Visualizzazione post con etichetta frankenstein. Mostra tutti i post
Visualizzazione post con etichetta frankenstein. Mostra tutti i post

sabato 23 aprile 2022

Gli anni '30: James Whale

17:45
Il cinema dell'orrore, l'ho detto troppe volte, non è una passione che mi trascino fin da piccola. O meglio, le sue radici sono nella mia storia familiare, ma la nostra relazione la coltiviamo da relativamente poco, tutto sommato. 
Il momento in cui ho capito che io dovevo condividerla col mondo, quella passione qui, è arrivato con Evil Dead, e da lì è nato quello che era Mari's Red Room e che è diventato la Redrumia, ma il momento in cui ho capito che avrei dovuto dedicare la mia esistenza intera alle persone che parlano di orrore è arrivato la prima volta che ho visto La moglie di Frankenstein. 
Il mio modo di guardare il cinema non è mai più stato lo stesso. 
Nel mese dedicato ad Universal, quindi, non potevo che mettermi umilmente a scrivere un post su James Whale. 
Soli 4 horror in carriera, e il mondo si prostra ancora ai suoi piedi.


perché con una faccia così non si sia messo a recitare per sempre ma solo a dirigere è un mistero e un nostro grande privilegio


La vita


Whale era inglese, nato a fine '800 da una famiglia di origini così umili da richiedergli di andare a lavorare il più presto possibile, soldi per studiare non ce ne stavano. La prima guerra mondiale colpisce anche lui, ovviamente, che si arruola volontario e finisce per venire imprigionato dai tedeschi. È nel periodo della prigionia che si avvicina al suo destino. Un'altro al posto suo, imprigionato in guerra, sarebbe impazzito, questo si è messo a fare il teatro. Venitemi a dire che l'arte non salva la vita. Continua a darsi al teatro anche dopo l'armistizio, al suo ritorno a casa, e la combo dell'esperienza in guerra + quella teatrale lo portano alle sue prime esperienze di regia, proprio a teatro: il suo primo lavoro è Journey's End, una narrazione della vita degli ufficiali di fanteria durante la guerra. 
Journey's End va così bene che attira l'attenzione del mondo del cinema (sorpresi, vero?) e finisce che Whale si ritrova a dirigerne anche la versione cinematografica. 
Quando c'è profumo di soldi c'è Laemmle, che infatti gli è balzato addosso come un gatto affamato e se lo è portato in Universal. In questa sede non ci interessano tutte le altre cose che ha fatto (alcune delle quali, però, le trovate in questa playlist che ho creato su Youtube) perché questo è pur sempre un blog di cinema dell'orrore e pur essendo io certa siano tutte cose magnifiche qua bisogna arrivare al sodo: il 1931, quello che David J. Skal ha definito il peggior anno del secolo per gli americani e quindi il migliore per il cinema dell'orrore. Whale viene scelto da Laemmle per riprodurre il successo di Dracula, e quindi James ha deciso che lui lo avrebbe fatto di più e meglio: i suoi 4 film horror per Universal sono non solo rivoluzionari, e di quello parleremo poi, ma anche incredibili successi di botteghino, a differenza di alcuni dei suoi lavori che escono dalla definizione di genere, sempre amati dalla critica ma accolti più tiepidamente dal grande pubblico. 
Dopo un decennio infuocato, Whale si ritira dalle scene. Lavora ancora per un po' a teatro, con risultati deludenti, e sporadiche e insignificanti apparizioni nel mondo del cinema.
La fine della sua vita è drammatica: dopo un paio di ictus il suo stato di salute peggiora, fisicamente e mentalmente. Si è tolto la vita a meno di 70 anni.


I film


Ce lo siamo detti nel post a lui dedicato: il Dracula di Tod Browning fa un successo immenso. Così grande da convincere persino il vecchio Uncle Carl, che in questo cinema dell'orrore proprio non ci vedeva niente di buono, a farne un altro, subito. Si fa presto a decidere che il prossimo sarà Frankenstein: era già pubblico dominio. E quindi, Whale dietro la mdp, e si fa la storia. 
Lo sappiamo tutti quanti che il capolavoro di Whale è un altro, ma il momento in cui questo film ha visto la luce è quello in cui il regista si è portato a casa la possibilità di fare praticamente quello che gli pareva, con buona pace di Universal e del Codice Hays. 
L'impatto della Creatura del 1931 è stato così potente che oggi, semplicemente, la Creatura ha i chiodi nel collo, fine della discussione. Non c'è un momento nella vita in cui questa informazione non sia già radicata nella mente di chiunque: il Mostro di Karloff (a cui sarà dedicato il post della prossima settimana) è l'unico possibile, l'unico indimenticabile. E se il merito di questo è ovviamente da attribuirsi al suo magnifico interprete e all'iconico make up di Jack Pierce, è innegabile che il taglio che Whale ha deciso di dare alla più classica delle storie di mostri sia stato significativo. Nel guardarlo oggi, quando il ruolo di Karloff nella costruzione del mito è ormai dato per scontato, è l'interpretazione di Colin Clive (Henry Frankenstein) a far accapponare la pelle. Il suo viso elegantissimo e segnato e scolpito sono ipnotici, le sue urla paralizzanti, il suo Henry spaventoso, nevrotico, eccitante. 
Sono due le cose di questa versione del Moderno Prometeo che fanno riflettere: Whale sceglie di togliere la parola al mostro e decide di dargli un difetto di "creazione", ovvero un cervello difettoso. A dirlo così sembra evidente una volontà di allontanare ogni forma di empatia verso una creatura mostruosa, biologicamente crudele, sbagliata e oltretutto privata della più comune forma di comunicazione. 
È invece proprio in questo il punto più alto del film: Whale inquadra le mani della Creatura, la più espressiva parte del corpo umano dopo il volto, lo mostra muoversi smarrito nello spazio come se avesse la percezione costante di non appartenenza, gli fa subire angherie, maltrattamenti, violenza. Gli fa conoscere il bene del mondo e glielo fa strappare dalle mani, in una scena che 91 anni dopo ancora prende il cuore, lo strappa dal petto, lo calpesta e ci sputa pure sopra. Giusto per ricordare a tutti che se si è appassionati di orrore è molto probabile che si abbia anche bisogno di andare in terapia. Ma anche che le parole sono spesso superflue.
Si può quindi dire che Whale, con il suo primo contributo all'horror, lo ha già rinfrescato? Sì, ovviamente.

Le cose vanno talmente bene che il suo secondo, magnifico, film dell'orrore arriva l'anno dopo, e naturalmente finisce per sovvertire un genere intero. Si chiama The Old Dark House e si prende gioco, rimescolando tutte le carte in tavola, del genere che viene ricordato come, ehm, dark house, e che fa parte del cinema americano fin dai suoi esordi. Lo avevamo già visto parlando di The Cat and the Canary, che pur essendo delizioso e molto rilevante per la storia può solo farsi da parte e levarsi il cappello. 
Non solo fa questo, ma è da molti ricordato come il più esplicitamente queer dei suoi lavori, grazie anche al suo essere uscito prima del '34, anno dell'entrata effettiva in vigore del Codice Hays. Se l'attenzione di tutti, per ovvie ragioni, è sempre stata su La Moglie, Harry M. Benshoff nel suo saggio Monsters in the closet, che trovate linkato nelle fonti, dedica una parte proprio al secondo lavoro di Whale.
La storia, che racconto perché meno nota della precedente, è quella di una coppia che, in auto insieme ad un amico, si perde guidando e resta bloccata, a causa della tempesta, nella casa in cui si erano fermati a chiedere soccorso. La casa appartiene alla misteriosa famiglia Femm, e la notte trascorrerà tra eventi misteriosi e personaggi spaventosi. È o no un riassunto degno di una rivista di programmazione tv?
I riferimenti e le connotazioni queer che Benshoff elenca nel film sono sconfinate: dalla "padrona di casa" che fa osservazioni alla sua ospite, inviti più o meno espliciti in camera da letto, i personaggi di Horace, Penderel e soprattutto Saul.
Studiando la storia del cinema dell'orrore è sempre più evidente che mai come in questo caso non si possa parlare per assolutismi, tutto si miscela armoniosamente con quanto arrivato prima e si crea sempre qualcosa di nuovo. In questo caso credo di poter fare un'eccezione: il queer coding nel cinema ce l'hanno portato Whale e tutti i suoi creativi modi di ritrarre l'irritraibile, con buona pace del Codice e delle sue norme antiumanità.
Se Saul è eterosessuale io sono bionda.
Del film mi piace anche ricordare quanto sia divertente. E non ascoltate chi lo considera un Whale minore. Non c'è niente al mondo che sia un "Whale minore".

Per parlare de L'uomo invisibile, del '33, vi cito semplicemente quello che ne dice Tom Weaver nel suo Universal Horrors: 
Deprive the average special effects film of its visual tricks and you rob it of its heart and soul. The Invisible Man, Universal’s superb 1933 filmization of one of H.G. Wells’ most enduring novels, is a firm exception to this rule. Its gripping narrative, masterful direction and believable performances elevate the film beyond mere novelty, and hold up alongside the unerring technical effects for the audience’s attention. One of the handful of fantastic films unblemished by the ravages of time, The Invisible Man is a monument to the genius of four remarkable artists: Director James Whale, screenwriter R.C. Sherriff, special effects ace John P. Fulton and star Claude Rains. 
In buona sostanza, senza tradurre il tutto: è un capolavoro, ciao. 
E io lo so che gli amanti della fantascienza proveranno a rivendicarselo come roba loro, ma saprete ormai bene che delle mie cose io sono gelosa, giù le mani da James Whale.


La Sposa


Sì, lei ha un paragrafo a parte, perché non è solo il Capolavoro del Nostro, ma è il film che mi ha portata qua e secondo me non c'è niente al mondo che sia bello quanto La moglie di Frankenstein. 
Laemmle Jr. era in procinto di lasciare il prestigioso ruolo che gli aveva regalato il padre, ma prima di andarsene aveva in serbo un paio di "speciali": una versione cinematografica del musical di grande successo Show Boat e un sequel per Frankenstein. Se non fu difficile assegnare a Whale il musical, del sequel il regista non ne voleva proprio sapere. La condizione per accettare? Avere carta bianca. Non l'ha poi avuta davvero, perché il Codice sempre lì stava, ma insomma.
È ironico? Un po'. Manco lo voleva ed è diventato il suo lavoro più importante. 

Comincia la lavorazione, e una volta assicurati i posti di Clive e Karloff è in questa sede che si fa la scelta forse più importante del film: per il ruolo di Pretorius, forse la persona più famosa del film dopo la Sposa, viene scelto Ernest Thesiger, già Horace di The Old Dark House. 
Whale era solito lavorare con attori che avessero una sorta di, passatemi il concetto, "aura gay". Per quanto, come riporta Benshoff nel suo testo, la società avesse con l'omosessualità un rapporto meno peggiore di quanto si possa pensare, non tutti erano nella posizione privilegiata del regista, quindi alcuni degli attori che coinvolgeva erano spesso sposati con delle colleghe, e la loro omosessualità non sempre era dichiarata. Tra questi Thesiger stesso, che in Gran Bretagna, da cui arrivava, era noto per il suo "queer appeal". Septimus Pretorius è la punta di diamante di un film che non sarò mai in grado di giudicare con oggettività: siamo dalle parti della perfezione.

Nonostante cambi di sceneggiatura, modifiche, addolcimenti sciocchi per la censura, aggiramenti delle norme e un prologo che odiano anche i sassi (ma io no, perché ci sono dei borzoi e io amo tanto i borzoi), l'opera non pecca mai - mai, mai, mai - dell'incoerenza di cui potenzialmente avrebbe potuto soffrire. È anzi un lavoro maturo, raffinato, equilibrato. Un film che, preoccupandosi di non fare sconcezze inadeguate, ha elegantemente preso per il culo la società americana nella sua interezza, nella sua ipocrisia, nei tre valori tradizionali su cui è basata e che non sono mai stati un ritratto fedele del Paese, ma solo del modo in cui il Paese si dipingeva ai suoi stessi occhi. 

Ora, un briciolino di fatti miei. Ho qualche tatuaggio. Uno di questi è il volto della Sposa, dietro il braccio destro. Quando ho deciso di farmela ho chiesto alla tatuatrice di disegnarmela nel suo stile, che amo molto. Mi manda un disegno, e la Sposa ha un'espressione incazzata. Ma proprio che è nera. E io me lo guardo, sto tatuaggio, e non sono convinta dell'espressione. Allora mi sono riguardata il film.
E adesso io la mia Sposina incazzata la amo come se la avessi disegnata io. È potente, è rappresentativa, è proprio lei. È quella che non ha chiesto di venire al mondo e si è trovata sfruttata, con un ruolo già scritto per lei ancora prima di nascere. È quella a cui non viene data personalità, vestita e atteggiata come tutte le altre. È quella che ha il solo scopo di compiacere il suo maschio, quella che non conta niente se non in funzione del suo ruolo. E allora io la guardo e la amo sempre di più, con i suoi occhi tutti bianchi e le sopracciglia aggrottate. Ed è magnifica e la porto a spasso con orgoglio, perché di donne incazzate non ce ne sono mai abbastanza. Lo fossimo anche tutte, non saremmo abbastanza.

Nel suo saggio Here comes the Bride, Elizabeth Young espone un altro modo per analizzare il film: se La moglie analizza le paure e le ansie degli anni '30, non possiamo ignorare quelle razziali. La prima metà degli anni '30 è stata caratterizzata da un numero significativo di linciaggi ai danni di uomini neri, che hanno nel caso di Scottsboro del '31 il loro episodio più eclatante. Al mostro sono attribuite tutte le caratteristiche che una società profondamente razzista attribuisce alla popolazione nera: criminalità, violenza, inferiorità di intelletto...La fisicità di Karloff, poi, ha dato un grande contributo a questa lettura. Era un uomo molto alto, imponente, dai lineamenti molto marcati. Il collegamento si fa da sé. C'è pure il linciaggio, perfetto.
Nel secondo film della serie, però, quello che ci interessa è l'elemento dello stupro. 
Quale stupro? vi chiedere giustamente, Quello che non c'è?
Proprio quello.
È proprio nell'elemento dell'allusione (Elizabeth che strilla dietro la porta chiusa a chiave appena la creatura entra), della possibilità, che la creatura diventa perfetta rappresentazione della vita degli uomini neri, accusati con imbarazzante frequenza di violenze mai avvenute, perché come di consueto lo stupro è importante solo in relazione agli uomini che o lo praticano o lo subiscono indirettamente, mai alle vittime reali. Lo stupratore nero è un elemento ricorrente della cinematografia e della cultura popolare di un paese che è sempre stato molto attento alle inezie, e mai alle persone. La diversità di chi commette il reato immediatamente sessualizza il reato stesso. 


Che donne, razza e classe fossero legati da un filo invisibile ma non troppo ce lo ha spiegato Angela Davis, in un testo fondamentale e potentissimo che inspiegabilmente (o forse molto spiegabilmente) non è ancora un testo scolastico.
Solo che lei ce lo ha detto nell'81.
James Whale aveva iniziato ad accennarlo 46 anni prima.
Con un film dell'orrore.
La mia narrazione della storia è forse di parte?
Un po'.



Le fonti di questo post:
(i link con asterisco sono affiliati Amazon. Se acquisterete i libri attraverso questi link non spenderete un cent di più ma io guadagnerò qualcosina che mi permetterà di proseguire col progetto. Grazie se lo farete!)

mercoledì 29 gennaio 2020

Horrornomicon: A new world of gods and monsters

13:39
Io e la mia consueta sindrome dell'impostore vi diamo il benvenuto nel primo Horrornomicon del 2020. Come sempre, è per me difficilissimo parlare delle grandi icone della storia del cinema, ma ci sono volte in cui metto da parte la sindrome di cui sopra e mi decido, in nome di un grande amore, a parlare di cose ben più grandi di me. Senza pretesa di insegnare nulla, solo di condividere.
E quindi, questo mese, gli horror Universal.
Anche se temo sarà un monologo su Frankenstein.


Per me tutto è cominciato con Dracula. 
Anni fa ho fatto uno speciale vampiri, qui sul blog, e non avrei potuto evitare Bela Lugosi nemmeno volendo. Ma perché volere, poi? Pur avendo un cuore che palpita per Christopher Lee, il Conte di Lugosi è una goduria. Oscuro, silenzioso, lento. Lontano anni luce da quello a cui siamo abituati, alla frenesia, alla lunghezza, al suono incessante. Il film di Browning e il suo protagonista entrano dentro come ospiti silenziosi e aprono le porte alla meraviglia che viene dopo.
Se volessimo andare in un rigoroso ordine cronologico, dovremmo specificare che non è con Dracula che si è aperta la gloriosa stagione dell'horror di Carl Laemmle e soprattutto del figlio, i boss Universal, è stato solo il mio battesimo. Prima di lui c'è stata tutta la fase Lon Chaney, che forse affronteremo più avanti, quando me la sentirò ancora più calda di così.

Nel 1931, però, non è stato solo Bela Lugosi ad abitare gli incubi degli americani. Nello stesso anno usciva il film che, insieme al suo sequel, è stato la mia motivazione a scrivere questo post. Niente è più stato lo stesso, per me, dopo Frankenstein e, soprattutto, dopo La moglie di Frankenstein. 
Ci sono mille motivi per cui una persona ama tanto l'orrore, e se ascoltate chi ha voglia di raccontarvelo, non sono quasi mai i litri di sangue e gli sgozzamenti. A quelli ci siamo solo abituati. Il cinema di genere ha un modo che è solo suo di parlare della realtà con una sincerità che spesso ai drammi o alle commedie manca. Il ritratto dell'umanità che esce da certi film che vengono snobbati in nome del loro genere è così profondo, e genuino, e sincero, che guardarli aiuta a leggere la realtà molto meglio di quanto faccia leggere un bell'articolone sul quotidiano. (Cosa che comunque raccomando di fare). Dietro la storia agghiacciante e spaventosa c'è il mondo reale, e a volte è così difficile affrontare il ritratto onesto che ne viene fatto che è più facile snobbare. I due film di James Whale sono un modo così spietato di mostrarci quello che siamo che risuonano più forte di uno schiaffone. Non che il resto della sua cinematografia sia da meno, non fraintendetemi, ma c'è un livello in questi due film che è difficile toccare. Il ritratto di una Creatura così imponente e fragilissima insieme, che nasce priva di sovrastrutture e influenze e diventa violentissima come conseguenza del modo in cui è stata trattata è così spaventosamente attuale che 90 anni dopo ancora dobbiamo interiorizzarli, certi concetti. Il criminale che viola la legge per colpa della società in cui è inserito è ancora una follia agli occhi di qualcuno. Che siamo tutti responsabili, è impensabile. 
Eppure, 90 anni fa, in film che avrebbero potuto parlare solo di mostri, ecco che si ripete spesso la scena della folla in piena isteria, con le fiaccole, le armi. Ed eccolo lì, il circolo vizioso di cui ancora ci sporchiamo dopo così tanto tempo: io, spaventato, attacco te, fragile, e insieme creiamo la criminalità. Non è colpa mia, non è colpa tua, sa soltanto quello che non è (cit). In quasi i tutti i film Universal c'è lo scontro tra il villaggio inferocito e ferito dalle proprie perdite e la creatura mostruosa inconsapevolmente violenta. Ed ogni volta è uno scenario desolante. Non è un caso che la sola persona a non essere terrorizzata dalla Creatura sia un non vedente: non c'è percezione della diversità e pertanto la diversità non esiste. O ancora, nella mitologica scena della bambina, non c'è paura della Creatura, non incute timore per il suo aspetto. Il sorriso che Karloff tira fuori in quella scena lì fa un effetto al cuore che non so spiegare. 
I cattivi, in queste storie, sono gli arroganti: coloro che mettono se stessi al di sopra degli altri, coloro che si ritengono superiori. Non solo gli scienziati in generale, come potrebbe sembrare. Sono coloro che mettono il proprio ego e la propria soddisfazione al di sopra del bene collettivo, del buonsenso, dell'umanità stessa. Henry Frankenstein è rimasto per sempre orgoglioso del suo successo, nonostante tutto. Pretorius lo istiga, lo stimola, lo mette sotto pressione, nel sequel, ma entrambi sono gonfi di se stessi dalla partenza. Non è mai una discesa verso la follia. Frankenstein si apre con due persone che profanano una tomba, non è certo una partenza delicata. Quello che succede, invece, è che il durissimo ritratto della vita della Creatura sovrasta tutto il resto. Le vessazioni perpetrate da Fritz nei confronti del mostro sono quasi insostenibili da vedere: un mondo in cui il debole per sentirsi meglio se la prende con il più debole è un mondo difficilissimo in cui vivere, figuriamoci da ritrarre.
E invece Whale lo fa, con una sensibilità e un'onestà che lo elevano al rango dei Grandi. 
E Karloff ci regala un personaggio che non è solo diventato una grande icona popolare blablabla. Ha parlato con le mani e gli occhi, ha commosso, emozionato, estasiato. Il suo corpo, instabile e furioso, ha parlato molto meglio di quanto avrebbe fatto con la voce. 
E nel caso in cui qualcuno se lo stesse chiedendo: sì, piango tanto con i Frankenstein di Whale, piango un casino che proprio poi mi fa male la faccia. Sono film di un bello che non ci crede.


Questi film sono stati così significativi che quello che Universal ha creato dopo ha sfruttato tutti i loro elementi di forza: la scienza che quando fuori controllo diventa follia, per esempio, come ne L'Uomo Invisibile, sempre di Whale. Meno emotivo di F. ma sicuramente altrettanto forte, è un impietoso ritratto di cosa diventiamo quando qualcosa ci sfugge di mano. E ancora, folle impaurite, la voce inconfondibile di Una O'Connor, e la disturbante (vinco qualcosa ogni volta che lo scrivo? la parola più odiata del web) risata che compare dal nulla.
Meno efficace, ma solo per gusto personale, la saga de La Mummia, che ha comunque i tratti ormai distintivi Universal.
E infine, negli anni 50, un ritorno a quell'emotività che era così significativa in Frankenstein, con la creazione de Il mostro della laguna nera. 
Non c'è uno solo di questi film che non valga la pena vedere. In un'epoca che sembra di un altro pianeta, da quanto ci è lontana, Universal ha tirato in piedi, con i suoi nomi iconici, film dove si mette in dubbio l'efficacia della scienza, l'erotismo, un'omosessualità velata, l'ignoranza, la paura, la desolazione, la solitudine. 
Dopo 90 anni, non siamo cambiati di una virgola, e niente mi spaventa più di questo.

lunedì 5 marzo 2018

#leimeritaspazio: Mary Shelley

17:59
Singularly bold, somewhat imperious and active of mind.

L'11 marzo Frankenstein compirà 200 anni. Non potevo che iniziare questa settimana femminista parlando di lei, la donna che ha portato la Creatura nel mondo e ci ha regalato una delle icone più popolari di sempre.


Mary nasce Wollstonecraft Godwin.
Se conoscete un nome più figo di così fatevi pure avanti.
Wollstonecraft era il cognome della madre, una donna che ebbe un ruolo storico da nulla: fu una delle femministe più importanti della storia di Londra, con diversi saggi pubblicati e un ruolo fondamentale nella determinazione dell'uguaglianza tra uomini e donne. Uno, in particolare, sull'educazione delle figlie femmine. Siamo nel millesettecento.
Donne così è difficile sposino dei minorati, infatti il padre di Mary era un filosofo dalle idee piuttosto avanguardistiche.
La vita di Mary fu scandalosa già prima di iniziare: la madre rimase incinta fuori dal matrimonio. Lei e Godwin si sposarono giusto per tutelare la figlia dalla società malpensante. Fu cresciuta dal padre e dalla seconda moglie, insieme ad una serie di fratelli dai genitori variabili. Una famiglia allargata nel senso più classico del termine, solo duecento anni prima del previsto.

Mary, quindi, non è certo cresciuta in un ambiente bigotto e conservatore.
Non sorprende, quindi, che abbia continuato sulla stessa strada. Come si dice, la mela non cade mai lontano dalla sua pianta. A sedici anni, infatti, si innamora di un uomo sposato. Non abbiamo comprensione (io per prima, chi è senza peccato, eccetera eccetera) di una cosa simile ora, figuriamoci duecento anni fa.
Nella sua vita arriva Percy Bysshe Shelley, poeta.
L'amore tra i due viene contrastato dal padre di lei, e gli amanti ne sono talmente scossi, talmente provati...che caricano due stracci e se ne vanno in Italia. Nel dubbio, si portano pure la sorella di lei, con tanti cari saluti all'opposizione paterna.
Senza Shelley, forse non avremmo Frankenstein oggi, perché è l'incontro con lui che conduce Mary alla celeberrima e celebratissima sera di Ginevra.
Celeberrima e celebratissima ma ne parliamo comunque, perché magari esiste ancora qualcuno sulla faccia della Terra che non conosce le origini di Frankenstein.

Siamo in Svizzera, sul lago Lemano, in una casa affittata dal mad, bad and dangerous to know Lord Byron. Quella del 1816 è un'estataccia: allora non lo sapevano ancora, ma un'eruzione sull'Oceano Indiano aveva scombussolato tutto il clima dell'anno e faceva un freddo cane. Morale della favola: quattro penne brillantissime sono chiuse in una casa tutte insieme e devono ammazzare il tempo.
Scelta terminologica non casuale, perché i quattro si accordano e decidono di scrivere storie di fantasmi.
Mary prende la faccenda sul serio: ci mette due anni, ma quando finisce sbaraglia la concorrenza.
Bello eh, Il vampiro di Polidori, caposaldo della narrativa dell'orrore. Ma la signorina, all'epoca appena diciottenne, ha cambiato direttamente la storia, della narrativa dell'orrore. Siamo nel 2018 e in lavorazione c'è un nuovo Bride of Frankenstein.
L'unica donna 'in gara', quindi, anzichè ricamare sottane e merletti, ha cucito braccia e gambe di cadaveri insieme, per ricostruire, da lì in avanti, un genere intero. Avrebbe potuto lasciar giocare gli uomini con l'orrore, che non è certo faccenda da signorine, ma lei ha usato il carico da mille, e li ha annientati: cadaveri dissotterrati e fatti a pezzi, creature nate dalla follia umana e, infine, una tragedia immensa.
Quella del mostro di Frankenstein è, infatti, una storia straziante, una tragedia dolorosissima in cui il solo ego umano è stato in grado di causare non altro che sofferenza. Io ogni volta ci lascio anche le lacrime che non ho, di fronte a questo gigante che non ha chiesto altro che amore. E, a dirla tutta, anche di fronte al suo creatore, che si è lasciato scappare di mano una situazione più grande di lui. Sarebbe stato facile puntarla solo sull'estremismo del gesto, ma Mary ha scelto la strada più difficile e ha creato un romanzo con un sottotesto immenso, con infiniti piani di lettura e altrettanti punti che varrebbe la pena approfondire.

Ma quindi, perché #leimeritaspazio? L'autrice del più grande gotico di sempre non è certo sconosciuta, verrebbe da pensare.
Non è andato tutto sempre bene, alla vecchia Mary, però.
Il romanzo è stato pubblicato per la prima volta anonimo, si dice che Mary temesse addirittura che per colpa della sua creazione le potessero venire tolti i figli. Per un po' si è vociferato che il romanzo fosse del marito, che ne aveva scritto una prefazione, e lei non ha fatto nulla, almeno all'inizio, per smentire questa voce. Il merito se lo è preso solo con l'edizione del '22. Nella versione pubblicata nel 1831, poi, ha dovuto scrivere una prefazione in cui giustificarsi. Ma come, una donnina così giovane che fa pensieri così osceni? Così indicibili? le chiedevano.
E lei, allora, privandosi di ogni merito, scriveva che non aveva colpe, la storia le era venuta in sogno così e lei l'aveva solo trascritta.
Oggi, allora, in questo spaziettino sull'internet, le lascio tutto lo spazio del mondo, a lei che, del mondo, è stata una delle più grandi.

Disclaimer

La cameretta non rappresenta testata giornalistica in quanto viene aggiornata senza nessuna periodicità. La padrona di casa non è responsabile di quanto pubblicato dai lettori nei commenti ma si impegna a cancellare tutti i commenti che verranno ritenuti offensivi o lesivi dell'immagine di terzi. (spam e commenti di natura razzista o omofoba) Tutte le immagini presenti nel blog provengono dal Web, sono quindi considerate pubblico dominio, ma se una o più delle immagini fossero legate a diritti d'autore, contattatemi e provvederò a rimuoverle, anche se sono molto carine.

Twitter

Facebook