#CiaoNetflix: American History X
Mari.
19:01
È così facile essere razzisti, in Italia, oggi.
Abbiamo un equilibrio così precario che ogni variazione ci fa vacillare, ogni piccola crepa nella nostra immaginaria perfezione ci fa dimenticare anni di consapevolezze, siamo così fragili da non avere più una mente elastica: è rigida, fatta di cemento, e la prima palla da demolizione che la colpisce la abbatte completamente, per costruirci su da zero.
Lo sono stata anche io. Camminavo per la strada guardandomi alle spalle, perché se fosse passato uno straniero l'avrei visto e mi sarei potuta tenere la borsa un po' più vicina, perché me l'avrebbe potuta rubare.
Per questo il razzismo lo comprendo. Non lo posso condividere, ma lo capisco. È facilissimo ascoltare quello che ti dice il tiggì delle 8, che guardi mentre ceni con la tua famiglia, e spaventarti per il terribile scenario a cui ci mette davanti. È di certo più facile quello che non prendersi il tempo di andare a fondo alle cose. Spesso il tempo la gente manco ce l'ha. Accende la tv e si gode il piatto pronto e caldo. È esattamente come comprare i 4 salti in padella: economici, veloci e il gusto non è proprio da buttare. Ma la pasta vera è quella fatta in casa, come te l'ha insegnata la nonna, con il sugo fatto con i pomodori freschi, con il basilico vero e non chimico, con il profumo di ragù per casa.
American History X parla delle conseguenze del non volersi mai fare la pasta in casa. Dell'accontentarsi di parole che ci sembrano convincenti, di frasi fatte composte ad hoc per darci motivo di credere che la ragione ce l'abbiamo noi. Parla di un uomo, Derek, ferito per la morte del padre, che deve dare un responsabile a questo dolore, e che per tutta risposta ne causa dell'altro, creando intorno a sè una spirale di sofferenza per la quale pagherà le conseguenze per sempre.
Parla di un fratello minore, Danny, che, privato di ogni altro riferimento prende quello sbagliato, fidandosi ciecamente di chi non era degno della sua fiducia.
Parlando concretamente, parla di Danny Vinyard, il cui fratello maggiore Derek sta per uscire dalla prigione in cui stava per aver ucciso due ragazzi di colore. Derek era un filonazista dalle tremende idee razziste, pronto ad esibire le sue convinzioni come un trofeo, orgoglioso della propria ottusità, talmente pieno di sè da avere preso la mente del fratello minore e da averla modellata a propria immagine e somiglianza senza nemmeno essersene reso conto.
È un potente esame di coscienza, uno specchio che ti riflette la parte peggiore di te, che ti costringe a ricordare ogni tuo comportamento sbagliato e te lo risbatte in faccia. Siamo tutti stati Derek, prima o poi, per i motivi più sbagliati. Se non lo siete mai stati avete tutta la mia ammirazione. L'importante, però, è che sappiamo tutti riconoscere di dover diventare come il Derek post galera.
C'era un rischio che il film correva, nel proporre una storia di 'redenzione': quello di diventare un fastidioso polpettone morale utile solo a farsi mandare a cagare. E invece no, Derek non diventa mai la figura angelica salvatrice dei popoli. Si redime, di sicuro, comprende quanto terribile fosse prima, ma mica lo fa per apparizione magica della madonna. Ci ha dovuto sbattere il muso, pesantemente, nel peggiore dei modi. Sia nel suo passato in carcere, che durante quella che per noi è la scena finale.
Di certo non è stato solo l'aver incontrato un negro simpatico.
Come avevo già detto per Requiem for a dream, anche questo è un film che avrei voluto vedere a scuola. Vorrei che ogni scuola lo vedesse, che i professori ci sputassero in faccia che l'odio ci sta corrodendo, che stiamo perdendo l'umanità, che siamo delle bestie. Invece l'ho scoperto grazie a mio fratello, classe 1999, cresciuto fin dall'asilo in classi multirazziali e che oggi, grazie a questo, è la persona più lontana dal concetto di razzismo che conosco. E che per questo, nonostante i costanti scontri che ho con lui che in fondo è una testina di cazzo, mi fa nutrire nei suoi confronti una profonda ammirazione.