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lunedì 15 gennaio 2018

The Hitchbook: Gli Uccelli

14:30
Ho questo blog da anni, ormai, e non si è mai parlato di Hitchcock.
Come sempre, è la soggezione verso i Grandi a bloccarmi dallo scriverne, ma il mio rapporto con Hitch è diventato tanto e tale che si meritava una rubrica tutta sua.
Ogni tanto, quindi, in mezzo alla casualità che guida le mie scelte da sempre, ci satrà un posticino per Lui, che tanto se lo merita.



Ho conosciuto Alfred Hitchcock con La finestra sul cortile.
Guardato per banalissima curiosità sulla trama, mi ha cambiato il modo di vedere al Cinema. C'è una scena, in particolare, che mi ha stregata: Jeff è, ovviamente, seduto in casa, bloccato da un gesso francamente ingestibile. È al buio, e dal corridoio si sentono dei passi avvicinarsi. Sappiamo benissimo chi sta arrivando, lo sa anche lui, eppure per quella manciata di secondi lì io puntualmente non respiro. Quando si vede l'ombra dei piedi dietro la porta temo sempre il mancamento.
Una volta vista una scena così, non si torna più indietro.

Preso atto del fatto che ci sono poche persone al mondo a mettermi nello stato di tensione totalizzante di cui Hitch è capace, io sto film sugli uccelli l'ho sempre snobbato.
È per questo che parto da lui. Per redimermi.

Melania si prende una sbandata per Mitch. Con una scusa si presenta a Bodega Bay, dove lui vive.
Triste coincidenza: proprio quando Melania arriva in città, iniziano una serie di eventi quantomeno inusuali. In poco tempo la città è in mano ad uno stormo di uccelli impazziti.

Presente quando sentite i ragazzini che dicono che L'Esorcista fa ridere? Ecco, io pensavo che Gli Uccelli mi avrebbe fatto un pochino ridere. Solo un po'.
Poi sono arrivata alla scena della scuola, me la sono fatta addosso e ho deciso insindacabilmente che la prossima volta che mi prende la Snobite Acuta qualcuno di voi, magari qualcuno di grosso, è autorizzato a prendermi a cinquine in faccia e a rimettermi al mio posticino piccolo e ignorante.

Hitchcock si prende la maestosa libertà di non far succedere niente per un sacco di tempo. La coppia si conosce, Melania va a Bodega Bay, conosce la ex, blablabla. Cose, cose, cose. Ci sembrano quasi inutili e stavo iniziando a scocciarmi quando è arrivata la scena della festa di compleanno.
Bambini terrorizzati, urla, corse, uccelli famelici.
Mi sono risvegliata dal torpore.
Da allora, una discesa fino all'infernale finale.
Ci sono uccelli veri, uccelli più finti di una banconota da 3€, uccelli in animazione, eppure mai una volta che lo sguardo ci si soffermi, perché il rumore delle ali che sbattono frenetiche fa venir voglia di coprirsi gli occhi per proteggerli, per difendersi da un nemico di cartapesta.

È facile cercare tutti i modi in cui Gli Uccelli è straordinario: l'attacco è senza una motivazione, crudele, e ogni tentativo di razionalizzare viene sedato alla svelta, se serve anche a sberle; ci sono momenti di grandissimo dramma, come la maestra morta per proteggere i suoi alunni; ci sono mille livelli di lettura metaforica che generalmente io sulla Redrumia non faccio ma che sono facilmente riassumibili in una spaventosa fragilità dell'uomo e del suo mondo.
Più di tutto, però, c'è il battito insistente delle ali, e quello, finito il film, non ti lascia più.

lunedì 25 dicembre 2017

Il popolo dell'autunno, Ray Bradbury

16:10
Facciamo che avete mangiato, che siete pieni di cibo fino a farvi scoppiare i capillarini degli occhi. Non avete energie per alzarvi dal divano, ruttate cronometrandovi come una madre in travaglio e se avete superato i 25 bevete tisanine depurative sperando di non passare una notte insonni in piena indigestione.
È il giorno buono per Something wicked this way comes.



Non che esista un giorno sbagliato, per un libro del genere.
È, in pieno stile Redrumianesco, un romanzo in cui due ragazzini sono soli a combattere contro le forze del male. Il male stavolta è sotto forma di un misterioso luna park arrivato in città proprio intorno alla notte di Halloween, e nasconde misteri inquietanti ben oltre ogni immaginazione.

Io non so cosa farci, mi dispiace se spesso posso risultare banalotta e sempre uguale a me stessa nelle scelte, ma cercate di capirmi: ho un debole per queste storie. I protagonisti sono Will e Jim, venuti al mondo praticamente insieme e da allora inseparabili vicini di casa. L'arrivo del luna park nella loro cittadina li insospettisce fin dal primo momento. Ogni segnale indicava di starne alla larga, ma date segnali di pericolo ad un tredicenne e chiedetegli di starne alla larga, cento euro che non vi ubbidirà. L'attrazione che i due provano per il luogo incantato si rivela pericolosa davvero perché, come sempre in questi casi, le cose non sono esattamente quello che sembrano.

Non si ama Neil Gaiman nel modo in cui lo amo io, cioè con tutto il cuore che ho, senza essere passati dalla storia di Will e Jim, due dei personaggi che prenderanno residenza nel vostro immaginario. Le loro avventure sono pericolose e la tensione è reale. La preoccupazione per la loro sorte è quasi più forte del desiderio di scoprire come questa faccenda vada a finire. Sono così reali che sembra di toccarli, così diversi e così vicini come sono. Sono i due modi opposti di affrontare un problema, e sono la dimostrazione di come il nostro modo di affrontare il suddetto problema si allenti, si ammorbisca, si allunghi un po', per andare incontro al modo dell'altro.

Se ne avete una vecchia copia sgualcita in casa disegnateci un cuoricino e passatelo a qualche cuginetto più piccolo affamato di avventura e di brividi, è una favola nera con un cuore grande come un circo e con due protagonisti indimenticabili.
Un pomeriggio passato con loro è quanto di più bello vi auguri per un Natale magico.

giovedì 5 ottobre 2017

Blade Runner - The Final Cut

11:29
DISCLAIMER
Questo post non vuole essere un esaustivo articolo su uno dei film più importanti di sempre perché sapete che a me quelle cose lì mettono soggezione, ma solo una sputacchiata incoerente di opinioni, emozioni e pensieri derivanti dalla visione del suddetto maestoso film.
Insomma, per l'ennesima volta è un post per rassicurare quelle persone magari indirizzate verso un certo film dal partner che hanno paura di morire di noia e di detestare qualcosa che, invece, vi posso garantire è grande davvero.



Ho guardato il vecchio BR perché se un film ha qualcosa a che fare con Villeneuve io lo voglio vedere e quindi domenica pomeriggio sarò in sala a vedere quello nuovo senza se e senza ma. Volevo arrivare preparata primo per dovere di completezza e secondo per non tartassare di domande il povero R che del vecchio BR è un amante.
A lui basta che dare qualcosa che ricordi anche solo alla lontana la fantascienza e gongola come un gatto quando gli gratti il collo, io vedo la fantascienza e volo via sulle ali del vento.
Ero pronta ad un film lungo ventisei ore, noioso come la Via Crucis e pesante come quei biscotti al burro che ho assaggiato ieri e che ancora sono piantati sullo stomaco. Il Final Cut del 2007 è tutto tranne che questo. Non arriva alle due ore e le fa scorrere con una dinamicità e una fluidità che sono un sogno per noi che questo genere lo tolleriamo a piccole dosi.

Un accenno di trama per chi come me abbia vissuto sulla Luna fino a ieri sera.

Siamo nella Los Angeles del 2019. Il mondo non ha più quasi niente di come lo conosciamo, l'inquinamento lo ha reso un pianeta inabitabile e i pochi che sono costretti a restare lo fanno per malattia o povertà. In mezzo a questo panorama desolato, i replicanti. Sono androidi dall'aspetto e dalle caratteristiche quasi identiche a quelli umani, usati per i lavori più beceri. Quando hanno iniziato a sviluppare anche emozioni umane, però, si è deciso di sopprimerli in massa o rinchiuderli in colonie. Sei di loro sono riusciti a tornare sulla Terra e il compito di Harrison Ford sarà quello di cercarli e farli fuori uno per uno alla Dieci Piccoli Indiani.

C'erano tutte le premesse perché me ne fregasse meno di niente. Le scritte iniziali, con cui si viene introdotti alla storia, mi avevano lasciato presagi di morte e sonnolenza. Invece, prima inquadratura.

'sticazzi

Io fulminata. Ragazzi, ragazze costretti a ciò dal moroso o dalla morosa o da un'amica o da un papà appassionato: ne vale la pena.
Ne vale la pena di uscire dalla comfort zone e lasciarsi andare, perché in mezzo al marasma di film di fantascienza di cui onestamente capisco possiate essere pieni, Blade Runner è un sogno. Un sogno fatto di disperazione e desolazione, un sogno fatto di profondissimi dilemmi etici che vanno ben al di là del solito cosa è giusto/cosa è sbagliato. È un'analisi della vita e dei suoi componenti, dell'umanità in ogni sua sfaccettatura, di una società spaccata in due (letteralmente) in cui solo il più debole è costretto a vivere nel marcio, dell'amore impossibile nel suo aspetto più estremo.
È un film che rimette al suo posto (l'angolino della vergogna) chi ancora crede in qualche supremazia, chi ancora cerchi differenze tra le persone, chi dimentica cosa ci rende umani e, quindi, uguali.
Come lo fa? Con immagini indimenticabili.
Se la storia in sè continua a non convincervi, lasciate che le immagini parlino da sè. Se quella prima vista sulla città non vi ha fatto cadere vittime di un amore inesorabile, lasciate che tutto il resto del film, con la sua pioggia incessante e il suo maestoso azzurro onnipresente, vi trascini laddove nessuno vi aveva mai trascinato prima. Nell'Olimpo dei Grandi, dove basta una figura che cammina in controluce per ricordarvi chi comanda.
E vi dico la verità, a me basterebbe un'estetica così strepitosa a farmi innamorare. Tutto è così incredibilmente bello anche quando ritrae il brutto da farmi credere che non possa esistere niente di altrettanto appagante.
(MA non lo farò. Non sarò di quelli che andranno a vedere il nuovo Blade Runner solo per dire che il primo è più bello. Se lo fate state a casa e lasciatemi i posti migliori in sala, grazie.)

Avevo contemplato la possibilità che mi piacesse, ma neanche per un istante ho pensato che mi sarei Innamorata.
E invece il Cinema mi ha fregata ancora una volta.

sabato 30 settembre 2017

...e ora parliamo de L'Esorcista

09:38
Questa, lo giuro, sarà l'ultima volta in cui racconterò del mio primo incontro con il film di Friedkin. Sul blog questa storia è uscita mille volte, ora che ho ripreso in mano la faccenda gli dedico un post e che non se ne parli più.


Anno del Signore 2003.
Anni della Mari: 13.
Situazione: vivevo lontana da casa, in un contesto gestito da suore e coabitato da una mandria di adolescenti, tutte femmine. Un pomeriggio, per qualche infelice decisione presa da chissà chi, si decide di vedere L'Esorcista. Suor Colomba compresa.
Risultato: nonostante un sincero disinteresse durante la visione, che sembrava lasciarmi freddina, ho passato i successivi QUATTORDICI ANNI ad avere una paura maledetta. Tra me e il film nasce un rapporto malato, in cui la mia infinita paura, che si palesava anche solo a fronte di una singola foto di Reagan, si contrapponeva ad un'attrazione sempre viva. Lo detestavo, sto film, ma ci pensavo sempre.

Anno del Signore 2017.
Anni della Mari: quasi 27.
Situazione: sono nel mio rivenditore di libri usati di fiducia. Trovo nascosta tra le altre cose una vecchiotta edizione de L'Esorcista e ne leggo le prime righe. Non quelle del primo capitolo in Iraq, direttamente quelle in America.

Come l'effimera e fulminea fiamma di un'esplosione di soli lascia soltanto bagliori indistinti sulla retina di un cieco, così il momento in cui l'orrore ebbe inizio passò quasi inosservato.
Per poco non mi sono dovuta sedere di fronte alla bellezza della frase che avevo appena letto. Decido comunque di non comprare il libro, convinta che non avrei mai avuto il coraggio di finirlo. Arrivata a casa, però, continuo a pensarci e mi decido. È ora di riprendere il controllo sulla situazione: si legge L'Esorcista. Divorato in pochissimo, letto la mattina prima dell'alba mentre mi trovavo a Londra e rapidamente sostituito con roba ben più divertente (aka Una cosa divertente che non farò mai più di Nostro Signore David Foster Wallace) quando la situazione si faceva insostenibile, poi finito in una grigia domenica mattina di pioggia ascoltando Ludovico Einaudi.
Sono rimasta folgorata.
È una frase che ultimamente mi sentite dire spesso, ma questa volta con ancora più forza del solito: contro ogni mia più rosea aspettativa il romanzo di Blatty si è rivelato una delle letture più belle e potenti mai fatte. Quella domenica sera, comunque, salendo da sola le buie scale del mio palazzo, ho avuto una paura ri di co la.


questo sguardo e io già con le mani sugli occhi

Dopo un inizio così folgorante, tenere alto il livello non era scontato. Il romanzo, però, fa una cosa che sembra impossibile: migliora. Riga dopo riga trascina in un vortice da cui è impossibile separarsi. Si è soliti chiamare i romanzi di questo tipo page turner. Sono quelle storie da cui staccarsi è impossibile, quelle che tengono svegli la notte pur di sapere cosa accade nella pagina dopo. Sempre di solito, però, ad una caratteristica simile si associano romanzi di natura ben più semplice di quello di Blatty: romanzi rosa, gialli, thriller non troppo speciali...romanzi, insomma, in cui lo stile semplice di scrittura si abbina ad una storia che sia niente più che catchy, accattivante, e che tengano così lo scrittore legato alle pagine, senza richiedergli troppo impegno. Per me, per esempio, l'ultimo era stato La ragazza del treno, nonostante non mi fosse piaciuto.
L'Esorcista conserva questa caratteristica di irresistibilità portandola però a ben altro livello. L'aria del romanzo è soffocante, malsana, il male è insito tra le righe ben prima del palesarsi del Maligno e nonostante ciò ci attira a sè con il fascino che solo il Male è in grado di esercitare.
A creare questo fenomeno di romanzo non è solo la scrittura di Blatty (che ad un certo punto parla della fisicità di Reagan definendola esile come una flebile speranza, annientandomi), è un complesso di tematiche, costruzione dei personaggi e messaggio che non potrebbero lasciare indifferente nemmeno il peggiore degli scettici, insieme a dialoghi che hanno dello straordinario. Ho letto poche cose belle come il primo incontro tra Karras e il demonio.
L'autore era cattolico. Ma tanto, anche. Nel senso che non andava in chiesa solo a Natale e Pasqua, per intenderci. Alla sua fede ha dedicato un romanzo monumentale, che traspira Dio da ogni riga pur non nominandolo praticamente mai. La fede del grande protagonista del romanzo, che secondo me è Padre Karras, è messa alla prova sia dal suo generico scetticismo che dalla scomparsa della madre, Chris e Reagan non sono credenti e in tutto il romanzo non si fanno che vedere gli effetti di Satana sul mondo. In una sola, potente frase messa nel punto giusto, però, ecco che tutta la storia prende una piega ben diversa e che Dio si riprende tutto il potere che sembrava perduto nelle pagine precedenti. Sintetizzando la questione, ci troviamo di fronte ad una Chris sconvolta dagli eventi, che non crede in Dio ma che, grazie alla situazione della figlia, crede moltissimo nel Male, che le sta dando prove tangibili della sua esistenza. Non ricordo chi, ma credo lo stesso Karras, le chiede, allora, come si spieghi tutto il Bene del mondo. In una sola domanda Blatty ci ricorda che per lui Dio non ha bisogno di fare il grosso. È nelle piccole cose che ci circondano.
Poi accade che ogni tanto anche alla Santissima Trinità vengano fatte girare le Santissime, quindi servono le maniere forti: Padre Merrin. Zarrogante come solo alcuni vecchi preti sanno essere, Merrin entra in casa, si sistema un attimino poi entra cattivo come l'aglio, con lo sguardo di chi non ha paura neanche del Diavolo in pesona (sguardo molto appropriato al momento) e ribalta Reagan come un calzino per levarle l'invasore.
Peccato che poi il vero esorcismo arrivi proprio per mano dello scettico, del debole, del combattuto Karras, che ricordando vagamente il Figlio del sopracitato Nostro Signore si sacrifica per la salvezza degli altri.
Nello specifico, dell'altra, che come viene spesso sottolineato nel romanzo, lui nemmeno aveva mai conosciuto veramente.
È una storia che parla di dolore, di fede, di scienza (non è un caso che Karras sia uno psichiatra, e che lo sia proprio per volere dei gesuiti), di grande amore per il prossimo.
È un capolavoro.

Il film riesce in un'impresa impossibile: non solo rende giustizia ad un romanzo complesso e straordinario, ma diventa un capolavoro a sua volta.
Rivedendolo, mi sono accorta di come certe immagini fossero rimaste tatuate nella mia mente per tutti questi 14 anni di lontananza, e non parlo di quelle iconiche scene di Reagan posseduta. Parlo di cose ben più sottili: i cani che lottano in Iraq, la testa della bambina ancora sana appoggiata sul cuscino, il momento di gioco tra lei e la madre, l'adorata, da me, figura di Karl. Dopo anni, la colonna sonora si conferma contorcibudella ed elemento fondamentale per la riuscita della creazione di un'atmosfera che non ti lascia nemmeno quando, come ho dovuto fare io, si interrompe la visione per un momento e si cerca di respirare aria fresca. È un'aria che riempie la stanza di marciume nelle scene di Reagan e di desolazione in quelle di Karras.
Tutto, nel film, è perfetto nel ricreare quell'aria che a Londra non mi faceva riprendere sonno, quando mi svegliavo prima dell'alba e leggevo Blatty. Anche solo i colori sono eccezionali: quel blu che riempie le scene sulle scale, in cui la luce non viene mai accesa come se fosse un modo per prepararci all'oscurità che sta dietro la porta, è indimenticabile. È quasi rumoroso da tanto che è d'impatto. In mezzo alla bellezza che solo i Film Grandi portano con sè, ci sono attori straordinari. Oltre alla piccola Blair, è Jason Miller ad essermi rimasto nel cuore. Il suo Damien Karras ha occhi grandi e pieni di cose non dette, è fragile e dolorante come un cucciolo abbandonato di fianco alla strada, intenso come pochi altri.
In più, ho guardato il film in italiano. Per me è insolito, li preferisco in inglese e il primo che mi rompe i maroni per snobismo lo sottopongo ad una Cura Ludovico di soli film di Muccino. Li guardo in inglese perché mi va punto e basta. Ciò ribadito, il doppiaggio de L'Esorcista è esemplare. La sceneggiatura (che a volte riprende paro paro parti del libro, ché Blatty mica c'aveva sbatta di rifare il lavoro due volte, giustamente) è splendida e noi ci abbiamo messo del nostro facendo un lavoro che a me è sembrato ottimo. Ciao Giannini, quando ti sento mi emoziono.

Concludendo, però, non credo rivedrò L'Esorcista a breve. Questa seconda visione non ha fatto che confermare quanto quello di Friedkin sia il mio grande tallone d'Achille, niente mi ha mai terrorizzato altrettanto. Stasera ho una cena con le colleghe e non so come sarò quando tornerò a casa. Sia il libro che il film sono due lavori giganteschi, ma se ognuno di noi ha una fragilità, questa è la mia. È IL film dell'orrore, l'inarrivabile, la Storia.
Ma io mi caco, quindi non lo guardo più.



giovedì 28 settembre 2017

Vampires! - Gli anni 80

16:42
Abbiamo capito nel corso di questa rassegna che a me piacciono i polpettoni lenti violenti (ho messo Gigi Dag in un post sugli anni '80, what else?), i vampiri subdoli e sensuali, I film combattuti, in cui il senso di colpa legato ad una condizione mostruosa fosse il vero punto forte, il vero fulcro dell'orrore, oppure quelli in cui l'atmosfera gotica era talmente pesante da farmi sentire le ragnatele sulla faccia come quando ci passi in mezzo senza accorgertene.
Poi sono arrivati gli anni '80, vestiti da bulletti di quartiere, hanno preso il baule carico di angosce, hanno preso la lentezza, il silenzio e i castelli in Transilvania, e li hanno lanciati giù dal balcone facendogli neanche troppo velatamente il gesto dell'ombrello.
Al loro posto, ragazzacci bellissimi, gang di piccoli criminali, sale giochi, fumetti, botte, sigarette, motorini e belle ragazze.


Il buio si avvicina - Kathryn Bigelow
Presenti spoiler!

Ho conosciuto la Bigelow, molto banalmente, con Point Break. Ho adorato il modo in cui parlava di amici che diventano famiglia senza giudicare mai le azioni illegali del gruppo. Quelle, giustamente, non c'entrano con il legame tra le persone. Near dark si spinge ancora un po' più in là, le azioni illegali diventano proprio natura mostruosa soprannaturale, ma rimane l'unità di un gruppo che proprio da questa natura è così fortemente legato.
Quando sei l'ultimo arrivato in un gruppo, però, tendi ad osservarne le dinamiche da fuori, e per quanto l'idea di farne parte ti possa attrarre, è più difficile che a te i difettucci (tipo il cibarsi di umani, per dirne uno superabile) passino inosservati. Quando Caleb conosce, attraverso Mae, il gruppo di vampiri a cui lei appartiene, cerca di entrare a farne parte, farsi apprezzare diventa uno scopo fondamentale, anche solo per amore di Mae. Peccato che Caleb abbia appena finito di essere un umano, e che la crudeltà dei vampiri non gli appartenga ancora.
Ecco allora il punto in cui Il buio si avvicina diventa più intelligente di tutti i film successivi in cui un umano si innamora di un vampiro: essere vampiri non è cool, non è qualcosa a cui ambire. Una volta ritrovato il padre, quindi, Caleb torna umano, e riporta con sè all'umanità anche Mae.
Alla faccia di tutte le povere donzelle anni 2000 trasformate in vampire dai loro amori.
Tenetevi stretta la vostra mortalità, amiche mie, e gli uomini che da voi tirano fuori il meglio, non il mostro assetato di sangue.

Ragazzi perduti - Joel Schumacher




Eccoli qua, i ragazzacci.
Bulletti, sbruffoni, semivandali.
E vampiri.
Anche loro Famiglia, come quelli della Bigelow, quelli di Schumacher sembrano provocare anche solo con la loro esistenza. Ti guardano negli occhi e sembrano dirti: 'Hai il coraggio di unirti a noi?', e tu vai, contro ogni logica e contro ogni buonsenso, e finisci, anche in questo caso, per trovare una Famiglia. Sempre colpa delle ragazze, comunque, i ragazzini anni 80 (come conferma il film sotto) devono essere stati gli iniziatori del pregiudizio sencondo cui gli uomini ragionano con le mutande, altrimenti non si spiega.
Per i giovani del decennio d'oro questo film deve essere stato una perla, ho la sensazione che sarebbe stato il film del tumblr anni 80, non so se riesco ad esprimere questo bizzarro concetto. Il culto adolescenziale. Toh, pareva tanto difficile trovare una definizione.
A me, che negli anni 80 ero solo un desiderio, non ha lasciato segni indelebili sul cuore, se non fosse per la figura di Sam, fratello minore di quel Michael diventato vampiro. Oh, Sam, che risate a bocca aperta mi hai fatto fare! ♡

Fright night - Tom Holland



Tra tutti, il mio preferito.
Charlie e la sua passione per i film e i programmi dell'orrore sono dei discreti guardoni. Vedono un paio di tette e prendono un cannocchiale.
Risultato: trovano un vampiro.
Segue un film divertentissimo e rapidissimo, che scorre come un corto. Fright Night conosce bene la materia di cui si prende gioco e le vuole anche un gran bene, e ingredienti fondamentali se si vuole una horror comedy ben assestata. Intrattiene tanto e gode moltissimo nel farlo, per me irresistibile.

Miriam si sveglia a mezzanotte - Tony Scott



Dopo i tre titoli sopra, ci voleva qualcosa per cambiare aria.
Il film di Scott è ben diverso rispetto ai suoi contemporanei: niente ragazzini cazzoni, solo la coppia mozzafiato composta da Catherine Denevue e David Bowie.
Bellissimi, sensualissimi, vampiri.
Il film di Tony Scott ha un'estetica curatissima e patinata, per me davvero piacevole. Peccato davvero che tutto ciò che mi attrae nel film sia nel suo aspetto. Come sappiamo però dai molti articoli sul tema letti su Cioè, però, l'aspetto non è tutto quello che conta, e infatti la scintilla tra me e Miriam non è scattata. Ho avuto spesso la sensazione di non sapere bene dove volesse andare a parare, e le figure della Deneuve e della Sarandon (comunque sempre molto amata), non mi hanno comunicato alcunchè.
Peccato.

lunedì 25 settembre 2017

Vampires! - I vampiri visti dalla Gente Intelligente

09:45
I registi brillanti sono parecchi, checchè se ne dica sulla crisi del cinema e cose del genere. Di fronte a queste menti illuminate io mi sento sempre una bambina alle prime armi, ma non mi sarei mai perdonata un mese di post senza nominare i Signori del Cinema.




JOHN CARPENTER - Vampires



Non potevo che iniziare dal titolo che dà il nome a questa rassegna. Carpenter è uno di quei registi di cui non parlo mai per soggezione, ho il sospetto servano titoli di studio che non ho conseguito. Vampires è ovviamente lontano dai titoli che mi mettono così in castigo, e se dicessi che mi è piaciuto userei una delle mie solite iperbole. È uno di quei film in cui i vampiri non hanno niente di sessuale nè tantomeno sensuale, non sono eleganti, non sono bellissimi. Sono mostri. In quanto tali, vengono cacciati da alcuni acchiappamostri (tra cui uno dei quindici fratelli Baldwin, tutti identici). Not my cup of tea, decisamente, ma andava visto perché JC vuole così, e noi gli si obbedisce.

NEIL JORDAN (che nel mio cuore sta al pari degli altri Grandi di questo post, insindacabile)

Byzantium



Facciamo che ignorate la scritta dell'immagine qui su? Twilight for grown-ups anche no. È una definizione limitante e anche scorretta. Non che io voglia rientrare nelle categorie di chi urla allo scandalo con Twilight, non cadiamo in facilonerie inutili, è solo che Byzantium è proprio un'altra cosa. Jordan è tornato ai vampiri raccontandoci di due donne, opposte e legatissime. Non sappiamo da subito che rapporto le leghi, sappiamo solo che sono le due perfette facce della stessa medaglia. Clara, il vampiro interpretato da Gemma Arterton, è spudorata e senza paura, vende il suo corpo per mantenersi e sta proteggendo Eleanor da qualcosa che non ci è chiaro fino alla fine.
La Ronan è Eleanor, l'esatto opposto. Tormentata dal segreto della sua condizione, scrive in continuazione la sua storia e la dona al vento, quasi sperando di essere scoperta e forse punita. Vivono insieme in un mondo che non le conosce e sarà proprio l'ingresso di una terza figura tra di loro a far crollare il loro debole castello di carte.
Il film di Jordan parla di sangue, morte, violenza e prostituzione, non ha paura di niente e nessuno come Clara, eppure è allo stesso tempo etereo, sensibile, profondissimo, proprio come la sua Eleanor. Un regista che mangia senza problemi in testa ai suoi contemporanei e due prime donne spettacolari, non ci servebbe altro.
Jordan, però, ha deciso di chiamare a sè anche Caleb Landry Jones e niente, puntando sul fattore Brutti che Piacciono alla Mari mi ha legata a sè per sempre.

Intervista col vampiro


Prima di quella meraviglia di Byzantium, però, Jordan ha preso un libro di Anne Rice e ne ha fatto un film. Uscito un anno dopo il Dracula di Bram Stoker di Coppola, al suo confronto pare un film minimalista. Laddove uno è talmente pieno da essere quasi ridondante, l'altro è leeeeeeento e delicato. Sono stati scelti due attori dal viso finissimo (e che infatti a me non piacciono), che incarnano alla perfezione l'ideale del vampiro che spicca per eleganza e fascino, pieno di attrattiva per le donne. Punto di forza per me una baby Dunst adorabile e brillante, che mangia spudoratamente in testa ai suoi due comprimari dal basso del suo metro e venti scarso.
Film così sono soggettivi, riconosco che la mia opinione possa essere del tutto detestata, ma per me sto film è più bello che bravo. Estetica notevolissima, nel pieno dei miei gusti, ma il contenuto mi ha appasionata molto meno, mi sono annoiata. Byzantium ha una profondità tutta diversa, potendo scegliere prendete lui e godetene.

GEORGE ROMERO - Martin




Giù i cappelli.
Salutate George.
Martin è un giovane disturbato. È un vampiro? Chi può dirlo. Di certo lui è convinto di esserlo e si comporta di conseguenza, pur non avendo alcuna caratteristica dei vampiri convenzionali oltre alla sete di sangue.
Ve lo ricordate, vero, cosa fa Romero quando gira un film?
(L'uso del tempo presente è voluto.)
Prende i mostri e li usa per criticare con violenza chi mostro non è. Sì, stupidi umani, parlo di voi. Martin sfrutta i vampiri - reali o creati da una mente malsana - per mostrarci il bigottismo, la chiusura, il fanatismo della religiosità quando si fa estrema. Le tradizioni familiari folkloristiche, le figure mitologiche, unite ad una grande fragilità, creano il Nosferatu Martin, creduto tale anche dal cugino Cuda (sì, ho dovuto googlare come si scrivesse il nome di questo). Come è spesso accaduto, in film in cui le creature mostruose sono state usate come mezzo per lanciare un messaggio, finisce che i mostri siamo noi.
Martin porta i vampiri qui, ai giorni nostri, nella nostra desolazione, ma è anche uno di quelli che ci mostra come le superstizioni e la fragilità siano gli stessi di un centinaio di anni fa, quando i vampiri sono 'nati'.
È per questo che è così angosciante.

(Da vedere rigorosamente in inglese e da cercarsi col titolo di Martin. Se trovate Wampyr, cercate meglio. Quella versione lì la lasciamo stare).

FRANCIS FORD COPPOLA - Dracula di Bram Stoker



Con questo film nella maniera più assoluta non esistono mezze misure: o si ama appassionatamente, o lo si detesta con forza. Io, contro ogni previsione, lo amo.
A me piacciono i film dalle immagini minimal e le inquadrature giganti ma quasi vuote, con giusto un paesaggio notevole e solo pochi elementi in scena.
Dracula di Bram Stoker è lontano anni luce da tutto ciò, è quasi arrogantemente barocco, ridondante, ampolloso, e tutti quegli aggettivi simili per dire che qualcosa è tanto.
Insieme agli altri tanto, però, bisogna anche metterci il tanto bello. In mezzo alla montagna di immagini di cui ci bombarda, riesce quasi a rallentare quando si tratta dell'amore tra il Conte e Mina. È Cinema completamente fuori dai miei gusti che per qualche motivo mi ha presa e cullata con il suo vorticare frenetico e irresistibile, e mi ha ricordato che la comfort zone è inutile, un concetto ormai superato. Godiamo di quello che ci piace a prescindere da quello che sentiamo più o meno nostro.

martedì 5 settembre 2017

George Romero Day - Il giorno degli zombi

15:41
C'era una volta George Romero.
C'era, e oggi non c'è più. Ci ha salutati a luglio. Lui e la sua deliziosa faccetta andavano commemorati, e quando con gli altri blogger ci si è organizzati per questa giornata non mi sono tirata indietro.
Pausa ai vampiri, quindi, per oggi.
C'è un Maestro da omaggiare.



Il giorno degli zombi narra di un mondo completamente in rovina. Non abbiamo assistito all'apocalisse z, ne vediamo solo le conseguenze. Gli zombie sono ormai padroni del mondo e i pochi umani superstiti vivono sottoterra. Conosciamo gli abitanti di una base militare, in cui un gruppo di scienziati, con l'aiuto di alcuni militari, sta lavorando sulla possibile soluzione al problema dei ritornanti.


Per questa recensione commemorativa avrei potuto scegliere La notte dei morti viventi. Sarebbe stato facilissimo perché sarebbe stato niente più che un altarino di parole ad uno dei miei film preferiti di sempre. La cattiveria del finale de La notte, però, è stata presa, dilatata un po', aggiustata qua e là, e messa ne Il giorno degli zombi. 
Davvero, se è una brutta giornata, se non vi sentite benissimo, se avete perso la fiducia, guardate altro per l'amor di dio che non voglio avervi sulla coscienza.  Perché il terzo film del ciclo degli zombi è di un pessimismo estremo. Non pensate che vi siano segnali di miglioramento, di speranza, di happy ending. Non c'è NIENTE, NIENTE di positivo in questo film maledetto. Non un momento di respiro, di leggerezza (e quelli che ci sono, brevissimi, sono di un'amarezza spaventosa), mai uno spiraglio di luce. Il mondo è perduto e noi con lui.

I due grandi mondi ritratti nel film ne escono annientati. La scienza, che diventa ossessione, non guarda più in faccia nessuno, si fa beffe di qualsiasi etica e punta dritta all'obiettivo, regalandoci con il personaggio di Bub una delle scene più strazianti mai viste in un film sui ritornanti. Se però è chiaro che gli uomini di scienza ci vengono comunque presentati come 'i buoni' (ammesso che simile scemenza esista), per i militari davvero non c'è pietà. Sono barbari, sporchi, malvagi, egoisti fascistelli con un chiaro microcefalo, un po' troppa patata in testa per il contesto in cui sono e ben poco rispetto per il prossimo. Avesse potuto avrebbe diretto il film con ACAB scritto in fronte col sangue finto.

Estremo, di un gore notevolissimo che non lascia indifferenti, con un inizio storico e una posizione precisissima e nessuna paura di urlarla al mondo, Il giorno degli zombi mi pareva il modo migliore per salutare George Romero.

Negli ultimi 50 anni abbiamo avuto un film sugli zombi di Romero indicativamente (molto indicativamente) ogni 10 anni. Ha visto la società cambiare, non sempre in meglio, e, con lo sguardo acuto dei più intelligenti tra noi, l'ha criticata violentemente, con secchiate di sangue e viscere allo scoperto. Vederli oggi è interessante non solo perché sono film eccezionali, ma perché conosciamo la storia avendola vista da occhi esterni, quelli del futuro.
Avere la possibilità di guardare il marcio di oggi attraverso i suoi occhi sarebbe impareggiabile.
Un privilegio di cui siamo stati privati.
C'è una sola fortuna, in tutto ciò.
Gli uomini non cambiano mai.






I miei amici che insieme a me oggi ricordano quello che GR ci ha lasciato:

Delicatamente Perfido - La notte dei morti viventi

White Russian - La terra dei morti viventi

Non c'è paragone - La città verrà distrutta all'alba

Combinazione casuale - Martin

Una mela al gusto pesce - Bruiser

Pietro Saba World - Monkey Shines - Esperimento nel terrore

The Obsidian Mirror - George of the dead

Bollalmanacco - La metà oscura

domenica 3 settembre 2017

Vampires! - Nosferatu for dummies

15:27
In modo assolutamente non creativo la parte cinematografica dello speciale sui vampiri non può che partire con Nosferatu. È proprio previsto dalla legge marziale che si faccia così, non ho scelta.
Il destinatario ideale di questo post è il fruitore di cinema medio, quello non troppo appassionato ma che se la gode un po' e che non ha mai voluto guardare i film fossili per paura di dormire/non capire/ridere (selezionare voce a scelta). Ritratto peraltro pericolosamente somigliante alla me di qualche anno fa. 
Senza alcuna (giuro) pretesa di fare la maestrina mi piacerebbe parlare a loro di Nosferatu.


Intanto, ciao, fruitore medio di cinema che non ha mai voluto guardare i film fossili. Ti dò il benvenuto nella mia modesta magione. Ti immagino pronto ad addentrarti nelle antichità del cinema e come tutti i cristiani ti immagino a cercare informazioni nell'unico modo che conta davvero: Google. Cerchi Nosferatu e ti esce questa frase ormai scolpita nella storia: film del '22 diretto da Friedrich Wilhelm Murnau, caposaldo del cinema espressionista.
Caposaldo del Cinema Espressionista
(Leggilo piano, goditelo sulla lingua, perché adesso puoi iniziare a dirlo con aria snob, erre moscia finto francese per sbattere in faccia la tua cultura ai tuoi amici che vanno a vedere i film dei supereroi. Film che tu non vedrai più perché sei stato Iniziato.)

A questo punto, amico mio, ti immagino chiederti, con tutte le ragioni di questo mondo, che minghia vuol dire. Sono qui per te, perché potrei essermelo chiesto anche io, qualche tempo fa. E allora, lascia che la sigla di Superquark ti accompagni mentre ti racconto cosa è sto espressionismo tedesco così ce lo leviamo dai cosidetti.

Dunque, siamo negli anni 10 del '900, in Germania. Nell'arte pittorica e nel teatro si diffonde questa nuova corrente, questa tendenza artistica, l'Espressionismo, appunto. In un'epoca in cui a spopolare erano la voglia di realismo e di concretezza, ecco che l'Espressionismo, con la strafottenza tipica di chi sa che avrà la storia a dargli ragione, si è imposto per la sua voglia di andare in direzione diamentralmente opposta. Ah, tu vuoi l'oggettività? La fedeltà al reale? E io ti dò le emozioni, invece. Ti lancio addosso la soggettività come se fosse stella filante a Carnevale. Quella realtà per te tanto preziosa io la prendo e deformo, la tiro e la mollo come se fosse mia e voglio proprio vedere cosa fai per fermarmi. Quello che vedi non è proprio il mondo, è la mia interpretazione dello stesso. Nel cinema quindi le cose sono un po' ballerine. Le figure hanno forme esagerate, distorte, allungate.

Ad inserirsi in questo contesto casca a fagiolo la primissima trasposizione cinematografica del romanzo di Bram Stoker: Nosferatu.




Nosferatu non ha una sorte felice: uscito nel '22 viene ben presto preso a male parole dalla moglie di Stoker, alla quale non era stato proprio chiesto il permesso per fare un film dall'opera del marito. La signora Stoker ottiene che tutte le copie del film vengano distrutte, ma suna qualche intercessione di divinità unite ha fatto sì che una copia sopravvivesse.

L'ho visto per la prima volta in un cinemino spettacolare della mia città, con i ragazzi del corso di Musicologia della mia città che suonavano dal vivo, come il film era pensato in origine. Vedere lavori del genere in sala è un evento incredibile a prescindere dalla passione per il cinema quindi fatemi il favore di scollare le chiappe abbronzate dai multisala e tornate ad esplorare i cinemini.
(Per i cremonesi: se non andate al Filo puzzate di cacca.)

È inutile che ti prenda in giro, fruitore medio di cinema: io preferisco i film più vicini a me. Diciamo che ne godo di più, l'esperienza è più piacevole e rimane sul piano della passione. Quando mi avventuro in film del genere lo faccio per studiare. Mi metto lì, con i miei libri di teoria del cinema e cerco nel film le cose che leggo, e cerco di imparare. Mi aiuta a godere meglio della mia passione e mi piace sinceramente farlo, ma non è la prima cosa che cerco quando ho voglia di vedere un film.
Nonostante ciò, Nosferatu è riuscito laddove Il gabinetto del dottor Caligari con me (CON ME) aveva fallito: fa paura regà.
Il film di Murnau funziona alla grande anche dopo i suoi migliaia di anni. Il Conte Orlok è spaventoso. E non parlo dell'iconica salita delle scale che ho postato, gli basta stare sulla porta e niente, è agghiacciante. Non deve parlare, è bestiale, inumano, terrificante. L'aspetto di Max Schreck è sicuramente di grande aiuto, ma quello sguardo lì mica te lo dà la natura, lo devi fare tu, e lui lo fa in maniera straordinaria.
Murnau, poi, era fuori come un balcone. Intanto si era convinto che Schreck fosse un vampiro vero, aveva convinto tutti di questa cosa e secondo me un pochino questo timore nei suoi confronti traspare nel film (o forse sono io che ce lo voglio vedere, chissà). Poi, in un periodo in cui gli scenari dei film erano dei bellissimi pannelli colorati lui ha deciso di spostare baracca e burattini e girare in esterno, per la prima volta all'interno della corrente dell'Espressionismo. La natura diventa quindi parte integrante della pellicola, e collabora alla perfezione nel trasmettere quasi del misticismo.
Potremmo stare qui a parlare dei giochi di ombre, luci e specchi, dell'effetto Schufftan e tutto il resto, ma allo spettatore quelle cose qua spesso non interessano. Ci sono i tecnici per questo. Lo spettatore fruisce del loro lavoro, e oggi, millesettecento anni dopo, siamo ancora nelle mani di espedienti ormai abbondantemente superati. La storia e la tecnica sono andati avanti ma Nosferatu non ha perso niente.
Solo un inizio così sfolgorante avrebbe potuto rendere il Dracula cinematografico la leggenda che è oggi.

CONSIGLIO PER I NAVIGANTI
Attenti quando lo cercate online, evitate youtube (dove se ne trovano diverse versioni) per essere certi di stare guardando la versione corretta, perché la musica di Nosferatu è complice di Schreck nel incutere un'inquietudine di quelle viscidine che sembrano essere facilmente superabili ma che invece non si schiodano di dosso.


Simile capolavoro non sarebbe rimasto intoccato a lungo.
In realtà tra lui e il suo remake sono passati intorno ai 60 anni, ma cosa sono 60 anni rispetto all'immortalità dei due film in questione?
Sì, signora mia, lo so che il remake non è mai bello come l'originale, ma un giorno un tale, Werner Herzog (quindi insomma non l'ultimo degli stronzi), ha pensato bene di dirigere di nuovo la storia di Orlok ed è riuscito nel miracolo di creare un film che, portando i suoi dovutissimi omaggi all'originale, vive di vita propria e non ha proprio niente da rimproverarsi.
Da un punto di vista narrativo si sceglie di ripercorrere la stessa identica vicenda del '22, restituendo soltanto ai personaggi i propri nomi, quelli del romanzo. Inspiegabilmente spesso Mina diventa Lucy e viceversa, ma non andiamo troppo per il sottile.

Nel marasma di ottime idee che hanno portato Nosferatu, il principe della notte ad essere il bel film che è, una su tutte ha secondo me del glorioso: KLAUS KINSKI.
Non frintendetemi, almeno nei suoi primi anni al cinema Dracula ha avuto la fortuna di avere sempre dei volti ben più che dignitosi, quantomeno nelle trasposizioni più celebri, ma Klaus...un incubo.
E ricordate che parliamo di Dracula, quindi è un complimentone.
Più di tutti i suoi predecessori, Kinski ha uno sguardo assolutamente killer. Lo so, l'ho detto anche di Schreck poco sopra, ma lui era muto, aveva solo quello da sfruttare. Qua no, qua Kinski parla. Parla, è a colori, ha 60 anni di tecnologia in più da sfruttare a suo favore, ma tutto questo è NIENTE in confronto al sudore freddo che il primo sguardo di Dracula verso il taglio che Jonathan si fa ad un dito mi ha causato.
Amico mio, il fruitore di cinema medio, se sei giunto fino a qui: lo so che io parlo per iperbole e sono un po' drama queen quindi sembra sempre che esageri, ma mi devi ascoltare. Kinski è uno dei migliori Dracula che la storia ricordi e il fatto che spesso sia oscurato da altri è ingiusto e frustrante. Se anche tu pensi che sia giusto ridare luce ai talenti, lascia da parte la venticinquesima versione di Sir Christopher Lee (a cui comunque rivolgiamo una preghiera ogni sera prima di dormire) e dai una possibilità anche a lui.
Scoprirai un Dracula drammatico, umano, amaro.
Eterno.

Il Dracula in questa versione è pieno di gloria. Non mi stupisce che quindi, oggi, Nosferatu sia pronto a tornare. Non ha ancora finito con noi, e Robert Eggers lo sa.
(Qui per leggere le prime info!)

giovedì 31 agosto 2017

Vampires! - Dracula, Bram Stoker

13:31
Ogni anno, per il compleanno del blog, decido di scrivere un post più particolare, magari più ricercato o che sia per me in qualche modo significativo. Quest anno, invece, ho deciso che avrei approfittato della mia ricorrenza per colmare una mia grande lacuna. Per tutto il mese di settembre, quindi, a parte un paio di eccezioni con i colleghi blogger ai quali non posso dire di no, e a parte oggi che è ancora agosto, si parlerà di vampiri.
Così è deciso.


Prima di tirare in ballo il cinema, però, c'è da leggere almeno almeno Dracula. 
La mia prima lettura del romanzo di Stoker risale ai tempi del liceo, in cui leggere certe cose mi faceva sentire così outsider che le avrei lette anche per strada pur di far sfoggio del mio essere diversa. Non sembra, ma dai miei tempi del liceo sono passati un po' di anni, quindi, in previsione di questa serie di post, mi sono riletta Dracula.
Pensavo mi piacesse, prima. Ne avevo un buon ricordo, quindi mi era senz'altro piaciuto. Adesso, dopo anni, è amore. Se è vero che c'è un momento giusto per ogni cosa, allora io devo essere reinciampata sul romanzo nel momento perfetto, perché la lettura di Dracula è stata illuminante, e come le cose molto molto luminose ha annebbiato la vista e rincoglionito un po' il cervello, impedendomi di leggere oggettivamente quanto venuto dopo.

Ma andiamo con calma.

Anno domini 1890. Bram Stoker, un gentiluomo irlandese, fa un brutto sogno, come ne facciamo tutti. Si sveglia la mattina, decide di fare un po' di ricerche (ma giusto un paio, per qualcosa come sette anni), poi butta giù due cosette. Nel 1897 le sue ricerche producono un romanzo e la narrativa dell'orrore non è più la stessa. È più o meno la stessa sensazione che deve avere provato Freddie Mercury quando ha scritto Bohemian Rhapsody. Hai un'idea, e anni dopo le persone ancora vivono all'ombra della maestosità di quanto hai fatto. Letteratura e musica non sono mai più stati gli stessi. Chissà cosa si prova. Se esiste un'aldilà spero che entrambi possano vedere che ancora oggi pendiamo dalle loro labbra.
Insomma, esce un romanzo che si chiama Dracula. Finisce per diventare fenomeno di costume, vincolando per sempre la leggendaria figura del vampiro al suo nome. Sono passati 120 anni e le ristampe del libro non sono ancora cessate. Se chiudo gli occhi riesco quasi ad immaginare John William Polidori che alza la mano, si schiarisce la voce e dice timidamente che veramente quello che è considerato il primo racconto di vampiri lo ha scritto lui, ma uno sguardo di Bram, dall'alto della sua indiscussa superiorità storica, dovrebbe bastare a rimettere il povero John al suo posto.
Polidori lo ricordiamo essere portatore di una sfiga rara. Il suo racconto è stato prima offuscato da un certo Frankenstein, scritto nella stessa sera e oggi finito ingiustamente nel dimenticatoio (ironia alert), e poi da quest'altro qua, il cui nome è diventato sinonimo di vampiro, capostipite assoluto di una discendenza che, ancora oggi, non accenna ad estinguersi, prima fiammella di un fuoco che non ha alcuna intenzione di placarsi.

Il romanzo si apre - e si chiude - con un diario. Jonathan Harker, un giovane apprendista in uno studio legale, è in partenza per la Transilvania, per concludere un affare con un cliente del luogo. La gente intorno a lui gli fa intuire che non si tratti di una buona idea, ma il lavoro è lavoro e Jonathan e Dracula si conoscono. Li vediamo insieme solo nella prima parte del romanzo perché poi, con l'eleganza dei cattivi migliori della storia, Dracula sparisce. Sta sullo sfondo, mentre noi leggiamo dai racconti dei protagonisti le conseguenze delle sue azioni. E tutto questo, per me, è già straordinario. Dracula fa paura non essendoci mai, ma essendo sempre presente, Sta sullo sfondo, eppure tutto quello che succede in primo piano è in funzione di lui. Una città intera è piegata al suo potere, ma nessuno lo conosce.
Mina, Jonathan, Arthur, Lucy, Renfield, Quincey, Seward,e ovviamente l'amatissimo (almeno da me) Van Helsing sono personaggi di cui non facciamo mai conoscenza diretta, nel senso che non ci vengono mai presentati. Il romanzo è costituito solo delle loro parole, attraverso diari, lettere, memorie, e niente di tutto ciò è diretto ad un lettore. I protagonisti scrivono per se stessi, quindi sono onestissimi, e hanno una paura maledetta.
Oppure sono incuriositi, frustrati, addolorati, affascinati. L'unico a non avere voce diretta è proprio il protagonista indiscusso della vicenda, il Conte. (Non fate i pignoli, lo so che anche Renfield non parla mai direttamente.) Dracula parla e compare pochissimo, non abbiamo mai visione diretta dei crimini che compie, perché non ne ha bisogno. È già terrificante così.


Esistono creature particolari, chiamate vampiri. Qualcuno di noi ha prove di loro esistenza. (...) Un Nosferatu non muore come ape dopo che ha punto. Diviene solo più forte. (...) Questo vampiro che è tra di noi ha, da solo, la stessa forza fisica di venti uomini. Sua astuzia è più che mortale perché sua astuzia cresce con passare di anni. È bestiale, anzi più che bestiale! È demonio insensibile, senza cuore.
Solo un personaggio alla sua altezza poteva contribuire alla sconfitta del Conte più temibile della storia del mondo: Abraham Van Helsing. Badass senza precedenti, AVH ha cinque milioni di anni (iperbole, sempre iperbole), un centinaio di lauree in scienze dalla diversa utilità (Lettere e Filosofia vs Medicina, per dirne solo tre) ed è l'unico che abbia la più vaga idea di quello che sta succedendo, azzoppato anche dal lieve dettaglio di essere l'unico a crederci, a quello che sta succedendo. Dettaglio peraltro niente affatto irrilevante se si pensa che non si può uccidere qualcosa in cui non si crede.
È molto interessante, poi, che sia proprio lo scienziato a diventare la rovina di Dracula. Il sovrannaturale, il pericoloso, il mortale, vengono annientati, come nelle migliori favole a lieto fine, dall'uomo di scienza, dalla razionalità. Ai miei occhi non esiste niente di più rassicurante.

Io mi rendo anche conto che una che trova rassicurante Dracula possa non sembrare tutta a posto con il cervello, lo capisco. Ma nell'eterna lotta tra il bene e il male il romanzo di Stoker ci mostra che il Male è anche umano, che può essere anche un uomo per il quale sia lecito provare a volte anche sentimenti di tenerezza (all'inizio, il Conte solo nel castello a me ha stretto il cuore che vve devo dì), e che annientarlo non lascia mai privi di cicatrici.
Ma che si combatte, sempre.
Spesso con la scienza.
Il che mi porta a concludere che un romanzo di 120 anni fa scritto da un irlandese sia un baluardo dell'antigrillismo.
Ok, la smetto.



lunedì 26 giugno 2017

Un tranquillo weekend di paura

19:10
Ogni tanto penso alla mole di film 'storici' che ancora devo vedere, e per riprendermi dalla traumatica lista mi servono i sali.
Arriva sempre il re, Stephen King, a darmi delle direzioni. In Danse macabre parla a lungo e molto bene di Deliverance. Io me la faccio un po' sotto, come sempre quando guardo i grandi classici di genere, ma mi faccio coraggio: oggi è il giorno buono.



Bobby, Lewis, Drew ed Ed sono quattro amici che partono per un weekend all'insegna dell'avventura, per godersi gli ultimi istanti di spontaneità di un fiume che sarà presto rovinato da una diga.
Gliene andrà bene una in questo weekend?
No, neanche a domandarlo per piacere.

Ora, io scrivo sempre le trame con modi ben poco seri, ma qua non c'è proprio niente da ridere. Deliverance è un film cattivo come la morte, che non lascia nemmeno un momento di respiro e che ha tutte le intenzioni di non farsi scordare.
Oggi siamo fin troppo abituati a film la cui trama si dipana da un gruppo di amici che parte per una vacanza e finisce male, ma Deliverance quell'aria malata lì, del 'qualcosa andrà storto', non la propone nei modi ormai a noi consueti. Non ci sono musichette spaventevoli nè uomini sospetti.
Noi li guardiamo con sospetto perché sappiamo cosa accadrà, ma gli uomini che i nostri amici incontrano dal benzinaio appena partiti sono solo chiusi e poco educati. Non siamo dalle parti di Captain Spaulding, per intenderci. Quello lì ce l'aveva scritto in fronte che non stava tanto bene.

Qua inizia tutto in modo più sottile, per poi esplodere in scene tremende senza che ci sia data la minima calma, finito un dramma ne inizia un altro, senza che si riesca ad immaginare un finale positivo per i quattro. L'uomo di montagna è ostile e violento, in modi inimmaginabili e insostenibili da vedere (se quella scena è tanto famosa c'è un perché: è durissima.), e quello di città cerca di barcamenarsi nei modi in cui riesce per sopravvivere. I quattro cittadini, peraltro, sono uomini dalle reazioni plausibilissime e quasi confortanti: piangono, scalpitano, si chiudono in un silenzio martoriandosi dai sensi di colpa, si innervosiscono, si sfogano.
Ed è esattamente questo che con me ha funzionato: l'empatia è stata totale e totalizzante.

Stavo facendo la cyclette mentre guardavo Un tranquillo weekend di paura. 
Mai pedalato così veloce.


giovedì 11 maggio 2017

Non solo cinema: La principessa sposa

20:00
Lo scorso weekend a Cremona c'è stato il mercato europeo. Il centro della città era pieno di banchetti alimentari e non, ed è un evento che a me piace sempre tanto. Sotto la galleria della città, però, stavano i libri.
Con cosa sono tornata a casa?
Con una copia di The Princess Bride, in inglese e con questa copertina bellissima qui:


Facciamo che avete un bambino nella vostra vita. Un cuginetto, una sorellina, un vicino di casa affezionato, un nipote, un amico. Se ne sta lì, e gioca con le spade di legno. Oppure fa finta di cavalcare la scopa, oppure ancora ama i pirati. 
Mettiamo anche che ci sia la circostanza giusta per fargli un regalo, al bambino in questione (non che serva occasione per regalare libri ai bambini, ma tant'è).
Ecco, mettete da parte ogni vostra idea, perché c'è una sola cosa che farà gongolare il vostro bambino da qui all'eternità: La principessa sposa.
Ci sbilanciamo? Ci sbilanciamo: è perfetto.
È un mix esplosivo ed esilarante di avventure varie ed imprevedibili, di combattimenti e cuori che palpitano, di vendette e di torture. 

Di cosa parla lo sapete se avete visto La storia fantastica, ma ve lo riassumo così:
Buttercup (Bottondoro in italiano) e Westley sono innamoratissimissimi. Ma proprio di quell'amore grande e che scavalca le montagne. Il fato li separa: Westley viene rapito dal perfido pirata Roberts, Buttercup viene data in sposa ad un crudele principe. 
Riusciranno gli amati a riunirsi?

Mi rendo conto che la mia capacità di sintesi sia deplorevole, e che quindi sembri una storiellina d'amore per cucciolini indifesi. 
Ma manco per niente. 
Questo è un libro per bambini sfacciati e coraggiosi, con le mani che fremono dalla voglia di avventura e il tono della voce sempre troppo alto. Ci sono i pirati, gli eroi, gli spadaccini, le principesse, i cavalli, i cattivi cattivissimi e i cattivi non proprio cattivissimi, qualche parolaccia qua e là per sentirci grandi. Non manca niente, è una formula vincente per chiunque. Ai bambini regala sogni enormi, di quelli che fanno fantasticare anche quando il sogno è finito, ma è agli adulti che regala le vere sorprese.
Ragazzi, La principessa sposa fa spaccare dal ridere.
Io mica lo sapevo, ho visto il film da bambina e poi basta, lo ricordavo come una cosa seria. Devo rettificare: divorato in due giorni, risate incredibili. Battute brillanti, descrizioni spiritosissime e un po' di sarcasmo qua e là messo giusto per strizzare l'occhio a quei lettori che abbiano già le capacità per coglierlo.
Ma argomentare è anche inutile.
C'è Inigo Montoya, e tanto basta.

lunedì 8 maggio 2017

Fantasmi

18:38
Il giorno che per tutti è fonte di angoscia e tremori è il mio giorno di riposo.
Avrei potuto sfruttare la bella giornata di sole uscendo a fare due passi, godendomi un libro, guardando un film di Wes Anderson che ti rimette in pace con l'universo.
No, Coscarelli.


Phantasm parla di Mike, un ragazzino di 13 anni che ha perso da poco entrambi i genitori. Vive con il fratello maggiore, Jody, e vive nel terrore che anche lui lo lasci. Per questo, lo segue ovunque, ed è proprio durante uno dei suoi inseguimenti, mentre Jody è ad un funerale, che Mike scopre che il becchino del paese per qualche motivo si porta via le bare con i defunti.
È chiaro che non ne fa un uso, diciamo, legittimo.

Mi accorgo che sto guardando un film Grande, aldilà della fama che lo precede, quando c'è un dettaglio, o una scena, che mi colpisce in particolare. Qua potevano essere mille cose, il tono sempre in bilico tra il reale e l'onirico, l'atmosfera così malsana e lugubre (siamo spessissimo al cimitero), quel Tall Man così sinceramente inquietante.
Invece no, a colpirmi questa volta sono stati i suoni. Non solo la colonna sonora, che si piazza nel lobo frontale come una trapanata, per non mollarvi più, ma proprio tutti i suoni e i rumori del film, a partire dai suoni sinistri che Mike sente nel suo primo giro al cimitero in moto, e che poi si riveleranno essere i versi dei nani malefici (Coscarelli peraltro profeta dei giorni nostri che ha usato nani malefici in un film ben prima della notorietà del capostipite della specie: Berlusconi).
Ci sono poi i passi che risuonano in quella villa modesta e discretissima, il rumore delle lame che escono dalla sfera maledetta, le voci, le canzoni.
Sono pazza? È una sensazione che ho avuto solo mia? Ho trovato una versione del film particolarmente felice con l'audio migliroe mai sentito in un film con la sua età? O forse davvero una buona parte del fascino (indiscutibile nel modo più assoluto) di tutta la pellicola sta nella paura che mette con l'uso superbo che fa del sonoro?
Perché quel finale lì, che abbiamo visto un milioncino di volte e che è stato anche l'argomento della mia tesina di maturità, fa mille volte più effetto quando ci si arriva così provati.

Poi possiamo anche parlare della camminata spaventosa del Tall Man, se volete.
Oppure della combo micidiale delle due cose, e invece che parlarne ce la facciamo sotto e basta.

giovedì 20 aprile 2017

Non solo cinema: Il Monaco

15:36
Che voi amiate la letteratura dell'orrore, il mondo dei brividi in genere, o meno, io dico gotico e a voi vengono in mente tutta una serie di immagini. Provo ad indovinare? Se vinco sono gradite ricompense in denaro.
Ragnatele. Antiche residenze vittoriane, meglio se in decadenza. Lunghi abiti damascati, con i tessuti pesanti. Lampade ad olio. Fantasmi, soprattutto fantasmi.
Ci ho preso?
Nell'immaginario comune al gotico corrisponde quel mondo lì, e la cosa più bella di tutte è che l'immaginario comune ha ragione. Devo ammettere che quell'immagine lì è estremamente riduttiva, ma se quell'idea lì, quell'atmosfera lì, vi fanno friggere dall'entusiasmo, la cosa giusta da fare è mollare questo piccolo blog e prendere in mano il grande, gigantesco (ma non per dimensioni) libro di Lewis.
Tanto per chiarire la mia posizione a riguardo: di tutti i sottogeneri che compongono il fantastico, il gotico è tra quelli che preferisco. Sembra che mi appartenga, per atmosfera, morbosità, romanticismo.


Il monaco del titolo risponde al nome di Ambrosio. Il più pio, santo, vicino al Signore monaco di Madrid. Ambrosio in monastero ci è cresciuto: abbandonato in fasce dalla madre è stato accolto e accudito dai frati cappuccini. Tutta la città accorre alle sue ammirevoli prediche, in estasi di fronte alla bellezza, fisica ma soprattutto spirituale, del frate. Alla prima messa facciamo la conoscenza degli altri personaggi che popolano il romanzo: la bella e ingenua Antonia e il giovane Lorenzo, per dirne solo due.

Sarà difficile andare con ordine e cercare anche di non rivelare troppo di una trama che vale davvero la pena di essere spolpata senza rivelazioni. La storia è un gomitolo di racconti, legati dal filo comune della santità perduta, della Chiesa delusa, del peccato.
La Chiesa è la grande protagonista: se la maggior parte della vicenda ha luogo tra i frati, hanno un ruolo fondamentale anche le suore. Fa quasi ridere che in realtà Dio non sia quasi mai nominato. Tutto il clero è ritratto come un corpo unito, all'inizio. L'intero convento è innamorato di quel Sant'Ambrosio, tutti i frati gli sono devoti, incapaci di vedere in lui la minima scintilla di peccato. Rosario, in particolare, la cui compagnia è la prediletta di Ambrosio stesso, pende dalle sue labbra.
Ah, già, ma Rosario è una donna.
Da questo momento, dal punto in cui una certezza così forte viene sradicata, tutta la compattezza dei corpi religiosi finisce lentamente in frantumi. Ma nessun baccano di vetri rotti. Lo sfaldamento è lento e doloroso. Dalla pagina in cui viene rivelata l'identità del giovane frate, niente nel romanzo è più lo stesso. Da lì in avanti ogni pagina sarà un passo in avanti verso l'abisso della perdizione, da lì in poi non c'è ottimismo, non c'è soluzione: perduto Ambrosio, è perduto tutto.
Ambrosio, infatti, l'ha vinta facile fino a quel momento: mai uscito dal convento, mai incontrata una donna se non in chiesa, mai visto il mondo con occhi profani. In un secondo, in una notte rivelatoria, tutta la sua santità è perduta.
Se noi poveri peccatori siamo ormai usi al nostro errare e quindi siamo molto rapidi nel perdonarci e farci perdonare (proprio dagli Ambrosi, peraltro, con la confessione), ecco che lui, inciampato una volta, è andato per sempre. Non esiste recupero, non esiste risalita. È come quando sgarri in un giorno di dieta: 'Va beh, mangio anche le patatine fritte, tanto ormai ho mangiato la pizza.'
E se i frati, rappresentati dal loro superiore, non ne escono bene, dovreste vedere la fine che fanno le suore.

Intorno a questi conventi, ci sono i laici: uomini di mondo, peccatori, innamorati, ingenui, amici fedeli o miserabili criminali. Non ne manca alcuno, nel romanzo.
La storia, quando potrebbe migliorare e ridare speranza, non fa che trascinarsi sempre più a fondo, in ritratti di umani, laici o meno, che vivono in virtù dei loro peccati, dei loro errori imperdonabili. Intorno a loro, i due volti candidi del romanzo, Lorenzo e Antonia, unici ingenui privi di vizi che vivono nel mondo di Lewis.
Ogni pagina, ne Il monaco, è un gradino verso la graduale discesa all'inferno di Ambrosio e di chi stia leggendo la sua storia. Si inizia con un errore e si finisce con un'anima perduta per sempre.
Il tutto in un romanzo che, farcito di perversione e passione, trasuda un fascino incontrato poche altre volte in vita mia. Si passa dal romanticismo, alla morbosità, ai demoni, ai fantasmi, alla violenza, ai segreti. Il tutto senza mai stroppiare, senza mai farsi sentire indigesto, mettendoci a disagio senza passare per una volgare fiera delle vanità al contrario.
È un capolavoro.
Amen.

sabato 11 febbraio 2017

Non solo horror: Qualcuno volò sul nido del cuculo

11:36
Per il trecentesimo post di MRR volevo qualcosa di speciale. Volevo un film importante, potente, con molte cose da dire. Speravo di non uscirne a pezzi, ma mi sono sopravvalutata. Dovevo saperlo, perchè l'ultima volta che ho visto un film di Forman non solo ho pianto per giorni, ma ancora adesso resto scombussolata dalla (bellissima) colonna sonora. Sì, ci piango ancora per Hair. 


Qualcuno volò sul nido del cuculo parla di McMurphy, uno splendido Jack Nicholson che fa il suo ingresso in un istituto psichiatrico. I motivi del suo ricovero sono un po' controversi: forse ha una malattia, forse no, ma va tenuto sotto osservazione. Qui Mac farà la conoscenza degli altri ospiti della struttura e della realtà degli ospedali psichiatrici.

Messa giù in questo modo la trama, sembra si parli di un film denuncia, di un trattato sulla società, di un manifesto. Non che non sia anche tutte queste cose, ma c'è tanto, tantissimo altro. Se ne esce sopraffatti e pieni di riflessioni. Sono due ore che scorrono velocemente ma che toccano l'infinito.
Temo che questo post sarà pericolosamente simile a quello di Freaks, spero perdonerete la ripetitività. Non credo che paragonandoli farei un favore a nessuno dei due, ma in effetti concorderete con me che poche altre volte al cinema la disabilità è stata trattata in un modo così efficace. È troppo facile raccontare la storia del genio malato (quella Teoria del tutto a cui riconosco alcuni meriti ma che nel complesso malsopporto), o dell'uomo che ha aiutato gli inglesi a vincere la guerra (ecco, The imitation game mi è piaciuto già di più, e non solo per Cumberbatch). 
Se vogliamo trattare dei disabili dobbiamo sporcarci le mani, scendere nei meandri delle difficoltà più oscure, per far riconoscere alla nostra coscienza chi siamo e cosa facciamo noi normodotati. Se Freaks era però ad un livello di coscienza dell'altro quasi medievale - non solo i disabili sono diversi, ma sono proprio fenomeni da baraccone, strumenti di spettacolo - qua siamo un passo ben oltre. 
Jack Nicholson è un personaggio che, colmo di genuinità, senza pensarci, senza sforzarsi, fa tutto quello che dovremmo fare noi. Quello che a causa del terrificante buonismo di cui ci rivestiamo non riusciamo a fare, perchè siamo ancora quelli che quando vedono un disabile dicono 'poverino'.
Lui no. Lui i disabili li prende in giro, come si fa con gli umani normali. E infatti cosa succede? Crea rapporti incredibili, viene amato incondizionatamente, diventa punto di riferimento e di forza. 
Se deve insultarne uno, lo insulta. Cinque minuti dopo, però, ci gioca a basket, come farebbe con qualunque altro amico. Sì, anche arrabbiandosi se non giocano bene, come farebbe con un amico normodotato. 
Ci viene talmente naturale riservare trattamenti speciali a persone che magari speciali non ci si sentono affatto. Ma l'equità non è questa. Equità è darti modo di essere uguale a me, per cui se non puoi camminare ti dò tutto quello di cui hai bisogno. Se non puoi comprendere alcune cose ti aiuto a farle tue. Ma per il resto sei come me, e come me hai diritto ad essere trattato.

Forse io parlo bene perchè non ho mai avuto rapporti con persone diversamente abili. Ogni tanto lavoro con una ragazza che soffre della sindrome di Down, ma questo è tutto. Non so come la penserei se avessi contatti più variegati e costanti, ma di certo Forman, come aveva fatto Browning, mi ha dato una gigantesca lezione di vita, mostrandomi l'amore, la lealtà e l'amicizia nella loro forma più elevata, genuina, depurata da ogni malizia. 
E poi mi ha lasciata in pezzi, ma ne è valsa la pena.


(Vi invito a seguire sui social Iacopo Melio, il ragazzo che era diventato noto per aver sollevato i problemi del trasporto ferroviario italiano per i disabili. Alcuni lo accusano di essere un po' saveriotommasiano, e non posso dirmi contraria, ma se si parla di disabilità il suo sguardo è molto importante per confermare nuovamente il messaggio del Cuculo. Non sia mai che ce ne dimentichiamo.)

lunedì 6 febbraio 2017

Alien

18:35
In questo periodo che per me è stato di grandi recuperi, Alien pendeva sulla mia testa, la lacuna che mi causava più imbarazzo in assoluto. A volte molto semplicemente non mi sento all'altezza del Cinema quello grande con la maiuscola e quindi rimando. Solo che quest anno è morto John Hurt, che sebbene nel mio cuore sarà per sempre lo splendido Olivander, ho deciso di omaggiare nel mio piccolissimo lanciandomi nella visione di una delle mie più grandi soggezioni.

Inspiegabilmente manca il gatto

Protagonista di Alien è l'equipaggio del Nostromo, un'astronave di ritorno sulla Terra. Gli uomini e le donne presenti sulla nave vengono svegliati dall'ibernazione da un segnale di emergenza a cui sarebbe stato molto, molto meglio se non avessero risposto.

Inevitabili anticipazioni 

Vediamo di partire come al solito da me. Ne ho parlato spesso, ho visto molti più film recenti che anzianotti e i miei occhi sono viziatissimi. Poi capita spessissimo che il Cinema mi castighi, come in questo caso, ma ogni volta parto convinta di dovermi adattare ad effetti vecchiotti e immagini datate. Non è che questo sia sinonimo di minore qualità, ma so che siete troppo intelligenti perchè io stia qui a specificarvelo.
Alien è un film del '79, i miei sensi erano preparati a dover fare il doppio del lavoro. Risultato? Pare girato ieri. Un invecchiamento degno di Audrey, elegantissimo e quasi incredibile. Un esempio tanto ovvio quanto efficace: io poche volte distolgo lo sguardo dallo schermo. Non è mica un vanto, solo che è così, gli occhi si abituano a tutto. L'ultima volta in cui una scena mi è stata davvero insostenibile stavo guardando Martyrs, scena degli spuntoni in testa alla prigioniera, incubi eterni. Non lo faccio con film recenti, dagli effettacci pazzeschi fatti al pc che non lasciano spazio all'immaginazione, ma non sono riuscita a guardare la scena della morte di Hurt. Certo, poi si va sul Movie Database, si cercano i trivia che sono sempre una goduria da leggere, si spiega tutto, si crede di essere a posto. Poi riguardo il film: non la so ancora guardare. Ma la cosa DAVVERO incredibile è che io sono già provata quando arrivo lì, perchè prima il sempre povero John Hurt ha sulla faccia un coso repellente. Ad un certo punto Ash cerca di sollevare un tentacolo dele facehugger, e la pelle si solleva insieme. Non si strappa, non c'è ancora sangue, si intuisce e si dice solo cosa potrebbe succedere.
Oh, è bastato un niente, e io cappottata dall'impressione.

Avevo una paura incredibile di annoiarmi, perchè questo è quello che mi fa la fantascienza. Ci provo con un'intensità che lo so solo io, e non mi perderò il Dune di Villeneuve neanche a morire, ma mi annoio. Le astronavi già mi mettono a disagio perchè non so mai come chiamarle e la parola astronave mi fa ridere e pensare a cose poco serie, non riesco a darle pathos. È indubbiamente un demerito mio, eh, ma è così. Ci sto lavorando. Alien è tutto in un'astronave, in un'intricatissima e labirintica astronave, e la cosa non mi è pesata per un istante. Perchè ero persa insieme a loro, disperata insieme a loro, mi è mancata l'aria insieme a loro. Li ho visti cadere come i dieci piccoli indiani, perdendo fiducia l'uno nell'altro con una velocità spaventosa, incapaci di capire se e come ci fosse possibilità di salvezza, e me la sono fatta sotto insieme a loro. Perchè aldilà della classificazione di genere, che sia fantascienza o horror o fantahorror o horrorscienza (??), la cosa fondamentale è che il senso di sconfitta assoluta con cui mi sono ritrovata a visione finita non me l'ha dato nessun altro film, non così. Ripley da sola con Mr Jones sulla scialuppa a registrare il messaggio è uno dei finali più intensi a cui abbia mai assistito.
Se volete un'analisi approfondita delle implicazioni e dei mille piani in cui si può studiare un Capolavoro come questo ci possiamo anche provare, ma come al solito non è questa la sede. Qua restiamo sul basilare, su un concetto di Cinema che può essere straordinaria opera d'arte restando anche intrattenimento purissimo, capace di colpire anche lo spettatore meno analitico (spoiler: io) per incollarlo al divano terrorizzato. Due ore che scorrono come due minuti, intense a livello di tensione e di emozione. Perchè la solita cosa che le persone si dimenticano di dire quando parlano dell'horror è che spesso e volentieri offre spunti di riflessione sull'umanità profondissimi, e lo schiaffo di Lambert a Ripley (due personaggi femminili stupendi) ne è la più forte dimostrazione. Indimenticabile.

E, alla fine di tutto, Alien dà una lezione fondamentale: l'importante è salvare il gatto.



Per una recensione ben più approfondita della mia, QUA c'è quella di Exxagon.

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