi Lagioia, però, è la situazione carceraria. Prato aveva iniziato il suo percorso carcerario a Regina Coeli, una realtà che era stata in grado di sfruttare le sue capacità, di tenerlo attivo da un punto di vista culturale e sociale. Viene poi trasferito per due volte nel carcere di Velletri, molto meno accogliente, per così dire. La prima volta gli avvocati erano riusciti a farlo riportare a Regina Coeli, la seconda ne è uscito morto. Il numero dei suicidi nelle carceri italiane è sconvolgente, ed è importante che se parli in un libro così popolare. La situazione può cambiare ma nessuno fa niente per farlo. Non credo che da domani cambierà qualcosa, ma ogni passo avanti è importante e ho molto apprezzato che Lagioia si sia così interessato alla situazione. Tutta la parte finale è dedicata a questo, mi ha fatto molto piacere notarlo.
Per quanto riguarda il resto, concedetemi una paraculatina finale perché mi sento in colpa a dire cose negative: scegliere di parlare di true crime è difficile, perché quelle persone lì, quei nomi che leggiamo sulle nostre pagine sono persone reali che stanno soffrendo cose che non possiamo nemmeno immaginare. Servono un equilibrio delicatissimo, una sensibilità rara. Io non credo di averli, anche se il mio podcastino investigativo me lo sogno la notte. Credo che Lagioia si sia sinceramente appassionato al caso in modo onesto e disinteressato, credo solo non sia stato in grado di narrarlo in un modo che io trovo adeguato.
Vado a consolarmi con la sesta idiotissima stagione di Brooklyn99, che è finalmente arrivata su Netflix.