lunedì 6 febbraio 2017

Alien

18:35
In questo periodo che per me è stato di grandi recuperi, Alien pendeva sulla mia testa, la lacuna che mi causava più imbarazzo in assoluto. A volte molto semplicemente non mi sento all'altezza del Cinema quello grande con la maiuscola e quindi rimando. Solo che quest anno è morto John Hurt, che sebbene nel mio cuore sarà per sempre lo splendido Olivander, ho deciso di omaggiare nel mio piccolissimo lanciandomi nella visione di una delle mie più grandi soggezioni.

Inspiegabilmente manca il gatto

Protagonista di Alien è l'equipaggio del Nostromo, un'astronave di ritorno sulla Terra. Gli uomini e le donne presenti sulla nave vengono svegliati dall'ibernazione da un segnale di emergenza a cui sarebbe stato molto, molto meglio se non avessero risposto.

Inevitabili anticipazioni 

Vediamo di partire come al solito da me. Ne ho parlato spesso, ho visto molti più film recenti che anzianotti e i miei occhi sono viziatissimi. Poi capita spessissimo che il Cinema mi castighi, come in questo caso, ma ogni volta parto convinta di dovermi adattare ad effetti vecchiotti e immagini datate. Non è che questo sia sinonimo di minore qualità, ma so che siete troppo intelligenti perchè io stia qui a specificarvelo.
Alien è un film del '79, i miei sensi erano preparati a dover fare il doppio del lavoro. Risultato? Pare girato ieri. Un invecchiamento degno di Audrey, elegantissimo e quasi incredibile. Un esempio tanto ovvio quanto efficace: io poche volte distolgo lo sguardo dallo schermo. Non è mica un vanto, solo che è così, gli occhi si abituano a tutto. L'ultima volta in cui una scena mi è stata davvero insostenibile stavo guardando Martyrs, scena degli spuntoni in testa alla prigioniera, incubi eterni. Non lo faccio con film recenti, dagli effettacci pazzeschi fatti al pc che non lasciano spazio all'immaginazione, ma non sono riuscita a guardare la scena della morte di Hurt. Certo, poi si va sul Movie Database, si cercano i trivia che sono sempre una goduria da leggere, si spiega tutto, si crede di essere a posto. Poi riguardo il film: non la so ancora guardare. Ma la cosa DAVVERO incredibile è che io sono già provata quando arrivo lì, perchè prima il sempre povero John Hurt ha sulla faccia un coso repellente. Ad un certo punto Ash cerca di sollevare un tentacolo dele facehugger, e la pelle si solleva insieme. Non si strappa, non c'è ancora sangue, si intuisce e si dice solo cosa potrebbe succedere.
Oh, è bastato un niente, e io cappottata dall'impressione.

Avevo una paura incredibile di annoiarmi, perchè questo è quello che mi fa la fantascienza. Ci provo con un'intensità che lo so solo io, e non mi perderò il Dune di Villeneuve neanche a morire, ma mi annoio. Le astronavi già mi mettono a disagio perchè non so mai come chiamarle e la parola astronave mi fa ridere e pensare a cose poco serie, non riesco a darle pathos. È indubbiamente un demerito mio, eh, ma è così. Ci sto lavorando. Alien è tutto in un'astronave, in un'intricatissima e labirintica astronave, e la cosa non mi è pesata per un istante. Perchè ero persa insieme a loro, disperata insieme a loro, mi è mancata l'aria insieme a loro. Li ho visti cadere come i dieci piccoli indiani, perdendo fiducia l'uno nell'altro con una velocità spaventosa, incapaci di capire se e come ci fosse possibilità di salvezza, e me la sono fatta sotto insieme a loro. Perchè aldilà della classificazione di genere, che sia fantascienza o horror o fantahorror o horrorscienza (??), la cosa fondamentale è che il senso di sconfitta assoluta con cui mi sono ritrovata a visione finita non me l'ha dato nessun altro film, non così. Ripley da sola con Mr Jones sulla scialuppa a registrare il messaggio è uno dei finali più intensi a cui abbia mai assistito.
Se volete un'analisi approfondita delle implicazioni e dei mille piani in cui si può studiare un Capolavoro come questo ci possiamo anche provare, ma come al solito non è questa la sede. Qua restiamo sul basilare, su un concetto di Cinema che può essere straordinaria opera d'arte restando anche intrattenimento purissimo, capace di colpire anche lo spettatore meno analitico (spoiler: io) per incollarlo al divano terrorizzato. Due ore che scorrono come due minuti, intense a livello di tensione e di emozione. Perchè la solita cosa che le persone si dimenticano di dire quando parlano dell'horror è che spesso e volentieri offre spunti di riflessione sull'umanità profondissimi, e lo schiaffo di Lambert a Ripley (due personaggi femminili stupendi) ne è la più forte dimostrazione. Indimenticabile.

E, alla fine di tutto, Alien dà una lezione fondamentale: l'importante è salvare il gatto.



Per una recensione ben più approfondita della mia, QUA c'è quella di Exxagon.

sabato 4 febbraio 2017

Non solo horror: Drive

18:49
Il primo film di Refn che ho visto è stato The Neon Demon, che mi aveva fulminata. Se la tirava talmente tanto da farsi un giro intorno, ma a me andava benissimo così, perchè il film era talmente bello che si meritava di tirarsela. Volevo continuare con Valhalla Rising, che sta comodo comodo su Netflix ad aspettarmi. Avevo il tarlo di Drive, però, e se ho un tarlo prima risolvo quello e poi passo oltre.


All'alba della mia seconda visione di Refn posso confermare la mia tesi: non solo fa bene a tirarsela, DEVE tirarsela, perchè lui è un talento grande e noi non siamo nessuno. Siamo piccoli piccoli, umani sconvolti di fronte ad un film che, adesso posso confermarlo con la mia inutile voce, è davvero il Capolavoro che avete detto per tutti questi anni.

Protagonista è Ryan Gosling, e di lui parliamo dopo, che non ha nome. Guida in modo eccezionale ed è completamente privo di paura e spirito di sopravvivenza. Nella sua vita di tutti i giorni usa il suo talento e la sua spregiudicatezza per fare lo stuntman sui set cinematografici, di notte fa da autista per i criminali. Questa routine verrà spazzata dall'ingresso nella sua vita di Irene, la vicina di casa. E niente sarà più lo stesso.

Sì, nel riassumere la trama ho dato volutamente un risvolto romantico, che farà storcere il naso ai puristi dell'azione dura e cruda. Non che loro resterebbero comunque delusi da Drive: è un inarrestabile crescendo verso una violenza inaudita e senza pietà. Ma la cosa che ha lasciato me a fine visione così profondamente provata è che si stia parlando della più genuina e candida storia d'amore che abbia visto in un film di recente. 
Partiamo dal presupposto che io non amo i film d'amore, li trovo generalmente presuntuosissimi quando vogliono elevarsi a grande realtà oppure idiozie totali. Ci sono le ovvie eccezioni e con questo concludo la mia polemica. Drive fa il miracolo: parla d'amore senza parlarne, senza mostrarlo, agendo. Che poi è quello che fa la gente innamorata, no?
Non c'è bisogno di parole, non serve la scena plateale che fa scombussolare l'ormone degli spettatori infoiati, non serve neanche fermarcisi troppo su: un paio di sguardi ben sistemati, una mano sopra l'altra, un sorriso. Noi siamo fregati. Se non ci aveva inchiodato alla sedia il primo inseguimento, quello che è lento e silenzioso e che ha i titoli di testa rosa fluo intorno, allora sarà l'amore a farlo. 
Un film intero, uno straordinario film intero, che si muove perchè la cosa più importante è l'incolumità di una donna appena conosciuta e del suo bambino. Non conta se nel frattempo si rischia la vita, non conta se si ignora la legge, non conta nemmeno (in un momento PAZZESCO PAZZESCO PAZZESCO) se lei perde la buona immagine che aveva, se si uccide metaforicamente ogni possibilità di essere amato da lei uccidendo realmente un'altra persona, non importa più se si è i primi a spaventarla. Lei è salva, ed è quello che conta.
È un amore totalizzante, di una generosità sconvolgente, inarrivabile. 
Il pilota avrebbe potuto farsi quei famigerati cazzacci suoi grazie ai quali pare si campi cent'anni. Ma qualcosa lo aveva reso più umano: il più basilare dei sentimenti. Se all'inizio ci pareva quasi robotico, assente, privo di pensieri, alla fine del film, con quella canzone, lo vediamo più umano di tutti noi.

E qua devo le mie scuse ufficiali a Ryan Gosling. Su Facebook avevo detto che preferivo Reynolds. Qua G. tira fuori una virilità incredibile, rivelandosi stupendo, una bellezza che avevo sottovalutato. Ragazzi, è un figo pazzesco. Ho già usato l'aggettivo pazzesco in questo post? 
Non importa se questa sua espressione rigidissima sia data da scarse capacità recitative (La La Land sembra confermare questa tesi), qua era perfetta e tanto basta. Qualche mezzo sorriso buttato qua e là, tanto per non farci abituare, e poi di nuovo indecifrabile. Mai che si parli di lui, che si sentano i suoi pensieri, che si vedano le sue emozioni. O forse invece sono cristalline, basta solo guardare bene.

Insomma, filmettino da niente, dicevamo.
Ad ergerlo a capolavoro per fortuna c'è Ron Perlman.
#Perlman2020

giovedì 2 febbraio 2017

Non solo cinema: Il barone rampante

16:42
Per secoli mi ripromettevo che avrei letto Calvino. Poi, molto semplicemente, gli preferivo altro. Fino a che, scorrendo la mia libreria digitale per caricare il lettore (qua parliamo del mio lettore e della sua storia appassionante), trovo un Calvino, messo lì, in disparte. E allora che sia finalmente il suo turno.


Il barone rampante è un ragazzino di nome Cosimo, di evidenti nobili origini, che dopo un litigio col padre decide di salire su una pianta per non scenderne mai più. La sua storia ci è raccontata dal fratello minore, Biagio.

Ci sono un po' di anticipazioni, occhio

La prima metà de Il barone rampante l'ho divorata nella prima sessione di lettura. Mi accattivava tutto: nomi dei personaggi, storia, il bizzarrissimo e splendido stile di Calvino mi avevano completamente assorbita. La malefica sorella Battista, ad oggi, è ancora il mio personaggio preferito. La caratterizzazione dei personaggi era stravagante, anche solo i loro nomi erano divertenti. Credo anche che tutto questo dilagante entusiasmo che avevo fossero merito del fatto che fosse il mio primo incontro con Calvino. Non avevo la più pallida idea di che tipo fosse, a parte le ovvietà che si studiacchiano a scuola, quindi sulle prime mi sono lasciata trascinare in giro per la follia che mi stava raccontando.
Poi sono arrivata a metà. E lì mi sono inchiodata.
Finire sto benedetto romanzo, che è tra l'altro brevino, mi è costato una fatica incredibile. Occhi sanguinanti.
Io mi rendo conto che con l'affermazione che segue rischio di giocarmi il diritto di parlare di libri, ma se devo continuare a parlare di pancia, e voglio farlo, devo dirvi come sono andate le cose: mi sono rotta le balle. 
Prima il cane, simpaticissimo, va bene.
Poi il ladrone, bizzarro, prendiamo anche lui.
Avrei voluto ci fermassimo lì. Anzi, ritratto: non lo so cosa avrei voluto, perchè di fatto non è mancato niente. Gli avvenimenti ci sono stati, non è un romanzo statico, c'è stata la critica alla società, che ci piace sempre e non passa mai di moda (sarà che non passa mai di moda perchè noi umani del ciumbia non cambiamo mai? Così, la butto lì), c'è anche stata la storia d'amore con il ritorno della viziatissima Viola. Si è parlato di famiglie, di amori, di questioni paesane, di legalità, il tutto con quello stile che all'inizio mi aveva tanto appassionata.
Da metà in poi, però, vuoi perchè la mia mente non era più sovrastimolata dalla bellissima novità di una scrittura diversa da quelle a cui sono abituata, vuoi perchè lo stare sugli alberi aveva smesso di essere il punto della questione, io alla fine mi sono annoiata.
Sono pronta a scommetterci tutti gli arti insieme che alla fine la colpa sarà mia perchè sarò io che non avrò capito un cdn, non me ne stupirei, quindi prendete questa opinione per quello che è: un sincero discorso di slancio.

Su Calvino torno di sicuro, magari non subito, ma state pur certi che mi terrò lontana dalle piante per un po'.


lunedì 30 gennaio 2017

Split

09:10
Ogni volta che esce un nuovo film di Shyamalan ha luogo questa dinamica:
'Ah, un suo film nuovo. Che due palle, non ci vado, sono stanca.'
'Beh però carina la trama.'
'Oddio bellina la locandina!'
'Ma non avevi detto che l'altra volta sarebbe stata l'ultima?'
'Va beh dai facciamo che l'ultima è questa.'
Tutte le voci in questione sono nella mia testa.
No, non perchè io soffra dello stesso disturbo del personaggio dell'ultimo lavoro del malsopportato regista, ma perchè sono una persona facilmente circuibile.


Protagonista di Split è Kevin, un uomo che soffre di un disturbo da personalità multiple. Lo vediamo rapire tre ragazze e rinchiuderle in una stanza, lasciando trapelare attraverso una delle personalità che loro sono lì per quando arriverà Lui, La Bestia. Nel frattempo, facciamo la conoscenza di alcune delle personalità di Kevin attraverso i suoi incontri con la sua terapeuta, la dottoressa Fletcher.

Dopo la visione mi sono confrontata con la mia amica Elena, che ha le competenze giuste per rispondere alle mie domande, e le chiedo delucidazioni sul disturbo. Riassumo la sua spiegazione con la frase 'Sono quasi tutte cagate'.
Ciò detto, recuperiamo la nostra sospensione dell'incredulità e godiamoci il film, che, mi tocca ammettere, è bellino davvero.

Non è una conclusione a cui sono giunta subito, in realtà, ci ho pensato un po', perchè non è stato un colpo di fulmine. Sono peraltro reduce da una visione che mi ha sconvolto dalla bellezza (Arrival), poche cose in tempi brevi mi entusiasmeranno altrettanto. Sono uscita dalla sala con qualche perplessità e poco entusiasmo, ma poichè nei giorni successivi non ho fatto altro che pensarci ne deduco che abbia fatto centro.
Innanzitutto, un'ottima idea di Shyamalan: 'Tieni, James, questo è il film, fanne quello che vuoi, io mi siedo qui e ti guardo.'
McAvoy tiene in pugno film e spettatori, in una delle performance migliori che io abbia mai visto. Interpreta 5 personaggi (poi quando Shyamalan ha tempo mi spiega perchè parla di 15 milioni di personalità poi ne vediamo 5), con una credibilità pazzesca. Si arriva a punti in cui noi spettatori siamo in grado di intuire la personalità prevalente solo con un minimo cambio di sguardo, è impressionante. Io l'ho sempre trovato bellino assai, ma l'avevo sottovalutato pesantemente e oggi mi punisco con sedute di cilicio.
E sì, ci sono le ragazzine (Ana Taylor-Joy, che abbiamo conosciuto con The Witch, si conferma interessante, anche se ho detestato la sua doppiatrice), la terapista, la storia...tutto interessante ma quasi azzerato dalla presenza gigatesca di James che senza ritegno alcuno investe tutti e li ricopre di opacità. Roberto Recchioni, che mi piace tanto, dice nella sua bizzarra recensione per ScreenWeek che alla fine il gioco delle personalità è facile perchè si presta a faccette e gigionamenti. Stavolta non mi trovo d'accordo con Robbe. Qua non ci sono faccette buffe (per quanto io per prima abbia sorriso ad ogni comparsa di Hedwig, la personalità di 9 anni), ma cambi intensissimi di sguardo, di impostazione del volto, che a me sono sembrati impressionanti.

Ma poicheè di non solo McAvoy si può parlare, ho un'altra osservazione da fare. C'è un episodio di The Big Bang Theory di qualche stagione fa in cui le ragazze guardano I predatori dell'arca perduta. Amy osserva che il film avrebbe avuto lo stesso identico finale se non ci fosse stato Indiana. Ecco, per me la stessa identica cosa vale per la dottoressa Fletcher. Ci è servita giusto a dare qualche piccolo spiegoncino che non volevamo comunque.

Insomma, se dovete scegliere tra questo e Arrival al cinema ANDATE A VEDERE ARRIVAL, ma badate che Night ha fatto bene i compiti, si può dargli una possibilità.

UNO SPOILER CHE HO DELLE COSE DA DOMANDARVI:

Cosa ne pensate della faccenda cuore puro/impuro?
Ad un primo sguardo avevo pensato che io avrei dato i nomi opposti, ho sempre immaginato come puro un cuore non sporcato da sofferenze, ma è interessante anche l'opposto.

sabato 28 gennaio 2017

Non solo horror: Il caso Spotlight

13:23
Io sono cresciuta all'oratorio. Oggi mi dichiaro fortemente atea, eppure se tornassi indietro rivorrei esattamente la mia adolescenza lì dove si è svolta, in oratorio, giocando a carte, partecipando al Grest (so che non esiste in tutta Italia, ed è un peccato mortale), mangiando quintali di caramelle. È stato per me un luogo sicuro, un porto certo, una roccia della mia esistenza. Lì sono nati i miei rapporti più forti, le mie amicizie più durature, lì ho imparato tantissimo su quella che sono. In un paese piccolo come il mio, l'oratorio è tutto, perchè non c'è altro. Quando penso al gigantesco problema della pedofilia nella Chiesa penso a me, a tutto il tempo passato in quell'ambiente, e mi vengono in brividi.


Spotlight è il nome con cui viene chiamata la squadra d'inchiesta del Boston Globe, diventata famosa per la mastodontica indagine sul tema della pedofilia nell'ambiente della Chiesa. Il film ricostruisce il momento delle indagini.

Torniamo alla mia adolescenza. Quando si passa così tanto tempo in oratorio, il don diventa quasi amico. Io ho cenato con il mio don, dormito nella stessa stanza con il mio don, ho guardato film, cucinato una pasta, fatto viaggi, pulito teatri, cantato, fatto il bagno in piscina, con il mio don. Mai da sola, ok, ma ci siamo capiti. Questi ricordi oggi sono tra i più belli della mia vita. Mai, neanche per un istante, mi sono sentita in pericolo. L'oratorio era la mia seconda casa, il luogo in cui mi sentivo felice e tutelata. C'era sempre un posto per me, all'oratorio. Ho conosciuto preti straordinari e altri che mi hanno fatta incavolare come una iena, ma il colletto bianco per tanto tempo per me è stato sinomino di fiducia.
Per questo, oggi, il fenomeno dei preti pedofili mi devasta. Mi fa arrabbiare come poche altre cose al mondo. Banale, eh? Se voi riuscite a trattenere il populismo che questa faccenda strappa fuori, vi ammiro molto. Non è facile, e tocca il mio peggio.
Comprendendo quindi che questo argomento possa tirare fuori il nostro lato peggiore, sarebbe stato facilissimo scrivere un film in cui si parla dell'argomento in modo emotivo, tirando fuori argomentazioni cruente e terrificanti, scendendo in quei dettagli che non possiamo ignorare.
Il caso Spotlight, invece, fa un'altra cosa. Cerca di restare lucido, pacato. Non ci fa urlare dallo sdegno contro lo schermo, non ci catapulta nella preoccupazione per la vita dei bambini che ci circondano. Ci mostra un'altra via: la denuncia.
Lo fa quasi con freddezza, i giornalisti raramente si lasciano andare a sfoghi personali ma restano profondamente concentrati sul proprio lavoro. Non si lasciano inorridire, non lasciano che l'orrore che sentono li tocchi nel profondo. È così che portano a casa la storia. È così che smuovono l'opinione pubblica, è così che hanno invitato altre vittime a farsi vive, a raccontarsi, a denunciare. Io non voglio nemmeno immaginare quanto sia stato duro, mantenersi ad una distanza tale da permettere di non perdere il senno. Solo il film a me ha turbato parecchio.
Non sono servite immagini forti, non sono stati discorsi troppo espliciti, tranne forse in un paio di casi, non è stato necessario renderci voyeur. La storia è già agghiacciante di suo, tanto che è bastato lo squillare insistente dei telefoni alla fine a dare gli incubi.
Insomma, amore infinito per chi racconta l'orrore in modo così delicato ma d'impatto, per un film che ha saputo essere equilibratissimo ma mai noioso. Per me un Oscar meritatissimo.
E poi c'è Stanley Tucci...💗


giovedì 26 gennaio 2017

Non solo cinema: Il peso dei segreti

18:23
Io e la letteratura orientale ci siamo incontrate poche volte. C?è stato un periodo della mia vita in cui credevo mi piacesse Banana Yoshimoto, ma praticamente è finita lì. Poi una booktuber ha parlato di questo libro e quando l'ho visto lì, freschissimo d'acquisto, tra le novità della mia biblioteca, non ho saputo resistere.


I segreti di cui parla il titolo sono quelli di una famiglia giapponese. Il primo che ci viene svelato riguarda un omicidio, compiuto da una figlia ai danni del padre, che ha avuto luogo il giorno in cui su Nagasaki fu sganciata la bomba atomica, e che grazie a questa coicidenza temporale resterà nascosto per anni.

Una simile premessa poteva far pregustare un noir di quelli belli profondi e d'atmosfera, un libro sul senso di colpa, sul tormento.
Con una copertina così, però, chi voglio prendere in giro?

Il peso dei segreti è 'soltanto' una saga familiare, strutturata in quattro miniromanzi, vissuti da altrettanti punti di vista diversi. Ogni capitolo è introdotto da una splendida illustrazione, alla Feltri sono stati bravissimissimi. Si arriva al succo del problema con il tempo, la scrittrice non ha alcuna fretta, nonostante racconti più di 50 anni di storia in un romanzo che non è un tomo insormontabile. Con la pacatezza che di consuetudine attribuisco all'Oriente veniamo condotti in una storia che di pacato non ha nulla. Parlando della vita di alcune persone ci viene fatta una panoramica della storia del Giappone, non solo intorno alla seconda guerra mondiale. Il rapporto con Corea e Russia, per esempio, la società divisa per famiglie importanti, l'importanza dell'apparenza. Una società sviscerata nel racconto di alcuni suoi membri, che sono convenzionali solo in apparenza. Come ogni 'normalità, però, è inconvenzionale per definizione, quindi ogni membro della famiglia nasconde qualcosa, e sono proprio i vari qualcosa a comporre la storia.
Ha senso questa frase? Chissà.
Il romanzo si divora in pochissimo, complice un linguaggio semplicissimo, fatto di frasi concise e capitoli altrettanto, che scorrono come ciliegie, uno via l'altro. Per quanto mi riguarda, è stato proprio un bel viaggio.

Confrontandomi così di rado con una società così distante dalla mia mi sono trovata diverse volte a chiedermi il perchè di certi comportamenti e di certe affermazioni (per esempio, pare che i giapponesi abbiano una lacrimazione costante. Piangono più di me e credetemi che è tutto un dire). Bisogna solo aprirsi un po' e io, che sono così viziata dal surplus di cultura occidentale, ho bisogno di esercitare questo aspetto della mia vita sia da lettrice che da cinefila.
Quando ci si prova, però, ci si rende conto che alla fine quel modo di dire che sostiene che tutto il mondo sia paese è proprio vero. Che le preoccupazioni, i dubbi, le fonti di serenità sono le stesse per tutti.
E tutto il resto passa in secondo piano.


lunedì 23 gennaio 2017

At the devil's door

18:05
Continua il mio viaggio per tornare tra le calorose braccia di Friedkin. Ora che Blatty ci ha salutati, poi, è quasi doveroso. Prima o poi leggerò anche il libro, lo prometto.
MA temo che questo giorno sia appena slittato un pochino in avanti perchè, che io sia eternamente maledetta, At the devil's door mi ha fatto una paura di quelle che mi hanno fatto passare la voglia di vedere dei demoniaci ancora per un po'.

Leigh è un'agente immobiliare che, analizzando una nuova casa da vendere, trova una mazzetta di banconote. Quella che noi seguiamo è la storia di quella mazzetta, di come una giovane ne sia entrata in possesso e di come le conseguenze del suo gesto si siano trascinate coinvolgendo non solo lei stessa ma altre donne.

Una diapositiva del momento in cui pensavo sarei morta

Ma a me esattamente chi è che lo fa fare?
Cosa credo di ottenere? Ma se anche tra un mese o due io riguardassi davvero L'Esorcista riceverei un pagamento in gettoni d'oro? Perchè davvero a volte penso di avere grandi problemi di masochismo. Io domani ho davanti qualcosa come quindicimila ore di lavoro, in un bar da sola, e alla sera, COL BUIO, io il suddetto bar lo dovrei anche chiudere. Andare in un magazzino buio e gelido come il Polo, controllare che tutto sia a posto e poi uscire. DA SOLA. AL BUIO.
Potevo vedere La La Land. Invece no, mi sono appena condannata ad una giornata infernale, contrassegnata da allucinazioni uditive che mi faranno voltare di scatto ogni 5 minuti perchè mi sarà sembrto di sentire il ringhio di Satana.
Perchè lo sapete cosa fa tanta, tanta paura in At the devil's door? I rumori. Le apparizioni demoniache di fatto non ci sono mai, ma le conseguenze della presenza del demonio nella stanza sono anticipate da dei ringhi. Se ormai le nostre orecchie sono abituate alle sinistre voci che di solito gli vengono attribuite, questi suoni animaleschi mi hanno annientata sul divano.

Leigh, Hannah e Vera non hanno alcuna colpa se non quella di essere donne profondamente sole. Hannah visceralmente attaccata ad un fidanzatino di passaggio che l'ha gettata tra le braccia del demonio, Leigh e Vera sole al mondo, legate solo l'una all'altra da un rapporto che, come spesso accade tra sorelle, è forte ma complicato. Tutte con le loro fragilità, noto punto di appiglio di quel signore lì con gli zoccoli che non aspetta altro di vederci vacillare. E lui infatti subodora la solitudine e, a turno, se le prende tutte e tre. Prende anche me, evidentemente, perchè il sospetto, la paura, gli occhi sempre voltati dietro le spalle li avrò per un po'. C'è da dire che McCarthy fa quella cosa notevolissima di mostrare il demonio in penombra, in un riflesso allo specchio, negli occhi neri di una bambina, senza mai sbattercelo in faccia. È quella cosa che Stephen King dice in Danse Macabre quando parla di Lovecraft: se il terrore lo tieni dietro la porta fa una paurona malvagia, ma appena la spalanchi e me lo sbatti in faccia io posso anche farlo un saltellino sulla sedia, ma poi inizio già a tranquillizzarmi. Se c'è un mostro di tre metri dietro mi fa certamente spavento, ma sono anche sollevata, perchè poteva esserne alto trenta, di metri. Poi finisce tutto in vacca come La madre, che aveva tutte le potenzialità per farmi stare sveglia la notte e invece fuffa.
Qui il volto del Male si intravede per cinque secondi forse, giusto il tempo di sgommare le mutande, e poi torna a nascondersi. È come se ci stesse pescando: ci attira, poi butta l'esca un secondo tanto per farci abboccare e infine ce la leva da sotto il naso. Ma ormai è fatta.
McCarthy gioca con noi, con la nostra paura atroce, e a quanto pare si diverte molto a farlo, perchè gli riesce bene assai.

Forse questo discorso conta solo se, come me, al solo sentire un vago richiamo satanico scappate con le valigie in Messico, chissà.
Però il film è bello davvero, quello a prescindere, giuro.

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