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martedì 7 aprile 2020

The Hitchbook, Il sospetto

10:21
Vediamo di dare una rispolveratina anche a questa rubrica, che è stata messa da parte per lasciar spazio a quella macchina succhia tempo che è l'Horrornomicon.
Torniamo a Hitchcock con un film ingiustamente quasi dimenticato: Il sospetto, del 1941.
Mica è colpa sua, povero, ma Hitch con il tempo ha creato cose che gli sono oggettivamente superiori e che si sono prese tutta la fama. Questo, però, che potete vedere sul sempre troppo bistrattato RaiPlay, ci regala grandi soddisfazioni.


Cary Grant e Joan Fontaine sono Johnnie e Lina. Si incontrano su un treno e si conoscono poi tramite amici in comune, e si innamorano presto. Dopo il matrimonio, però, Lina conosce meglio il marito e inizia a credere che lui voglia ucciderla.

Dunque, siamo nel '41, Hitch è negli Stati Uniti da poco, e questo primo decennio USA è infarcito di cose bellissime delle quali pian piano parleremo. Perché non ho fatto questa rubrica in ordine cronologico, mi chiedete? Grazie della domanda, la risposta è che non lo so e quindi adesso chissà questi altri film degli anni '40 quando arriveranno.
Ma dicevamo, Il sospetto.

Film tipicamente inglese, con toni e ambientazione inglese, che per la prima volta Hitch dirige e produce. Questo non lo ha reso indenne dalle pressioni di Hollywood, però, e ne parliamo quando arriviamo al finale.

Quella tra Johnnie e Lina è una storia d'amore anomala che nasce in modo curioso: se la donna non avesse ricevuto grosse pressioni (anche se indirettamente) dalla sua famiglia probabilmente sullo schermo il The end sarebbe arrivato dopo 20 minuti. E invece no, siccome una donna zitella in casa stava tanto male, ecco che lei si attacca alla figura di Johnnie. Certo, magari se non avesse avuto la faccia di Cary Grant non sarebbe finita così, ma insomma. Quindi, i due iniziano a frequentarsi e finiscono per sposarsi. Le differenze tra i due ci sono chiare fin dal primo istante: lui è un furbetto nullatenente insostenibilmente arrogante, lei è di ricche origini, composta, intelligente. Questo loro essere così diversi, pur essendoci chiaro da subito, esplode dopo il matrimonio, quando pian piano anche il tono del film cambia: da allegra commedia romantica i toni diventano da thriller, e il sospetto non è più solo di Lina.
Proprio lei, che a inizio film ci viene presentata come una donna di cultura e brillante intelligenza (sul treno sta leggendo un libro di psicologia infantile), si lascia andare all'irrazionale. Non ha mai prove importanti di quello che dice, ma collega eventi e parole che vuole vedere collegati perché ormai la sua testa è in quella direzione. Se dovessi avere un euro solo per ogni volta che anche io ho fatto così oggi potrei lasciare il lavoro e fare la vita da ricca ereditiera che ho sempre desiderato.
Lina lascia che la sua mente costruisca immagini che non ci sono, e quello che fa Cary Grant è ancora più affascinante: non cambia la sua recitazione di una virgola. Quello che rende il film più intrigante, secondo me, è proprio questo: perfino nella famosa scena del bicchiere di latte non cambia di troppo l'espressione. Ed è magnifico, perché è la prova che, quando alla fine lui si rivela del tutto innocente, noi la verità ce l'avevamo sempre avuta sotto gli occhi, eravamo solo troppo impegnati a guardare altrove.
Non il finale che Hitch voleva, non quello che ci aspetteremmo da lui, e per un motivo deficiente come solo la vecchia Hollywood poteva fornirci, ma forse va bene così. A me piace come si è scelto di concludere la faccenda, rende il sospetto una cosa ancora più insidiosa, subdola e distruttrice.

Il sospetto decisamente non è tra i miei film preferiti di Alfred Hitchcock, ma è di sicuro la prova che quando si sa fare cinema nella maniera in cui lo sapeva fare lui, anche i film considerati minori sono da studiare prendendoci appunti.

venerdì 31 maggio 2019

The Hitchbook: La finestra sul cortile

09:32
Da cosa nasce, qualcuno si chiederà (oppure no) questa mania per Hitch?
Perché è uno dei più grandi registi di ogni tempo, penserete. Possibile che sia anche quello, sì, ma per me è tutto riconducibile qui, a La finestra sul cortile.
L'ho visto quando ero più piccina e ancora più inconsapevole di adesso, e tutti quei riferimenti a voyeurismo, perfino alla caverna di Platone, mica li avevo colti. Ero solo rimasta in estasi. Alla scena dell'avvicinarsi di qualcuno dietro la porta, avete capito quale, sono quasi morta dalla tensione. Sono tutti dettagli così che col tempo mi hanno fatto capire che ci sono poche cose al mondo che amo quanto amo il cinema.
Quindi, oggi, per riprendere in mano la rubrica dedicata ad Hitchcock, ricominciamo con quello che è ancora il suo film a cui sono più affezionata.


Siamo nel 1954.
Hitch sta girando Il delitto perfetto quando arriva l'idea di trarre un film da un racconto, It had to be murder, di Cornell Woolrich. Non è che il povero Delitto perfetto sia da dimenticarsi, parleremo presto anche di lui, ma con Rear Window Hitch tira fuori l'artiglieria pesante, e crea uno di quei film che guardiamo con la soggezione che spetta ai grandi.
Questo, però, è un film facilissimo da guardare: la storia è semplice e accattivante, la tensione crescente e i toni spesso leggeri. Come un giallo da spiaggia, ma intelligentissimo, il più brillante della classe.
Sarebbe stato uno splendido film muto, come piaceva tanto al regista, ma ormai doveva stare al passo con i tempi e metterci colori sgargianti e parole per riempire la musica del dirimpettaio pianista.

Siccome è così intelligente, può permettersi di essere anche un po' antipatico. Non starò qui a parlare della misoginia sottile che pervade il film e il personaggio di Jeff, perché non ha senso farlo su un film che ha più di 60 anni, ma c'è, vista oggi si sente e ci si infastidisce un pochino, e poi si va avanti. Jeff, che è il protagonista, è un uomo detestabile. Se ne sta appollaiato alla finestra perché una gamba rotta è la fine del mondo e guarda le vite degli altri, in quel microcosmo che è il suo cortile, legato al mondo esterno solo da una stradina insignificante. Incatenato alle sue idee e al modello di vita che si è creato, osserva quella degli altri, dalla finestra (orizzontale, come lo schermo di un cinema) di casa sua. E guarda famiglie più o meno felici, donne e uomini soli, ragazze spigliate e anziane simpatiche. Fino a che non vede un omicidio, e allora sono cazzi per tutti.

L'internet è pieno di articoli su questo film e non ripetersi è difficile, ma l'aspetto più noto e banale del film, il voyeurismo, è proprio uno di quelli che mi ha sconquassato di più. Da un lato Jeff fa sfacciatamente, con binocoli e tutto, quello che alcuni (tutti, secondo Hitch) fanno di nascosto. Un'occhiata un po' più lunga dietro le tende, orecchie tese per capire di chi stanno parlando i vicini, guardare, spiare, scrutare...lo facciamo tutti più o meno consapevolmente. Dall'altro lato, c'è il punto di vista dell'osservato, che il film si guarda bene dal mostrare ma che io non posso ignorare. Quando sono a casa io mi sento a mio agio al mille per cento, come chiunque. Faccio cose, parlo da sola, canto, ballo. Sapere di essere osservata nei momenti di estrema intimità mi mette profondamente a disagio e mi urta. A Hitchcock frega niente. Noi vediamo solo il punto di vista di Jeff, per tutto il tempo, se agli altri dà fastidio essere osservati che chiudano le tende. Siamo fissi nell'appartamento di Jimmy Stewart (Jeff) e da lì il punto di vista non si schioda se non in un paio di momenti.
Se non possiamo parlare di un punto di vista differente, però, di qualcosa dovremo pur parlare, ed ecco che arriva il tema della responsabilità. Jeff mica dovrebbe fare quello che sta facendo. Sta spiando dentro casa della gente, è sbagliato. Lui non lo mette proprio mai in discussione, ma noi sì. Eppure, vede qualcosa di ancora di più grave, e ha la responsabilità di fare qualcosa. Bene, ti sei fatto i cazzi degli altri? Hai preso in giro la vita di persone sole e disperate? Adesso devi farti un bel mazzo, perché sei certo di aver assistito ad un omicidio ma le persone che ti circondano non ti danno corda. E per forza, sei tutto il giorno incollato alla finestra, sarai diventato matto.

Consideriamo poi che una delle persone che hai più bisogno ti creda in questo momento ha in testa tutt'altro: Lisa (Grace Kelly) si vuole sistemare, vuole sposarsi, mettere su famiglia. Pare una presa in giro: da quella finestra Jeff vede quasi solo persone che per colpa dell'amore sono infelici. Matrimoni disastrati, persone sole depresse, donne circondate da uomini molesti. C'è solo una coppia che è molto felice, e infatti non la vediamo mai, le finestre sono sempre abbassate per tutelare l'intimità di chi qualcosa da proteggere in effetti ce l'ha. Quello che vede potrebbero essere loro, e lui quella roba lì mica la vuole. Quel catalogo lì di comportamenti umani non gli piace. Lo diverte, lo intrattiene, ma non gli appartiene. Lui è destinato a girare il mondo per servizi fotografici pericolosissimi e a mangiare gli insetti, quello stallo lì è momentaneo e lui non fa che ricordarlo, a Lisa. Lei, che è una splendida e raffinatissima modella, non può certo fare la vita che fa lui.
E siccome Hitchcock era in fissa con gli oggetti, questa carriera di Jeff ci viene costantemente sbattuta in faccia: foto, macchine, obiettivi, flash...niente è lasciato cadere nel dimenticatoio, niente è superficiale, serve tutto alla storia.
Così come serviamo noi spettatori, no? Che osservando l'osservatore ci facciamo voyeur a nostra volta e siamo, per l'ennesima volta, spernacchiati da Alfred Hitchcock.

Ma tutto questo chiacchierare di teorie, significati, analisi, passa in secondo piano quando si arriva a quella sequenza sul finale. Se Nodo alla gola è pieno di tensione dal primo istante all'ultimo, in La finestra sul cortile tutta quella tensione lì si accumula e si sfoga nei momenti finali del film. Siamo nell'appartamento di Jeff, al buio. Qualcuno si sta avvicinando. Sappiamo benissimo chi è, eppure il cuore si ferma. Il modo in cui arriviamo a quella scena e il modo in cui quella scena ci è presentata fanno sì che nonostante sappiamo cosa stia per succedere ce la facciamo sotto. Non è come in Rope. In quel caso noi e i protagonisti siamo a conoscenza di qualcosa che gli ospiti non sanno e moriamo dalla paura che lo scoprano. In questo caso viviamo la tensione insieme al protagonista, che è in una situazione di fragilità estrema.
Conta poco che lui ci stia antipatico o meno, ha spiato dalla finestra e ora ne paga le conseguenze.
Il problema è che dalla finestra ci abbiamo spiato pure noi.

giovedì 11 ottobre 2018

The Hitchbook: Nodo alla gola

19:08
Ritorniamo a parlare di Hitchcock dopo un po'. Ora che ho finito le scuse per procrastinare (trasloco, niente internet, morte apparente...) è ora di ricominciare a parlare delle cose serie e se non è serio Alfred Hitchcock io perdo ogni certezza.
È il turno di Rope, Nodo alla gola.
Il mio preferito.





Non posso chiamarlo altrimenti che un pasticcio.
Diceva Hitch a Truffaut. Lui di Rope non aveva una gran stima e io, amante dei perdenti dalla notte dei tempi, lo considero uno dei film più grandi del mondo.
Non tanto per l'esperimento tecnico insuperato, di cui parliamo dopo, nè per l'interessantissimo dibattito filosofico che suscita, anche lui più avanti nel post, ma semplicemente per la tensione durissima che mi ha fatto provare. Una gelida mano poggiata sulla schiena che ogni volta mi tiene dritta incollata allo schermo, come se un epilogo o un prologo diversi fossero possibili.
Quando si parla di maestro della suspance per me si parla di quel film qui.

Un minimo accenno di trama poi passiamo alla sviolinata che, ai miei occhi, questo film merita.
Brandon e Philip uccidono un loro amico, David. Mica hanno un movente, solo la voglia di testare cosa si prova a togliere a qualcuno la vita, commettendo il delitto perfetto. Ma Brandon è frizzantino, e non solo non è per nulla sconvolto da quanto ha fatto, ma decide di non liberarsi del corpo e di tenerlo lì, in casa, chiuso in un baule.
In casa, però, sta per svolgersi una festa, e quel baule diventa la tavola su cui viene servita la cena.
Nessuno degli ospiti sa di stare mangiando su un loculo.

Il loculo si trova in uno splendido appartamento, dal quale non ci muoviamo mai. Come in quella meraviglia di The Party, o in Carnage, l'appartamento è quasi un personaggio. Qui forse ancora di più, dato che uno dei pezzi dell'arredo è il protagonista. Lo sguardo, sia nostro che della macchina da presa si sposta di rado da lui, fulcro dell'attenzione e dell'angoscia più attanagliante. Intorno a lui si muovono lusso e raffinatezza, pianoforti, libri, liquori, ospiti eleganti e candele profumate. Quella che si respira, però, è un'aria di cattiveria pura e durissima, che traspare dai dettagli e dai gesti atroci, e che assume le sembianze di Brandon. Giovane rampante dalla presunta (e per nulla rilevante) omosessualità e dall'ideologia estrema, manipola chiunque lo circonda fin nelle cose più apparentemente superficiali, partendo dal metter becco in faccende sentimentali fino ad arrivare all'invitare i cari della vittima ad una festa in cui la vittima è presente, ma in forma di cadavere. Il legare i libri dati al padre della vittima con l'arma del delitto è una raffinata crudeltà, la ciliegina sulla torta di una situazione esasperata ai limiti del grottesco, in cui i dialoghi sembrano registrati in un manicomio.
Invece la follia non c'entra nulla, il movente è solo un esagerato egocentrismo, un senso di superiorità talmente esasperato da rimuovere in maniera totale ogni barlume di lucidità in una mente ormai disumana.
Si parla del legittimare assassini, dell'omicidio come forma d'arte, come una sorta di selezione che è giusto avvenga in un mondo in cui non siamo tutti ugualmente intelligenti e di conseguenza non tutti portatori della stessa dignità. Ascoltare certi dialoghi che avvengono con la freddezza dei vecchi party in casa è agghiacciante. Ascoltarli sapendo che il morto è a due passi ancora di più. Nel più classico degli scenari che creano suspense, lo spettatore è ben consapevole del morto e non riesce a pensare ad altro, perché gli ospiti, ovviamente, non lo sono. Ogni volta che qualcuno si avvicina al baule è una tortura.

Il tutto, con una tecnica sperimentale che è quella che alla fine ha convinto Hitch che il suo film fosse un pasticciaccio. A lui piacciono i film segmentatissimi, cosa gli vuoi dire. Un milione e mezzo di inquadraturine tutte staccate e altrettante bestemmie quando poi il film è da montare, suppongo. Stavolta no. Il montaggio se lo era bello che fatto lui nella testa, e il film è fatto solo di dieci gigapezzettoni tenuti insieme da primissimi piani di raffinatissime giacche scure. Le leggende narrano di operatori imbavagliati e portati a gridare fuori quando pezzi di attrezzatura sono caduti e hanno rotto piedi, bicchieri cadenti afferrati al volo, il tutto per non infastidire la scena che poi era tutta da rifare ed era un macello. Altre leggende ancora ricordano come la luce cambiasse di continuo e allora tutti a correrle dietro e a riprodurla, bobine intere da rifare perché era il primo film a colori e c'era da farci un po' la mano per non avere tutto arancione, e altri simpatici aneddoti che a noi interessano tantissimo da leggere ma che secondo me all'epoca hanno causato solo che un gran numero di originalissime imprecazioni. Risultato? A noi piace un casino, tutto bello fluido come una ballerina di danza del ventre, a lui sta sulle balle.

Ma, diciamoci la verità, ce ne frega qualcosa?

giovedì 10 maggio 2018

The Hitchbook: Vertigo

12:48
Ricominciare a parlare di cinema con un Capolavoro Di Quelli Grandi® è forse una mossa suicida.
Ma ieri Vertigo ha compiuto sessant'anni, e anche se può sembrare assurdo sia così vecchio, va celebrato.


Io penso che il pericolo spoiler possa considerarsi annullato dopo sessant'anni.

Hitch è in un periodo d'oro: è iniziata la serie Alfred Hitchcock presenta per la tv, che gli ha portato (ancora più) successo e soldi, e nel decennio dal '55 al '65 butta fuori film immensi uno dopo l'altro come se fosse la cosa più naturale del mondo.
Nel '58 è la volta della storia di Scottie e Madeleine.
Il personaggio di Stewart inizia come uno di quegli uomini buoni e bravissimi che interpretava di solito. Ex poliziotto traumatizzato dalla perdita di un collega in circostanze traumatiche, eccetera eccetera. Viene assoldato da un vecchio amico come investigatore privato, nella speranza che si possa far luce sul comportamento misterioso della moglie Madeleine.
Siccome Hitch, però, detestava che la gente sapesse cosa aspettarsi, ecco che Stewart resta l'uomo virtuoso che conosciamo e aspettiamo solo per metà film.
Questo perché Vertigo è la storia di una discesa verso l'inferno, verso l'ossessione e la pazzia. E Stewart incarnerà tutte queste caratteristiche deliziose in un modo indimenticabile.

Mai, nella storia del cinema, titolo fu più azzeccato. Vertigo è davvero un vorticoso viaggio verso il peggio della mente umana, declinato in sfumature diverse in ogni personaggio.
Il povero Scottie, per cominciare. Incanto d'uomo nella prima parte di film, viene talmente colpito dalla morte dell'amata da trasformarsi in un ossessionato necrofilo privo di ogni forma di rispetto verso le donne e colmo di un egoismo esplosivo. Esiste immagine più agghiacciante di quella di un uomo che concia la nuova compagna per farla somigliare a quella precedente, morta? No, e infatti la scena di Judy che lentamente torna ad essere Madeleine era quella che più mi aveva colpito alla prima visione, anni fa. Tatuata in fronte, fastidiosa come una zanzara di notte in estate, disturbante (hhhh, ho usato la parola proibita con la D!) e inquietante.
Judy, dal canto suo, talmente colma di questo amore malato da farsi fare qualunque cosa, invece che dire semplicemente la verità sulla sua identità.
Infine, Galvin Ester, l'assassino. L'omicida della moglie che intavola un piano perfetto e riesce a farla franca, rovinando la vita di Scottie e godendosi la propria, in Europa.

Vertigo è un thriller in cui niente va come dovrebbe andare in un thriller: l'omicidio riesce alla perfezione, l'assassino resta impunito e fugge lontano, la storia d'amore tra il detective e la sua bella finisce per essere un amore malato e disposto a tutto, il protagonista non solo esce sconfitto ma distrutto (non una, due volte, una beffa enorme dopo il danno).

Non ha mai avuto paura di scombinare le carte in tavola, Hitch. Confondere i generi, riscriverli, adattare le storie a suo piacimento e, nel mentre, fare la Storia.
Che dono immenso, il coraggio.

lunedì 15 gennaio 2018

The Hitchbook: Gli Uccelli

14:30
Ho questo blog da anni, ormai, e non si è mai parlato di Hitchcock.
Come sempre, è la soggezione verso i Grandi a bloccarmi dallo scriverne, ma il mio rapporto con Hitch è diventato tanto e tale che si meritava una rubrica tutta sua.
Ogni tanto, quindi, in mezzo alla casualità che guida le mie scelte da sempre, ci satrà un posticino per Lui, che tanto se lo merita.



Ho conosciuto Alfred Hitchcock con La finestra sul cortile.
Guardato per banalissima curiosità sulla trama, mi ha cambiato il modo di vedere al Cinema. C'è una scena, in particolare, che mi ha stregata: Jeff è, ovviamente, seduto in casa, bloccato da un gesso francamente ingestibile. È al buio, e dal corridoio si sentono dei passi avvicinarsi. Sappiamo benissimo chi sta arrivando, lo sa anche lui, eppure per quella manciata di secondi lì io puntualmente non respiro. Quando si vede l'ombra dei piedi dietro la porta temo sempre il mancamento.
Una volta vista una scena così, non si torna più indietro.

Preso atto del fatto che ci sono poche persone al mondo a mettermi nello stato di tensione totalizzante di cui Hitch è capace, io sto film sugli uccelli l'ho sempre snobbato.
È per questo che parto da lui. Per redimermi.

Melania si prende una sbandata per Mitch. Con una scusa si presenta a Bodega Bay, dove lui vive.
Triste coincidenza: proprio quando Melania arriva in città, iniziano una serie di eventi quantomeno inusuali. In poco tempo la città è in mano ad uno stormo di uccelli impazziti.

Presente quando sentite i ragazzini che dicono che L'Esorcista fa ridere? Ecco, io pensavo che Gli Uccelli mi avrebbe fatto un pochino ridere. Solo un po'.
Poi sono arrivata alla scena della scuola, me la sono fatta addosso e ho deciso insindacabilmente che la prossima volta che mi prende la Snobite Acuta qualcuno di voi, magari qualcuno di grosso, è autorizzato a prendermi a cinquine in faccia e a rimettermi al mio posticino piccolo e ignorante.

Hitchcock si prende la maestosa libertà di non far succedere niente per un sacco di tempo. La coppia si conosce, Melania va a Bodega Bay, conosce la ex, blablabla. Cose, cose, cose. Ci sembrano quasi inutili e stavo iniziando a scocciarmi quando è arrivata la scena della festa di compleanno.
Bambini terrorizzati, urla, corse, uccelli famelici.
Mi sono risvegliata dal torpore.
Da allora, una discesa fino all'infernale finale.
Ci sono uccelli veri, uccelli più finti di una banconota da 3€, uccelli in animazione, eppure mai una volta che lo sguardo ci si soffermi, perché il rumore delle ali che sbattono frenetiche fa venir voglia di coprirsi gli occhi per proteggerli, per difendersi da un nemico di cartapesta.

È facile cercare tutti i modi in cui Gli Uccelli è straordinario: l'attacco è senza una motivazione, crudele, e ogni tentativo di razionalizzare viene sedato alla svelta, se serve anche a sberle; ci sono momenti di grandissimo dramma, come la maestra morta per proteggere i suoi alunni; ci sono mille livelli di lettura metaforica che generalmente io sulla Redrumia non faccio ma che sono facilmente riassumibili in una spaventosa fragilità dell'uomo e del suo mondo.
Più di tutto, però, c'è il battito insistente delle ali, e quello, finito il film, non ti lascia più.

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