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martedì 4 ottobre 2016

#CiaoNetflix: Amanda Knox

15:40
La nostra splendida Costituzione dice (all'articolo 27) che si è considerati innocenti fino a condanna definitiva.
La nostra (a volte) miserabile popolazione dice che se compari in tv associato ad un omicidio, allora sei colpevole. E se ti assolvono è colpa della giustizia e dei poteri forti e delle scie chimiche.
Amanda Knox, per la quale nessuno di voi necessiterà di alcuna introduzione, mi è sempre stata di un'antipatia allucinante. E sì, anche io a volte sono scaduta nella trappola del 'È stata sicuramente lei'. Ma quanto mi ha affascinato il suo essere eletta super paladina delle vittime del sistema negli Stati Uniti! Arriva il documentario su Netflix, mi ci fiondo perché i documentari di Netflix > tutto il resto.


L'inizio è folgorante. La Knox, su sfondo grigio dice questa cosa che trovo pazzesca, e ve la riassumo: se sono colpevole faccio paura, perché non vi aspettereste che una così sia un'omicida, se sono innocente significa che tutti siamo vulnerabili. Quindi o sono una psicopatica o una di voi.
Qualunque sia la sua posizione, ha ragione da vendere perdio.

Prima di entrare nel merito del caso specifico, però, diciamo la solita cosa: Netflix ha una cura nel realizzare documentari che è impareggiabile. Sono quasi tutti medio-brevi (si parla di un'ora, massimo un'ora e mezza ciascuno), intensi, curati, appassionanti. Solo per questo varrebbe la pena di fare l'abbonamento. Le immagini sono quasi cinematografiche, e i toni non sono mai melò nè pedagogici. Splendidi e basta.

Torniamo al caso Kercher.
Il doc si propone semplicemente di raccontarlo, dall'inizio alla fine. Con chiarezza e completezza hanno preso tutta la vicenda e l'hanno completamente vivisezionata sotto i nostri occhi, partendo dalla tesi che ha dato a lungo Knox e Sollecito come colpevoli, arrivando alla sentenza di assoluzione definitiva, e spiegandocene le motivazioni. Come al solito non si prendono parti, si ascoltano le persone coinvolte, si leggono i giornali, si ascoltano i notiziari, si analizzano i documenti ufficiali. E la conclusione è che sì, a dispetto dell'opinione pubblica pare proprio che i due siano innocenti. La storia finisce così.

Quello che è successo nel frattempo, però, è che due vite ne sono comunque uscite rovinate (non parleremo di Meredith perché anche il documentario in questo è molto elegante e non si sofferma su qualcuno che non può dire la sua): i giornali di tutto il mondo hanno perlustrato vite private anche in quegli ambiti che ci piace tenere chiusi a chiave, il bigottismo universale si è palesato in tutta la sua gloria, rovinando l'immagine di una donna la cui sola colpa è stata, pensate un po', fare tanto sesso con tante persone.
E allora brutta Amanda, non sei seria, sei una zoccola (ma anche cagna ci piace tanto dirlo, vero?), devi per forza essere stata tu con quella mente da piccola pervertita che voleva fare il sesso strano e la povera Meredith non voleva e allora l'hai ammazzata. Trovato il nomignolo, l'umiliazione era ormai pronta e calda da essere servita. (Ma ci pensate se tutto il mondo vi chiamasse con il nick che vi eravate messi su social preistorici? Fuori allora i vostri nomi su Netlog, Myspace, 2.0, MSN, chè secondo me rideremmo tutti un po')

L'Italia non ne esce benissimo, va detto. Ci sono certe scene di perculo che mi hanno ferita, perché questo Paese lo amo tanto anche se a volte lo picchierei selvaggiamente. Credo che, alla luce di come si sono conclusi gli eventi, Giuliano Mignini (pubblico ministero colpevole di aver accusato la coppia) abbia fatto una bella figura a comparire nel documentario. È un uomo che ha sbagliato, e il cui errore ha causato sofferenza, ma che piuttosto che nascondersi e difendersi ha preferito comparire e dire le sue ragioni, con calma e consapevolezza.

Un tremendo lato dell'umanità si palesa, in Amanda Knox: i malefici media, rappresentati dalla ripugnante personalità di Nick Pisa. Questo, per tutto il tempo, parlando di una tragedia in cui, ricordiamolo, un essere umano ha perso la vita e altri due hanno fatto anni di carcere da innocenti, RIDEVA. Lo stavano intervistando su un caso storico di cronaca, su una pagina poco gradevole di storia, e questo sghignazzava, perché 'siamo fatti così', perché 'vedere il tuo articolo in prima pagina è bello quanto il sesso', perché 'è così che funziona il mondo delle notizie'. Ovviamente, non mi metterò a fare la stessa cosa che Pisa stesso ha fatto, ovvero la pubblica gogna. Il web ci sta già pensando da sè. Lui è parte di un sistema più grande, per cui se lui ha bisogno di questo per sopravvivere come giornalista (e se quindi la testata ha bisogno di lui) è perché noi, miserabili, di queste cose ci campiamo. Perchè siamo curiosi fino alla nausea, perché crediamo di avere il diritto di sapere, perché ne siamo lontani, e allora siamo dispiaciuti ma non ci fa male. E mi ci metto anche io, che mi sono guardata il documentario a pochi giorni dall'uscita, perché ne ero affascinata.

In ogni caso, fossi in voi lo guarderei comunque. Se non altro per imparare che ogni caso di cronaca con così tanta risonanza non è mai solo quello che sembra.

mercoledì 25 maggio 2016

#CiaoNetflix: Into the wild

19:12
Solita intro infarcita di fattacci miei, perdonatemela.
Un mesetto fa sono stata a Praga. Era il mio Sogno da Visitare Numero 2, la aspettavo da tempo, e prevedibilmente quando sono tornata non sono stata la stessa per un po'.
Mi è presa una frenesia senza precedenti, una voglia di mollare tutto e andare, perché se tutto il mondo è così bello io non posso stare qui sul divano a sentirlo respirare a distanza. L'amore per i viaggi l'ho sempre avuto (ostacolato da un'insormontabile paura di volare), ma da un mese a questa parte lo sento incontenibile.
Mi sembrava un buon momento per guardare Into the wild.

Sbagliato, non è mai un buon momento per Into the wild, perché Into the wild è un film del cavolo che mi ha fatto perdere più di due ore in cui avrei potuto dormire, per raccontarmi di un povero deficiente. Prima di offendervi perché sto per insultare il vostro personaggio del cuore suppersuppercult, per favore, finite di leggere e poi proseguite con il defollow.
Mi calmo e andiamo con ordine.

Ho deciso insindacabilmente che Christopher fosse un deficiente al minuto 55.
(Chiarimento per evitare discussioni: parlo del protagonista del film. Non ho sufficiente conoscenza della VERA storia del VERO Christopher per poterne parlare.)
Chris, il grande sognatore pieno di ideali, vede un kayak e decide che adesso vuole andare col kayak, lui che fino a una settimanina prima aveva paura dell'acqua. Va a chiedere informazioni, gli dicono in soldoni che non può navigare sul fiume e lui chiaramente piglia il due e lo fa a fare.
Il grande ribelle si lancia nel fiume nonostante il funzionario (che è OVVIAMENTE un fannullone che sul lavoro telefona per i cazzi suoi, non sono tutti così? brutti cattivi corrotti fannulloni capitalisti) gli abbia detto di no. Stato malvagio che blocchi la libertà individuale e non ci fai andare sui fiumi. Stronzo. E io allora ci vado lo stesso.
Capito la ribellione? Capito lo spirito libero? Capito come ci si gode la vita vera?


Oh, Christopher. Siediti, parliamo un po'.
Io un po' ti capisco. Ogni tanto ho sentito, e sento ancora, il bisogno di scappare via. Di non dover aver a che fare con nessuno, di prendere un paio di libri e di rifugiarmi in una spiaggia, da sola, con solo il mare a farmi compagnia. Ogni tanto lo sento il peso di questa vita che ci viene imposta, di questi modelli tradizionali a cui dobbiamo guardare per prenderne ispirazione: scuola, poi lavoro, il posto fisso, e poi trovare la persona giusta, prima sposarsi, poi vivere insieme, poi fare almeno due bambini e vivere felici fino alla vecchiaia.
Ma sai, cosa, Chris? Mica lo sento solo io.
Ce li hanno tutti, questi desideri di fuga, ogni tanto. E magari qualcuno (non io, almeno per ora) lo fa pure, per un po'. Erasmus, anni sabbatici, ferie prolungate, viaggi avventurosi...
Qualcuno, quindi, guardando il film sulla tua gloriosa avventura in giro per l'America, potrebbe pensare a che eroe tu sia, a quale coraggio tu abbia avuto, a quale vita straordinaria tu abbia vissuto, scuoiando alci e rubando passaggi.
A me, invece, sei stato in culo. Avevi una vita che non piaceva, come ce l'hanno chissà quanti altri poveri cristi al mondo e hai deciso che la cosa migliore da fare fosse mollare tutto ed andare. Comodo, eh, gigione?
Ma sono le persone come te a far sì che quel sistema lì, quello che tu odi così profondamente, non cambi mai. Se ti fa così schifo il mondo in cui vivi, se ti annienta il pensiero di quella mediocre borghesia a cui la tua famiglia ti ha costretto, sai cosa potevi fare? Potevi cambiare strada. Se i tuoi genitori non ti hanno cresciuto nel modo in cui avresti voluto, sai quale sarebbe stato il riscatto più grande? Diventare il genitore che loro non sono stati per te.
Se la società non ti piace agisci nel tuo piccolo per cambiarla. Io odio l'evasione fiscale, mi fa salire i cinque minuti, e quindi nel bar in cui lavoro batto gli scontrini per ogni singolo caffè. Non ne salto uno. E se nei locali non me lo fanno, lo chiedo. Non sono mica un eroe, faccio la mia piccola normalissima parte. Perché la società siamo noi cittadini, e, perdonami la banalità che sto per dire, se facessimo tutti come te? Se mollassimo il mondo civile per il sogno della libertà assoluta che hai inseguito tu, chi resterebbe a mettere la benzina nelle auto a cui tu per primo hai chiesto l'autostop? Chi guiderebbe quel treno che tu stesso hai usato per farti dare un passaggio clandestino?
E allora, mio amato idiota, lo vedi che la civiltà ti serve? Perché a tutti, me per prima, ogni tanto piacerebbe dichiararsi totalmente indipendenti da quei meccanismi che tanto a volte ci fanno infuriare. Ma non lo siamo. Le persone stanno intorno a noi per un motivo, chissà se te lo sei ricordato mentre correvi con i cavalli e per questo ti sentivi tanto tanto cool. Non sei un cavallo, Chris, non credo sia necessario che te lo ricordi io gioia santa. E alla sera, quando ti chiuderai nel tuo furgone da solo, dopo una splendida giornata a spellare alci e sparare agli scoiattoli, non avrai nessuno con cui condividerla, questa libertà. Non vorrai un cavallo accanto a te, vorrai una persona. E non parlo necessariamente di un amore. Sarai lì, in una tenda, senza un volto amico, senza l'abbraccio di tua sorella, senza il sorriso di tua madre, perché la TUA libertà era più importante di tutto il resto.
Perché chissà se ti è mai passato per la testa, maledetto egoriferito, che a casa qualcuno soffriva per te. Chissà se dietro ai quei profondissimi ed intensissimi monologhi che Penn ha fatto dire a tua sorella, o a te, usati come sottofondo per quelle bellissime immagini che avete usato, c'è anche della sostanza, dietro alle belle parole. Chissà quanto hai sofferto TU, quando, alla fine, hai realizzato quella banalissima verità sulla felicità condivisa. Quanto ho detestato la tua presa di coscienza finale. Pensa, vogliamo tutti qualcuno accanto quando stiamo male. E quando sono gli altri, a soffrire?


Pensavo che ti avrei preso a schiaffoni, Christopher, ma forse quelle lacrime versate sul finale sono state una punizione sufficiente.

mercoledì 9 marzo 2016

#CiaoNetflix: The Grudge

16:20
Questo paradisiaco servizio un difetto doveva avercelo. Lo amo a sufficienza da lasciar correre, ovviamente, ma il suo catalogo horror per il momento fa piangere.
Siamo intorno alla trentina di titoli, tutti grossomodo famosi, Saw, Silent Hill, The Ring. . .il filone per ora è quello.
Si trovano anche cosine più intriganti, eh, c'è quella preziosa valle di lacrime che risponde al nome di The Orphanage, ci sta Existenz, e pure Sharknado. Ma siamo lontani dalla sufficienza per ora. SO che col tempo cresceremo insieme, io e Netflix-.

Per dimenticare le faccette della Judith di cui parlavamo ieri mi sono messa a rivedere un horror uscito nei miei anni del liceo, pieno periodo in cui ogni titolo era remake di qualcosa altrimenti non lo facevano uscire.
The Grudge forse è uno dei più famosi, uno di quelli che hanno visto anche i sassi.

Se voi non apparteneste alla specie minerale, mi tocca raccontarvi che è la storia di Sarah Michelle Gellar e Max di Roswell, Lei è un'assistente sociale, grossomodo, va a fare una visita a domicilio ad un'anziana. In casa ci stanno i fantasmi.
Tutto chiaro?
So che è complesso, ma fate uno sforzo.


No, dai che scherzo, non c'è niente di meno complesso di The Grudge.
In un altro momento lo avrei liquidato come FDC, ma in realtà non è riuscito a farmi antipatia.
Ci prova a ricalcare i suoi amici orientali, ma a parte parecchi occhi a mandorla, un paio di fantasmi che più classico di così c'è solo il lenzuolino con i buchi, di jappo ci riesce proprio pochino. Non che io mi consideri un'intenditrice, sia chiaro.
Ma qui è tutto troppo patinato e sbrigativo per riuscire a suscitare anche solo un po' di inquietudine, ci prova lui, povero, ma non gli riesce.
Secondo me è anche colpa del cast di canidi, che sembra spaventato tanto quanto il mio gatto quando parte la centrifuga della lavatrice. Stesso livello di timore, un saltino leggero e fine, livello di consolazione necessaria: rumore della scatola dei croccantini.
Quando le persone parlano dei cliché degli horror tendo ad innervosirmi, ma se ne volete un breve compendio, vi è servito su di un piatto d'argento, tiè, prodotto da Raimi. Il pacchetto comprende anche lo spaventino finale che tanto ci aggrada.

E no, stavolta non mi sono emozionata, nemmeno con la triste sorte dell'amore non ricambiato, non c'è stato verso di prendermi in alcun modo.


Ribadisco, voglio un po' di bene a tutta la faccenda, al periodo a cui è legata, alle colline che hanno ancora gli occhi, ai fantasmi giappo che però sono americani, alle telefonate che ti diagnosticano i tuoi ultimi 7 giorni e al fatto che fossero praticamente tutti dei filmacci tremendi ma che in fondo gli volessimo un po' di bene, perché vederli ci faceva sentire delle femmine toste.
A quell'età, certo.
Anche perché rivisto oggi The Grudge ci regala uno dei peggiori personaggi femminili che si ricordino, in confronto a questa Gellar siamo tutte delle Sigourney Weaver.

domenica 28 febbraio 2016

#CiaoNetflix: Miss Violence

16:05
Ieri sera ho guardato l'ultimo episodio di Love, sulla nostra piattaforma streaming preferita (onestamente, fatevi Netflix). Dieci episodi di brillantezza forzata e poco frizzante incoronati da un titolo di una presunzione imbarazzante.
Mi serviva un polpettone, allora ho chiamato il mio amico, il solito Netflix, gli ho chiesto cosa passasse il convento e lui mi fa:
'Toh, prova questo!'

Che dovesse mai venire un accidenti a lui, a chi gli ha consigliato il film e a me cretina che non mi informo a sufficienza.

La blogosfera un paio di anni fa è impazzita per sto Miss Violence, volevo mettermi in pari, ma non sono andata a rileggermi i post dei colleghi, NON SIA MAI che qui si parte preparate, noooo, qui ci facciamo investire da autobus emotivi per restarne azzoppati a vita.

Al minuto due di Miss Violence un'undicenne si suicida.
Non è sufficiente? Una bambina, una bellissima bambina dai capelli biondi e dal vestito candido che scavalca una ringhiera, ci guarda dritti negli occhi, sorride, e si lascia cadere giù.
Non è comprensibile il suicidio di un'anima così piccola. La mia mente già al minuto due aveva le balle girate: i bambini non si ammazzano.
Ma toh, Mari, è il mondo reale. A volte sì, i bambini si ammazzano.
Nel tuo mondo bucolico fatto di arcobaleni, giornate assolate, tanti libri ed Harry Potter non sarà così, ma in questo universo scapestrato invece sì.


E perché mai una bimba dovrebbe buttarsi giù?
Perché quello che avrebbe trovato restando si sarebbe rivelato molto peggio della morte.
Avrebbe trovato la disperazione più miserabile, l'umanità più marcia, i mostri sotto al letto che prendono vita e rendono infernale la vita di chi non credeva nemmeno nella loro esistenza.
Lei, quindi, si salva, morendo.
Noi no.
Noi siamo vivi e vegeti, a guardare con gli occhi affamati di curiosità quello da cui lei è scappata, quello che l'avrebbe privata del candore, quello che aveva già distrutto ogni persona intorno a lei. E non avrei voluto vederlo. È un filmone, questo Miss Violence, una elegantissima ballerina di bianco vestita che si muove molto lentamente ma tenendo un coltello in mano, per farti sempre più male ad ogni passo. Immagini statiche e un bianco quasi disturbante per accompagnarci nel nero dell'anima. Ma no che non ve lo consiglio, io mi sento come se mi fossero passati sopra con la macchina.
C'è la violenza vera, quella che causa una rabbia cieca in chi la osserva e soltanto sottomissione in chi la subisce.
Il dolore, tutto quanto, è talmente enorme che nessuno si ferma a piangere la morte di una bambina.

DA QUI IN POI DUE RIGHE DI SPOILER, OCCHIO CHE VI VEDO.

Oggi finalmente ho capito qual'è il filo conduttore che collega le cose che mi sconvolgono di più. Sono terrorizzata dai film di possessione demoniaca, sebbene porti con orgoglio la bandiera del mio ateismo, e nello stesso tempo non riesco a tollerare le scene di violenza sessuale. Quella psicologica mi turba molto, mi fa soffrire, ma quella sessuale proprio non la riesco a guardare.
E quindi, ho fatto due più due.
Non c'è niente di più MIO del corpo che abito. Forse è la sola cosa nell'universo su cui posso davvero avere pretese di possessione esclusiva. Il pensiero che qualcun altro (umano o demone) lo prenda e ne faccia quello che vuole mi disturba in un modo che non credevo possibile.
Poi certo, le ovvietà: lo stupro è una cosa terrificante a prescindere, e i film demoniaci FANNO PAURA A TUTTI, però io ne esco sempre a pezzi.
La pedofilia, poi, è una di quelle cose (pochissime, tbh) di cui nemmeno riesco a parlare.
Immaginate come posso stare dopo avere visto quell'unica, massacrante, scena di sesso che ci sta nel film. Ho avuto bisogno di una boccata d'aria, per non picchiare violentemente lo schermo. Continuavo a implorare nella mia mente di smettere, ho provato un odio cieco che quasi mi ha spaventata. Questo padre, questo nonno, e quella porta chiusa, mi hanno fatto venire voglia di vomitare.
Che gran luogo comune, eh? I pedofili mi fanno venire il vomito.
E allora, se da un lato la parte razionale di me promuove l'educazione anzichè la punizione e blablabla, quella più emotiva, dall'altro lato, vorrebbe solo vomitare addosso a queste persone che persone non sono, che sono il MALE, quello grande, quello in caps lock, Privarli di ogni parvenza di umanità.
Se ti serve un corpo da smerciare usa il tuo, feccia.


Perdonatemi, è solo che ho appena preso un grosso e doloroso pugno nello stomaco.
Guardatelo, ma con cautela.

sabato 5 dicembre 2015

#CiaoNetflix: Sense8

17:45
A parte rare eccezioni pertinenti con l'anima del blog, non parlo mai di serie tv. Un po' perché con quelle ho la bocca buona, sono una delle poche che ancora segue quel disastro che è diventato The Big Bang Theory.
Però sono una che sulle serie si emoziona tantissimo. Piango ancora al Not Penny's boat, alla proposta di matrimonio combinata tra Monica e Chandler, alla ironica e dolceamara ricomparsa di Sherlock, al ristorante. 

Con quelle premesse qui, poteva essere una buona idea guardare Sense8?
No. Ma io, come i calabroni, non lo sapevo e l'ho guardato lo stesso.
E ora, dopo una maratona di due giorni (siano lodati i lavori su turni), sono qui che mi lecco ferite autoinferte.


Non leggete le trame su Netflix che le ha scritte un ragazzotto sotto droghe leggere, ascoltate me: Sense8 parla di persone che, per motivi che al momento non ci interessano, si ritrovano ad essere estremamente collegate e a condividere tutto, pensieri ed emozioni.
È definita una serie di fantascienza, ma continuate ad ascoltare me quando vi dico che anche se la fantascienza vi fa schifino (come, ehm, a me) questa cosa qui la dovete guardare perché proprio siamo su un altro livello. 

Siamo dalle parti di quelle cose che, più o meno consciamente, fotogramma dopo fotogramma, ti entrano dentro e si prendono ogni aspetto della tua emotività. Alla fine del primo episodio sei già un Sensate pure tu: le loro emozioni sono le tue, le loro sensazioni le provi come loro, altrettanto intense. 
I Sensate sono otto persone comuni, ognuno con le sue gabole per la testa. Problemi familiari, economici, legali, sentimentali, professionali. C'è l'attore che non può vivere la sua storia d'amore (incantevole, mi hanno fatta sognare dal primo momento) per non rovinare la sua carriera, la ragazza trans in lotta con la famiglia. . . nessuno di loro è un personaggio assolutamente irreale. Sono persone comuni, tridimensionali, ogni loro azione, anche quelle più lontane da noi (penso al tedesco criminale), sono comprensibili e, in un certo senso, condivisibili.


Ci sono sentimenti già nati, di cui noi veniamo solo fatti partecipi, ed altri che nascono sotto i nostri occhi ed è quasi inevitabile che sia così. Incontri (beh, più o meno) una persona nella tua vita e per la prima volta senti che comprende davvero quello che senti. Ha totale accesso alla tua parte interiore, la sente propria, è il concetto massimo di apertura all'altro, noi ce lo possiamo solo sognare. Noi saremo sempre condizionati, il nostro esporci anche alla persona che amiamo non potrà mai avere questo livello di genuinità. Se Lito ed Hernando avessero avuto questa possibilità si sarebbero risparmiati una bella dose di dolore. È il mio cuore che è il tuo, il mio cervello che è il tuo.

Perché è un po' questo il senso che ho più amato di Sense8: è tutta questione di menti aperte. Sono aperte in maniera esponenziale le loro otto, di menti, connesse anche nei pensieri e nei momenti più intimi. Ma anche quelle di chi li circonda: Amanita e sua madre, comprendono e sono incuriosite da quello che succede a Nomi senza farsi troppe domande, Daniela è fin troppo aperta verso la coppia di amici, Rajan è aperto a comprendere il lato religioso della fidanzata pur non condividendolo, il collega di Will è costretto a lavorare con uno che limona da solo ma tranquillissimo, gliene frega meno di niente. E l'intelligenza convenzionalmente intesa, e la cultura, non hanno niente a che vedere con questo: il ragazzo di Nairobi, nullatenente e con una vissuta di stenti. è quanto di più aperto alle possibilità che il mondo gli ha dato.
Ed è quanto più si avvicini al mio intendere il viaggiare: in pochi episodi abbiamo attraversato il mondo restando nel nostro, proprio come i ragazzi coinvolti. Il tuo corpo è nella 'solita' Chicago, ma ti sei ritrovato a Nairobi, in Corea, a Berlino, in India. E tu, che con la tua mente sei dentro a persone che quell'ambiente così lontano e diverso lo vivono come proprio, cresci. Diventi come carta assorbente per le culture, le usanze, il modo di pensare. È incredibile, è il mondo che è un paese solo, è l'intera umanità rinchiusa in un solo cervello. 
È che siamo tutti uguali, che i miei bisogni sono i tuoi, che i miei dubbi sono i tuoi, che le mie crisi sono le tue. È che io posso essere in crisi sulla mia omosessualità, e tu sulla tua transessualità. Siamo lontani, lontanissimi, eppure così uguali. È che come amo io, ami tu. Ed è tutto quello che conta.


Un incredibile viaggio all'interno dell'umanità, che è una e un milione, che è poliedrica e colorata, ma che finisce per essere perfettamente identica: tutti che cantiamo le 4 Non Blondes, e godiamo del momento liberatorio che una canzone così bella ti regala.

lunedì 16 marzo 2015

The taking of Deborah Logan

14:02
(2014, Adam Robitel)

Ho letto per la prima volta di questo film qui, da Malpertuis, il blog a cui guardo con ammirazione sconfinata e rassegnazione mista invidia perche', andiamo, le avete lette le sue recensioni?
Questa sara' decisamente piu' terra terra e banalotta.

Mi ha affascinata da subito, per qualche strambo motivo irrazionale, ma siccome parliamo di taking capite anche voi che non potevo guardarlo con leggerezza, vista la mia relazione di amore/odio col tema. Quindi ho aspettato di non essere a casa a sola, ed eccoci qui.


La Deborah Logan del titolo e' un'elegante signora a cui e' stato diagnosticato il morbo di Alzheimer. Le spese mediche sono costose, pertanto la figlia sceglie di accogliere in casa un gruppo di studenti che realizzera' un documentario/studio sull'avanzamento della malattia.
Non passera' molto tempo prima che si accorgano che forse Deborah non e' solo malata.

L'ultima volta che qualcuno aveva avuto l'ideona di fare un mock a tema demoniaco il risultato era stato L'ultimo esorcismo, che insomma non era proprio un risultatone.
Stavolta ci e' andata decisamente meglio.

Cosi' elegante, discreta e raffinata la madre, Deborah, appunto, tanto ansiosa, apparentemente trasandata e' la figlia, Sarah. Si trovano ad affrontare uno di quei dolori che ti restano appiccicati alla nuca.
Puoi non pensarci, puoi distrarti bevendoti una birra in veranda, ma sta li', sempre pronto a colpirti quando non ci stai pensando.
Sarah da figlia comunissima di madre comunissima e' costretta a trasformarsi in caregiver, a dedicare ogni istante della sua giornata alla madre malata che sta peggiorando molto piu' velocemente del previsto.


E non c'e' certo bisogno di avere lavorato a contatto con le famiglie di anziani malati per comprendere quanto questo ruolo investa completamente la vita di chi ci si ritrova invischiato.
Da un lato hai il grande dolore di vedere tua madre soffrire cosi', con una malattia cosi' infame. Dall'altro la tua inividualita' viene messa da parte, a tempo indeterminato.

Anche per questo l'arrivo della troupe che realizzera' un video su Deborah e il suo male si rivela salvifico. Sarah non si ritrova sola a gestire questa enorme responsabilita', ha compagnia e sostegno, ha una studentessa di medicina che, visto il peggioramento di Deborah, e' fondamentale.

Peggioramento che e' rapido e inaspettato, ma non violento o mal presentato nel film. I fenomeni inspiegabili partono in sordina, la sua crescente aggressivita' potrebbe essere spiegata con motivazioni mediche.
Potrebbe, ma non e'.
I medici non sanno che fare.
Ma rimangono, continuano, visitano, ricoverano.
Mica come ne L'Esorcista che hanno guardato intensamente Reagan negli occhi e dicono "Signora io non so lei ma vedrei un prete".
Qui siamo nel 2014, la ragione e la scienza prevalgono, questa donna DEVE essere malata.
Lo e', per carita', ma non solo.

Il che rende la questione due volte piu' interessante, perche' ogni azione (a parte ovviamente quelle piu' estreme, fisicamente impossibili e finali - io terrei d'occhio le mascelle. C'e' una scenona) potrebbe essere guidata da una o dall'altra variabile. Per buona parte della pellicola Deborah potrebbe essere tranquillamente un caso clinico molto particolare e grave. 

Hai davanti agli occhi il corpo di una persona che ami. E' proprio li', il suo volto, i suoi occhi, le sue labbra.
Ma non e' piu' se stessa.
Alzheimer o possessione, cosa importa?


Ho iniziato l'anno con certe pellicole che raggiungerle in scaletta di gradimento e' tostissima, e purtroppo The taking of Deborah Logan non tocca certe vette di radioso splendore.
Pero' vi sconvolgero' rivelandovi che a me ha inquietato in quel modo che ti mette a disagio sulla seggiola, che ti fa controllare ogni tanto dietro le spalle di non avere un'anziana pazza che cammina in camicia da notte e spunta dalle porte.
E si', ho fatto un paio i saltini non indifferenti sul ivano che meno male che ho un bel sederotto che ha attutito i colpi.


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