Efix, mio padre
Mari.
07:57
Mio papà sta morendo.
Alcune malattie danno alle persone una sorta di data di scadenza, e noi in questi giorni stiamo vivendo in attesa della sua. Ora che la morte è il centro dei discorsi, dei pensieri, della routine, io ho ascoltato Michela Murgia leggermi il classico di Grazia Deledda, Canne al vento, senza saperne quasi niente perché se avete fatto le scuole in Italia sapete che Deledda è una sorta di creatura magica che diventa invisibile il giorno in cui si stendono i programmi ministeriali.
È stato un viaggio complesso, quello di queste sette ore passate insieme a queste madri sarde, ma non sapevo che avrebbe finito per presentarmi mio padre, ovvero la persona il cui pensiero cercavo di rifuggire proprio ascoltando un romanzo.
Efix, il servo della nobile casata Pintor, è un uomo umile, sottomesso, facile alla superstizione. Mio padre è stato - inappropriato uso del passato prossimo, dato il suo approccio insistente e cocciuto alla malattia - l'opposto. Un ego di ferro e un'arroganza importante lo hanno segnato per tutta la vita, insieme ad una certa ostilità all'autorità - che da qualcuno dovrò pur aver ereditato. Entrambi sono stati degli ultimi della società, e la sola umiltà condivisa dai due è quella di classe. L'umiltà di classe rende gli uomini tutti uguali: la pelle scottata dalle ore sotto il sole - sono figlia di un muratore - e le mani spaccate che predicono a chi le guarda che aspetto avrà il resto del corpo di lì a qualche anno, gli occhi annebbiati dai pensieri. Hanno entrambi gli occhi azzurri, Efix e mio padre.
Canne al vento, prima ancora di essere un ritratto di una piccola comunità e delle dinamiche tra i suoi abitanti, è un racconto di povertà. Letto - o ascoltato - oggi è un dialogo importante sulla dignità degli ultimi, sugli elementi che rendono un uomo ricco, su quanto la ricchezza, qualunque essa sia, sia elemento costitutivo della persona. Per tutto il romanzo sono due gli atteggiamenti che le persone hanno tenuto nei confronti del servo: l'affetto verso gli inferiori, quell'affetto che somiglia più all'amore per un animaletto sciupato che a quello per un umano, oppure l'aperta mancanza di rispetto. Don Predu, cugino delle dame Pintor, si rivolge a Efix chiamandolo "babbeo", mai col nome proprio. Sono circostanze che chiunque abbia vissuto sotto la soglia della povertà conosce bene: le mancanze di rispetto, il tono indulgente, i sorrisi di chi dà per scontato non si riesca a riconoscerne la falsità.
Efix viene accettato e, scopriremo alla fine, amato di amore sincero, perché non ha mai chiesto di essere di più. Ha coltivato la propria condizione, appagato l'orgoglio borghese mostrando riconoscenza e servilismo, spendendo la propria vita al servizio degli altri fino ad annullare completamente la propria, vissuta su una branda in un poderetto altrui. Ha amato le sue padrone con ardente passione, confinato in una povertà spietata ma che ha accolto come unica sorte possibile e che ha contribuito a creare indebitandosi sempre più proprio per quelle padrone che tale ho hanno reso. Ha subito angherie e soprusi, risate alle spalle e insulti, credendo in qualche maniera di meritarle. Ha attribuito la sua infelice condizione ad una responsabilità divina, accettando di buon grado che se quella era la vita che il suo signore voleva per lui, allora andava vissuta secondo il suo desiderio. È una povertà facile da accettare, quella di Efix.
Ben più complesso è amare e accettare i poveri ribelli, quelli incazzati, che rifuggono il concetto di gratitudine. Quelli che esigono di più, che reclamano a gran voce per essere ascoltati. Soprattutto se sordi da decenni, come mio padre, il cui tono di voce era sempre quello più alto della stanza. In una società che ti vuole bloccato dove sei nato per alzare sempre di più chi è nato meglio, mio padre ha sempre provato ad esigere altro. Per ogni volta in cui Efix abbassava il capo, di fronte alle sue padrone o ai dispiaceri, mio padre ha cercato di essere qualcos'altro rispetto a quello che la gente voleva che fosse. Non ci è riuscito, non come immagino avrebbe voluto.
La fine del servo sopraggiunge nella casa delle padrone, che in un moto di compassione lo accolgono e lo accudiscono, riconoscenti finalmente dell'amore paterno - che noi lettori sappiamo essere guidato anche dal senso di colpa - di cui Efix le ha rivestite per tutta la loro vita. Un amore paterno silenzioso, fatto di gesti e mai di parole. In questo i due sono stati uguali. Non mi sono mai sentita dire che mi voleva bene, ma si è fatto dimettere dal primo ricovero in radioterapia per venire a tinteggiarmi la casa che avevo appena comprato insieme a mio marito. Mi è venuto a prendere al lavoro quando faceva buio e io avevo paura di andare in stazione a piedi, ma non mi ha mai abbracciata.
È un amore diverso, quello che abbiamo ricevuto io e le dame Pintor, perché non sempre gli umili hanno gli strumenti per tirare fuori dalla testa quello che c'è dentro, e allora tengono impegnate le mani spaccate così che tu possa preservare le tue. In realtà mi ha sempre detto che la casa me l'ha tinteggiata perché noi non saremmo stati in grado di farla come l'avrebbe fatta lui, così come Efix - tornato al poderetto dopo la fuga - lo ha trovato rovinato e incolto, perché nessuno lo avrebbe curato con l'amore con cui lo ha fatto lui.
La morte di Efix arriva lenta, quasi gentile. Gli concede il tempo di vedere la sua dama sposata, sistemata economicamente e sentimentalmente. Come un vero padre, era questa la tribolazione più grande. E loro gli hanno concesso una morte dignitosa, al caldo e su un letto, circondato nei suoi ultimi giorni da premure che non aveva mai ricevuto prima e che lo mettono a disagio. La dignità gli pare eccessiva, il minimo sindacale gli sembra non meritato. Nega parole, sguardi, perché l'imbarazzo lo divora e consuma i momenti di lucidità.
Mio padre, al contrario, esige di comprendere. È avido di informazioni che chiede senza vergogna, soprattutto da quando il tumore si è preso gran parte della vista. Il dimesso Efix si oppone con violenza all'aggressività con cui Angelo, mio padre, non accetta di essere tagliato fuori. Uno accetta la vita che gli è stata data, l'altro ne ha creata una piena di tribolazioni perché le scelte sbagliate non sono mai troppe, e di sicuro non lo sono state le sue. Uno confida che il signore in cui crede lo abbia messo di fronte a sfide che può affrontare, l'altro non ha mai creduto in niente in tutta la sua vita, neppure a quello che gli hanno detto i suoi figli.
Così simili e così diversi, uno l'ho ascoltato e l'altro lo vedo andare verso la fine con le stesse tribolazioni, gli stessi pensieri. Mio padre è riuscito a vedermi sposata, con un lavoro fisso e una casa, ma non madre, il suo unico vero desiderio mai espresso a voce alta, pure con una discreta insistenza. Efix ha visto Noemi maritata, ma non Ester. Ha visto che l'amato Giacinto ha messo la testa a posto, mentre mio padre non avrà il tempo di vedere mio fratello diventare l'uomo che avrebbe voluto fosse e che sapeva bene diventerà.
In quel momento lì, con la fine che pende sul capo e spegne lentamente lo sguardo chiaro di chi inizia ad accoglierla, li ho trovati identici, perché non c'è sorte più democratica di questa. Ho ascoltato i pensieri di Efix immaginando potessero essere i suoi, e saperlo in pace mi ha offerto un lieve conforto. Gli Efix e gli Angelo del mondo hanno una vita che rende difficile immaginare di poter lasciare con facilità, perché non è arrivata la rivalsa, la risalita. Canne al vento, però, ne ridiscute la necessità, della risalita. In una vita disgraziata Efix ha coltivato le relazioni con queste figlie dell'anima al punto che giunta la fine il vero dolore per loro è stato lasciarlo morire da solo, mentre il mondo, fuori, era in festa. L'eredità dell'amore.
Prima o poi la festa ricomincerà anche qui, e toccherà sopravvivere al senso di colpa che nasce dal riuscire a celebrarla. Fino a quel momento faccio come sempre tesoro delle parole di Mike Flanagan, che ha parlato della morte e del dolore come nessuno aveva fatto prima: l'amore c'è stato, il resto sono solo confetti.
Edit*
Il mio Efix è morto pochi giorni fa, rimanendo testardo e arrogante fino a che il corpo glielo ha concesso, in pieno stile Angelo Paracchini. Anche i loro ultimi giorni si sono somigliati, passati a letto in attesa dell'inevitabile. Io, come le sue dame, sono stata più figlia di quanto lo sia mai stata nella vita, e ci siamo salutati così. Non ho gli strumenti per comunicare questi sentimenti nuovi, che sto scoprendo giorno dopo giorno. Deledda me ne ha trasmesso qualcuno, gli altri li imparerò strada facendo, facendomi aiutare, anche in questo caso, dallo straordinario potere delle mie amiche sincere e confortanti: le storie.