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martedì 12 novembre 2024

The Gerber Syndrome

12:53
 Nuovi Incubi questa settimana arriva - credo per la prima volta? - in patria. Abbiamo infatti pensato che in una stagione dedicata al found footage e al mockumentary non potesse mancare un episodio dedicato a un lavoro tutto nostrano unico nel suo genere come Il mistero di Lovecraft - Road to L. 
Se vi fa piacere ascoltarci, ci trovate qui:
 

Qualche anno dopo la sua uscita, però, in un momento in cui gli horror italiani erano sempre meno, un altro progetto ha visto la luce, e secondo me merita di essere ricordato.
The Gerber Syndrome - Il Contagio esce infatti nel 2011, scritto, diretto e montato da Maxi Dejoie, e visto oggi ha sicuramente un sapore ben più amaro di quello che ha certamente lasciato nei suoi spettatori alla sua uscita. 




Il film si presenta come un falso documentario che segue le prime fasi della diffusione di un gravissimo virus che porta al morbo di Gerber. Seguiamo un paio di persone che si occupano della gestione del virus, un medico e un giovane dipendente di un'associazione statale nata proprio per il controllo della diffusione della malattia, il CS (Control Service). Il morbo di Gerber nasce come un'influenza particolarmente intensa e conduce presto i contagiati verso uno stato che li rende aggressivi e incontrollabili, simili per movenze e capacità cerebrali agli zombie.

La televisione italiana dagli anni Novanta ai primi Duemila ha visto nascere numerose trasmissioni considerate di pubblica utilità: Chi l'ha visto?, Report, Le Iene, Il testimone...Non è questo l'ambiente per stabilirne gli effettivi meriti, ma riguardare oggi il film di Dejoie mi ha fatto pensare più a un servizio di una di queste trasmissioni che effettivamente a un documentario: il modo in cui i documentaristi non rispettano le direttive date loro dalle persone che accompagnano; il sensazionalismo di alcune riprese mantenute troppo a lungo; il clima quasi amicale che regna nelle conversazioni, anche in quelle con i professionisti. Si segue per esempio un caso di contagio che vediamo svilupparsi fin dal momento del primo contatto con un malato e a cui abbiamo accesso solo perché direttamente coinvolta la famiglia del medico che ci ha concesso il suo tempo, rendendo più distese le conversazioni e alterate le decisioni a causa dell'intimità con i coinvolti. Ma su questo torneremo in un secondo momento.

Scegliendo di seguire un medico e un operatore CS, il documentario sembra volersi concentrare sulla parte clinica e gestionale della malattia, concendendo spazi minori ai malati stessi e alle loro famiglie. Vediamo nello specifico un medico molto sensibile e attento. spaventato dal futuro di un'epidemia così pericolosa e al tempo stesso concentrato sul mantenere i piedi per terra. Dall'altro lato, invece, l'operatore è ben più pessimista. Per lui i contagiati sono da debellare, manifesta senza vergogna il modo in cui li considera non più umani e pertanto non meritevoli del trattamento empatico che ci si aspetta da chi ricopre, come lui, un ruolo nel sistema sanitario.
Questo contrasto è interessante perché ci rivela presto la verità del documentario: gli zombie, qui, sono le vittime, non i predatori. A sfruttarli, dare loro la caccia per poi rinchiuderli come animali in attesa del macello, è il prestigioso Sistema Sanitario Nazionale, che delega a giovani uomini pieni di frustrazione e rabbia il ruolo dei cattivi manganellatori. A risposte dirette i piani alti deviano il discorso, non forniscono dati, scuotono la testa. E i "pezzi piccoli" come il medico che seguiamo si ritrovano ad aggirare il sistema, a mentire e nascondere i malati al CS per garantire loro un trattamento dignitoso. 
Mancano i soldi, pare, e il personale stanco e nervoso diventa pericolosamente simile alle guardie, mentre i sognatori protestano per un trattamento più umano dei pazienti. La dignità è utopia, in questo universo.
Siamo nel 2010 quando il film viene realizzato, e meno di dieci anni prima il mondo era stato investito dallo spauracchio della SARS - tristemente ignari di quanti danni avrebbe causato un coronavirus anni dopo - e discutere dell'inadeguatezza dei mezzi italiani a fronte di una simile prospettiva sembrava quanto mai appropriato.

Nonostante si conceda ampio spazio al discorso collettivo e gestionale, ci si prende del tempo anche per esaminare le conseguenze di una simile tragedia sul piano individuale e familiare. Melissa, infatti, cugina e amica del medico, mette la famiglia di fronte a una scelta morale impossibile da prendere: somministrarle una cura sperimentale che avrebbe su di lei effetti collaterali devastanti ma che le salverebbe la vita o lasciarla morire con il morbo di Gerber? I suoi genitori prendono una decisione per lei e sono poi costretti a convivere con le conseguenze. Ci si chiede: meglio una vita con una malattia irreversibile o meglio nessuna vita? È un terreno delicatissimo quello in cui si muove quando si entra su temi che sono così intimi, ed è pericoloso anche il messaggio che in qualche modo si rischia di trarne: ci si cura, o no? I farmaci sono dalla nostra parte, o no? Una vita imperfetta, che non rispetta gli standard abilisti, è degna di essere vissuta? Quanto gli altri sono legittimati a scegliere cosa sia meglio per noi nel momento in cui non possiamo farlo per noi stessi?
Sono discorsi intensi che non sono certa il film sia sempre in grado di mettere a fuoco per bene. Avere però accesso alla parte più intima di queste riflessioni grazie alla confidenza con il medico di Melissa ci permette di vedere lo strazio individuale, da cui non c'è scampo: qualunque sia la decisione presa, non c'è una reale soluzione, solo una nuova vita da vivere.

The Gerber Syndrome è un progetto costruito con due lire e che deve tanto a quello che stava succedendo a livello internazionale nel cinema dell'orrore, ma è ambizioso e funziona, ha alcune interpretazioni convincenti (altre meno, ma penso si possa perdonare) e mette il focus su una paura collettiva che, anni dopo, non è svanita: se mi succedesse qualcosa, sarebbero davvero in grado di prendersi cura di me? E se succedesse alle persone che amo, ne sarei in grado io?


giovedì 17 ottobre 2024

The Poughkeepsie Tapes

15:35

 Per questa nuova stagione di Nuovi Incubi mi ero prefissata di accompagnare ogni episodio con un post sul blog che fosse in qualche modo collegato con il film di cui abbiamo parlato nel podcast. L'episodio uscito martedì, che potete ascoltare qui sotto, è tutto dedicato a Behind the mask: the rise of Leslie Vernon, e ci ha fatto compagnia Chiara Sinchetto, che ringrazio anche qui e che vi invito a cercare sui social, è una persona carinissima e molto preparata.      



Quale film associare al delizioso Leslie, quindi, anche se con un paio di giorni di ritardo? 
A una cosa che non potrebbe essere più lontana dalla delizia. Se è vero, infatti, che anche The Poughkeepsie Tapes è un mockumentary che parla di un serial killer, proprio come Behind the mask, il modo in cui le due faccende sono messe in scene non potrebbe essere più diverso. Per il primo film vi invito, se vi fa piacere, ad ascoltare l'episodio, mentre se volete sentirmi dire quanto poco apprezzi il secondo potete restare qui.
Aspettatevi spoiler.




I filmati che danno il titolo al film sono quelli registrati dal Water Street Butcher, un brutale serial killer che sta seminando il terrore nella cittadina di Poughkeepsie, vicino a New York. Un gruppo di documentaristi sta girando un film proprio su di lui, e ricostruiamo le indagini grazie al contributo di agenti della polizia, FBI e parenti delle vittime. Nello specifico, seguiamo l'infelice vicenda della sua vittima prediletta, Cheryl, a cui sono dedicate la maggior parte delle videocassette ritrovate.

La fama del film lo precede: cercandolo su Google, infatti, si incontrano presto i consueti titoli sensazionalistici tipici di un certo modo di parlare di cinema dell'orrore. "Il found footage più disturbante che vedrete nella vostra vita", "La visione più estrema che farete", la solita sfilata di clickbait che ormai conosciamo bene. È indiscutibile, il film è molto forte e potrebbe urtare la sensibilità di qualcuno. Di sicuro ha infastidito la mia. È anche vero che la sua storia distributiva ha contribuito a questo status di culto che, mi permetto di dirlo, è quasi offensivo (aAaAhHhH lA CaNc3l CuLtUrEeEeE!!!1!). Presentato a Tribeca nel 2007 e comprato subito da MGM, sparisce dalla circolazione per anni. Se ne sono trovate, in quel periodo, un paio di versioni online, col sempre santo pensiero laterale, che però il regista giudica versioni incomplete e piene di falle. Arriva in vod nel 2014, e torna a far parlare di sè con più forza nel 2017, quando ne esce una nuova versione in DVD per Scream Factory. Oggi si trova nella sua versione completa online, ma non ha ricevuto distribuzione italiana.

Il film , come dicevo, è un falso documentario che alterna momenti canonici da true crime, con interviste e commenti degli esperti, a momenti presi direttamente dalle cassette del killer. L'intento del film è cristallino: mettere in discussione il crescente fenomeno del true crime. In quel periodo, infatti, le tv stavano iniziando a riempirsi di trasmissioni dedicate ai crimini, che sebbene siano sempre esistite, hanno iniziato a farsi da metà degli anni Novanta sempre più estreme e irrispettose. È di oggi la notizia della scomparsa del noto cantante Liam Payne, e quando ancora la notizia non era ufficiale il sito TMZ stava pubblicando delle foto in cui parte del corpo era visibile. Le foto, ora, sono state rimosse, ma sappiamo bene che nulla è mai davvero cancellato dal web. Il danno è fatto. 
The Poughkeepsie Tapes, quindi, cerca di far riflettere su questo, sull'inappropriatezza e la brutalità di mostrare gli eventi violenti, di dare le sorti delle vittime in pasto a chi non riesce a distogliere lo sguardo, ignorando sentimenti e sensibilità di chi ha amato quei corpi che osserviamo mutilati. È una critica santa, corretta. Ma il film è davvero in grado di elaborarla? A mio parere, no.

Ormai da queste parti ci conosciamo: non sono una bigotta e la violenza al cinema mi diverte parecchio. Però ci devono essere delle condizioni, altrimenti vale tutto. Per chiarezza: non mi addentrerò in un discorso francamente un po' noioso su cosa sia concesso o meno all'arte. Come singolo individuo, però, so cosa non voglio trovarci io. Non voglio, per esempio, la disonestà. Il film di Dowdle disonesto lo è, perché copre con l'ipocrita maschera della critica un atteggiamento che usa in prima persona. Scegliere di mettere in scena le cassette del killer non è di per sé sbagliato, ma lo è quando si sofferma un minuto di troppo sulla vittima che sobbalza sul palloncino che proprio non riesce a far scoppiare, quando mostra una donna così brutalizzata dal killer da avere la mente completamente annientata e decide di non soffermarsi sulle conseguenze anche psichiatriche di un simile dramma ma solo mettendo in scena un dolore impossibile da elaborare, senza accompagnarlo con un briciolo di spiegazione (è o no un documentario?). Se il terrore che provano le persone passa più tempo davanti all'obiettivo rispetto a tutto il resto, stai davvero cercando di analizzare un fenomeno o stai giocherellando con quello che ti è consentito fare? Non solo. Il terrore che le persone provano è in scena perché è il killer che ce lo ha messo. È dalle sue registrazioni che vediamo il peggio, e scegliere di incorporarle nel documentario finale significa lasciare a lui stesso la narrazione di sé. Se già i professionisti intervistati si muoiono sul piccolissimo confine che separa il raccapriccio dall'ammirazione (come vediamo in un fastidioso sorriso di un medico colpito dalla straordinarietà delle azioni compiute), lasciare che sia il killer stesso a parlare di sé è un grande passo oltre il limite del buonsenso. Abbiamo parlato spesso nel podcast del ruolo e del filtro del documentarista, che imprime nel film il suo sguardo sul mondo. Come si collega lo sguardo di chi sta registrando a quello del killer? Perché farli fondere insieme, fino quasi a sovrapporli? Del resto, non sarebbe proprio classico del killer spingere i professionisti a sottolineare la grandiosità delle sue azioni? Eppure, non si porta mai questa faccenda fino in fondo, e il discorso dello sguardo di chi registra, così vitale nel found footage, qui lo diventa meno. Chi ha montato questo documentario lo ha fatto con lo scopo evidente di lodare le azioni, sottolinearne la difficoltà e l'intelligenza che richiedono. Altrimenti perché mostrare i filmati? Perché proprio quelli che umiliano le vittime e non, per esempio, quelli in cui vengono torturate? È tutto un gioco di ego e non sono certa di quale ego sto parlando.

Al di là della mia sensibilità individuale, che per una volta mi concedo di utilizzare come filtro, penso che il suo eccesso sia paradossalmente quello che lo rende più fragile almeno da un punto di vista narrativo. Da quello visivo raggiunge benissimo l'obiettivo: vuole shockare, e lo fa. È un film che gioca sulla pretesa di autenticità, come molti altri prima di lui, e lo fa soprattutto nella sua parte finale, che gioca con la sua ipotetica uscita in sala. I poliziotti del documentario confidano in una distribuzione al cinema così che il killer, per la solita tendenza all'autocompiacimento, vada a vederlo più volte e loro possano così incastrarlo. In più, in questo ultimo atto vediamo finalmente un'intervista alla vittima sopravvissuta, Cheryl. Cheryl viene piazzata davanti allo schermo ed è evidente che è mancata una parte preparatoria, un momento precedente al ciak in cui si siano fatte due chiacchiere con lei, anche solo per capire se avesse, effettivamente, qualcosa da dire. Lasciare i suoi lunghi silenzi e le sue infinite ripetizioni serve solo a far fantasticare sulle atrocità che le sono state inflitte e che poco prima il documentario ci ha tenuto moltissimo a elencare nel dettaglio. Se un documentario deve essere, di sicuro è uno scadente. Poteva essere sfruttato come discussione della pena di morte, dell'importanza di comunicare le informazioni corrette alla stampa dando loro il giusto peso. Poteva incorporare il messaggio sulla fame del popolo bue, che attende la gente muoia "legalmente" per poter assistere all'evento, alla fretta di incastrare qualcuno. Semplicemente, non lo fa. Verrebbe da chiedersi: ma non è tutto lì il senso della critica? Mettere in luce scorrettezze e mancanza di professionalità?
Ci vogliono una scrittura perfetta, intenzioni chiare e attenzione a ogni dettaglio per riuscire a discutere delle operazioni disgustose di un certo tipo di giornalismo senza compiere gli stessi errori. Non penso, in tutta onestà, che quella di The Poughkeepsie Tapes ci riesca. 

giovedì 29 settembre 2016

Streghe di Blair varie ed eventuali

18:42
Da quando il trono di Sfigheira mi è stato consegnato, me ne sono successe di tutti i colori.
Una su tutte: 
'Ah, quest anno faccio proprio la tessera del cinema, eh! Così risparmio e ci posso andare spesso!'
E quelli del cinema:
'Cosa dite, quei giganteschi e infiniti lavori li facciamo quest anno? Così niente di decente o anche solo accattivante verrà messo in tabellone?'
Fine.

Tutti state parlando del remake di The Blair Witch Project, che mi sarebbe piaciuto tanto vedere in sala. E io non ci posso andare.
Ergo, con fare risentito e conseguente pestata offesa di piedi per terra, eccomi qui, nell'amarezza di casa mia, a fare una minimaratona di streghe di Blair.

The Blair Witch Project (1999)


Tutto quello che sta 'dietro' al primo film della serie delle streghe di Blair mi piace da matti. L'idea, la quasi totale assenza di copione, i pochissimi soldi investiti, la strepitosa campagna marketing. Quando ne leggo in giro gongolo. Mi basta poco? Mi basta poco.
[Se non sapete di cosa sto parlando, eccovi serviti: il BWP parla di tre ragazzi che si avventurano nei boschi della fittizia cittadina di Burskittville, armati di un paio di telecamere, per realizzare un documentario sulle locali leggende a proposito di streghe, sparizioni di bambini, boschi infestati..]
Poi inizia il film, ed Heather inizia a parlare. Guardate, vi posso giurare che questo non inficia il mio giudizio sul film (a me BWP piace ed è sempre piaciuto, a partire dal titolo che amo), ma se non comunico per iscritto la mia ostilità verso questa DEFICIENTE rischio di esplodere. 
Gli errori sono umani. Sono entrati nel bosco, si sono persi, capita. Si sono persi seguendo le indicazioni di una tipa che si è detta convinta di sapere la strada giusta. Non ha minimamente preso in considerazione la possibilità di essersi sbagliata: lei sa la strada. L'errore è umano, ma se insisti allora ti meriti gli insulti in caps lock nei post degli sconosciuti su internet. Fin qui, potrei anche perdonarti, Heather. 
Poi, però, succede che Mike, in un momento di rabbia e sconforto, calcia via la cartina, e le loro possibilità di ritrovare la strada diminuiscono notevolmente. Idea geniale? No, ovviamente. Cosa fa Heather? Quella che, ricordiamo, non solo li ha condotti qui, ma ha anche contribuito attivamente al loro perdersi? Lo copre di insulti, urla, lo morde.
Allora sei pazza. Qual'è il tuo problema, bimba? Hai sbattuto la testa da piccola? 
Mike, ricordiamolo, è l'unico personaggio con reazioni umane fin dal principio. Ha paura, molta, è scoraggiato. Eppure riesce a difenderla quando Josh (anche lui giustamente incazzato nero) la aggredisce verbalmente ricordandole tutte le brillanti idee da lei avute nel corso del breve film. Poi la sento frignare che il film 'è l'unica cosa che le rimane' con quella detestabilissima voce che il doppiaggio italiano le ha donato e allora vorrei picchiarla. Ma picchiarla proprio forte. Il suo realizzare solo di fronte all'ovvio le sue responsabilità mi commuove tanto quanto mi aveva commosso quel coglioncello di Alexander Supertramp: per niente.
Aldilà del mio giudizio su Heather (che se mi conosceste sapreste essere applicabile ad un buon 80% delle persone che conosco), BWP è un bel film, di quelli in cui te la fai discretamente addosso pur vedendo poco e niente. È tutto buio e non ce ne dispiacciamo troppo. Non è tra i film che mi hanno sconvolta dalla paura, e non è nemmeno tra i miei preferiti, se vogliamo dircela. Però è un buon film, ogni tanto lo rivedo volentieri. E poi che i film finti amatoriali siano il mio feticcio è ormai cosa nota, e il mio guilty pleasure è nato da qui.

*Qua in mezzo ci andrebbe Blair Witch 2, che non ho alcuna intenzione di rivedere dopo essermi clamorosamente addormentata alla prima visione*

Blair Witch (2016)




Mi piace un sacco quando i remake/sequel sono così legati all'esistenza del primo film. Quando questo poi viene citato chiaramente scodinzolo allegramente.
L'introduzione quindi non può che piacermi: Heather, la deficiente di cui sopra, aveva un fratello minore. Questo, un po' ossessionato dalla sua scomparsa, parte con alcuni amici per tornare nel bosco di Burskittville e cercare nuove informazioni.
Che fai, non ce lo fai un documentario?
Ce lo fai, e speri che le giovini blogger di cinema della pauraccia non lo guardino subito dopo aver rivisto il tuo ispiratore. Perché se succede finisce che le blogger in questione a 35 minuti dall'inizio siano annoiate a morte, perché vedere ragazzi che camminano nei boschi e poco altro alla lunga può essere impegnativo.
Mi è piaciuta molto la tattica alla Lake Mungo: cosa che spaventa, sdrammatizzazione della stessa, poi la paura vera. Paura che effettivamente c'è, nella dimensione in cui un film con cose strane e indefinite che succedono nei boschi vi può fare paura. Sta anche un po' a sensibilità personale. Io, che sono piuttosto cagasotto, non mi sono sconvolta più di tanto, forse perchè le scene 'peggiori' erano state in parte rovinate dal trailer.
Stiracchiato il found footage, ma effetto mal di mare quasi scongiurato. Io, quantomeno, non l'ho sofferto.
Insomma, forse questa parte di post è piuttosto chiara anche nello 'stile': mi sono annoiata un po'. Ribadisco, BWP non è tra i miei preferiti della vita forever, però mi intrattiene con interesse fino alla fine, qua mi sono sentita meno coinvolta e meno spaventata.


Nei boschi, comunque, non prevedo di dormirci a breve. 

lunedì 7 marzo 2016

The Atticus Institute

16:51
Domenica sera, solita cena con i soliti Amici. Si parla di cose varie, tendenzialmente le solite, fino a che un amico mi chiede cosa penso dei demoniaci, io come al solito rispondo che li affronto con il coraggio che contraddistingue i gatti quando incontrano l'acqua.
Girando intorno all'argomento si finisce a nominare The Atticus Institute e io ribadisco il mio non volerlo guardare maimaimai nei secoli dei secoli.
E guai a voi se rispondete amen che proprio oggi non è giornata, eh.

Siccome, come vi dico sempre, la coerenza è il mio animale guida, oggi ho guardato sto benedettissimo film.
Lo sapevo, eh, lo sapevo come sarebbe finita. Perché li ho letti tutti i vostri post a riguardo, tutti quanti, e sapevo che mi avrebbe devastata dalla paura, ma quando si è testine di cazzo lo si è fino alla fine.


Per farla breve, l'istituto che dà il nome a questo stramaledetto film è un laboratorio di psicologia dove gli scienziati pazzi e creduloni esaminano persone che dicono di avere poteri paranormali. Sì, hanno visto qualcosina di vero, qualche truffa, però loro erano proprio appassionati, ci credevano parecchio, continuavano a cercare.
Cerca e ricerca, capita loro tra le braccia, come una manna dal cielo, Judith. Avete presente il momento in cui un nome si trasforma in un incubo? Fino a un'oretta e mezza fa il mio era Reagan, da oggi temo i nomi saranno due. Judith è una donna comunissima che inizia dopo una brutta caduta a fare cose un po' meno comuni. L'istituto non è in grado di gestire una situazione del genere da solo, soprattutto considerato che la presenza di Judith si sta rivelando più pericolosa del previsto, e quindi intervengono i pezzi grossi.

Fin dal primo istante ho saputo che guardarlo sarebbe stato un errore madornale, ma il momento in cui ho prenotato il mio posto per un viaggio di sola andata su Marte è stato quando uno degli intervistati (ne riparliamo, delle interviste) guarda fisso in camera, che gli dovesse mica venire una gobba, e dice qualcosa del tipo: 'Voi che state facendo questo film e voi che lo state guardando state attirando qualcosa di molto brutto nelle vostre vite.'
Boom, pc chiuso di scatto, lanciato fuori dalla finestra, valigia riempita e pianeta abbandonato.

Ma servirebbe? NO perché la stronza di Judith ha sempre controllato tutto e tutti pur apparendo così 'sottomessa'. Io potrei scappare fuori dalla galassia, ma se lei volesse ostacolare la mia respirazione lo potrebbe fare a migliaia di chilometri di distanza. Può fare qualsiasi cosa, in qualsiasi momento. E questi piccoli sprovveduti credevano di controllarla. Pivelli.
Scena (ATTENZIONE SPOILER): Judith legata alla sedia, chiusa in una teca di vetro come un animale da esposizione, le vengono fatte domande a cui lei risponde con versi incomprensibili. I versi vengono interpretati e cosa stava dicendo lei? Stava suggerendo le domande da farle! Cosa???!! Mi sono venuti tre capelli bianchi.
Ci provano con qualche spaventino più 'studiato', ma (incredibile ma vero) con me non è che abbiano fatto particolare presa, sono quelle cose qui che a me lasciano con la voglia di evadere.


Ma parlavamo delle interviste.
Oh, a me sono piaciute tantissimo. Quarant'anni dopo e la gente ancora terrorizzata al solo pensiero di  quella Judith, con i ricordi nettissimi di quanto accaduto perché troppo sconvolgente da rimuovere, persone con ancora un profondo senso di colpa per quanto avvenuto agli altri coinvolti...bravini gli attori e bello il tutto, tiè.

Certo, la povera Judith si è presa qualche accidente da me, me ne dispiaccio. In fondo lei è vittima tanto quanto gli altri. Qualcuno, per fortuna, durante il film se ne è ricordato. C'è stato un rapido 'È un essere umano!' che mi ha un po' riportato sulla faccia della terra.
Poi niente, lei si è messa a strepitare e io pure, dalla paura.

Avrei solo voluto un finale un po' diverso da quello di Paranormal Activity. 

mercoledì 3 giugno 2015

Psycho Mentary

17:56
(2014, Luna Gualano)

Continuiamo a parlare di Liebster Awards.
Quando vi ho chiesto di consigliarmi un film mi aspettavo di leggere tra le vostre proposte tanti classici, tanti titoloni imperdibili.
E ci sono stati, per carità.
Ma voi, che siete mica un gruppo di pirlotti, mi avete presa per mano e mi avete condotta attraverso strade ben più inusuali del classico filmone autoriale che sapevamo già sarebbe stato grandioso.
Nico, del blog 50/50 Thriller, per esempio, mi ha parlato di un film di cui avevo solo letto qualcosa qua e là sulla blogosfera.

Psycho Mentary è un thriller - horror italiano.
Diretto da una donna.
E vi dò il colpo di grazia per farvi scappare: è un mock.
FUGGITE, STOLTI!

Tornate qua, fagioloni, che scherzavo.
O meglio, è davvero un film italiano dalle tinte belle cupe, e pure mockumentary.
Però è bello. Giuro.
Io non lo so come sia possibile, come sia successo un simile e splendido evento senza che i manifesti urlassero al miracolo, senza che il mondo crollasse, senza che si incrinassero le costole dei fratelli Vanzina.


Lucia, la figlia del senatore Silvestri, viene rapita da un uomo mascherato. Il riscatto richiesto per il suo rilascio è di un milione di euro. La somma viene rapidamente versata, ma pare che all'uomo mascherato un milione non basti più. Adesso ne vuole 10, per non uccidere una dopo l'altra tutte le altre vittime che aveva sequestrato. Facili, da trovare, 10 milioni...

Io son qui che non contengo la gioia, non so da dove è bene iniziare.
Abbiamo un mockumentary in cui ogni telecamera è giustificata! Davvero! Le riprese sono fatte dall'assassino stesso con lo scopo di mostrare le sue eroiche azioni al capitano Brunetti, che si occupa del caso, (e non solo, vedrete) per cui non ci sono motivi del cavolo a giustificare le riprese!
Davvero!
Ogni. Singola. Telecamera. ha un motivo preciso per essere esattamente dove sta.
E' una sensazione bellissima. Come una doccia fresca dopo una corsetta i primi di giugno.

Altra cosa, altra cosa.
Avete ogni tanto quella sensazione strana legata ai prodotti italiani, per cui vedere un film magari indipendente o sentire una canzone nella nostra lingua causa un disagio che ti costringe a cambiare?
Io ce l'ho.
Mi sa che si chiama imbarazzo.
Poche volte me ne salvo. Quando ascolto Mannarino, per esempio. O quando vedo film che sono ben recitati.
BEN RECITATI, capito?
Psycho Mentary ha anche ottimi attori. Non sono i soliti noti (e meno male, regà), non conoscevo i loro nomi prima di questa visione ma, signori miei (e se l'avete pronunciato come Crozza che fa Renzi high five), sono bravi.
E se pensate che stia parlando solo degli interpreti principali vi sbagliate. Sono proprio bravi TUTTI. La moglie di Brunetti, per esempio. Si vede in una sola scena, mentre parla con la sua bambina, e si potrebbe dire che nemmeno sta recitando.

Pensate che le cose positive siano finite qui?
NO.
Ce ne sono ancora, sono felice come una bimba sulle giostre.
La Gualano ci regala un paio di scene con un livello di gore abbastanza elevato, eppure sono quasi eleganti. La violenza, e il disgusto che essa suscita, non sono ostentati, nè volutamente screditati. Ci sono, e basta, quindi te li mostro in quanto tali ma non ho bisogno di cercare il tuo sguardo schifato. Non serve.
Perché il piano dell'uomo in maschera è molto più di questo, è molto più della 'solita' violenza oscena e scandalosa.
E' subdolo, è furbo, ma soprattutto è perfettamente lucido. Ogni minimo dettaglio è studiato per far sì che nessuno sia costretto a soffrire più di quanto non lo costringano a subire le scelte degli altri personaggi. In un colpo solo infierisce tremende botte al nostro Brunetti pur mantenendosi in un certo senso la coscienza pulita.
Costruendo una simile premessa, era difficile scivolare su un finale affrettato, magari troppo action come accade spesso in certi tipi di thriller. Con tutto il tempo che le occorre (e badate che parliamo di un film breve) la regista ci conduce verso la conclusione della faccenda, e lo fa in modo esemplare.

Per lasciarci poi con l'amaro in bocca.
Ora, non voglio esprimermi troppo a proposito della questione economica che incontriamo più o meno a metà film, perché non mi sono informata su quanto ci sia di reale e quanto sia invece fiction.
E' un argomento troppo spinoso perché io ne sappia davvero qualcosa.
Ma il valore della vita è inquantificabile. Il valore dei nostri affetti è inqualificabile. Una gran banalità, vero? Ci ho pensato spesso durante la visione, a come mi sarei comportata io, messa in una tale posizione piuttosto che in quell'altra. Perché mentre io me ne sto qui davanti al ventilatore a scrivere una non richiesta opinione su un film molto bello, da qualche parte nel mondo qualcuno sta morendo. I miei secondi stanno scorrendo allo stesso modo, le mie dita continuano a scrivere. Se quel qualcuno, però, fosse mio fratello, o il mio ragazzo, o qualcuno che amo, la mia vita sarebbe irrimediabilmente e inconsolabilmente spaccata.
Guardando il film, quindi, viene da chiedersi: e se potessi salvarli, fino a dove mi spingerei?
E' una domanda che al momento non ho il coraggio di farmi, perchè non ho il coraggio di ascoltare la risposta.

Unico rimprovero che mi sento di fare riguarda la scelta del cognome del nostro protagonista. Più volte mi sono dovuta correggere perché stavo scrivendo Brunetta.
Sia mai che parli bene di lui.






mercoledì 20 maggio 2015

Lake Mungo

13:29
(2008, Joel Anderson)

Sono al ventottesimo minuto di visione. Tuona, oggi da me è una giornataccia. Ricordo di colpo di essere in casa da sola. Realizzo di avere una maledettissima paura, quindi le scelte sono due: o lancio il pc giù dalla finestra, allontanando il fantasma di Alice Palmer il più possibile da me o mi armo di pazienza e attendo che qualche membro della mia famiglia rimetta piede in casa.
Film in pausa, me la sto facendo sotto.

Lake Mungo è il film che in sede di Liebster mi è stato consigliato da Bradipo. Ha detto qualcosa come australiano+mockumentary+muovilechiappearecuperarlo. Mi si compra con poco, me ne rendo conto.


In Lake Mungo incontriamo la famiglia Palmer. Papà, mamma e figlio cercano di affrontare come possono la scomparsa di Alice, figlia e sorella. Alice è affogata durante una gita di famiglia. Dopo la sua dipartita, però, fa continue apparizioni in foto e video di famiglia. Un fantasma?

LO SO, LO SO che al mio nominare i mockumentary tanti di voi hanno avuto un sussulto di disgusto. (Io no, io li amerò sempresempresempre)
Vi comprendo, amici.
Ma accantonate per un momento il moto di ostilità che si sta muovendo dentro di voi. Lake Mungo è diverso. Non ci sono quei movimenti da mal di mare che sembrano essere diventati l'unico modo per girare un finto documentario. Non ci sono inquadrature confuse o volutamente amatoriali.
C'è un documentario nel suo senso più convenzionale, con testimoni e persone legate alla vicenda che stanno sedute di fronte ad una telecamera a raccontare cosa è successo. E, ogni tanto, ci hanno buttato una bella scena di quelle intense a ricordarci cosa significa avere paura di un film.


Abbiamo tre personaggi disperati. Ma di quella disperazione dignitosa, non ci sono urla, strepitii, nè capelli strappati. Ci sono una mamma, un papà e un fratello che cercano il modo di stare in piedi nel mondo dopo un lutto del genere. E sembrano riuscirci, fino a quando il fantasma di Alice viene a fargli visita. Ma soprattutto, sembrano riuscirci fino al momento in cui sono costretti a guardare in faccia la realtà, a scavare al di sotto delle loro convinzioni per scoprire chi realmente fosse Alice.

Mi hanno molto colpito questi personaggi così composti, sofferenti ma in modo pacato e silenzioso. Considerato che poi buona parte del film ruota intorno a loro che fissano in camera e narrano, era necessario che gli attori fossero quantomeno credibili.
E lo sono, meno male, lo sono.


Dico 'buona parte' volutamente, perché non c'è solo questo. Ci sono le apparizioni del fantasma, ci sono le foto, ci sono i video. E soprattutto, c'è un filmato ripreso con il cellulare, che riprende il momento in cui Alice non è più stata la stessa.
E, mannaggia la miseria, fanno davvero paura.
Il che suona come una specie di piccolo miracolo. Non aspettatevi bus banali e telefonati, perché non ci sono. E non servono. Qui arriviamo nei momenti di maggiore inquietudine in punta di piedi, ma quando ci siamo dentro siamo vincolati, è troppo tardi per tornare indietro.

Ma chi ci vuole tornare, indietro?


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