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lunedì 9 gennaio 2017

Ouija: Le origini del male

20:56
Su questo blog non parliamo di Ouija, quel lungometraggio di cui il film di oggi è sequel. Fingiamo che non sia esistito e proseguiamo nelle nostre miserabili esistenze. Abitualmente mi diverte parlare di film brutti, ma quello era un oltraggio alla pubblica decenza e quindi l'abbiamo lasciato finire nel dimenticatoio in cui le creature come lui meritano di stare.
Diversi blogger, però, mi hanno messo una mano sulla spalla:
'Guarda, non so come sia successo, giuro che il due è meglio, non sembra vero nemmeno a me ma è buono sul serio'
E allora che fai, non lo guardi?
Lo guardi.


Nel primo film avevamo incontrato la famiglia che è protagonista di questo sequel: madre con due figlie. Si mantengono consolando famiglie in lutto, fingendosi medium. Loro stesse, però, sono in lutto: hanno perso padre e marito di recente e la ferita è ancora sanguinante. Quando la mamma si decide a comprare una tavoletta Ouija, allora, provano per prime a comunicare con il loro defunto, scatenando forze ben più potenti.

Niente di originale, vero?
Il film, però, è di Flanagan. Non è che lo conosca alla perfezione, io, il vecchio Mike, ma è il signore che ha girato Oculus, una robina bella assai con immagini di rara bellezza. Diamogli allora in mano il sequel di un gran pattume, e incrociando le dita preghiamo fortissimo che faccia di meglio. Confermando le ipotesi più rosee, lo fa, eccome.
Prende una storia che più inflazionata di così si muore, usa escamotage tra i più comuni (colori scuri e freddi, dinamiche familiari poco serene, bambini con sensibilità più acute che diventano l'anello di comunicazione tra il mondo dei vivi e quello dei morti...) eppure finisce per fare una cosa che, paradossalmente, ha del miracoloso: fa PAURA.
Riesce nella missione che spesso l'horror si è scordato: spaventare, inquietare, far salire i brividi lungo il collo. A volte ripugna, usando la bocca come mezzo di disagio esattamente come era successo in quella scena della lampadina di Oculus su cui ancora faccio gli incubi, ma soprattutto, vista l'evidente capacità del solito MF, riesce in tutte queste cose pur avendo a sua disposizione un cast che definirei, come il consueto modo di dire, 'non bello ma un tipo'. A volte le mani sono state tenute con i palmi rivolti verso il fronte per un periodo un po' troppo lungo per essere sensato, e tendo a notare queste cose perchè mi suscitano la ridarella. A meno che tu non risponda al nome di Simon Pegg credimi che la ridarella non è quello che vuoi. Flanagan scongiura il rischio e mantiene inalterata la sensazione di inquietudine. Non era mica facile.

L'horror dell'anno (scorso)? Anche no, dai.
Una visione che fa il suo sporco lavoro e conferma Flanagan come un nome da tenere d'occhio? Per me assolutamente sì, e di questi tempi di magra sinceramente tanto mi basta.

lunedì 12 dicembre 2016

Found

12:13
Mi ero svegliata di buonumore. Il lunedì qui è giorno di horror ed ero determinata a buttarmi di nuovo sotto il treno dei survival, perché al momento non guarderei altro. Poi il mio sito di streaming preferito mi ha buttato fuori sto Found, della cui esistenza io ero totalmente ignara. Leggo l'accenno di trama, mi ispira, ed eccoci qua, con buona pace del mio survival.

Found si apre con un ragazzino, Marty, che frugando tra le cose del fratello maggiore trova una testa umana, e finisce così per scoprire che questo è un serial killer. 
Una cosina leggera per iniziare la settimana in freschezza.

Lo sapete perché è GIUSTO che i siti di streaming chiudano? Perché sono fetenti. Perché tu vuoi tensione e magari farti un po' la cacca sotto, ma vuoi mantenere integra la tua già traballante emotività. Non necessariamente vuoi iniziare la settimana con la morte nel cuore porco il giuda ballerino. E invece no, lui ti spta fuori titoli inesplorati e decide che se i subbatori hanno sofferto tu devi unirti al club soffritori. Mannaggial'oca.

Perché fa così male, sto Found?
Il protagonista è un ragazzino pieno di lentiggini (motivo per cui capirete che empatizzo molto), vessato dai bulli (continuo ad empatizzare), con una famiglia apparentemente tradizionale e infine un fratello omicida. È appassionato di film horror e graphic novel (empatia top level) e ha un solo amico, David. 


Piano piano che il film prosegue, però, anche quella famiglia apparentemente tradizionale diventa fonte di disagio. Ci sono segreti, cose non dette sia gigantesche che più piccole, ma soprattutto ci sono occhi ciechi. Sotto allo strato carino con mamma e figlio minore che prendono in giro il litigio babbo vs figlio maggiore c'è, per fare solo un esempio, un odio razziale sconfinato e involontario ispiratore. E allora, quando questo si palesa, diventa tutto più chiaro. Mai giustificabile nè comprensibile, ma si tira quel sospiro di sollievo da 'AAAAAhhhh ecccooooo'.
Mi rendo conto che agli occhi di chi non abbia visto il film io sembri parlare in italiacano, ma posso garantire che ha un senso. 
Vediamo se riesco a parlare anche per chi sia ancora libero dal dolorone di sto film:
Marty ama moltissimo suo fratello. La passione per l'horror l'ha presa da lui, lo emula e guarda con ammirazione. Spulciando proprio tra le cose di Steve (il fratellone), trova una videocassetta, che sembra davvero essere stata di ispirazione per i suoi crimini. Ed era troppo facile così, vedere un film che è bruttissimo e violentissimo e malatissimo e pensare che la sola visione ti renda uguale al protagonista. Io e un gruppetto di persone che bazzicano per la blogosfera dovremmo essere tutti rinchiusi nella stessa cella. Invece no, Found va oltre, ribalta l'apparente semplicità e ti ricorda che tu hai delle radici, e che queste devono per forza averti lasciato qualcosa, nessuno ne è indenne. 
E allora la violenza dilaga, si trasmette come un virus tanto che persino la creatura più innocente ad un certo punto esplode rischiando di superare un grosso limite. Nessuno ne è indenne. 
Marty, quindi, ad inizio film è una persona, e alla fine è tutt'altro. Chissà che cosa resterà di lui, dopo quel devastante finale. Lo aspettavamo, detto in tutta onestà, non è stato un sorpresone. Ma ciò non toglie che sia stato straziante e dolorosissimo.

In tutto ciò non ci è risparmiato il lago di sangue. Certo, prevedibile anche questo in un film che parla di un serial killer, ma la carta splatter è stata a mio parere giocata benissimo. Troppo facile mostrare Steve che uccide. Qua la scena più impegnativa è indiretta, metacinematografica: c'è di mezzo una VHS che non voglio vedere mai più mai più mai più. Era da un sacco che non vedevo scene così toste e ci sto mettendo un po' a digerirle. Certo, fossero state inserite in un film discetamente di merda forse adesso le avrei già mandate giù, ma qui, buttate lì quasi da avvertimento, sono state tostissime. 
E le lacrime di quel povero Marty, colpevole solo di essere nato nella famiglia sbagliata e di non essere ancora interessato alle tette, sono state un macigno. 
Mi sento un po' sporca, un po' scossa, un po' triste. 
Io, che per mio fratello mi sono privata di tutto, che ho difeso lui sopra ogni altra cosa e persino al di sopra della mia stessa dignità, io che sono la maggiore, e che quindi quando sento Steve implorare Marty di non piangere mi sento cadere il cuore, non sono pronta a rivedere sto film in tempi brevi. 
Sentire Marty dire che quello non era Steve, non poteva essere Steve, è stato devastante. Mio fratello non può fare queste cose, mio fratello è l'unico che mi ascolta, è l'unico che capisce, è l'unico che mi difende. 


Oggi pomeriggio con un sorriso sgargiante andrò a vendere i pasticcini per Santa Lucia con quel film qua sul groppone. Pensatemi.

sabato 3 dicembre 2016

Non solo horror: Song of the sea

12:26
Io e la mia solita amica Elena abbiamo questa cosa per cui i nostri discorsi non hanno alcuna logica, partono da una cosa e finiscono chissà dove. La creatività è uno dei punti su cui torniamo spesso, e ogni volta in cui mi sono sentita in blocco (ed è capitato con frequenza allarmante), lei mi ha detto che niente stimola la creatività più di Song of the sea, che lei ha visto molto prima che uscisse nelle sale italiane.
Ce ne ho messo di tempo, ma eccomi qua.

Song of the sea è la storia di due fratelli, e penso abbiate ormai capito che i cartoni con due fratelli non riescono a lasciarmi fredda, che convivono con la scomparsa della madre, una selkie, creatura del folklore irlandese. Questa natura mitologica è stata trasmessa alla figlia minore, Saoirse.
Capirete da voi che il primo vero vantaggio del film è quello di decidere insindacabilmente quale sia la vera pronuncia del nome della Ronan, fine della questione.


Fare i cinici è facilissimo, è una cosa a cui gioco continuamente e che mi dà anche piuttosto soddisfazione. Ogni tanto, però, per ristabilire un minimo gli equilibri interni e scongiurare quindi il rischio di un TSO, ecco che faccio queste manovre suicide e mi lancio in visioni che prendono tutti i sentimenti umani e li scombussolano tutti, lasciando me e chiunque altro ad un ameba singhiozzante.
Song of the sea parla di una famiglia, che nel suo piccolo mondo sembra stare d'incanto. La madre, però, deve fare ritorno al suo habitat, il mare, e lascia dietro di sè lo scheletro di quella che era la calorosa famiglia iniziale. Un uomo spezzato e solitario, un bambino rancoroso e sofferente e una bambina muta. Chiaramente quando la nonna fa la sua comparsa cerca di rattoppare il danno, come le chiede la sua natura di nonna, ma certe ferite vanno ricucite da sè. Iniziano allora canti, rincorse, suppliche, avventure. Arrivano streghe, gufi, streghe dei gufi. Perchè la più reale delle storie, ovvero quella di persone che soffrono, viene raccontata con la magia di un mondo fatato, in cui i bambini si legano alla cintola col guinzaglio e in cui i sentimenti diventano di pietra.
Viene raccontata con disegni dai tratti semplici ma incantati, dai movimenti leggeri e dai colori tenui, e con un dolcissimo uso della musica. No, non è un musical, è un film in cui la musica è salvifica e non riesco a pensare a niente di altrettanto vero.

E se fino a qui sembra solo la storia tenerina di un fratellone maggiore che deve salvare la sorellina, ecco che ad un certo punto arriva ciò che spinge la lancetta un po' più in là, e che fa passare Song of the sea da un bel film d'animazione ad un'opera ben più profonda, facendo quello stesso percorso che fa il mio adoratissimo La città incantata.
Ben, il bambino, e la strega, hanno l'ambito confronto, e lei gli fa la più semplice delle domande: se potessi pietrificare il tuo dolore, non lo faresti?
Eh.
Se avete una risposta tenetevela per voi ancora un po'.
Poi guardate Song of the sea. Può essere che finiate affogati nella vostra commozione, ma se non altro avrete le idee un po' più chiare.
Mettete da parte il nostro amico cinismo per un po', ché io sto ovulando e ho la lacrima facile, e accettate che la soluzione è questa: il dolore ce lo dobbiamo tenere, fa parte di quello che siamo anche se è una superba rottura di coglioni. Ma si cura. L'amore lo cura. L'amore (di qualunque tipo) ti prende il viso tra le mani e ti forza a cantare la canzone che ti salverà la vita. Ed è vero, lo è sempre anche quando queste ci sembrano solo cagatine buoniste e smielate, che ci rende individui migliori, che affrontare quella sofferenza (anche quella più arrabbiata) ci libera di quel risentimento rancoroso che ci rende ostili e furiosi col mondo.
Non so quanto io possa essere attendibile, quando dico certe cose, ma una cosa la so per certo: io SONO rancorosa, io provo risentimento, io sono arrabbiata. Lo sono da quando ho memoria. Lo sono per quelle cose di cui sono stata privata, soprattutto per le possibilità che mi sono state tolte, lo sono per quelle cose che avrei desiderato e che non ci sono state e per anni sono stata certa che questi sentimenti me li sarei portata dentro per sempre, e quel piccolo maleducato dispettoso Ben non poteva starmi antipatico, era una Mari irlandese.


Per quanto Song of the sea sia incantevole, non fraintendetemi: non dico certo che un film rende persone migliori, e se I Tenenbaum non hanno risolto i miei problemi nessuno al mondo lo può fare, ma la testa si apre. Quando ci si emoziona per il dolore provato da un bambino disegnato su uno schermo, è naturale riflettere sul proprio, e guardarlo dall'esterno per un po'.
Fa bene all'anima.
E fa bene alla testa, perché oltre a tutte queste infinite sovrastrutture che ci costruiamo sopra in base alla nostra vita, Song of the sea è una poesia.

Questo il link per acquistare il DVD del film: http://amzn.to/2gkDeQf
Cliccando qui, invece, arriverete dritti alla playlist di spotify della colonna sonora. Se riuscite ad ascoltare altro fatemi sapere.

martedì 25 ottobre 2016

Incontri ravvicinati del terzo tipo

14:53
Me ne frega qualcosa di alieni? No.
Me ne frega qualcosa di Spielberg? No.
Quindi che film guardo?
Incontri ravvicinati del terzo tipo.
Chiaro.

Roy è un elettricista, Jillian la madre di un bambino tra i più belli che io abbia mai visto in un film. Insieme ad altre persone assistono a strani fenomeni in cielo, e capiscono che si tratta di alieni. La loro curiosità non viene affatto soddisfatta dalle autorità,e toccherà a loro andare a fondo.


Io non lo so cosa mi sia venuto in mente, perché se oggi penso a me che guardo un film di millecinquecento ore (va beh, sono due abbondanti, ci siamo capiti) che parla di astronavi con le lucine mi viene da ridere. Non è la mia cup of tea, e capisco che in effetti verrebbe da chiedere quale sia, la mia cup of tea, dato che non mi piace quasi niente.
Come mi era già successo guardando Pacific Rim, però, ho provato ad uscire dalla mia adorata comfort zone, e a buttarmi su qualcosa di fuori dai miei canoni. Come con Pacific Rim, ne è valsa la pena.

La curiosità è una di quelle caratteristiche che mi fa piacere le persone. Figuratevi quindi come mi è piaciuto Ray. Avrebbe potuto archiviare tutti i folli eventi che gli sono capitati sotto l'etichetta 'eh va beh avevo sonno' oppure 'forse dovevo bere un pochino di meno'. E invece no. Lui si è fissato che gli alieni stanno arrivando e ne vuole sapere sempre di più, lui e quella sua esilarante faccia mezza scottata.
Come spesso mi capita, non avevo letto niente al riguardo, volutamente. So di essere molto influenzabile e non volevo essere una di quelle per cui Incontri ravvicinati è bello perché sì. Non sapevo se aspettarmi uno di quei film in cui gli alieni sono brutti e cattivi e ci vogliono morti, e speravo di no perché l'ultima volta che ne ho visto uno è stato quella pagliacciata de Il quarto tipo e non volevo ripetere l'esperienza. Avevo anche paura che fosse uno dei film pieni di buoni sentimenti di SS, che a me in generale non soddisfano e fanno un po' sbuffare.
Effettivamente, è stato questo il caso.
La differenza è stata nel modo in cui ai buoni sentimenti si è arrivati, perché poco prima un bambino era stato rapito e va bene tutto ma di buono non ce n'è nemmeno l'ombra.


Riesco tranquillamente a vedere i bambini degli anni 80 a fremere dall'eccitazione per questo film, e questo non può che essere un complimento. La scena dell'arrivo della nave madre (si dice così? Riccardo invoco il tuo aiuto) è incredibile, da bocca spalancata. E mi immaginavo milioni di bambini così, con le manine incollate allo specchio ad ammirare le luci e l'enormità della nave, e secondo me questo è sinonimo di successo spaventoso. Perché prima è stato brutto, e spaventoso (sappiamo per esperienza che i papà che perdono la testa ci fanno paura), poi però è diventata magia.

Non se se arriverà il giorno in cui film come questo mi faranno gridare al miracolo. L'altro giorno, però, mi sono molto divertita, mi sono lasciata di nuovo andare all'inaspettato e non esiste esperienza migliore.

lunedì 27 giugno 2016

The Conjuring - Il caso Enfield

14:38
Due settimane fa ero in sala, lo schermo stava per proiettare The Neon Demon. Partono i trailer, che io malsopporto ma che il cinema mi propina forzatamente ogni volta. Parte quello di The Conjuring - Il caso Endfield. Mi convince, guardo Riccardo con sguardo sognante, ricevo come risposta un netto 'No.'
(Riccardo, lo dico per i lettori occasionali, è la povera anima che sopporta la mia ben poco gradevole compagnia. Tenetelo a mente, perché è molto presente sul blog e sarà il protagonista di questo post che prevedo di una lunghezza sconsiderata.)
Riassunto per gli impazienti: mi è piaciuto tanto e mi ha fatto paura.
Avrei solo preferito vederlo senza essermi coccata il trailer prima.

Siccome la femmina della coppia sono io, ecco quello che è successo:
al cinema ci siamo andati
colma di misericordia, ho acconsentito a far venire con noi il nostro amico scemo, affinchè Riccardo avesse un'ulteriore manina da stringere qualora la tensione si fosse fatta insostenibile, il che è avvenuto abbastanza alla svelta. Tutto si può dire di Wan, ma lento proprio non è.
Per raccontarvi cosa altro è successo ieri sera, devo sottoporvi a qualche spoiler ma niente di che.

Il caso Enfield che dà il (sotto)titolo al film è quello della famiglia Hodgson. È una vicenda piuttosto nota a chi, come chi scrive, bazzica per storie paranormali che si spacciano per vere. Se anche solo una volta avete cercato faccende simili su Google siete sicuramente incappati nella storia di questa madre divorziata, con quattro figli a carico, una situazione di ristrettezze economiche e fenomeni bizzarri ad infestarle la già malconcia casa. Sicuramente avete visto questa foto da qualche parte:


La trama del film, insomma, è questa. Madre sola, figli piccoli in età scolare, entità che si palesa a disturbare la loro (mancata) quiete. In particolare ad essere presa di mira è Janet, la minore delle figlie femmine, 11 anni. Per capire cosa succede e valutare se sia il caso di richiedere l'intervento della Chiesa Cattolica, intervengono gli amatissimi e bellibelliinmodoassurdo Warren, i soliti Ed e Lorraine a cui vogliamo così bene. Se la Farmiga e Wilson dovessero mai figliare, cosa che spero perché qui è partita una ship di quelle importanti, ne uscirebbe una creatura dalla chiara appartenenza angelica. Galeotta fu la scena in cui quel bell'uomo di Patrick Wilson, armato di chitarra e sguardo pieno d'amore, canta ai bambini la sola canzone di Elvis che mi sia mai piaciuta, I can't help falling in love with you.

Ciò detto, passiamo alla cosa che mi ha incuriosito di più durante la visione, oltre ovviamente al film: Riccardo, e il suo modo di guardare i filmacci brutti che fanno paura.
Facciamo una piccola presentazione del personaggio per i soliti lettori occasionali di cui sopra.
Lui guarda un buon numero di film, ha una certa esperienza, ma le sue preferenze vanno sempre sul fantasy e sulla fantascienza pura. Parliamo di uno che tutte le sere dice una preghiera a Gandalf e che non è ancora certo di avere superato la dipartita di Han Solo, eroe della sua infanzia. Gli horror gli fanno una discreta paura, ma questo non lo ha mai fermato dall'accompagnarmi (nonostante gli sia stato fatto notare che posso andare al cinema da sola e cavarmela, EHM).
Quando inizia a salire la tensione, lui ha un rituale che al confronto Nadal prima di battere pare non faccia niente. Intanto, parla. Ridacchia, cerca dettagli in scena (e lui ha un occhio per i dettagli insignificanti che non ho mai trovato in nessun altro), commenta le cose a voce alta. Ho quasi la sensazione che dire le cose a voce alta lo aiuti a riportarle nella loro dimensione di finzione. La cosa peggiore, però, è che inizia a farmi i grattini sul polso, sempre nello stesso identico punto, rischiando di mandarmi alla neuro.


Questo volendo ci potrebbe anche stare, diciamocelo. La paura è lecita se non sacra, e The Conjuring 2 la sua bella paurina la fa eccome. C'è qualche spaventino di quelli da saltello possente sulle poltrone, ma poca roba. Come era stato con il primo film della saga (la possiamo già definire così?) Wan ha trovato il punto di forza nel creare atmosfere incredibilmente funzionanti, e se la paura del saltellino passa subito, l'aria pesante resta dentro e anche quando finisci il film e vai a mangiare una gigantesca pizza di quelle alte una spanna ti senti il fiato sul collo. Il fiato di un vecchio.
La cosa di Riccardo che mi infastidisce/incuriosisce di più quando siamo al cinema, però, è la sua totale incapacità di sospensione dell'incredulità. (Tre volte al contrario allo specchio e il mio faccione spunterà a torturarvi nel sonno)
Non è capace di godersi un film per intero, così com'è. Lui deve mettere in dubbio, lui deve capire alla perfezione, lui cerca di 'risolvere il caso' prima che lo faccia il film, lui vuole LO SPIEGONE. E io, ogni singola volta, gli dico di rilassarsi, di godersi quello che viene, di lasciarsi trasportare. Ma lui niente. Ci provo a dirgli che il bello è proprio quello, è proprio sentire crescere la tensione, sapere che ti spaventerai (perché lo sai sempre), spaventarti comunque, e provare quel sollievo tipico che si percepisce quando finalmente il male ha un volto che non sarà mai brutto quanto quello che stavi immaginando.
Esempio, che secondo me vi fa capire ala perfezione di che tipo stiamo parlando: Janet è APPESA AL SOFFITO. Tenuta su dalla forza malefica che sta cercando di farsi largo dentro di lei. Viene improvvisamente risucchiata attraverso il soffitto, per ritrovarsi nella stanza al piano di sopra. Risucchiata, Attraverso. Il. Soffitto. Per entrare nella stanza ritenuta il centro delle attività paranormali. La scena non è impressionante a vedersi, ma sta 11enne stava appesa al benedetto soffitto! Ha attraversato la parete!
Sua reazione: 'Sì ma sta roba non è possibile!'
Trattengo il 'MA VAH?' a malapena. Questo si guarda i film in cui la gente combatte nello spazio con le spade laser (le spade laser) ma se in un horror in cui si parla di fantasmi e demoni una bambina passa attraverso le pareti a lui pare strano. E il 'tratto da una storia vera' non c'entra, eh. Non gli torna e basta.


Ora, perché parlare così a lungo delle sue reazioni al cinema? Perché sono reazioni comuni ad una fetta molto alta di popolazione. Immagino non sia un'esclusiva del multisala di Cremona, secondo me i giovani che fanno così li avete anche nel vostro cinema. Certo, poi magari non tutti vanno a vedere su Google le corrette classificazioni dei demoni, ma capite bene che se questo sta con me da quasi 5 anni bene bene non sta.
Ma forse è questo il punto di The Conjuring - Il caso Enfield. Ha tutte le potenzialità per piacere a chiunque, per intrattenere chiunque. Ognuno poi ne trae quello che più lo aggrada: se sei un'ingegnere psicopatico passi le due ore a cercare spiegazioni fisiche a fenomeni che proprio per loro natura non ne hanno, se magari sei un appassionato di orrore ti siedi e ti godi lo spettacolino che Wan ha preparato per te, se sei scemo come il nostro amico cerchi le immagini di gattini su Google per resistere. Sono due ore di giostra, che passano come se fossero il minuto convenzionale di Blue Tornado. Sta a te decidere se chiudere gli occhi e farti sballonzolare in giro dai binari o se studiare come la meccanica ti porti così in alto senza farti cadere.
Tanto fa paura comunque.

martedì 10 maggio 2016

Intervista col Vampiro

20:20
Ho incrociato il libro della Rice nella biblioteca del mio paese, anni fa. Ero nel pieno della mia traumatica fase post - Friedkin, e siccome all'inizio del romanzo si parla di un personaggio posseduto dal demonio, il buon Intervista col Vampiro, dopo essere stato accuratamente cosparso di acqua di Lourdes direttamente dalla testa di quelle inquietanti madonnine di plastica, è tornato nel posto in cui meritava di stare: ad impolverare sugli scaffali.
Lo riprendo oggi, a trauma QUASI superato, perché in questi giorni si parla tanto di un suo remake con Jared Leto. (A me Leto è sempre piaciuto, ma non si starà trasformando in una macchietta johnnydeppiana? Mi esprimo dopo Suicide Squad)

Daniel è un giornalista che si trova nella situazione di dover intervistare un vampiro, Louis, il quale nel corso della chiacchierata gli racconta tutta la sua lunga esistenza, dalla sua creazione da parte del vampiro Lestat all'incontro con la piccola Claudia.


Quante volte sarà già stata fatta secondo voi la battuta sulla crescita di Claudia all'interno di una famiglia gay? Che dite, mi trattengo? La tentazione è forte.
Di certo la regazzina è venuta su in un ambiente completamente maschile, e la sola conseguenza negativa che ha subito nulla ha a che vedere con l'assenza di una donna. Di certo amore ne ha avuto. Tanto, tantissimo, da spalancare il cuore, da quel Louis che ha vissuto (e sta vivendo) un'esistenza colma di senso di colpa per avere causato alla piccola quella trasformazione che lui stesso aveva tanto detestato. Bellissimo, eh, il rapporto tra i due, per quanto sia difficile vedere le sembianze di una bambina chiamare 'Amore' un adulto Brad Pitt, ma che nooooia Louis. Buono, buonissimo, pieno di buoni valori e incapace di crudeltà, ricorda la noooooia di quel Ned Buoncuore Stark che sappiamo tutti bene che fine ha fatto.
Molto più interessanti i Lannister, allora, così come è molto più interessante Lestat, con quella sua risata incredibile e quella splendida sfrontatezza. Le lagne etiche ci stanno per cinque minuti, poi davvero non se ne può più, vai piuttosto avanti a mangiare i cagnolini delle ricche megere ma smetti di rompere l'anima a noi, ché la scelta ti era stata data e tu non hai voluto morire.


Insomma, io stasera sono poco seria perché non scrivo da un po' e devo tornare a mio agio, ma Intervista col vampiro è un film pieno di fascino. Aiutato sicuramente dall'oggettiva bellezza dei signori coinvolti (Cruise non è per niente il mio tipo, ma se considerate che a me piace da morire Bardem forse il problema sono io), ci conduce in un mondo in cui il tormento regna sovrano, sia esso per il senso di colpa di cui parlavamo prima, sia per l'insaziabilità dei vampiri, sia per l'attrazione non corrisposta, sia per l'amore ossessivo che lo lega a Claudia. 
Certo, se quelli che piacciono a voi sono i vampiri brutti e cattivi, violenti e caciaroni, Intervista col vampiro lasciatelo proprio perdere. Se invece, come a me, vi piacciono gli uomini più composti ed eleganti, che portano giacca e cravatta con la dimestichezza con cui io porto i pantaloni con su Ganesh comprati a 5€ sul mercato, allora siete nel film giusto.
Un gusto incredibile per il romanticamente bello, tre (facciamo due, dai) personaggi indimenticabili, una lentezza di quella dolce che ti culla un po', e tanto è bastato a rendere questo pomeriggio di angosce un po' meno tremendo.

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