Il musical più di successo degli ultimi anni è arrivato su Disney+ e io mi sono gustata due ore e quaranta di schiavisti americani che cantano d'amore e libertà e ho pianto ogni lacrima che avevo.
Prima di iniziare devo specificare una cosa. So di chi parla questo musical e di cosa si sono macchiate le persone che sono qui rappresentate. Lo so e devo ancora capire cosa penso del fatto che, pur con lo sguardo attento di oggi, si scelga di portare in scena personaggi che fanno parte di una pagina sporca della politica americana. Non lo so cosa deve fare l'arte in questi casi, se ha dei doveri o se il discernere cosa è giusto o meno è tutto in mano a noi spettatori.
Quello che ho cercato di fare io è guardarlo come se fosse interamente una storia di finzione, che ripensandoci è una mossa paracula.
Ho di sicuro ancora tanto da imparare.
Detto ciò, parliamo di Hamilton.
La creazione è tutta di Lin-Manuel Miranda, che per gli amanti delle serie tv è il fratellone d'oro di Amy Santiago di Brooklyn99. Si è scritto i testi, le canzoni, è lui il protagonista. Tutta farina del suo sacco. La storia è quella di Alexander Hamilton, uno dei padri fondatori degli Stati Uniti, che conosciamo sia nella sfera pubblica che in quella privata.
Ho pianto come una dannata per la storia di uno dei padri fondatori degli Stati Uniti.
Chissà poi cosa me ne frega a me dei padri fondatori degli Stati Uniti, ma chi se ne è mai interessato. Forse manco gli americani stessi. Poi arriva Lin-Manuel Miranda, scrive un musical su un tizio che devo ammettere non avevo manco mai sentito nominare in tutta la mia vita, e io sono qua che da tre giorni sto sotto un treno chiamato AlexanderHamiltooon.
Perché tocca ammettere che se questo musical è diventato la fissa di tutti c'è un motivo e che il motivo è quello più banale di tutti: è magnifico.
Tutto, in Hamilton è potentissimo: la messa in scena, i costumi, gli attori, le canzoni.
Il modo in cui una noiosissima storia di giochi politici è stata trasformata in una giostra di emozioni mi lascia ancora senza parole. Basta una singola canzone a chiarire cose che a volte nei film non vengono rese con la stessa efficacia. Le emozioni sono istantanee. Quando ho ascoltato Satisfied per la prima volta non sono manco riuscita a piangere, mi aveva preso alla pancia e stavo come dentro ad una bolla a guardare questa strepitosa attrice cantare come una dea del suo dolore senza interagirci, per godermela tutta. Dal secondo ascolto in poi non sono più riuscita a non piangere, e oggi, due giorni dopo, continuo a piangere ogni volta che la sento. E la ascolto tantissimo, Angelica è il mio personaggio preferito.
(Quando invece ho visto e ascoltato per la prima volta It's quiet uptown ho pianto immediatamente, perché c'è un limite a tutto e il testo di questo pezzo qua è così intenso e delicato e perfetto nel dire quello che vuole nel modo più elegante possibile che davvero sfido a restare a occhi asciutti)
La musica è hip hop, si rappa molto e gli interpreti hanno un talento che li rende evidentemente creature superiori a noi, perché io e la mia voce da papera di fronte ai suoni che certi umani possono emettere alziamo le mani e ci arrendiamo.
E sì, è chiaro che ci sono le parti in cui compare Giorgio III che fanno riderissimo (lui di un bravo che si fa fatica a crederci), che Jefferson è amatissimo perché esagerato, che Peggy è simpatica e quindi è la preferita di tutti delle Schuyler, che ci sono elementi di leggerezza. Ma nel complesso è una storia di ideali e passione, di amore e società, di strategia, della nascita di una nazione, dell'eredità che si lascia dietro di sè.
Mi ha emozionato come una bambina.
Nessun commento:
Posta un commento