Elvis
Mari.
19:41
Erano secoli che non parlavo di un film in sala, ed erano secoli che sul blog non si parlava in un post intero di un film non dell'orrore.
Però, e la maggior parte di chi passa di qui lo saprà bene, il film che a me ha insegnato che cosa fosse il cinema ma soprattutto che cosa fosse per me non è un horror. È una commedia romantica musicale, e naturalmente è Moulin Rouge!.
Ero pure piccolina, quando l'ho visto la prima volta, e se adesso di cinema ne so poco, figuriamoci allora. Però quel senso di meraviglia lì che mi aveva lasciato quel modo di raccontare le storie non mi ha mai lasciato e se oggi la Redrumia esiste è solo ed esclusivamente per Baz Luhrmann.
E se esce un film di Baz Luhrmann al cinema io, nonostante il periodo un po' troppo intenso, lo vado a vedere, perché questo è materiale santo che va guardato nel luogo religioso per il quale è stato concepito.
Elvis è, ma cosa ve lo dico a fare, un capolavoro.
non ve lo posso spiegare che lavorone ha fatto sto ragazzo |
Io quando guardo quel film là con l'esclamativo nel titolo come le band dei primi anni 2000 piango dal momento in cui premo play. Non mi succede con nient'altro al mondo ma vi posso giurare su quello che ho di più caro che non c'è niente che mi coinvolga così. Questo porta con sé una serie intera di aspettative che di solito sono una vera e propria violenza nei confronti del povero cinema che deve confrontarsi con quello che vogliono le persone, anche, ma forse soprattutto, se sono aspettative in positivo.
Se fossi uscita dalla sala, ieri sera, non me ne sarei mai e poi mai fatta una ragione. E invece Elvis è grande grande, come il ricordo che ha lasciato il suo protagonista.
Come classico del suo regista, si parte dalla fine: Elvis è morto, quasi in rovina, e l'opinione pubblica vuole che la responsabilità sia del suo storico manager, il Colonnello Parker. Si ricostruisce quindi quello che ha portato a quella infelice sorte.
Poteva essere una tragedia, proprio come quella straordinaria storia di un amore sventurato, e invece decide di andare in una direzione diversa.
Elvis dà il titolo al film, e in scena non manca mai. Si vede Elvis, si guarda Elvis, si parla di Elvis, si ascolta Elvis, si investe in Elvis. Il suo nome è scritto ovunque. Elvis, però, non c'è mai. Ci sono sprazzi del bambino che è stato, angoli di vita familiare che ci servono, però, solo a raccontare quello che lo circonda, l'ambiente che lo ha cresciuto e le persone che gli sono vissute intorno, ma di lui non si sa quasi nulla. Si lasciano parlare le sue decisioni, le sue canzoni, ma sempre poco. Non c'è alcuna introspezione, non c'è lo scopo di presentare l'uomo dietro l'artista. Non è il character study che avrebbe potuto essere.
Quando il film finisce c'è la grossa scritta commemorativa, con scritto "Elvis Aaron Presley" e le date. Il mio compagno, seduto di fianco a me, che Elvis lo ascolta e pure parecchio, mi dice: "Chi ha mai saputo si chiamasse così?". E tutto il film si racchiude qui: di Elvis si sa il poco che è servito per venderlo. La persona è annullata, per lasciare spazio al personaggio, all'icona, alla famigerata gallina dalle uova d'oro. Elvis non è altro che il suo stesso merchandising.
Voglio essere chiara: il film non solo non è mai critico verso l'artista ma anzi lo copre di un amore sincero. Fa proprio l'opposto, scagliandosi con violenza contro chi, nella vita reale, Elvis lo ha cercato di annullare, con il consueto stile del suo regista che vuole i suoi cattivi grossi, bavosi, grotteschi, proprio come il suo Zidler. Non per la truffa economica ma per il furto di identità, per la privazione della libertà creativa di un artista pronto a cambiare le regole del gioco, per lo spietato sfruttamento dell'immagine. Il film non parla di Elvis Presley, storico cantante che ancora oggi influenza la musica, se non marginalmente. Il film parla di tutto il resto del mondo, che Elvis lo ha prima creato e poi violato, continuamente, fino alla fine della sua carriera. Parla dell'Elvis che fa le magie sul palco mentre dalle seggiole tra il pubblico gli si rovinava la vita. Resta persino sullo sfondo, si sente solo la sua voce profonda così vendibile mentre alle sue spalle tutto andava in rovina. Mentre gli si impediva di brillare quanto avrebbe potuto. E se, in effetti, Elvis la storia l'ha fatta davvero, viene davvero da chiedersi cosa sarebbe potuto essere, cosa ne sarebbe stato dei benpensanti e dell'opinione pubblica, se gli fosse stato concesso di vivere come lo desiderava per sempre.
Voglio essere chiara: il film non solo non è mai critico verso l'artista ma anzi lo copre di un amore sincero. Fa proprio l'opposto, scagliandosi con violenza contro chi, nella vita reale, Elvis lo ha cercato di annullare, con il consueto stile del suo regista che vuole i suoi cattivi grossi, bavosi, grotteschi, proprio come il suo Zidler. Non per la truffa economica ma per il furto di identità, per la privazione della libertà creativa di un artista pronto a cambiare le regole del gioco, per lo spietato sfruttamento dell'immagine. Il film non parla di Elvis Presley, storico cantante che ancora oggi influenza la musica, se non marginalmente. Il film parla di tutto il resto del mondo, che Elvis lo ha prima creato e poi violato, continuamente, fino alla fine della sua carriera. Parla dell'Elvis che fa le magie sul palco mentre dalle seggiole tra il pubblico gli si rovinava la vita. Resta persino sullo sfondo, si sente solo la sua voce profonda così vendibile mentre alle sue spalle tutto andava in rovina. Mentre gli si impediva di brillare quanto avrebbe potuto. E se, in effetti, Elvis la storia l'ha fatta davvero, viene davvero da chiedersi cosa sarebbe potuto essere, cosa ne sarebbe stato dei benpensanti e dell'opinione pubblica, se gli fosse stato concesso di vivere come lo desiderava per sempre.
Questo è un film gigante perché usa pochi tocchi per creare un contesto storico, che mai come in questa storia è fondamentale, perché ha un equilibrio perfetto nel non distrarsi mai troppo dal suo protagonista pur volendo parlare di altro, perché l'ha diretto un Grande che ha la capacità di riempirmi occhi e cuore di una meraviglia a cui non sono disposta a rinunciare una volta che il film è finito. Sono piena di amarissimi lustrini negli occhi, oggi. Vedo le stelle e il glamour e il potere e li vedo con la straordinaria bellezza con cui questo signore racconta la tragicità. Ed è tutto un glitter, in una sfavillante cadillac rosa, con abiti magnifici e le gloriose ambizioni dei giovani di talento, che insieme ricoprono il mare di merda che risiede al di sotto. Un ambiente in cui le quantità di denaro accecano, in cui il senso vero delle cose è distorto dal potere, in cui non c'è nulla di genuino se non i brevi sprazzi d'amore che il film ci concede. Così brevi che neppure la più bella canzone d'amore che sia mai stata scritta si sente per intero.
Ora, io sul film ho una sola perplessità. Non è solo intriso di cultura afroamericana, ne è proprio un elogio. È una statua intera in suo onore. Non solo per omaggiare le origini della cultura di Elvis ma anche per sottolineare le mancanze che una nazione intera ha avuto nei confronti di chi non ha avuto il privilegio della pelle bianca. Però, in un film così, si usa la n-word. Io non lo so che cosa è giusto fare, non so nemmeno se sia un problema di traduzione o se sia così anche in originale (ma me lo riguardo anche in lingua originale, eccome se me lo riguardo), ma vorrei che la comunità nera si esprimesse a riguardo. Perché magari con questo livello di contestualizzazione storica ha senso farlo? Non ho risposte ma le vorrei, soprattutto dai diretti interessati.
Mi sono emozionata tanto, perché amo questo modo di parlare dell'orrendo collocandolo in mezzo ad una bellezza così sfacciata e spietata che è difficile da spiegare. Mi sono sentita il cuore piccolo piccolo di fronte al racconto di quest'uomo svuotato in un mondo così pieno.
Solo Luhrmann lo poteva raccontare così. È giusto che questo omaggio arrivi da lui perché l'orrore dello show business pare scritto per essere narrato con i suoi occhi barocchi, le sue immagini piene e desolanti insieme.
Solo Luhrmann lo poteva raccontare così. È giusto che questo omaggio arrivi da lui perché l'orrore dello show business pare scritto per essere narrato con i suoi occhi barocchi, le sue immagini piene e desolanti insieme.
È un incanto, e io, a quella magia qui, non mi ci abituerò mai.
(Chiusura con un po' di fatti miei. La Vostra a settembre si sposa. Prima di vedere il film ingaggia una band, per il Redrumonio, perché ha sempre desiderato avere la musica dal vivo. Ingaggia una band anni '50. Sentirli quel giorno lì cantare Elvis mi piacerà ancora un pochino di più.)