Horrornomicon: l'Opera di Dario Argento
Redrumia oggi parla di tante cose diverse, ma quando è nato era tutto rosso, con un altro nome e parlava quasi solo di cinema dell'orrore, il mio primo grande amore. In tutti questi anni ho parlato di tanti film, tanti autori, tanti sottogeneri, eppure non ho mai parlato di quello che il grande pubblico considera il più importante regista di genere italiano: Dario Argento.
Il motivo è molto semplice: a me Argento sta sulle balle come persona e non piace come regista.
Mi dispiace se in questo post risulterò ancora più ostile e polemica di quanto già non sia abitualmente, ma ho tante cose da dire e nessun altro posto se non questo blog in cui sfogarmi per bene.
Argento nasce con quello che dalle mie parti chiamiamo il culo nel burro. Sua madre è una delle più famose fotografe della capitale, e dalla parte del padre la famiglia lavora nel cinema da almeno due generazioni. Ha i mezzi e le conoscenze giuste, e parte con una notevole spinta che lo ha portato ad essere oggi conosciuto in tutto il mondo. Da parte sua, questo almeno glielo devo, ci mette un'indubbia passione. Ma andiamo in ordine.
Dario inizia la sua carriera lavorativa come giornalista: scrive di cinema e spettacolo per Paese sera e pian piano si apre alle sceneggiature, cosa che la sottoscritta trova particolarmente buffa considerando che se c'è una cosa che nei suoi lavori che è oggettivamente scadente è proprio la scrittura. Insomma un giorno scrive una sceneggiatura e gliela rifiutano ovunque. L'uccello dalle piume di cristallo non piace. Lui allora corre a piangere tra le braccia di papà il quale prontamente apre una casa di produzione, egocentricamente chiamata SEDA (Salvatore e Dario Argento), e gli produce il film, in barba ai cattivoni che non te lo volevano far fare amore il tuo cinemino.
Nella sua autobiografia (Paura, edita Einaudi) Argento chiarisce che del comparto tecnico non ne sa nulla, che non ha mai nemmeno assistito alla realizzazione di un film, è come un bambino al primo giorni di scuola che non sa manco tenere in mano una biro. Eppure, con l'arroganza che lo contraddistingue per tutta la durata del libro, specifica che non si è fatto mettere i piedi in testa da nessuno, che non ha accettato consigli da nessuno e che ha comandato lui. Bravo pirla. L'inesperienza non è mai una colpa, l'arroganza sempre, e infatti il film lo mostra chiaramente. Come tutti e tre i film della Trilogia degli animali è noioso e scritto da cani (per restare in tema animalesco). Pone chiaramente le basi per tutti gli elementi che troveremo in futuro in buona parte della sua produzione e chiarisce subito con chi abbiamo a che fare e detto da me non è una cosa positiva in questo caso. Possiamo poi davvero parlare di elementi ricorrenti o si tratta palesemente di riciclaggio di idee che erano già stantie la prima volta? Lascio a voi intendere quale sia la mia opinione. Però il film funziona. Fa un sacco di soldi.
Siccome il cinema è pur sempre un'industria ecco che al film ne seguono immediatamente altri due: Il gatto a nove code e Quattro mosche di velluto grigio. Avete tutta la mia ammirazione se siete in grado di distinguerli uno dall'altro. (Ma anche dai suoi gialli successivi). Tre gialli all'italiana che hanno contribuito sicuramente a mettere a fuoco quelli che con il tempo sono diventati tratti distintivi del genere e che hanno indubbiamente portato a decine di emulatori, ma che sono invecchiati malissimo, che non reggono il confronto con chi realmente del genere è stato pioniere (Mario Bava, parlo di te). Non li posso sopportare e non costringerò mai più me stessa alla visione di questa roba perché la vita è una sola.
Certo che poi è successo Profondo rosso, che sarei ingiusta a paragonare ai primi 3. Rimane un film che non amo particolarmente, ma è chiaro anche ad occhi che, come i miei, non hanno particolare interesse a guardare, pur essendo uguale su un milione di aspetti ai suoi predecessori (ma i suoi gialli sono tutti fatti con lo stampino, mi ripeto) di sicuro sposta l'asticella un po' più in alto, per cura e interesse e anche banalmente livello di violenza. L'inserimento di almeno un pochino di soprannaturalità (l'autocorrettore non me lo corregge quindi deve essere un termine italiano) è sicuramente un valore aggiunto.
Ed è a questo punto, però, che mi sento di parlare di un'altra faccenda. Pare evidente agli occhi dello spettatore che Argento ha una gran passione per tutto il comparto tecnico, questo glielo devo concedere. Lo ama proprio, fa ricerca, si impegna, gli piace un casino. Il suo periodo d'oro è stato negli anni '70, e bisogna ammettere che l'artigianato dei suoi lavori è una delle componenti più interessanti. Ma è qui che mi casca l'asino. Dario Argento, grazie appunto al papà di cui sopra, ha avuto l'immensa possibilità di circondarsi fin dal primo film di straordinari professionisti del settore. Il direttore della fotografia de L'uccello dalle piume di cristallo è Vittorio Storaro, 3 volte premio Oscar di cui una per Apocalypse Now. Sempre per il suo primo film ha avuto Ennio Morricone per la colonna sonora, e la loro collaborazione si è poi estesa a diversi altri titoli. 4 mosche di velluto grigio è stato montato da Francoise Bonnot, Oscar nel 1970 per il montaggio di Z - L'orgia del potere. Carlo Rambaldi ha curato gli effetti speciali di Profondo rosso. La sua collaborazione con Stivaletti è storica. Ha spesso lavorato con Mario e Lamberto Bava. Forse il mio è un giudizio superficiale e anche cinicamente dettato dalla mia antipatia, ma se non avesse avuto questo sconfinato privilegio oggi noi Dario Argento non sapremmo nemmeno chi è. Nella sua biografia anziché prendere coscienza di questo si pone in una posizione di estrema superiorità rispetto ai suoi collaboratori, parlando spesso di 'sguardi riconoscenti' nei suoi confronti dai suoi amati sudditi che tanto avevano bisogno di lui. Parla apertamente di persone di rilievo nel mondo del teatro che devono a lui la rinascita della loro carriera. Un ego che non ci si crede. Mi sono spesso ritrovata a leggere attonita gli sproloqui di un uomo anziano così pieno di sé da non vedere oltre il proprio naso. Tutto il mondo dello spettacolo debitore nei confronti di Dario Argento. Un modo così gonfio di parlare della propria vita che lascia senza parole.
Però dopo Profondo rosso succede qualcosa che per me ha del soprannaturale: Dario Argento fa un capolavoro. Qualcosa di inspiegabile avviene in Italia nel 1977 e quel qualcosa risponde al nome di Suspiria, uno degli horror italiani preferiti di sempre della sinceramente vostra. Suspiria ha tutto: colori, regia, atmosfera, folklore, ambientazione, storia. L'aria del film è straordinaria a partire dalle primissime scene. Come un lavoro così sia riuscito ad un regista che sia prima che dopo non ha mai soddisfatto le mie aspettative ha per me dell'incredibile. Suspiria è un film che si piazza sotto la pelle, che incupisce l'aria intorno, che non fa la paura canonica ma che molto più elegantemente inquieta e riempie l'atmosfera. Il remake di Guadagnino è una meravigliosa ciliegina su una torta già buonissima, che naturalmente Darione ha dovuto rovinare sputandoci sopra con la presunzione di chi non vuole ammettere che qualcun'altro abbia fatto un lavoro immenso. Peccato per lui, che non sa vedere il bello nemmeno quando glieli cacci sotto il naso come Sherlock Cumberbatch il giorno delle nozze di Watson nella serie tv. La mia opinione da hater è che il contributo della Nicolodi in Suspiria sia molto più importante di quanto Argento voglia farci credere, perché come questa roba sia uscita dalle mani che hanno prodotto Il fantasma dell'Opera del '98 è non solo inspiegabile, è incredibile.
Gli anni '80 rappresentano un gran calderone di roba mediocre. Non si toccano i picchi di orrore (nel senso brutto del termine, non in quello interessante) che raggiungiamo dal '93 in poi, ma di roba buona c'è ben poco. Sono degli anni '80 Opera, uno dei film con i dialoghi più atroci mai visti (ma sono reduce da Tenet, e anche lì a dialoghi...), l'impietoso - e noiosiiiiissimo - sequel di Suspiria, Inferno, ma anche Tenebre e Phenomena. Il primo è uno di quei gialli sempre identici a se stessi di cui sopra e il secondo è pieno di insetti quindi il mio giudizio è di parte: al patibolo. Gli anni '80 sono noiosi, nel complesso trovo i suoi film di questo periodo ripetitivi, poco interessanti, con nulla da dire.
Poi arrivano gli anni '90, quelli con la fama di essere brutti e cattivi per il cinema dell'orrore. Per Dario Argento è l'inizio della fine. Non che per me abbia mai avuto momenti di vero splendore, Suspiria a parte, ma quello che succede da Trauma in poi è una lenta discesa verso gli inferi del cinema. Se per i primi film mi pareva anche giusto spiegare cosa ci fosse di sbagliato, elencare l'orrore che succede nei film dell'ultima fase del regista romano è come sparare sulla Croce Rossa. Non sarò così superficiale da attribuire il considerevole peggioramento solo all'introduzione della figlia Asia in ogni cast dal '93 in poi, non sono così ingiusta. Però è sotto gli occhi di tutti che l'amore genitoriale lo ha accecato e lo ha costretto a usare Asia in ogni film, quando davvero Asia dovrebbe fare un altro lavoro. I film da allora dimostrano che non ci si è messi al passo con i tempi, che non si è adattato il proprio modo di fare cinema ai milioni di passi avanti che l'industria ha fatto dagli anni '70 ad oggi. Parlo di recitazione (che è la critica più banale, ma non dirlo è un po' prendersi in giro), messa in scena, banalmente anche solo scelta musicale. I Goblin stavano da dio sotto a Profondo rosso ma stonano sotto Non ho sonno. Oltretutto, Argento sceglie di toccare temi che alla sottoscritta importano molto, e con La sindrome di Stendhal (film in cui la sindrome che gli dà il titolo è assolutamente irrilevante) lo dimostra facendomi anche un po' girare le cosiddette. Da questo momento in poi i film sono parodie, ultimi sos lanciati da un uomo che vuole tenere alto il proprio nome finendo inesorabilmente per trascinarlo giù con sé. Avrebbe potuto fermarsi, vivere nella gloria del passato, fare il produttore. Ha invece portato avanti questo accanimento terapeutico nei confronti della sua stessa carriera che non mi fa venire voglia di prenderlo in giro, ma piuttosto mi intristisce parecchio.
Quello che è successo dopo, quando sono arrivati gli anni Duemila, non l'ho guardato. Ho provato a guardare Giallo in virtù di una mia passata passione per Adrien Brody, e ho guardato - e prontamente dimenticato - Non ho sonno, ma la vita è una sola. Non posso usare il mio poco tempo libero per guardare Dracula 3D.
Quello che, più di tutto, fa sì che io possa dire con discreta certezza che Dario Argento non mi piacerà mai è che non ha nulla da dire. Non serve leggere la sua autobiografia, che è uno dei peggiori libri che ho letto nel 2020 per cose dette e modo di dirle, basta guardare un paio di interviste. Quando gli si chiede di parlare dei suoi lavori lui ci gira intorno, non argomenta mai nulla. Non ha un messaggio da lasciare, non ha un concetto che gli interessa trasmettere, è un guscio vuoto. Parla in continuazione della 'febbre' che lo coglie quando scrive (il che forse spiegherebbe perché scrive così), di incubi, del mostro che vive dentro di noi ma dentro di lui sta un po' più in superficie, roba che se leggo un'altra volta di un mostro dentro Dario Argento chiamo un esorcista perché è chiaro che serve l'intervento della chiesa cattolica. Parlare di horror come di un genere che deve solo fare paura e far fare gli incubi è una visione limitata e limitante, e se questo è quello che Dario Argento ha da offrire allora grazie, ma io sono a posto così.