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domenica 3 gennaio 2021

Parliamo di Sanpa

18:45

 Sono reduce da un chiusone sulla nuova chiacchieratissima docuserie su Netflix, e figuriamoci se non potevo avere così tante opinioni da scriverci un post sul bloggetto. 

E infatti eccolo qua.

La docuserie, uscita solo pochi giorni fa, dura 5 episodi e attraverso una serie di interviste vuole riaccendere i fari sulla questione San Patrignano, la più famosa comunità per tossicodipendenti italiana.




AMMESSO ABBIA SENSO FARNE UNO IN CASI DI DOCUMENTARI, SPOILER ALERT


Una consueta ma necessaria premessa: le mie sono le opinioni di una persona nata nel 1990, che ai tempi d'oro e degli scandali della comunità era o ancora insieme agli angioletti in cielo o troppo piccola per capirli, e che ha anche l'enorme privilegio di non avere mai avuto contatti diretti con il mondo della tossicodipendenza ma solo con altre dipendenze. Questo fa sì che io abbia un approccio quanto più possibile neutrale: non conosco le persone coinvolte e non ho alcun ricordo personale del periodo, quindi tutto quello che so l'ho appreso dalla serie. 

Tanto per dire due parole sulla serie in sé, ché tanto poi lo so che finirò a parlare di tutt'altro come mio solito, a me è molto piaciuta. Trovo che abbia fatto la saggia scelta di intervistare ogni parte in causa, tra quelle disposte a dire qualcosa, anche quelle meno piacevoli. Anche quelle che si auto umiliano ogni volta che aprono bocca (un caro saluto a Red Ronnie che ci segue da casa), anche quelle che obiettive non lo potranno essere mai, anche quelle scomode. Si fanno parlare tutti, e si ha la ancor più saggia accortezza di dire quali persone, invece, hanno preferito non parlare. Il classico stampo americaneggiante senza narratore ma solo con interviste e immagini di repertorio mi piace, è un formato che guardo sempre volentieri e che mi coinvolge. 


Si parla, tanto per dare un minimo di contesto a chi non abbia aperto internet in questi giorni, della comunità del riminese, della sua fondazione nel 1978, della sua crescita e soprattutto del suo fondatore, Vincenzo Muccioli.  La comunità nasce per ovviare ad un gigantesco problema sociale che negli anni '70 piegava il paese: i giovani si drogavano e nessuno li aiutava. Viene sottolineata da ogni parte in causa la totale assenza dello Stato, il deliberato ignorare l'immensità di un problema che stava sotto gli occhi di tutti. Sanpa nasce per coprire questo buco. Il suo fondatore, Muccioli, mette l'azienda agricola e gli allevamenti di famiglia a disposizione del sociale, chiudendosi completamente proprio a quella società. Chi entra a Sanpa ci resta, e se non ci vuole restare viene fatto restare. Questo solo all'inizio del primo episodio. 

La prima parte della serie si concentra, quindi, sulla droga e i drogati. Spesso chiamati (con la scusa del "Così erano visti dalla società") feccia, ai tossicodipendenti viene riservato un trattamento che visto oggi è raccapricciante. Non persone ma malattie, curate a forza di sberloni (ma dati con l'amore di un papà, s'intende), legate in luride cantine e trattate con un'infida superiorità mascherata da compassione. I poveri drogati, di cui nessuno si occupava, vengono chiamati da Muccioli figli, vengono ripescati se tentano di andarsene, vengono guardati con quel canonico sguardo che si rivolge al diverso. 

Quando poi i primi scandali iniziano ad emergere, la catena di orrori che la serie pian piano sviscera è una discesa verso l'inferno. E non intendo necessariamente le cose accadute all'interno della comunità, o comunque non solo quelle. A urtare è soprattutto l'opinione pubblica, il ruolo della stampa, la cieca ottusità di chi non vuole vedere. L'uomo tanto bravo ad irretire i più deboli con le parole si sentiva legittimato a fare quello che più gli aggradava delle vite dei giovani che ospitava anche perché (o forse proprio perché) erano le loro famiglie a chiederlo. Sono innumerevoli le interviste a genitori disperati che lasciano di proposito che ai loro figli venga fatto di tutto purché escano dalla dipendenza, e sta qua il primo step dell'orrore. Sfruttare persone nel pieno della sofferenza, della disperazione, ed estorcere loro interviste volte a proteggere l'immagine di un supposto santone (con tanto di esoterismo e imposizione delle mani, ignoreremo questo particolare) è becero e in cattiva fede. Chiedere a genitori che spesso non hanno le competenze necessarie, ma soprattutto a volte non hanno la lucidità di pensiero necessaria, se sarebbero disposti a vedere il loro figlio segregato piuttosto che morto è una delle più grandi bassezze di cui l'umanità è capace. Prendere a piene mani la disperazione altrui per sentirsi legittimati ad abusare del proprio potere è squallido, infame, vigliacco. 

E quindi via, il primo scandalo va sotto il tappeto. L'immagine di Muccioli è sana e salva, una piccola promessina al giudice di non farlo mai mai più e Sanpa non si scalfisce nemmeno. L'importante sono i numeri, i numeri dei ragazzi salvati, dei giovani figli di Muccioli che escono dalle catene (quelle sì, signora mia, che sono catene che fanno male) dell'eroina ed ecco un bel sorriso tornare sulle labbra dell'opinione pubblica.


Già questa prima metà della serie mi aveva fatto inveire contro la televisione, vi dirò. Non era nulla rispetto a quello che sarebbe arrivato dopo, ma già io mi stavo scaldando. Il ritratto di Muccioli che ne emerge è quello di un uomo così concentrato su se stesso che anche durante il funerale di uno stretto collaboratore morto di AIDS all'inizio dell'epidemia pronuncia solo le parole io, io, io. Sembra davvero avere quel classico autoamore che hanno spesso le persone così annebbiate da se stesse che si convincono di fare del bene quando invece quello che stanno facendo è solo lucidare la propria immagine allo specchio. Non fraintendetemi, io sono certa che tantissime persone siano uscite da Sanpa con la vita rivoluzionata e, soprattutto, salvata, penso solo che a Muccioli la sola persona che importasse fosse se stesso. 


Dalla seconda metà, però, ci si dimentica della droga, perché tutto quello che gira intorno a Sanpa diventa un immenso circo, e ci si scorda perché si è lì. Iniziano a girare tanti, tantissimi soldi, gentilmente offerti dalla benvoluta famiglia Moratti, si comincia a parlare di violenza, giri illeciti di denaro e animali e, naturalmente, morti. San Patrignano cresce, e cresce, e cresce, fino a diventare una cittadina autonoma. Si esce? Ma chiaro che no, e se ti azzardi a prendere un caffè al bar sono vessazioni e umiliazioni. A che serve uscire? Fuori c'è il male tentatore, e dentro hai tutto quello che ti serve. Ricorda Ballard? Ricorda Ballard. 

Osi lamentarti del cibo? Non puoi, perché come viene chiaramente detto dal nostro Muccioli è che non puoi chiedere vengano esercitati diritti perché, e cito, "Ma quali diritti?" 

Da storia di tossicodipendenze diventa la più miserabile storia di potere e del suo costante e crescente abuso. Il capo che gira in Jeep per il suo territorio per controllare che sia tutto ok, salvo poi dichiararsi estraneo ad ogni fatto quando questo sia di natura criminale, regole ai limiti del paradossale, caratteristiche sempre inquietantemente più simili a quelle di una setta che a quelle di una comunità di recupero. Persone e personalità completamente annullate in virtù di un supposto bene superiore che qualcuno si permette di decidere per te, traumi costanti.

E infine, il degenero. La comunità diventa talmente grande che Muccioli non può più controllarla interamente da solo e inizia a delegare, ma basta studiare un minimo la storia per sapere che quando quello che deleghi è potere assoluto e incontrollato non fai che moltiplicarne la pericolosità, soprattutto quando è ai danni di persone che non hanno la benché minima possibilità di reagire. Intendo proprio sbarre alla finestre, gente ammanettata al letto e documenti sequestrati. Si arriva a nascondere alle persone informazioni fondamentali sul proprio stato di salute, un fatto di eccezionale gravità di per sé, con l'assurda aggravante di accadere nel bel mezzo di un'epidemia che negli anni '80 uccideva una persona alla volta una generazione intera. La parte sull'AIDS è raccapricciante. Ecco che allora le donne iniziano a venire stuprate (non parlerò di quello che dice Muccioli a riguardo, è così dannoso che ho quasi il sospetto che io lo avrei tagliato dal documentario, anche se aiuta a delineare l'immagine dell'uomo), le persone sono ancora più spesso malmenate, tutta la posta viene controllata (come in guerra, per intenderci), e finisce nell'unico modo possibile: ci scappano i morti. 

Due suicidi (o supposti tali? lo pensiamo tutti, dai), e un omicidio vero e proprio. Non un omicidio commesso tra gli utenti della comunità, ma ai danni di uno degli utenti commesso da uno dei responsabili. Dice Red Ronnie, miserabile rimasuglio di umano, che un solo omicidio in 30 anni di vita di una cittadina non sorprende in negativo, ma in positivo, perché è un miracolo!!!

Ma San Patrignano non è una cittadina. Non è semplicemente un paese, dovrebbe essere un centro di solidarietà, di supporto a persone in difficoltà, e proprio in un centro del genere è assolutamente imperdonabile e inqualificabile che il potere sia dato in mano a persone che lo esercitano abusando di una violenza ingiustificata e ingiustificabile, dove le botte e i soprusi erano all'ordine del giorno e dove nessuno faceva nulla per interromperli. I giovani non solo entravano a Sanpa nel momento peggiore delle loro vite, in cerca di un disperato aiuto, ma dovevano anche subire le piccolezze di piccoli uomini che si sentivano così tanto grandi. Nessuno, tanto per capirci bene, ha mai pagato nulla. 


Parlano nel documentario persone che ancora oggi amano profondamente la sua immagine, primo tra tutti il figlio, e persone che con il tempo hanno trovato il modo e la forza di allontanarsi da una persona che a tutti gli effetti erano arrivati a percepire come pericolosa. Oggi Muccioli è morto, quello che resta è la rabbia di chi non ha mai avuto né la verità né, figuriamoci, giustizia. Dall'altro lato, chi non ha mai voluto vedere continua a difendere posizioni indifendibili, mostrando anche a distanza di anni zero empatia e zero rispetto per il prossimo. 
Il documentario si chiude in modo molto infelice, con un chiusone che non fa altro che definire ulteriormente i personaggi ritratti. Muccioli muore di un male misterioso, in brevissimo tempo, e a nessuno viene detto di cosa si tratti. Girano voci, però, come girano ovunque, e sembra davvero che anche lui avesse contratto il virus dell'HIV. Non sorprende, ad un certo punto nella comunità erano positivi due terzi degli ospiti. Insieme a questa voce, però, gira anche quella della presunta omosessualità di Muccioli, e di una presunta relazione con quel collaboratore morto di AIDS che vi dicevo qualche paragrafo più su. Forse la sola persona legittimata ad avere qualcosa da dire a riguardo sarebbe stata la moglie, unica persona a cui poteva importare della sessualità del marito, che però è mancata lo scorso anno. Invece l'opinione che sentiamo è quella, di nuovo, di Red Ronnie, che grossomodo dice che avendo finito le cose da criticare a Muccioli, i suoi detrattori adesso si siano inventati che era fr*cio. (La parola l'ho censuata io perché non è accettabile, figuriamoci se Red Ronnie si poteva fare sto riguardo.)


L'argomentazione di coloro che Muccioli lo hanno sostenuto è una sola, per tutte e 5 le puntate: ha aiutato tante persone.

E a me, oggi, il fine che giustifica i mezzi non solo non basta, ma non va più giù. Nemmeno se il fine da ottenere è la lotta alla droga. 

Meno male che per un po' si è visto Pannella, va là, che nella prima puntata si vede Montanelli e credevo che avrei vomitato.

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