I 200 di Rue Morgue: L'arcano incantatore
Ho scritto fino alla nausea su questo blog che quelli di Pupi Avanti sono horror che porto nel cuore, eppure ancora mi mancava L'arcano incantatore, che guarda caso sta in mezzo alla lista di film che la rivista Rue Morgue consiglia di recuperare.
Non solo la rivista lo consiglia, ma lo fa con una mini intervista a Guillermo del Toro, che come sapete è il grande amore della mia vita. E non solo di nuovo, perché del Toro, parlando del film, cita una frase di un altro mio grande amore filmico: pare che Edgar Wright, quel benedetto tatone che non è altro, abbia definito L'arcano incantatore (titolo pazzesco) un "Barry Lyndon del cinema dell'orrore".
Chi sono io per smentire quei due qua. Loro hanno sempre ragione.
Siamo nel '96, sono passati più di dieci anni dall'ultima volta in cui Avati ha girato un horror (l'ultimo era stato Zeder). Per tornare in carreggiata decide di raccontare una storia che contiene tutti i suoi temi più cari, che sono quelli che me lo fanno amare.
Siamo sugli Appennini bolognesi nel '700. Giacomo, un giovane seminarista, è costretto a lasciare Bologna per aver conosciuto una donzella in senso biblico e per averla poi costretta ad abortire. Per non subire le tremende punizioni della Chiesa chiede aiuto ad una donna misteriosa che lo manderà a lavorare come aiutante di un ex monsignore, allontanato dalla Chiesa e dalla società per passati interessi verso il mondo dell'occulto. L'ultimo aiutante del monsignore, Nerio, è da poco defunto in circostanze misteriose e Giacomo è deciso a fare luce sulla faccenda.
Ma quanto piace, ad Avati, parlare della Chiesa? Un casino. I legami tra religione ed occulto, e soprattutto il loro essere così sottili, sono onnipresenti nella sua filmografia (almeno in quella dell'orrore, a meno che ci sia da qualche parte un film in cui Silvio Orlando fa il papa con strani intrallazzi di cui non sono a conoscenza). Credo che il motivo per cui questi film io li amo così tanto stia proprio qui. La Chiesa cattolica, che ho conosciuto da vicino e frequentato per decenni, è oggi per me fonte di grande inquietudine. L'immaginario cattolico, l'estetica cattolica, le credenze, popolano i miei incubi. Avati è straordinariamente bravo a sfruttare proprio questo. Gli abiti, le ambientazioni, le luci delle candele, i movimenti delle benedizioni, le croci, l'estremismo delle credenze popolari, il folklore. Non solo riconosco come "miei" i luoghi in cui ambienta le storie, ma sento vicine le cose tra cui sono cresciuta e vederle sfruttate a dovere per un film dell'orrore mi fa saltellare di gioia per poi nascondermi gli occhi dietro le mani. La piccola chiesetta che si vede in questo film è uguale a tutte le altre piccole chiesette sperdute padane che circondano le vie in cui abito. La foschia della sera è la stessa che vedo tutte le sere, innesca in me un meccanismo di attaccamento al film immediato.
Forse li amerei così anche se fossero ambientati in Toscana, o in Abruzzo, ma il fatto di sentirli così vicini è solo l'ennesimo punto in più a favore di storie che hanno tutto quello che amo. La lentezza dell'inquietudine sottile che non ha bisogno di gran fragori, i pochi dialoghi e i tantissimi sguardi, le luci, i colori. L'occulto che non si manifesta solo nelle persone che attivamente lo ricercano ma anche in quelle che, standogli intorno, ne parlano in ogni momento: le donne, Giacomo che fa mille domande, le persone del paese, il monsignore che lo ricorda. Nerio è protagonista per tutto il film solo per quanto ne parlano gli altri. Non c'è, ma è il più presente di tutti.
E pian piano, tra una domanda e l'altra, tra un mistero e l'altro, finisci avviluppato in questo film così lento e così intrigante, con i suoi personaggi così ambigui, con i suoi finali che ormai conosciamo ma che non per questo amiamo meno.
Sono tanto affezionata, ad Avati. Talmente tanto che, quando è venuto al mio paesello per un'iniziativa che nemmeno ricordo, non sono riuscita a dirgli nulla e sono scappata via ad intervista finita. Che polla.