The Hitchbook: Nodo alla gola
Mari.
19:08
Ritorniamo a parlare di Hitchcock dopo un po'. Ora che ho finito le scuse per procrastinare (trasloco, niente internet, morte apparente...) è ora di ricominciare a parlare delle cose serie e se non è serio Alfred Hitchcock io perdo ogni certezza.
È il turno di Rope, Nodo alla gola.
Il mio preferito.
Non tanto per l'esperimento tecnico insuperato, di cui parliamo dopo, nè per l'interessantissimo dibattito filosofico che suscita, anche lui più avanti nel post, ma semplicemente per la tensione durissima che mi ha fatto provare. Una gelida mano poggiata sulla schiena che ogni volta mi tiene dritta incollata allo schermo, come se un epilogo o un prologo diversi fossero possibili.
Quando si parla di maestro della suspance per me si parla di quel film qui.
Un minimo accenno di trama poi passiamo alla sviolinata che, ai miei occhi, questo film merita.
Brandon e Philip uccidono un loro amico, David. Mica hanno un movente, solo la voglia di testare cosa si prova a togliere a qualcuno la vita, commettendo il delitto perfetto. Ma Brandon è frizzantino, e non solo non è per nulla sconvolto da quanto ha fatto, ma decide di non liberarsi del corpo e di tenerlo lì, in casa, chiuso in un baule.
In casa, però, sta per svolgersi una festa, e quel baule diventa la tavola su cui viene servita la cena.
Nessuno degli ospiti sa di stare mangiando su un loculo.
Il loculo si trova in uno splendido appartamento, dal quale non ci muoviamo mai. Come in quella meraviglia di The Party, o in Carnage, l'appartamento è quasi un personaggio. Qui forse ancora di più, dato che uno dei pezzi dell'arredo è il protagonista. Lo sguardo, sia nostro che della macchina da presa si sposta di rado da lui, fulcro dell'attenzione e dell'angoscia più attanagliante. Intorno a lui si muovono lusso e raffinatezza, pianoforti, libri, liquori, ospiti eleganti e candele profumate. Quella che si respira, però, è un'aria di cattiveria pura e durissima, che traspare dai dettagli e dai gesti atroci, e che assume le sembianze di Brandon. Giovane rampante dalla presunta (e per nulla rilevante) omosessualità e dall'ideologia estrema, manipola chiunque lo circonda fin nelle cose più apparentemente superficiali, partendo dal metter becco in faccende sentimentali fino ad arrivare all'invitare i cari della vittima ad una festa in cui la vittima è presente, ma in forma di cadavere. Il legare i libri dati al padre della vittima con l'arma del delitto è una raffinata crudeltà, la ciliegina sulla torta di una situazione esasperata ai limiti del grottesco, in cui i dialoghi sembrano registrati in un manicomio.
Invece la follia non c'entra nulla, il movente è solo un esagerato egocentrismo, un senso di superiorità talmente esasperato da rimuovere in maniera totale ogni barlume di lucidità in una mente ormai disumana.
Si parla del legittimare assassini, dell'omicidio come forma d'arte, come una sorta di selezione che è giusto avvenga in un mondo in cui non siamo tutti ugualmente intelligenti e di conseguenza non tutti portatori della stessa dignità. Ascoltare certi dialoghi che avvengono con la freddezza dei vecchi party in casa è agghiacciante. Ascoltarli sapendo che il morto è a due passi ancora di più. Nel più classico degli scenari che creano suspense, lo spettatore è ben consapevole del morto e non riesce a pensare ad altro, perché gli ospiti, ovviamente, non lo sono. Ogni volta che qualcuno si avvicina al baule è una tortura.
Il tutto, con una tecnica sperimentale che è quella che alla fine ha convinto Hitch che il suo film fosse un pasticciaccio. A lui piacciono i film segmentatissimi, cosa gli vuoi dire. Un milione e mezzo di inquadraturine tutte staccate e altrettante bestemmie quando poi il film è da montare, suppongo. Stavolta no. Il montaggio se lo era bello che fatto lui nella testa, e il film è fatto solo di dieci gigapezzettoni tenuti insieme da primissimi piani di raffinatissime giacche scure. Le leggende narrano di operatori imbavagliati e portati a gridare fuori quando pezzi di attrezzatura sono caduti e hanno rotto piedi, bicchieri cadenti afferrati al volo, il tutto per non infastidire la scena che poi era tutta da rifare ed era un macello. Altre leggende ancora ricordano come la luce cambiasse di continuo e allora tutti a correrle dietro e a riprodurla, bobine intere da rifare perché era il primo film a colori e c'era da farci un po' la mano per non avere tutto arancione, e altri simpatici aneddoti che a noi interessano tantissimo da leggere ma che secondo me all'epoca hanno causato solo che un gran numero di originalissime imprecazioni. Risultato? A noi piace un casino, tutto bello fluido come una ballerina di danza del ventre, a lui sta sulle balle.
Ma, diciamoci la verità, ce ne frega qualcosa?
È il turno di Rope, Nodo alla gola.
Il mio preferito.
Non posso chiamarlo altrimenti che un pasticcio.Diceva Hitch a Truffaut. Lui di Rope non aveva una gran stima e io, amante dei perdenti dalla notte dei tempi, lo considero uno dei film più grandi del mondo.
Non tanto per l'esperimento tecnico insuperato, di cui parliamo dopo, nè per l'interessantissimo dibattito filosofico che suscita, anche lui più avanti nel post, ma semplicemente per la tensione durissima che mi ha fatto provare. Una gelida mano poggiata sulla schiena che ogni volta mi tiene dritta incollata allo schermo, come se un epilogo o un prologo diversi fossero possibili.
Quando si parla di maestro della suspance per me si parla di quel film qui.
Un minimo accenno di trama poi passiamo alla sviolinata che, ai miei occhi, questo film merita.
Brandon e Philip uccidono un loro amico, David. Mica hanno un movente, solo la voglia di testare cosa si prova a togliere a qualcuno la vita, commettendo il delitto perfetto. Ma Brandon è frizzantino, e non solo non è per nulla sconvolto da quanto ha fatto, ma decide di non liberarsi del corpo e di tenerlo lì, in casa, chiuso in un baule.
In casa, però, sta per svolgersi una festa, e quel baule diventa la tavola su cui viene servita la cena.
Nessuno degli ospiti sa di stare mangiando su un loculo.
Il loculo si trova in uno splendido appartamento, dal quale non ci muoviamo mai. Come in quella meraviglia di The Party, o in Carnage, l'appartamento è quasi un personaggio. Qui forse ancora di più, dato che uno dei pezzi dell'arredo è il protagonista. Lo sguardo, sia nostro che della macchina da presa si sposta di rado da lui, fulcro dell'attenzione e dell'angoscia più attanagliante. Intorno a lui si muovono lusso e raffinatezza, pianoforti, libri, liquori, ospiti eleganti e candele profumate. Quella che si respira, però, è un'aria di cattiveria pura e durissima, che traspare dai dettagli e dai gesti atroci, e che assume le sembianze di Brandon. Giovane rampante dalla presunta (e per nulla rilevante) omosessualità e dall'ideologia estrema, manipola chiunque lo circonda fin nelle cose più apparentemente superficiali, partendo dal metter becco in faccende sentimentali fino ad arrivare all'invitare i cari della vittima ad una festa in cui la vittima è presente, ma in forma di cadavere. Il legare i libri dati al padre della vittima con l'arma del delitto è una raffinata crudeltà, la ciliegina sulla torta di una situazione esasperata ai limiti del grottesco, in cui i dialoghi sembrano registrati in un manicomio.
Invece la follia non c'entra nulla, il movente è solo un esagerato egocentrismo, un senso di superiorità talmente esasperato da rimuovere in maniera totale ogni barlume di lucidità in una mente ormai disumana.
Si parla del legittimare assassini, dell'omicidio come forma d'arte, come una sorta di selezione che è giusto avvenga in un mondo in cui non siamo tutti ugualmente intelligenti e di conseguenza non tutti portatori della stessa dignità. Ascoltare certi dialoghi che avvengono con la freddezza dei vecchi party in casa è agghiacciante. Ascoltarli sapendo che il morto è a due passi ancora di più. Nel più classico degli scenari che creano suspense, lo spettatore è ben consapevole del morto e non riesce a pensare ad altro, perché gli ospiti, ovviamente, non lo sono. Ogni volta che qualcuno si avvicina al baule è una tortura.
Il tutto, con una tecnica sperimentale che è quella che alla fine ha convinto Hitch che il suo film fosse un pasticciaccio. A lui piacciono i film segmentatissimi, cosa gli vuoi dire. Un milione e mezzo di inquadraturine tutte staccate e altrettante bestemmie quando poi il film è da montare, suppongo. Stavolta no. Il montaggio se lo era bello che fatto lui nella testa, e il film è fatto solo di dieci gigapezzettoni tenuti insieme da primissimi piani di raffinatissime giacche scure. Le leggende narrano di operatori imbavagliati e portati a gridare fuori quando pezzi di attrezzatura sono caduti e hanno rotto piedi, bicchieri cadenti afferrati al volo, il tutto per non infastidire la scena che poi era tutta da rifare ed era un macello. Altre leggende ancora ricordano come la luce cambiasse di continuo e allora tutti a correrle dietro e a riprodurla, bobine intere da rifare perché era il primo film a colori e c'era da farci un po' la mano per non avere tutto arancione, e altri simpatici aneddoti che a noi interessano tantissimo da leggere ma che secondo me all'epoca hanno causato solo che un gran numero di originalissime imprecazioni. Risultato? A noi piace un casino, tutto bello fluido come una ballerina di danza del ventre, a lui sta sulle balle.
Ma, diciamoci la verità, ce ne frega qualcosa?