In tutto questo parlare di quanto il cinema degli anni '40 è stato un fratm ingiustamente scordato, non abbiamo ancora detto una cosa: è stato cinema femminile.
Direte voi, ah, una volta che comandano le donne poi opportunamente lo nascondiamo sotto il tappeto? Eh.
Le donne, che già negli anni '30 avevano un bello spazio - seppur cancellato dalle cronache - dietro le quinte, nel decennio successivo diventano le protagoniste. Lo abbiamo visto anche a gennaio parlando di noir: con la guerra, le donne rimaste a casa hanno ricoperto ruoli convenzionalmente attribuiti agli uomini, e si sono prese uno spazio mai avuto in precedenza.
Non solo, però. La vera ondata rivoluzionaria del decennio sta nel rendere l'uomo bianco il solo vero cattivo. Non ci sono più uomini travestiti da fantasmi, come abbiamo visto in passato, o elementi sovrannaturali: il mostro, qui, è il patriarcato. Per il ritorno del fantastico dovremo aspettare la Hammer, per ora si torna sul concreto e il concreto è che gli uomini possono essere mostri ben più spaventosi.
Qual'è, quindi, per una donna degli anni '40, l'orrore vero? Un vampiro? No, con loro possiamo anche giocarci a bridge. A farci paura era il ritorno degli uomini dalla guerra, e la possibilità di tornare confinate ad un ruolo domestico da cui ci stavamo liberando.
Ne nasce quindi il filone dei film sulle paranoid women, in cui il mostruoso nasce dal marito che lentamente ti conduce alla pazzia. E siccome col pochissimo tempo che ho quest'estate mi posso concedere solo una visione, quale scegliere, quindi, se non il vero capostipite del sottogenere?
Siamo nel 1944 e, diretto da George Cukor, esce Gaslight.
Prima di tutto, cosa significa gaslight? Lampada a gas, perfetto. Con gli anni, però, il termine ha acquisito anche un significato parallelo, che pare derivi proprio dal film che vediamo oggi, in cui una lampada a gas manda quasi all'esaurimento la nostra protagonista. Oggi parlando di gaslighting intendiamo una manipolazione psicologica, una violenza a tutti gli effetti che crea nella persona che la subisce una alterata percezione della realtà. La più viscida delle forme dei controllo che gli uomini spesso impongono sulle loro compagne. In realtà poi il gaslighting è ovunque: sul posto di lavoro, tra gli amici, in famiglia...
Alle donne viene fatto credere di essere pazze, di non avere comprensione reale del mondo che le circonda, di non essere all'altezza di leggere correttamente la realtà. E questo film ritrae queste dinamiche magnificamente.
La nostra protagonista è Paula, una ovviamente eccellente Ingrid Bergman. Sposa un insetto repellente, un miserabile, che per arrivare ad avere le proprietà di lei la riduce all'ombra di se stessa. Fine, fine della trama.
Eppure, nella semplicità della struttura narrativa, c'è un universo intero, ed è meglio dirlo subito: è un universo difficile da scoprire. Guardare il lento annullamento di Paula non è semplice, non è una fruizione da consigliarsi alla leggera. Per me, a livello di appesantimento emotivo, non ha nulla da invidiare all'altro straordinario film sulla violenza domestica, The Invisible Man del 2020, perché purtroppo non ha subito la crudeltà del tempo.
Non c'è niente di invecchiato, in Gaslight. Non c'è nulla che una donna vittima di violenza non riconosca. Non c'è niente di passato.
Che un film del genere esista, e sia del '44 (peggio, remake di uno, altrettanto bello, del '40 e adattamento di un'opera teatrale ancora precedente), è un incubo. Che sia così attuale fa accapponare la pelle.
Però è indubbio che si tratti di un film che rasenta la perfezione, e che siamo grate esista.
Fa alcune scelte molto intelligenti.
La prima, per esempio, è di collocare la vicenda nella classe alta della popolazione. Si è soliti, ancora un po' oggi, associare la violenza ai "piani bassi". Si cerca di segregare le cose brutte alle classi inferiori, e sebbene stiamo lavorando sodo per far cambiare questa percezione, c'è ancora molto da fare. Decenni fa questo film ha per protagonista una giovane molto ricca. Siamo dalle parti della ricchezza aristocratica, dei balli di gala, dell'opera, degli abiti straordinari e della società per bene. E, chiusi dentro le porte di casa, la violenza è la medesima. Questa è una cosa che mi piace sempre vedere, ma che porta con sé un lato negativo. Gregory, alla fine, è un ladro impazzito, che ha puntato Paula per il suo denaro. Ci si sofferma sulla sua bramosia di denaro, specialmente sul finale, più che sul semplice desiderio di annientamento della moglie. Ma il modo in cui Gregory lavora sul cervello della moglie, giorno dopo giorno come una goccia d'acqua che distrugge le rocce, è ritratto in maniera così raffinata e realistica che il difetto del finale si supera senza problemi.
Altro elemento di grande interesse è per me la scelta di Bergman. Scegliere un volto così prepotentemente famoso mette interamente il focus sulla vittima. Di nuovo, come fa il film del 2020, in cui addirittura il persecutore è invisibile, e a restarci da guardare c'è solo Elizabeth Moss. In un mondo in cui, ancora oggi, si fa un gran parlare degli uomini che generano violenza e non delle donne che la subiscono, un film così è fondamentale, perché quando poi l'uomo se ne va in galera resta solo lei a dover lavorare su quello che le è successo.
Di nuovo, siamo pur sempre nel '44 ed è fondamentale che per liberare la donna dalla situazione serva l'intervento dell'Uomo Buono, ma è pur vero che questo film, paro paro al suo predecessore, si concede un momento finale in cui è Paula a stare da sola con il suo aguzzino. E lui, verme strisciante che non è altro, ci riprova a farle credere di essere completamente scollegata dalla realtà, però quella col coltello in mano è lei.
E ovviamente sarebbe stato un film un milione di volte più bello se con quel coltello lei gli avesse tagliato la giugulare, ma siamo nei raffinatissimi '40 e va bene così.
E del resto capisco anche che la responsabilità di sporcare la Bergman non se la siano presa, che quel miserabile non è meritevole neppure di scompigliarle i capelli.
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