sabato 16 aprile 2016

The boy

11:10
Sto per copiare un post, vi avviso.
L'altro giorno su facebook ho trovato questa recensione. In poche parole, è un chilometrico post in cui si prende un libro (in questo specifico caso il primo lavoro della Troisi), e lo distrugge parola per parola. Argomentando in maniera esemplare, però, se no è troppo facile. Capito che scoperte rivoluzionarie faccio, io?
Quindi, visto che il signore del link di cui sopra mi ha aperto un universo, gli copio l'idea, tiè.

Da qualche tempo a questa parte non ho parlato di film brutti semplicemente perché è da un po' che non ne incontro. Se non uscivo convinta dal trailer molto semplicemente stavo alla larga dal film, ché a me la mentalità del 'lo vedo lo stesso per giudicare' non fa impazzire. Al massimo ho trovato cose mediocrine di cui non avrei avuto niente da dire se non 'meh', quindi mi pareva inutile scriverci un pezzo stiracchiato tanto per fare numero. Ricominciare a farlo dandogli un senso, però, mi sembra più intelligente piuttosto che tornare a fare dei post tipo 'prendiamo in giro questo film perché fa schifo!'. (E VOGLIO ricominciare a guardare anche i film brutti, perché mi voglio divertire pure io.)
Sempre scoperte rivoluzionarie? Mi ringrazierete dopo, dai.


Per fare per bene il mio lavoro, stavolta, mi sono informata.
Il film è diretto da William Brent Bell, la cui manina ha firmato anche La metamorfosi del male e L'altra faccia del diavolo. Film visti: 0/2, sono aggiornatissima. Quantomeno sono partita senza pregiudizi. Anche perché il movie database la sufficienza gliela dà, Rotten Tomatoes lo liquida con uno spietato 29%. Fine del mio livello di informazione.

Partiamo dalla stessa domanda da cui parte l'autore dell'articolo che vi ho linkato su: perché questa roba ha trovato una distribuzione? Peraltro, una buona distribuzione: nel mio multisala di fiducia. quello di cui mi lamento sempre ma in cui non smetto di andare, era presentato con un gigantesco cartonato tutto blu messo all'ingresso in modo che a nessuno sfuggisse che DEBOI, l'horror dell'anno, era in sala. Certo, la statistica era dalla sua parte. Se una cosa è brutta è più facile che qua da noi le venga data una possibilità.
Animo da madriterese del cinema? Buoni samaritani della pellicola? Vediamo il bello anche nelle situazioni tragiche?
Chi lo sa.
Sta di fatto che quando in giro si scoprono film più piccini ma intriganti e benfatti, qua non abbiamo chance di vederli in sala, e da questo punto in poi ci starebbe bene una riflessione sulla pirateria che vi risparmierò. E qui mando un bacio con la manina e la duckface a Honeymoon, Starry Eyes, Spring e It follows. 
Se fossi capace come l'autore originale a questo punto farei ipotesi sul motivo del successo di certi film poco impegnati e generalmente (con le dovutissime eccezioni) pessimi, ma mettendomi dalla parte dell'utenza media del cinema mi viene solo da pensare che siano film molto semplici.
Esci con gli amici, vuoi un filmettino che vi faccia un po' strizza (e in genere questi prodottini funzionano dal punto di vista dei sussultini sulla sedia), senza pensieri nè complicazioni, una cosina come DEBOI va benone. Fa cagare, ma va benone.
E quindi ne escono sempre di più, tanto qualche pirla ci va sempre, a vederli in sala.
Ma questi sono solo pensieri superficiali, non ho le competenze per andare troppo a fondo sulla questione. I soldi facili che questi prodotti portano potrebbero essere investiti in cose meno a favore di mercato, quindi chi sono io per chiedere ai signori produttori di smettere?
Ma, e queste non vogliono essere domande retoriche ma oneste riflessioni che mi viene da fare e di cui voglio parlare con voi, possibile che il guadagno sia la PRINCIPALE spinta di una realtà come quella cinematografica? Non vivo sulle nuvole, pago le bollette e so che nessuna attività vive d'amore per l'arte, ma cosa spinge una casa di produzione ad investire in quello che è evidentemente uno script scadente? Su questo poi ci torniamo.
Altra domanda che a questo punto mi sorge: perché la gente ha paura di impegnarsi? Perché cerchiamo film leggeri in modo da 'staccare' il cervello? È comprensibilissimo, tanto è vero che, come dicevo su, mi impegno a ricominciare con i FDM, ma perché ci limitiamo a quello? Perché riflettere anche al cinema ci fa paura?

Ma vediamo il film nello specifico, prendendolo come quello che è: uno dei tanti horrorini che escono tanto per trasmettere qualcosa nella sala sette in cui non si sa mai cosa sbattere.
DEBOI parla di Greta, ragazza statunitense che per scappare da una situazione difficile si rifugia in Gran Bretagna, dove è stata assunta da una coppia come babysitter del loro bambino, Brahms.
Che non è un bambino, è un bambolotto.


Pausa di riflessione: se le bambole vi inquietano statene pure alla larga che qui è tutto un mostrare il faccino tondo e sorridente in favore della luce delle candele. Oppure andate a vederlo proprio per quello, almeno avete qualche speranza di provare qualcosa durante la visione.
Se, come a me, i finti bimbi non vi arrecano danno, andate tranquilli che è una passeggiata.

Andiamo con calma dall'inizio: DEBOI ha iniziato a non piacermi dopo i primi minuti. E da questo momento in poi attivo lo SPOILER ALERT!
Greta arriva in casa, nessuno la accoglie, lei entra e si guarda intorno. È giorno, ma tutto è cupo, scurissimo, manco una luce accesa (e questa cosa delle luci tornerà). E qui parte tutta una serie di inquadrature che si vede troppo (TROPPO) quanto si sforzino di inquietarti. I corridoi bui, e le teste degli animali impagliati in penombra, e i ritratti, il tutto ambientato in una casa vittoriana bellissima e gigantesca che francamente non ha senso di esistere. Quando abbiamo deciso che la casa era un personaggio del film? Se stessimo parlando di case maledette, che sappiamo piacerci tanto, ti appoggerei l'impresa, che qua a Redroomia le case vittoriane tutte scure ci piacciono assai. (Avreste dovuto vedermi a Praga. Tutto cupo, e gotico - romanico, con le chiese imponenti e spaventose, mi sentivo come una bambina per la prima volta a Disneyland)
Ma non capisco questo sforzo sovrumano di creare l'atmosfera.
Guarda, amico mio, ti dico una cosa io che non ne so niente: hai per le mani un bambolotto. Asso nella manica incredibile, puoi giocare con quello, ma non sforzarti troppo di condurmi per mano verso la Paura.
Perché a me fa un po' tenerezza questo tuo sforzo incredibile che sembra che devi fare la cacca dura, e penso tu concordi con me che la tenerezza mi ostacola un po' lo spavento.
Faccio un esempio a favor di lettori che non hanno ancora visto il film: la messa a tacere repentina del suono, in un momento che tu mi stai indirizzando a vedere come di tensione, mi fa capire che in quel preciso momento succederà qualcosa.
E se me lo aspetto, non mi spavento più.
E sia chiaro che qui non serve fare i grandi intenditori di cinemone: basta avere visto anche giusto due cose come Bianca e Bernie o Grease per non farsi invischiare in faccende del genere. Semplicemente, non funzionano.

È tutto troppo lampante, niente è lasciato in sospeso, niente ci tiene attaccati allo schermo per vedere come finisce. Avrei anche voluto scrivere un post semplicemente sui cliché che non si riesce manco a contare, ma a che pro?
A cosa vi servirebbe sapere che, per l'ennesima, frustrante, volta, abbiamo due giovani bei ragazzi che, sempre per qualche strano caso sono entrambi single e pronti ad innamorarsi l'uno dell'altra, che dopo due volte che si sono visti sono pronti a perdere la vita l'uno per l'altra, che sono incredibilmente capaci a flirtare e che provano istantanea simpatia?
Perché lo fate?
Perché non ci provate neanche, a offrirmi qualcosa di diverso?
Perché nel 2016 una povera cretina si alza da letto in piena notte e anzichè accendere la luce o usare la torcia del telefono come qualsiasi cristiano usa una candela?
Perché non mi regalate un minimo di approfondimento, ci sono due personaggi DUE buondio, fammeli conoscere. Greta da quando scopre che il bambolotto è in realtà un bambino, o un fantasma, o boh, subisce un istantaneo cambiamento, come quando butti la candeggina sui vestiti e in due secondi questi perdono il colore.
Donna con profondo istinto materno a cui la vita ha strappato la prole che allora riversa tutto il suo amore su un cazzo di bambolotto.
Di Malcom si sa giusto il nome.
Non contano niente questi due esemplari, come non  conta niente il bambolotto, non conta niente la noia, conta solo che ti faccia pauuuuuuraaaaa

E come te la faccio, di nuovo, la paura?
Ti mando in scena un uomo violento e lo faccio comparire grande grosso e inquietante e poi faccio le inquadraturine spaventose dove ha il viso in penombra così ti inquieeeeeto.
Questo di violenza sulle donne ne sa meno di niente. Come se gli uomini violenti avessero tutti le sembianze di Khal Drogo, come se invece di solito non fossero omuncoli piccoli, dall'aspetto banale, comune. Come se ci fosse bisogno di penombrargli il viso per renderli spaventosi.
Gli uomini violenti sono terrificanti alla luce del sole, brutto deficiente. Fanno già paura, sono il Male. Smettila di perdere tempo.

E invece, di tempo se ne perde.
Se ne perde in bizzarri esperimenti scientifici in cui si dimostra che il bambolotto si muove, se ne perde con delle telefonate mute, soprattutto se lo scherzone del telefono me lo fai più di una volta perché NON. FUNZIONA. PIù.

Ci prova troppo, WBB, ci mette anche il finalone sorpresona, e si prende incredibilmente sul serio.
Peccato.

Va beh alla fine la recensione seria ed argomentata mica mi è venuta troppo bene.
Facciamo che ci riprovo un'altra volta, ok?

mercoledì 30 marzo 2016

Cronos

21:47
Fermo restando che non ho alcuna intenzione di farvi sopportare per l'ennesima volta la filippica sul mio amore per il signor Del Toro, devo dire a coloro che passano di qua per caso (ciao nuovi amici, sappiate che sono prolissa, scusatemi) che per me quell'omone lì che ho nominato è ciò che più si avvicina alla perfezione. Se la sua fissa zoofila (?) fossero i gattini e non gli insetti potrei attribuirgliela senza timore delle conseguenze, quella perfezione.
Comunque la mia dose di felini mi è stata ampiamente somministrata in Hellboy, per cui posso tranquillamente dirmi soddisfatta.

Sto cercando in questi giorni di finire i suoi lavori che mi mancano, tanto per essere certa di non sbagliare quando rispondo il suo nome a chi mi domanda chi sia il mio regista preferito.
Toccava ai succhiasangue, perché sto mollando gli insetti e i robottoni per ultimi, ché loro mi interessano meno.

SEMBRA CHE ORMAI NON SAPPIA PIù SCRIVERE POST SENZA ANTICIPAZIONI

Jesùs è un antiquario che un giorno trova nel suo negozio un bizzarro marchingegno. Una volta attivato, assume la forma (da me detestata) della blatta (va beh magari è un altro insetto, ma non stiamo qui a parlarne) e fa un male cane a chi lo tiene, ma pare che in qualche strano modo faccia bene. Dopo l'uso, Jesùs si sente rinato, in forze, ringiovanito.
Mica per niente quel marchingegno lì è piuttosto ricercato.


Non sapevo niente del film prima della visione, se non che si tratta del primo lungometraggio del buon G. e che ci sono di mezzo i vampiri. Avendo una minima conoscenza del signore, non mi aspettavo certo vampiri convenzionali.
Al bando quindi denti affilati, bare, mantelli, aglio e proiettili d'argento.
Qui abbiamo un anziano signore che si china in un bagno a leccare del sangue dal pavimento, in una scena da brividi sul coppino, e che finisce per dormire in un vecchio baule dei giocattoli preparato apposta per lui.

E poi c'è Ron Perlman, che sappiamo essere per G. come Johnny Depp per Burton, salvo il fatto che i primi per ora non hanno toppato niente neanche a chiederglielo, mentre dei secondi potremmo parlarne per ore. Ron Perlman che conserva le sue caratteristiche principali, ovvero il 72 di piede e una testa grande come il mio gatto, quello grasso, quando si appallottola. Stavolta però l'attenzione non è su lui. E, per quanto mi riguarda, neanche su quel Jesus che non ha affatto un nome scelto a caso.
È tutto sulla nipotina.
Una silenziosa, amorevole, all'occorrenza irresponsabile e coraggiosa bambina con un caschetto nero che mi ricorda dolorosamente quello che portavo io alla sua età. Una presenza costante e delicatissima, che col suo eterno tacere ha reso migliore la vita del nonno e che con una sola parola, la sola che pronuncia per tutto il film, gli ha permesso di fare la più difficile e dolorosa delle scelte.


Questo modo magico che ha G. di dipingere i bambini è una poesia a cui non potrò mai abituarmi.
Ho lavorato in un asilo e ora lavoro in una gelateria, vedo parecchi bambini. Li vedo sporcarsi fino ai gomiti, lasciare in giro disgustosi tovaglioli sporchi, li sento strillare e far spazientire le madri. Li vedo al loro peggio.
Poi vado a vedere la bacheca dei disegni e ogni tanto ne trovo uno con scritto 'Per Marica' o 'x maica' o qualcosa del genere, e per due o tre secondi mi ritrovo con un sorriso ripagatore.
È come se G. prendesse quei due o tre secondi e li espandesse, con un tocco dolcissimo, per prolungarli all'eterno.

Anche stavolta è riuscito ad inserire un elemento per me completamente inaspettato: l'ironia. Non che volessi il dramma a tutti i costi e poco altro, ma non credevo avrei visto una esilarante scena di cremazione. Vi dirò di più: non credevo mi sarebbe piaciuta. Anche Hellboy aveva elementi comici, me lo ricordo bene, ma se lì ero pronta a vederli, qua lo ero meno.
E invece eccolo qua di nuovo, Del Toro, che si prende gioco di me e dell'idea che mi ero fatta di lui, che mi mostra un nuovo lato, un nuovo punto di vista, che mi insegna che gli Artisti sono sempre un passo avanti a noi comuni mortali e che, sorpassandoci a destra, ci fanno ammirare la bellezza della loro auto senza permetterci di raggiungerli.
Se abbia senso o meno quello che ho appena scritto non è dato saperlo, ma sono certa che Lui saprebbe trovarci qualche significato interessante.

mercoledì 23 marzo 2016

Non aprite quella porta

16:02
Ogni tanto mi dimentico che amo tanto questo posto perché l'ho sempre gestito con spontaneità. Vedevo un film e se mi andava ne parlavo nel modo che preferivo, cosa che per un periodo mi è venuta difficile. Tipo: in questo periodo sto 'studiando' Hitchcock. Leggo monografie, articoli, saggi, guardo suoi film come se non ce ne fossero altri al mondo. Mi sentivo in dovere di parlare di lui qua. Eppure, quando apro blogger per scrivere su di lui, la mente è bianca. E ieri, che volevo ardentemente parlare di Vertigo, mi sono bloccata. Perché mi stavo concentrando troppo su quello che avrei voluto dire e ho smesso, per un po', di godermi quello che mi piace: i film.
Oggi, quindi, si ritorna alle origini, a guardare i cinemini a cui faccio la corte da un po' ma che magari ho rimandato per paura di non avere niente da dire, o per non proporre l'ennesimo post sul film di cui stanno già parlando o hanno già parlato tutti.
E sì, facevo la corte a Non aprite quella porta perché non avevo ancora visto il primissimo, deal with it.

Non credo di dovervi raccontare la trama anche stavolta, dai.


Non l'avevo mai visto eppure credevo di saperne tutto: è uno di quei cult lì che se non li hai visti puoi andare a zappare l'orto, Di quelli storiconi, con il villain famosissimo, di quelli le cui scene più famose sono praticamente tatuate in ogni altro film successivo. . .avete capito il genere.
Eppure, ho realizzato, guardandolo, non ne sapevo proprio niente.
E non sapendone nulla, sono stata presa a pugni sul muso in un modo che non mi succedeva da parecchio. Sarebbe bastato leggere un paio di recensioni prima della visione, per arrivare un po' preparata, e invece NO, io i post li leggo dopo, senza il minimo senso.
Io, sempre perché credevo di sapere tutto, ero già pronta a secchiate di sangue lanciate per aria, ero preparata a contare gli arti amputati e le frattaglie visibili.
Vi potrei deludere tutti (ma tutti chi? che lo avete già visto) dicendovi che se si vede un goccio di sangue è quasi un errore, e invece mi toccherà farvi presente che qua parliamo di violenza vera.


Io sono una a cui il gore lascia piuttosto indifferente. Certo, se godete della vista degli intestini per aria prima di tutto dovete rivolgervi ad uno specialista, e poi accontentarvi di un torture porn mainstream con tanti soldoni da spendere in effetti che vi mostrino che schifo faccia il corpo umano.
Se invece volete proprio la sofferenza quella marcia e che ti fa pentire di avere acceso il pc, allora siete dalle parti giuste.
C'è una scena in particolare che posso raccontarvi senza pericolo di potenziali spoiler.
Ragazza catturata, caricata su un furgone insieme a tizio pazzo. Mi sembra sufficientemente vago. Lei coperta, al posto del passeggero. Il tizio pazzo CONTINUA a colpirla con una scopa, in una maniera così degradante, così folle, da far perdere la pazienza. Io poi che la prendo sul personale ho trovato la scena quasi insopportabile. Avrei urlato BASTABASTABASTA. E Hooper non ha mostrato niente, eh. Non si vede la ragazza colpita, non si vedono botte o sangue. Ma una rabbia feroce dentro a questa maniera non me l'aveva ancora data nessuno.
Così, per tutto il film. Quella volpe di Tobe non ha bisogno di ostentare alcunché, eppure eccoti lì, a sentire un male cane. Mica lo vedi quell'uncino infilato nella schiena, eppure guardati che la inarchi sul divano.
Vedi solo una famiglia di folli, che fanno una paura malvagia, perché sono incontrollati ed incontrollabili, privi di ogni forma di civiltà, mi chiedo anche come possano saper guidare.
E una motosega, agitata furiosamente dell'aria.
Che ti fa paura, eh, ma che te ne fa solo chiedere ancora.


giovedì 17 marzo 2016

#CiaoNetflix: Big Fish

14:23
Disclaimer: vi ricordate quanto eravamo andati a fondo in una marea di affari di cui giustamente non vi importa quella volta che abbiamo parlato di Harry Potter? Temo siamo dalle stesse parti, oggi. Me ne dispiaccio.

Quando ho deciso che i miei sproloqui sarebbero rimasti impressi in un blog, parliamo di tre anni fa, avevo un amore di quelli forti per un signore: Tim Burton. Avevo anche una rubrica tutta per lui, il Tim Burton Special.
Non che oggi gli voglia un po' meno bene, ma lui con me si è comportato malissimo ultimamente, gli serbavo un po' di rancore.
Ieri, poi, il trailer di Miss Peregrine's Home for Peculiar Children. Non esiste parola inglese che io ami più di peculiar. E non è solo questo, ovviamente, a farmi desiderare ardentemente che sia un bel film.
Lo spero così tanto perché quelle stesse mani lì sono quelle da cui è uscito Big Fish.

Big Fish è una storia fatta di storie. C'è la storia di Will Bloom, figlio messo costantemente in imbarazzo da una figura paterna un po' sopra le righe, e ci sono le innumerevoli storie che quel padre lì, Edward Bloom, ha raccontato per tutta la vita.


È sempre così: quando devo parlare di qualcosa che mi ha toccato in un modo particolare ci penso, ci ripenso, voglio sforzarmi di scrivere un post bello emozionante, per comunicare ad altri l'emozione che ho provato io. Poi apro Blogger, guardo la pagina bianca e mi blocco. Scrivo e cancello, scrivo e cancello.
Come si fa a convincere altri che un film può guardarti in faccia e parlare dritto a te, alle tue esperienze, ai tuoi sentimenti? Perché magari per altri non è così. Magari qualcuno può guardare Big Fish e uscirne indenne e poi magari finire a pezzi da una visione diversa.
Io no.
Io, che incredibilmente per una volta non ho pianto, sono rimasta invischiata fino al collo. Perché io sono Will, e Will è me.
È costantemente messo in imbarazzo da un padre 'troppo' (seguito da nessun aggettivo, troppo e basta), incapace di perdonarlo,  ma vive questo rapporto con il fuoco. Il fuoco di chi vuole sapere, di chi desidera la verità con l'ardore con cui altri la rifuggono. Il fuoco di chi vorrebbe essere in grado di staccarsi per sempre da quel padre così diverso da come lo avrebbe desiderato, così incapace di assecondare i suoi bisogni, ma che non ce la fa. Pur essendogli lontano continua a combattere per ottenere almeno un BRICIOLO della vita che avrebbe voluto.
Sarebbe stato facilissimo, a parole: tornare a casa per vivere gli ultimi giorni del padre, accompagnarlo verso la morte, e lasciar correre il passato. A chi importa delle storie, basta, è tutto finito.
E invece no, Will combatte fino alla fine per avere qualcosa, un briciolo di verità. Con la stessa determinazione, peraltro, con cui Ed continua a raccontare le sue storie.
E stanno lì, due teste una più dura dell'altra, a cozzare eternamente, senza che nessuno dei due provi nemmeno per un istante ad avvicinarsi all'altro. Perché sono già vicini. Sono già la stessa anima, ma mica lo sanno. Lo scoprono in quell'incanto di finale, quando, uno in braccio all'altro, incontrano i volti di quelle storie. Uno per uno, con quel sorriso che si indossa per salutare qualcuno a cui si sarà eternamente grati.
Grati di cosa, poi? Ed era solo se stesso. Meravigliosamente se stesso.


Quanto è difficile rileggere queste parole banalotte cercando di capire di chi sto parlando in realtà. Se di Will o di me stessa, che mi scontro costantemente con una persona da cui avrei voluto molto, molto più di quello che mi abbia mai dato. Che come Will non sono in grado di perdonare, e che per ora, proprio come lui ad inizio film, non voglio nemmeno.
È così labile il confine tra finzione e realtà, in Big Fish. Ora sta a me capire quanto questo prodotto di finzione abbia potuto farmi così male, toccando corde che non tocco mai nemmeno io, parlando di un argomento che non affronto mai, con la delicatezza che avrebbe avuto un caro amico se avesse parlato proprio con me di un argomento che avrebbe saputo essere controverso. Come controversa è la mia opinione sui tempi verbali dell'ultima frase, ma tant'è.

Lo ha fatto con i colori sgargianti delle casette e dell'erba, con un campo sterminato di giunchiglie e con una dolcissima storia d'amore, con dei personaggi incantevoli. L'ha fatto in piena poetica di Burton, elevata all'ennesima potenza. Ha sfoderato una batosta emotiva che non volevo, non in questo momento, non così inaspettata, non proprio legata a questo argomento.
Ma gliene sono grata.


lunedì 14 marzo 2016

Starry Eyes

20:48
INUTILE SPOILER ALERT, IL FILM L'HANNO VISTO ANCHE I SASSI

Riassunto delle puntate precedenti: l'anno scorso, o forse due anni fa, la blogosfera in massa ha parlato di Starry Eyes. Io, come mio solito, ho segnato e recuperato con tempi biblici.
C'è una frase che riassume perfettamente i post degli altri: che protagonista di merda.
Non che non sia brava l'attrice, anzi, è stata bravissima, era proprio il personaggio che era una persona disgustosa.
Per i primi 40 minuti ho pensato che fossero tutti esagerati. Dai, un po' snobbina, un po' troppo sulle nuvole, ma non è così male sta creatura.

La creatura si chiama Sarah Walker ed è una cameriera di Los Angeles, il che sapete, se avete visto almeno un episodio di The Big Bang Theory, che significa che il suo sogno è fare l'attrice. La povera sprovveduta finisce a fare il provino sbagliato.

Cosa succede dopo 40 minuti?
La Sarah, che il giorno prima si era licenziata per seguire il suo SoGnO!!!!1111! torna con la coda tra le gambe nel fast food con il quale campava per riavere il suo lavoro. Il capo, che stupidamente si riprende questo cilindrico pezzo di cacca, le dice 'Sei una ragazza del Taters', e lei lo ripete con un disagio, con una rassegnazione e con un'autocommiserazione che mi hanno causato quasi rabbia cieca.


Analizziamo il mio odio verso questo detestabile umano.
Questa non ha 18 anni, eh, ne ha un po' di più. Penso si possa parlare di una trentenne o quasi. La suddetta trentenne o quasi ha una vita che potrei definire col più banale degli aggettivi: normale.
Ha degli amici (mediocrissimi umanoidi con tanta 'passione' ma poca sostanza, ma ricordiamoci che gli amici te li scegli), un lavoro, e un sogno. Niente di eccezionale.
Potrebbe lavorare sodo per realizzare il suo sogno, potrebbe vivere la sua vita con entusiasmo, potrebbe essere quasi felice. Sia chiaro che non parlo di fastidiose donnette forzatamente gioiose alla hills che sono alive in the sound of music, parlo di semplice approccio migliore alla vita.
E invece no. Lei è talmente concentrata su se stessa e sulla sua malata fissazione per il successo da non vedere nemmeno il mondo che la circonda (perché questa faccenda della setta ci era palese dal primo momento in cui si è visto un - pensate un po'- pentacolo, ma lei no, lei è stronza ma pure un po' tarda), come ci è molto chiaro quando Erin, una delle amiche, accusata di dormire con un amico solo per ottenere una parte, le chiede: 'Non hai mai pensato che potrebbe essere altro? Non hai mai pensato che potremmo piacerci?'.
Eh sì, cara Sarah. La gente vive. E non per il successo, vive e basta.
Se anche tu fossi arrivata in cima, cosa ti sarebbe rimasto? Il nulla. Gente sconosciuta che ti avrebbe amata, magari, ma nessuno vicino se non il tuo stratosferico ego. Per cosa avresti vissuto, allora? Se tutta la tu vita ruotava intorno ad un obiettivo, cosa avresti fatto una volta spuntato questo dalla tua lista delle cose da fare?
Questo non è sognare.
Sognare dà alla tua vita mille sfumature di colore in più, non te la distrugge così.
La sana ambizione è splendida, ti fa alzare la mattina con la voglia di essere sempre la versione migliore di te stessa.


Se solo fosse stata più umile, questa Sarah, quanto avrei pianto la sua triste sorte. Se fosse stata un'umile e ingenua ragazzina con troppa fiducia e troppa poca conoscenza del mondo avrei singhiozzato per giorni.
E invece no.
Sarah era un'adulta troppo convinta e compiaciuta di se stessa, Lei era migliore di quel branco di losers con cui era costretta ad uscire. Lei era brava, lei era arrivata, lei aveva un sogno e lo avrebbe realizzato ad ogni costo, questi bifolchi non facevano altro che tarparle le ali.
Ed è questo che l'ha ridotta in quello stato mostruoso.
(Postilla: il film è stato girato con una banconota da 5€ stropicciata, vorrei tanto abbracciare chi si è occupato del makeup, bravi al cubo. Una scena in particolare mi ha dato i brividi)
Quello che intendo è che era proprio la sua estrema fiducia in sè a causarle quelle devastanti crisi di nervi: Io sono brava, come posso non  avere successo? Come posso proprio IO, che ho un sogno così importante, a non riuscire? Questo è proprio inspiegabile!
E via di capelli strappati.
Eh, ciccia.
Dalla mediocrità ci si può innalzare, si può crescere. Se senti di essere già in cima non puoi salire di più, e finisce molto banalmente che quando poi caschi (e caschi, tranquilla che caschi) ti fai un malone dell'accidenti.

È stato interessante non avere la minima empatia per un personaggio, per una volta. Forse ho anche apprezzato che per una volta la 'vittima' non fosse l'anima innocente.
Ma al momento sto indossando il mantello della giudicatrice di atteggiamenti altrui, e questo è quello che ne esce.

(E il film è bello, che immagino sia la sola che magari in realtà vi interessi)

mercoledì 9 marzo 2016

#CiaoNetflix: The Grudge

16:20
Questo paradisiaco servizio un difetto doveva avercelo. Lo amo a sufficienza da lasciar correre, ovviamente, ma il suo catalogo horror per il momento fa piangere.
Siamo intorno alla trentina di titoli, tutti grossomodo famosi, Saw, Silent Hill, The Ring. . .il filone per ora è quello.
Si trovano anche cosine più intriganti, eh, c'è quella preziosa valle di lacrime che risponde al nome di The Orphanage, ci sta Existenz, e pure Sharknado. Ma siamo lontani dalla sufficienza per ora. SO che col tempo cresceremo insieme, io e Netflix-.

Per dimenticare le faccette della Judith di cui parlavamo ieri mi sono messa a rivedere un horror uscito nei miei anni del liceo, pieno periodo in cui ogni titolo era remake di qualcosa altrimenti non lo facevano uscire.
The Grudge forse è uno dei più famosi, uno di quelli che hanno visto anche i sassi.

Se voi non apparteneste alla specie minerale, mi tocca raccontarvi che è la storia di Sarah Michelle Gellar e Max di Roswell, Lei è un'assistente sociale, grossomodo, va a fare una visita a domicilio ad un'anziana. In casa ci stanno i fantasmi.
Tutto chiaro?
So che è complesso, ma fate uno sforzo.


No, dai che scherzo, non c'è niente di meno complesso di The Grudge.
In un altro momento lo avrei liquidato come FDC, ma in realtà non è riuscito a farmi antipatia.
Ci prova a ricalcare i suoi amici orientali, ma a parte parecchi occhi a mandorla, un paio di fantasmi che più classico di così c'è solo il lenzuolino con i buchi, di jappo ci riesce proprio pochino. Non che io mi consideri un'intenditrice, sia chiaro.
Ma qui è tutto troppo patinato e sbrigativo per riuscire a suscitare anche solo un po' di inquietudine, ci prova lui, povero, ma non gli riesce.
Secondo me è anche colpa del cast di canidi, che sembra spaventato tanto quanto il mio gatto quando parte la centrifuga della lavatrice. Stesso livello di timore, un saltino leggero e fine, livello di consolazione necessaria: rumore della scatola dei croccantini.
Quando le persone parlano dei cliché degli horror tendo ad innervosirmi, ma se ne volete un breve compendio, vi è servito su di un piatto d'argento, tiè, prodotto da Raimi. Il pacchetto comprende anche lo spaventino finale che tanto ci aggrada.

E no, stavolta non mi sono emozionata, nemmeno con la triste sorte dell'amore non ricambiato, non c'è stato verso di prendermi in alcun modo.


Ribadisco, voglio un po' di bene a tutta la faccenda, al periodo a cui è legata, alle colline che hanno ancora gli occhi, ai fantasmi giappo che però sono americani, alle telefonate che ti diagnosticano i tuoi ultimi 7 giorni e al fatto che fossero praticamente tutti dei filmacci tremendi ma che in fondo gli volessimo un po' di bene, perché vederli ci faceva sentire delle femmine toste.
A quell'età, certo.
Anche perché rivisto oggi The Grudge ci regala uno dei peggiori personaggi femminili che si ricordino, in confronto a questa Gellar siamo tutte delle Sigourney Weaver.

lunedì 7 marzo 2016

The Atticus Institute

16:51
Domenica sera, solita cena con i soliti Amici. Si parla di cose varie, tendenzialmente le solite, fino a che un amico mi chiede cosa penso dei demoniaci, io come al solito rispondo che li affronto con il coraggio che contraddistingue i gatti quando incontrano l'acqua.
Girando intorno all'argomento si finisce a nominare The Atticus Institute e io ribadisco il mio non volerlo guardare maimaimai nei secoli dei secoli.
E guai a voi se rispondete amen che proprio oggi non è giornata, eh.

Siccome, come vi dico sempre, la coerenza è il mio animale guida, oggi ho guardato sto benedettissimo film.
Lo sapevo, eh, lo sapevo come sarebbe finita. Perché li ho letti tutti i vostri post a riguardo, tutti quanti, e sapevo che mi avrebbe devastata dalla paura, ma quando si è testine di cazzo lo si è fino alla fine.


Per farla breve, l'istituto che dà il nome a questo stramaledetto film è un laboratorio di psicologia dove gli scienziati pazzi e creduloni esaminano persone che dicono di avere poteri paranormali. Sì, hanno visto qualcosina di vero, qualche truffa, però loro erano proprio appassionati, ci credevano parecchio, continuavano a cercare.
Cerca e ricerca, capita loro tra le braccia, come una manna dal cielo, Judith. Avete presente il momento in cui un nome si trasforma in un incubo? Fino a un'oretta e mezza fa il mio era Reagan, da oggi temo i nomi saranno due. Judith è una donna comunissima che inizia dopo una brutta caduta a fare cose un po' meno comuni. L'istituto non è in grado di gestire una situazione del genere da solo, soprattutto considerato che la presenza di Judith si sta rivelando più pericolosa del previsto, e quindi intervengono i pezzi grossi.

Fin dal primo istante ho saputo che guardarlo sarebbe stato un errore madornale, ma il momento in cui ho prenotato il mio posto per un viaggio di sola andata su Marte è stato quando uno degli intervistati (ne riparliamo, delle interviste) guarda fisso in camera, che gli dovesse mica venire una gobba, e dice qualcosa del tipo: 'Voi che state facendo questo film e voi che lo state guardando state attirando qualcosa di molto brutto nelle vostre vite.'
Boom, pc chiuso di scatto, lanciato fuori dalla finestra, valigia riempita e pianeta abbandonato.

Ma servirebbe? NO perché la stronza di Judith ha sempre controllato tutto e tutti pur apparendo così 'sottomessa'. Io potrei scappare fuori dalla galassia, ma se lei volesse ostacolare la mia respirazione lo potrebbe fare a migliaia di chilometri di distanza. Può fare qualsiasi cosa, in qualsiasi momento. E questi piccoli sprovveduti credevano di controllarla. Pivelli.
Scena (ATTENZIONE SPOILER): Judith legata alla sedia, chiusa in una teca di vetro come un animale da esposizione, le vengono fatte domande a cui lei risponde con versi incomprensibili. I versi vengono interpretati e cosa stava dicendo lei? Stava suggerendo le domande da farle! Cosa???!! Mi sono venuti tre capelli bianchi.
Ci provano con qualche spaventino più 'studiato', ma (incredibile ma vero) con me non è che abbiano fatto particolare presa, sono quelle cose qui che a me lasciano con la voglia di evadere.


Ma parlavamo delle interviste.
Oh, a me sono piaciute tantissimo. Quarant'anni dopo e la gente ancora terrorizzata al solo pensiero di  quella Judith, con i ricordi nettissimi di quanto accaduto perché troppo sconvolgente da rimuovere, persone con ancora un profondo senso di colpa per quanto avvenuto agli altri coinvolti...bravini gli attori e bello il tutto, tiè.

Certo, la povera Judith si è presa qualche accidente da me, me ne dispiaccio. In fondo lei è vittima tanto quanto gli altri. Qualcuno, per fortuna, durante il film se ne è ricordato. C'è stato un rapido 'È un essere umano!' che mi ha un po' riportato sulla faccia della terra.
Poi niente, lei si è messa a strepitare e io pure, dalla paura.

Avrei solo voluto un finale un po' diverso da quello di Paranormal Activity. 

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