martedì 28 agosto 2018

Tutte le (poche) cose che sono riuscita a vedere e leggere in un mese di trasloco.

13:45
Un breve e forse inutile riassunto del mio mese di agosto:
Sto andando a convivere con Erre → mansarda da pulire a fondo, mobili da comprare e montare (perchè croste schifose abbiamo fatto tutto da soli pur di non dare un solo euro inutile al Signor Ikea), idraulici elettricisti padri collaboratori vicini di casa muratori trapani avvitatori polvere nidi di vespe e cadaveri in decomposizione avanzata di piccione da eliminare (triste e agghiacciante storia vera).
Hanno operato mia zia → giri su e giù per ospedali, km in auto e mancanza di ore di sonno.
Lavoro in gelateria, è agosto e ho una collega in ferie per un mese.
Risultato generale: blog chiuso per un mesetto, social dimenticati e una stanchezza profondissima che non riesco a scuotermi di dosso.

Qualcosina, però, sono riuscita a fare comunque, quindi giga post riassuntivo con le cose belle di questo mese!


Con i milioni di chilometri che ho macinato in questo mese, i podcast sono stati un'ottima compagnia, complice l'Iphone che mi ha prestato un'amica quando si è rotto il mio telefono.
Tre i miei preferiti del mese:

  • Morgana, in cui l'adorata Michela Murgia parla di donne. Ogni episodio una signora dalla vita notevole. Fino ad ora ha raccontato di Margaret Atwood, Tonia Harding e la nostra dea Frances McDormand, che a breve sarà proprio Dio in Good Omens e io Non. Vedo. L'Ora. Con ospiti a tema e la solita brillante intelligenza, la Murgia parla di queste moderne Morgane, e del modo in cui ci ricordano che per essere donne non c'è un solo modo. 
  • Ordinary Girls, che seguo praticamente solo per Elena Mariani. Non vi dico altro di lei, seguitela su Instagram e guardate le sue stories ogni giorno. Io lo so che sono tutti convinti che le donne facciano meno ridere degli uomini, è solo che non hanno mai visto le stories di Elena. Mi spacca. Scelte musicali sempre spettacolari.
  • Veleno, un podcast true crime prodotto da La Repubblica. Si racconta di un caso giudiziario che ha coinvolto qualche piccolo comune dell'Emilia Romagna alla fine degli anni '90, una storia tremenda di pedofilia e satanismo. Ammesso, però, che qualcosa sia successo davvero. Un racconto straziante, ma interessantissimo. 
Mi vergogno di ammettere che non ho visto film, con una sola eccezione. Mio fratello, con il ricatto del 'Dai Mari è l'ultima volta che vediamo un film insieme!' mi ha convinta a vedere La forma della voce. Sapete che non sono un'appassionata di Giappone, nè di anime e manga, ma lui lo è. L'ho trovato molto più gradevole rispetto a Your name, più emozionante e con una storia più convincente. Rimane però la mia perplessità sul mondo orientale in genere. Per qualche ragione, c'è sempre qualcosa di irritante che mi allontana, e che nel solo (banale, lo so) Studio Ghibli non trovo. Saranno le espressioni a cui non sono abituata, saranno atteggiamenti dei personaggi che non apprezzo e non riconosco come 'comuni', o sarà che ne so poco e niente, ma non fa per me.
Vorrei anche dirvi che ho visto I kill giants, che è arrivato su Netflix, ma mi sono addormentata a metà.


Non che a libri mi sia superata, comunque: due sole letture, anche se entrambe appassionanti.

  • Io e Mabel è il racconto di come addomesticare un'astore (con apostrofo perché è femmina) sia stata l'ancora di salvezza per l'autrice, Helen Macdonald, che si è trovata a gestire un lutto improvviso. Io sono di un'ignoranza spaventosa sul tema, e quando penso agli uccelli faccio fatica ad immaginarli come creature spaventose e crudelissime. Il libro della Macdonald non solo fa chiarezza, ma racconta questi animali come non avevo mai visto prima fare, con un amore grande che la segue fin da bambina e competenza vera, che non diventa mai spiegone noioso. Il legame complicato con Mabel la costringe ad uscire di casa, a concentrarsi, le dà una motivazione. E per lei è salvifico. Meno successo gli astori hanno avuto con T.H. White, l'autore del romanzo da cui è tratta La spada nella roccia. Il racconto di queste due vite scorre parallelo, e senza nemmeno accorgercene siamo affascinati da questi rapaci anche noi. 
  • Una stanza piena di gente, di Daniel Keyes, è un'altra storia vera. Quella di William Milligan, il primo caso negli Stati Uniti in cui una persona colpevole viene assolta grazie alla diagnosi di disturbo da personalità multiple. Milligan era 'spezzato' in 24 personalità, e la principale non era a conoscenza dei reati commessi. Il romanzo non ripercorre solo il caso giudiziario, che già di per sè è talmente intrigante da poter richiedere un libro a parte, ma in generale tutta la vita del protagonista, partendo dall'infanzia travagliata. Dalla metà in poi mi ha un po' persa, l'ho trovato troppo lungo e prolisso, ma la storia è interessantissima, soprattutto se le cose che succedono nella mente umana vi spaventano da matti.
In un mese così sfiancante la mia insonnia, con il consueto tempismo, è tornata a gamba tesa lasciandomi a fissare il soffitto. Unico sollievo arriva per me con l'ASMR, che anche quando non mi fa addormentare almeno mi rilassa molto. Scoperta grandiosa del mese è il canale ASMRSurge. Insonni, non ringraziatemi. Ve ne faccio dono perchè è quello che si fa con le ricchezze: le si condivide. Fa video mai banali (cosa rarissima nell'asmr) e diversi da chiunque altro, lo amo immensamente.

La vera passione del mese è stata, però, Saga, aka uno dei fumetti più belli della storia del mondo. Lui si merita un post a parte, ne riparliamo.

Stasera, poi, è il mio turno con la Notte Horror, che è la cosa preferita dell'internet estivo. 

Mi sa che di sta cosa dei preferiti ne facciamo una rubrica, come le youtuber nel 2012, perché qui siamo sempre al passo coi tempi.


giovedì 19 luglio 2018

Il segreto del Bosco Vecchio, Dino Buzzati

11:29
Prendetemi pure in giro se volete, lo accetterò.
Io, però, non avevo mai letto Buzzati.
La scuola mi aveva insegnato che la letteratura italiana era tutta stilnovisti e poeti frantumaentusiasmi. Calvino? Sconosciuto. Leopardi? Una noia mortale. Buzzati? Chi?
Sì, sto dando la colpa alla mia prof, che oltre ad avermi rubato la mia copia de Il giovane Holden mi ha fatto credere (inconsapevolmente, era una ciellina nazionalista) che il meglio era tutto all'estero.
E finisce che Buzzati me lo devo leggere a 27 anni.


Il Bosco Vecchio è un terreno ereditato dai Procolo, Sebastiano e Benvenuto da un parente defunto.
Uno è un colonnello in pensione e l'altro un ragazzino orfano e in collegio. Si trovano a condividere un'eredità fatta di piante ma anche di geni, gazze e venti.
E nessuno osserva il mondo in silenzio.

Vi racconto di un pomeriggio.
Erre per lavoro doveva andare in un paesino di montagna. Mi chiede di accompagnarlo, così gli posso fare compagnia durante il viaggio. Di fianco alla farmacia dove lui lavora c'è una pasticceria, quindi lo saluto, mi ordino un cappuccino pieno di schiuma, e mi siedo nel loro terrazzino. Ho una felpa pesante, l'arietta è quasi miracolosa, passano persone sorridenti con cani rumorosi e la tranquillità del paese è da sogno. Un auto ogni dieci minuti quando andava male.
Io e Dino Buzzati siamo stati insieme quel pomeriggio, e la coccola che quella giornata è stata per me è stata indescrivibile. Qualche tempo fa nel sentire la gente parlare di cose così banali mi avrebbe quasi fatto ridere, ma in un anno come quello che sto passando, e che non smette di prendermi e sbattermi ripetutamente contro il muro proprio di faccia, ho rivalutato tutto.
Se potete concedetevi un momento così. Un giro in bici al sole, una visita ad una fattoria con gli asinini e il fieno, una passeggiata di sera, un pomeriggio in montagna.
E se potete, fatelo con Buzzati.

Perché come mi è capitato di dire altre volte parlando del fantastico, nessun altro genere fa quello che fa lui. Ci prende e, pur facendoci godere immensamente del momento, ci prende e ci porta via. E io, con la mia felpa, il mio cappuccino e il cane sopra di me che abbaiava ad ogni passante, ci siamo fatti prendere volentieri. Ci siamo lasciati trasportare in un luogo magico dove le piante sono le padrone di casa, dove i venti fanno le gare e dove le gazze sono guardiani migliori di ogni cane. Dove le persone riscoprono il loro valore, dove i bambini smettono di essere piccoli e dove niente conta più della lealtà. Dove riemerge il buono di ognuno.
Il tutto, in una storia breve e quasi per bambini, di quelle che non hanno paura di parlare di cose cattive perché hanno uno scopo, e perché quello scopo lì è sempre ricordarci che siamo migliori di quanto crediamo.

Dopo quel giorno la mia testa bloccata si è sbloccata. Mi è arrivata un'idea che potrebbe (o forse no, se potete incrociate le dita per il mio futuro) risolvere una situazione brutta brutta. Ho cercato di riprendere in mano le redini del mio cervello e anche se la strada è lunga e spaventa, ogni tanto riesco ancora a pensare di potercela fare.
Non posso credere che Buzzati e quel pomeriggio lì non c'entrino niente.

sabato 14 luglio 2018

Ingmar Bergman Day: Luci d'inverno

14:19
Il solo pensiero di fare una recensione di un film di Bergman mi fa venire il mal di testa.
Le recensioni dei suoi film al massimo se le faceva da solo, io non ho alcuna capacità.
Accade però che oggi sia il centenario della sua nascita, e se è vero, come si dice dalle mie parti, che piuttosto di niente è sempre meglio piuttosto, allora è il caso che oggi, a modo mio e umilmente, si parli di Sua Altezza Reale Ingmar Bergman.
Non sono sola a farlo, in fondo al post trovate i link degli altri blogger che oggi hanno preso un momento per cantare canti di lode e gloria.


Quando ho constatato la data da ricordare e l'ho proposta agli altri, un solo film mi è lampeggiato in mente: Luci d'inverno.
Prevedo post menoso, portate pazienza con la povera vecchia che scrive.

La storia è quella di Tomas, un pastore protestante.
In seguito alla morte dell'amatissima moglie, la fede di Tomas si è andata sgretolando, riducendolo a dire messa recitandola come la preghiera imparata a memoria in quarta elementare. (Che immagino per tutti, Tomas compreso, fosse Il Cinque Maggio, giusto?)
Proprio durante una messa lo conosciamo, mentre svolge il suo lavoro di fronte ad una chiesa piccola, cupa e semivuota. Di quella chiesa quasi si sente l'odore, guardandola.
Dopo la cerimonia, alcune persone entrano in sacrestia, per parlare con Tomas. Succede molto poco altro: si parla tanto, e non serve altro.

Mai come quest anno mi sono sentita vicina a Tomas. Non per la perdita della fede, per quella ormai non c'è rimedio, ma per la perdita delle fondamenta. La morte della moglie lo ha privato della sostanza che lo sorreggeva, che gli dava la forza per essere il pilastro della comunità, ruolo spesso richiesto alla figura sacerdotale. La fede è sparita e il vuoto che ha lasciato è immenso. Ruota tutto intorno a quello, a qualcosa che c'era e ora non c'è più, e che si è portata con sè la speranza. La consapevolezza di essere azzoppato, di non essere più di alcun valore, è quasi più atroce, per Tomas, che la scomparsa della fede stessa.
Non c'è niente di più spaventoso del non riconoscersi, che è un po' il motivo per cui i film di possessione sono quelli che mi terrorizzano anche quando sono brutti: la perdita di sè, l'annullamento dell'identità, l'oscurità. E questo gelo con cui il film è girato e narrato sono perfetti proprio perché glaciale è spesso lo sguardo che si ha su questo nuova identità che non si riesce a riconoscere. L'analisi è lucidissima ma il risultato un incubo.
Perdersi è complicatissimo e niente viene accettato in soccorso. Così per Tomas l'amore di Marta, non ricambiato, è inutile. Non dà sollievo, non allevia le sofferenza, non fa chiarezza nelle tenebre che la mente ci costruisce intorno.

Eppure, per chi ha fede, nessuno può dare più consolazione di Gesù. Gesù si è sentito abbandonato nel momento del bisogno estremo. Gesù è stato messo alla prova. Gesù, meglio di tutti noi, ha sofferto del famoso 'silenzio di Dio'. E se lo ha sentito lui, il silensio, che speranze ha un povero sacerdote di provincia?

Se speranze ce ne sono state, per Tomas, non ci è dato saperlo. Quel che è certo è che per tutto il suo percorso di smarrimento questo film è stato capace di mettere nero su bianco un malessere che spesso non si riesce a mettere in parole. Lui, di parole, ne ha usate tante, e non ce n'è una che non serva.
Buon Compleanno, Maestro.
E grazie.


Le altre candeline sulla torta per Bergman:
Obsidian Mirror - L'ora del lupo
Non c'è paragone - Il settimo sigillo
Solaris - Un'estate d'amore
Il Bollalmanacco di Cinema - Fanny & Alexander


(Edit: i link non funzionano perché la blogger scema è da cellulare, rimedio appena a casa, ma googlate questa gente perché ne vale la pena)

mercoledì 11 luglio 2018

#CiaoNetflix: Hannah Gadsby: Nanette

11:00
Cose che so sulla stand up comedy: zero.
Cose che so sulle lesbiche, lato dell'omosessualità di cui non si parla mai: zero.
E quindi, su consiglio di Cimdrp (che vi consiglio come sempre di cercare su Youtube se siete interessati al tema della parità), oggi ho guardato Nanette, uno spettacolo di stand up di Hannah Gadsby. (Cose che sapevo su Hannah Gadsby: zero.)
Ed è stato eccezionale.


Ci sono tanti modi per parlare di temi fondamentali come la parità, il patriarcato, l'omofobia.
Hannah ne sceglie uno che spiazza e lascia senza fiato: l'onestà.

Dopo una prima parte in cui prende se stessa, il suo background, le sue origini e fa tutto a pezzi piccoli piccoli ridendone e lanciandone i coriandoli per aria (facendo sinceramente divertire, evitando il cringe furioso che causano a me a volte i comedian), con una sterzata che ha colpito dritta dritta in un mio punto debole (l'autodemolizione) si è cambiata aria.
Addio alle battute sul coming out con la nonna e addio al racconto della chiusura mentale e legale della Tasmania degli anni '90.
Non si scherza più.
Quella che sembrava essere un'oretta di risate tranquille è diventata un ritratto ferocemente sincero sulle donne, sul loro ruolo nella storia dell'arte, sulla loro condizione odierna e sul ruolo ancora più complicato delle donne omosessuali, donne a metà.
Se già le donne contano metà dell'essere umano maschio, le lesbiche ancora la metà.
Un quarto di umano.
Senza paura di essere troppo provocatoria - amanti di Picasso siete avvertiti, non ci va giù leggera - l'elenco di cose che Hannah dice è spaventosamente reale. Il tono della commedia è cambiato, e non c'è proprio niente da ridere.
Sembra spesso trattenere le lacrime, ma proprio come chi non ha tempo per lamentarsi ma ha un messaggio fondamentale da lanciare, non piange mai. Sputa fuori aneddoti dolorosissimi, e verità che tutti conosciamo e sulle quali ci siamo spesso accomodati, per paura di combattere.
Ma lei no, lei non ha paura di parlare di violenza, di malattia mentale, di rapporti fratturati, di maschi privilegiati impauriti da chi questi privilegi sembra volerli far vacillare.
Quando parla traspare chiaro - anche se ha dovuto specificarlo, che la gente è scema e non capisce niente a parte quello che vuole - che il suo non è odio verso gli uomini. La capisco bene, io sono nata nella privilegiata sfera dell'eterosessualità. Ed è proprio perché esistono uomini splendidi, rispettosi e intelligenti che quelli che non lo sono vanno combattuti più forte. Proprio perché storicamente li abbiamo costruiti più potenti, più importanti, perché gli abbiamo concesso di fare di noi quello che credevano, oggi qualcuno va aiutato più di altri a capire cosa è giusto. Da quella società qui ci siamo nati tutti, ma qualcuno fa più fatica a scollarsene.
Spettacoli come quello di Hannah Gadsby vanno proiettati nelle piazze, vanno imparati a memoria, vanno inseriti nei programmi scolastici.
Fanno un male cane, ma sono talmente grandi che il loro tema principale è solo uno dei mille a cui certe frasi possono essere applicate.
In Italia, nel 2018, uno spettacolo così è una ventata d'aria fresca.
E siccome questa ventata d'aria fresca fa un male del demonio, pensate a che schifo di opinione ho dell'Italia del 2018.
Vi lascio così, con una frase di Hannah che mi tatuerei, che vorrei affissa nelle classi al posto del crocifisso, di fianco a Sergione Mattarellone, per ricordarci che possiamo essere migliori di quello che stiamo dimostrando in queste settimane.

The only people who lose their humanity are those who believe they have the right to render another human being powerless.

martedì 19 giugno 2018

Horrornomicon: The studio that dripped blood

15:03

Se lascio la Redrumia senza orrore per troppo mi vengono le pustole. Siccome, però, mi sono un po' stancata di scrivere recensioni di singoli film, nuova rubrica! Con la solita cadenza casuale ci saranno un po' di racconti sull'orrore e la sua storia.
Senza volontà di insegnare, solo quella di raccontare la storia più divertente del mondo: quella della paura.



Sacri B - movies! Ogni volta che ce la sentiamo caldissima, piena di grandi film d'autore, loro ci ricordano, con le loro manacce insanguinate e i loro cervelli in formalina, che senza la loro presenza forse saremmo ancora qui, ma molto, molto, meno divertiti.
Il dizionario di Repubblica li definisce così:


Mi sembra un pochino riduttivo, ma facciamocelo bastare, per ora. Dovremmo stare qui a parlare di cosa sia o meno il valore artistico, e non abbiamo tempo. Prima il sangue.
Sapete, infatti, chi ha fatto dei film di serie b non solo il proprio simbolo ma anche il proprio motivo di orgoglio?
La Hammer Film Production.
La mitologica, grandiosa, insanguinata Hammer.
Vorrei il logo su una borsa di tela.

Prima un po' di storia

Anno del Signore 1934.
Nasce Paperino, a Venezia si incontrano per la prima volta Mussolini e Hitler, Pirandello vince il suo Nobel per la Letteratura, viene aperto il carcere di Alcatraz ma soprattutto, il cinque novembre, un signore di nome William Hinds, professione gioielliere, va a depositare un marchio. Non sono certa si dica proprio così, ma insomma, Hinds è andato a dire in modo ufficiale che aveva fondato la Hammer Production Ltd. 
Si potrebbe pensare che fondare una casa di produzione cinematografica alle soglie di una delle guerre peggiori che la storia ricordi sia un minimo azzardato, o quantomeno dotato di una tempistica originale, e si avrebbe ragione. Nonostante si sia messa al lavoro immediatamente, infatti, la prima Hammer è fallita dopo due anni.
Hinds, però, che oltre ad essere un gioielliere lavorava a teatro con il nome d'arte di Will Hammer, non era però così sprovveduto come l'infelice scelta precedente potrebbe far credere. Qualche anno prima, insieme al socio Enrique Carreras, forma la Exclusive Films, una compagnia di distribuzione che sopravvive alla guerra. Exclusive, e le nuove generazioni Hinds e Carreras, danno ad Hammer una seconda possibilità, resuscitandola dai morti.
Quando si ritorna dalla terra dei defunti, però, si portano con sè frattaglie, sangue e corpi decomposti.
Non è un caso, allora, se tra le decine di film della casa inglese, quelli che continuiamo ad amare sono gli horror.
Ce l'avevano scritto nella storia.


E alla fine arriva Quatermass...

Che il fantastico fosse la strada di Hammer lo si è capito con il primo grande successo commerciale, un film che già dal titolo chiariva tutte le sue (cattive) intenzioni: The Quatermass Xperiment. 
No, non Experiment. Xperiment, con la X bella grande e in vista, perché fosse chiaro a tutti che il rating quello era e non si scherzava un cazzo.
The Quatermass Experiment è il film che segna la svolta: la Hammer deve fare orrore e deve farne tanto. Inizia così, con un razzo che arriva sulla Terra (scena in di men ti ca bi le) riportando vivo solo uno dei tre uomini che lo avevano portato tra le stelle. Può questo essere un buon segno?
No. E infatti.
Per quanto mi riguarda il film ha un inizio e una fine strepitosi, e una parte centrale che annoia un po'. Ma ha gli alienoni gommosi che si impossessano delle chiese, ha scienziati che mettono la conoscenza prima di ogni cosa (quella frase finale.....!) e corpi che conducono esseri extraterresti in giro per le nostre città. A questo proposito, si potrebbe tranquillamente guardarlo per l'interpretazione di Richard Wordsworth, eccezionale.
Quatermass non è un folle con manie di grandezza come quel signore di cui parliamo più sotto, ma è un uomo senza scrupoli, in grado di mantenere la calma in ogni occasione, consapevole dei rischi che corre e prontissimo a correrli.


Attraverso un seguito decisamente trascurabile (Quatermass II, I vampiri dallo spazio) si arriva al vero cult fantascientifico di casa Hammer: Quatermass and the pit. In italiano, L'astronave degli esseri perduti. 
Se Quatermass fosse nato oggi saremmo pieni di Funko Pop con le sue fattezze.
In questa terza avventura vengono ritrovati resti umanoidi e un grosso elemento metallico all'interno di una stazione della metropolitana di Londra. Arriva sul posto Quatermass che in più o meno cinque minuti rivela a tutti che si tratta di un'astronave aliena. Avrebbero potuto prenderlo sul serio in quanto gigante esperto mondiale di ciò che mondiale non è, invece no. Militari arroganti e politici raccomandati cercano di minimizzare la faccenda con giustificazioni ridicole. Si arriva a negare il cambiamento climatico, come se fosse stato girato ieri. Incredibile, oh.
Io continuo a non essere una fan della fantascienza, ma Quatermass and the Pit ha superstizioni locali, cittadini spaventati, fantasmi, allucinazioni e anche un accenno a supposte possessioni demoniache. Eppure, in mezzo a questo caos, non ci si confonde mai. Non è mai sovraccarico, mai pesante: è un film di alieni e persone che vogliono sconfiggere gli alieni
E delle persone che vogliono sconfiggere gli alieni ha fatto la Storia.

...che porta con sé un casino di mostri.

Se Quatermass ha suonato alla porta e lasciato l'orrore sull'uscio, pronto ad essere accolto e cresciuto con amorevoli mani, è stato il più folle e sconsiderato dei dottori a farlo esplodere come la bomba che è. L'horror ha fatto il suo ingresso in casa Hammer buttando giù la porta con un calcio, trionfalmente, con le mani pomposamente sui fianchi e strillando che adesso comandava lui. 
La maschera di Frankenstein, del 1957, è il primo dei remake di casa Hammer.
Ed è un film incredibile.
Tanto per mettere fine alla polemica anti-remake ad ogni costo, è giusto ricordare che la Hammer sui remake non ci ha solo campato, ci ha costruito un impero. Prima dai programmi radio, poi dalla tv, infine dalla Universal, i nostri amati lord inglesi prendevano idee qua e là e le portavano sullo schermo con poche sterline e un sacco di voglia di fare.
La storia dello scienziato più famoso del globo è stata presa dalla Hammer e trasformata in uno dei film più importanti della storia british.
Certo, non si partiva in condizioni strepitose: Universal, creatrice del primo film tratto dal romanzo della Shelley, aveva gli occhi puntati sugli inglesi. Una, e una sola, cosa uguale al loro film che non fosse presente nel libro e macumbe, querele, e una scatola piena di glitter fastidiosissimi sarebbero stati lanciati dall'altra parte dell'oceano.
Che non venisse loro in mente, poi, di copiare il trucco della creatura (quella con le viti al collo e il testone piatto che fate ancora ai vostri bambini ad Halloween, per intenderci) che a Karloff sarebbero venute le pustole.
La Hammer allora fa la brava, fa i compitini per bene, e non copia nulla. In compenso, ci va giù pesantissima. Il film lo gira a colori (e che colori! Pare un fumetto), pieno di sangue, organi, volti sfigurati e omicidi. Non facciamoci fregare dai nostri occhi abituati alle peggio cose contemporanee, per l'epoca era roba grossa. Tanto grossa che la critica lo ha demolito senza alcuna vergogna e la gente ha fatto il migliore degli atti rivoluzionari contro i criticoni: lo ha visto in massa.
Un successo così strepitoso non poteva che portare ad altri mostri.
L'anno dopo è la volta di Dracula, sempre per mano del regista Terence Fisher, uno dei nomi di punta della casa.
I due film sono l'inizio di una delle prime bromance cinematografiche: Cristopher Gigantesco Lee e Peter Elegantissimo Cushing. I loro nomi sono stati sinonimo di guadagno certo per la casa inglese.

i due volti simbolo del cinema dell'orrore ritratti in una delle loro interpretazioni più terrificanti

il mio povero cuore 💔
Per la prima volta l'altezza notevole di Lee non fu un ostacolo alla sua carriera ma, finalmente, un valore: la sua creatura è esorbitante e impressionante, con un make up che non è rimasto di culto come quello del suo predecessore Boris Karloff ma che di sicuro si faceva notare. La mano che toglie le bende dalla faccia e la scopre in tutto il suo orrore è di grande impatto anche oggi. E Lee era un gran bell'uomo, quindi per renderlo un mostro gli hanno cacciato tanta di quella roba in faccia da rendergli difficile mangiare e bere.
Ma dicevamo, Dracula. 
Questa volta quello che faceva comodo di Christopher Lee era proprio che fosse figo.
Il suo Conte doveva essere (e ci è riuscito benissimo) attraente, sensuale e minaccioso.
Questo, almeno, è quello che vediamo nel film. Dietro le quinte forse un po' meno. Le lenti che portava lo accecavano quasi completamente quindi spesso camminava completamente a caso, finendo fuori scena, superando la camera...un bambinone sperduto.
Bambinone sperduto, però, che ha contribuito a cambiare il modo in cui i vampiri verranno visti nel mondo da quel momento in poi.
La sua prima comparsa in scena, in cima alle scale del suo castello, è impressa nelle mie pupille dalla prima volta che l'ho vista, e mai come in questo momento le mie pupille rappresentano la storia del cinema dell'orrore tutto.
Date nuove forze a mostri storici, non ci si poteva fermare qui. Dopo scienziati e vampiri arriva il momento di mummie, licantropi...
(Raccomando La mummia soprattutto per i titoli di testa, mi son piaciuti come ad una bimba che ha appena visto il Museo Egizio di Torino per la prima volta!)
Dopo mille sequels dalla qualità variabile (dei quali però se non guardate La vendetta di Frankenstein non possiamo essere amici), si sentiva il bisogno di una rivoluzione. Un pochino, però, non troppo.
E allora, perché non portare Dracula negli anni '70, per esempio? (Dracula AD 1972) 
E se invece i vampiri si mescolassero con le arti marziali? (La leggenda dei 7 vampiri d'oro)
Non c'era niente che non fossero disposti a provare.
Come si fa a non volergli bene?

Non solo gotici


Avremmo potuto passare tutta la vita a guardare film con pipistrelli, ragnatele e castelli?
Vorrei dire di sì, ma le prime difficoltà di Hammer provano il contrario.
Dalla seconda metà degli anni '60, allora, anche loro hanno provato a mettersi in gioco con qualche novità, nella speranza di stare al passo coi tempi.
Ce la faranno?
No, ma chi siamo noi per negargli il merito di averci provato tantissimo?
Per esempio, nel 1973 è uscito un filmettino, negli Stati Uniti. Si chiamava L'Esorcista e ha portato in sala un paio di persone in più del previsto. Poi è arrivato un altro, The Omen. Sempre di diavoli si parlava e sempre soldi si facevano. Allora la Hammer ha colto la palla al balzo e bam! Tre anni dopo esce Una figlia per il diavolo.
Ve lo ricordate vero che vi dicevo che gli inglesi non hanno paura di niente?
Ecco, allora perché non mettere in scena sacerdoti che fanno sesso creativo, suorine adolescenti e sacrifici umani? Il risultato non sarà un film eccezionale, ma ci hanno provato fino alla fine (è il loro penultimo film) e non si può che dargliene atto.
Il mio preferito tra i 'diversi', però, è The Nanny. nel quale una al solito gigante Bette Davis è la governante di una famiglia rovinata dalla tragica perdita della figlia minore. Il figlio più grande la teme come il demonio, ma l'unico demonio di casa pare essere lui. Non è che la Davis sia l'unica cosa bella del film, è proprio che lei è immensa infinita eterna e quindi il film si guarda principalmente per questo.

Un momento di apprezzamento per Peter Cushing


Oggi quello più famoso è senza dubbio Sir Christopher Lee. Non che ci sia qualcosa di sbagliato nella sua fama, è stato un mostro in senso letterale e metaforico, e ha fatto tutte quelle mille cose cool come gli album metal e Il signore degli anelli.
Non posso negare, però, la mia preferenza per Cushing.
Praticamente, per descrivervelo, Cushing era la persona più inglese in tutta la Gran Bretagna dopo la regina Elisabetta, e il secondo posto era dovuto perché poi magari lei lo avrebbe esiliato o cose del genere, se l'avesse detronizzata. Un uomo sottile come un giunco, di un'eleganza semplice ma impeccabile anche quando ha fatto lo scienziato matto nei laboratori, raffinatamente stempiatello, con i lineamenti affilati e degli occhi azzurri incantevoli.
Cushing è stato tutto quello che poteva essere nel modo migliore in cui poteva esserlo.
Un mitologico Van Helsing, un crudele Frankenstein, uno degli Sherlock Holmes più belli e anche il Dottore, in un paio di film.
Chiunque, in articoli, post, documentari, ne parli si riferisce a lui come ad un uomo quieto, gentile e dal cuore grande. 
E con un viso così, non poteva essere altrimenti.

I motivi del successo

Hammer ha avuto un inizio sfortunello e una guerrona di mezzo.
Ha saputo, però, guardarsi intorno con lo sguardo intelligente di chi sa cogliere la realtà e, dopo più di vent'anni dai successi Universal, ha riportato l'orrore in sala.
La gente non aspettava altro. 
Non solo, era pronta a spingersi dove non si era mai spinta prima.
Il sangue era rosso fragola, falso come il mio gatto quando finge di non avere ancora mangiato, ma frattaglie così esposte non si erano ancora viste. Corpi maciullati da uccisioni violente o da possessioni aliene, cadaveri fatti a pezzi, organi in bella vista in vasi di vetro. Quando il sangue non bastava più entrava in azione il sesso, grande motore del mondo: uomini pieni di fascino e donne magnifiche spesso poco vestite, quando possibile vampire e, se si voleva giocare la carta +4 di Uno, poco vestite, vampire E lesbiche. Che si lasciasse pure inorridire la borghesia inglese: i ragazzini erano in visibilio. 
Martin Scorsese, nel documentario The studio that dripped blood, ricorda con una passione percepibile fin dallo sguardo i giorni in cui accoglieva con l'entusiasmo tipico della fase preadolescenziale un nuovo film Hammer. Non fatico per niente ad immaginare ragazzini di una nazione intera cercare di entrare al cinema di nascosto, trovare i film in televisione la tarda notte e fingersi fortissimi davanti agli amici e poi tremare sotto le coperte. Il senso di presentimento, di orrore incombente, erano una meraviglia. La pioggia, la nebbia
Un preadolescente oggi probabilmente di fronte ad un film Hammer riderebbe. Mostriamoglielo con gli occhi di chi la Hammer l'ha vista vivere e non potrà che soccombere al fascino di una manciata di persone affiatatissime, con più cuore che denaro, almeno all'inizio. 
Hanno avuto il coraggio di lanciarsi anche fuori dalla comfort zone del gotico e di provare a modificarlo quando ormai sembrava non funzionare più. Il tutto riciclando cast, crew e set più e più volte per risparmiare e, secondo me, divertendosi un casino e volendosi un gran bene.
Forse il segreto del successo sta tutto lì.

Gli imperdibili
The Quatermass Xperiment
La maschera di Frankenstein
Dracula il vampiro
La vendetta di Frankenstein
Le spose di Dracula
Nanny, la governante

lunedì 11 giugno 2018

Sense8: Amor vincit omnia

21:44
Ho aspettato qualche giorno a guardare l'episodio finale di Sense8 perché sapevo che, una volta visto, l'avrei finito davvero, e per sempre. Non ero pronta, e non lo sono manco ora, a salutare i Sensate, ma l'episodio alla fine l'ho guardato.
Ed è stato, naturalmente, magnifico.


SPOILERS!

Faccio fatica a stare sui social, ultimamente. Ci sto lo stesso, ma sempre arrabbiata.
Con l'attuale governo chiunque era dotato di pensieri sporchi, intolleranti e deviati si sente ancora più legittimato ad esternarli, questi pensieri, con ancora più imbecille convinzione.
In questo panorama desolante e imbruttito, Sense8 si conferma un faro. Uno splendido faro alto, generoso di luce e chiarezza, in un cielo oscurato da chi vuole, con la sua cieca rabbia, far passare per sbagliato chi conserva la sua umanità.

Sarebbe troppo facile dire che è così perché ci sono i ghei e le lelle che fanno il sesso brutto contronatura.
Eh no, mica si ferma lì.
In questo finale dolcissimo la serie più bella della storia del mondo continua ad insegnarci il valore dell'individualità. Ogni personaggio ha un ruolo fondamentale nella risoluzione del 'caso', e se anche uno solo di loro fosse stato un briciolo diverso da quello che è, nessuno si sarebbe salvato.
Se Kala non fosse stata indecisa tra due uomini loro non avrebbero collaborato per salvarla. Se Hernando non fosse stato insegnante d'arte non avrebbero avuto il loro cavallo di Troia. Se Capheus non fosse stato un pilota esperto e soprattutto un'artista dei pullman colorati, col cavolo che avrebbero avuto il furgone della polizia. E ancora Lito, con le sue doti attoriali, Riley e le sue conoscenze giuste, Dani e il passato burrascoso, Will e Nomi con le loro competenze.
Ma soprattutto, se Sun non fosse il Personaggio Migliore di Sempre non avremmo avuto le spettacolari scene di botte da orbi che ci hanno accompagnato dal primo episodio.

Ognuno di noi conta, ognuno di noi ha un valore preciso.
A volte facciamo fatica a vederlo, o a tirarlo fuori, e ci sembra di essere inutili. Eppure c'è, o ci sarà prima o poi, un momento in cui la nostra unicità sarà importante. Potrà essere un momento, un bisogno, o una persona, a tirarlo fuori, ma ci sarà. E forse riconosceremo se quel valore lo abbiamo noi, allora devono averlo tutti. Magari non tutti salveremo cucciolini che annegano, o ribalteremo un politico inadeguato (ma che qualcuno lo faccia, ve lo chiedo per favore), o inventeremo un portentoso medicinale contro il ciclo mestruale doloroso. Magari aiuteremo solo una vecchina con una borsa, o avremo una buona idea, o una parola giusta al momento giusto, ma ce l'avremo, quel momento lì.
Riconoscere che gli altri hanno la nostra stessa importanza non è solo un segno di bontà e apertura verso il prossimo.
Dovrebbe essere la norma.
Con la riappacificazione tra Nomi e la madre ci mostra che a volte basta davvero una piccola spinta per uscire da quella zona di comfort dietro la quale ci nascondiamo quando chiudiamo fuori gli altri. Con questo non intendo dire che dobbiate tutti fare uso di droghe leggere (cosa che evidentemente non volete altrimenti avreste votato diversamente) (adesso potrei aver finito col governo) per uscire dai vostri limiti, per l'amor del cielo. Cioè se volete ok, ma non è dovuto.
La sola cosa che è dovuta è il rispetto, l'apertura, l'abbraccio verso ciò che non capiamo ma che esiste a prescindere dalla nostra comprensione.
Sense8 è questo, un enorme abbraccio globale che include colori, profumi, baci, fuochi d'artificio, passione strepitante, risate di cuore e un amore immenso, verso la vita, l'universo e tutto quanto. Per davvero.

Salutare personaggi di finzione che ci hanno donato così tanto è un colpo al cuore atroce. I Sensate sono una famiglia incredibile da cui non si vorrebbe uscire mai, sono sempre, e questo finale non fa altro che confermarlo, un vortice di emozioni quasi tangibili da cui bisogna essere strappati a forza per tornare alla vita reale. Li lascio avendoli visti diventare uno dopo l'altro persone migliori grazie alla presenza del cluster. I criminali sono diventati uomini di cuore immenso, che hanno abbandonato alle loro spalle la virilità forzata. Le donne algide e glaciali si sono aperte al più tenero dei sentimenti. Le donne timide e pie hanno scoperto lati di sè inesplorati. I giovani e poveri autisti di bus si sono lanciati in politica per il bene del loro popolo.
Avrebbero avuto ancora moltissimo da dirci e lo avrebbero fatto nel modo straordinario a cui ci hanno abituati, e questo non fa che rendere peggiore il saluto.
Ma quella scena finale lì, che ci riporta alla forza del loro legame, ad un gigantesco abbraccio che prende tutto il mondo, è il finale migliore che potessimo sperare.

This is the morning of our love,
This is the dawning of our love.

sabato 26 maggio 2018

Accabadora, Michela Murgia

11:29
Al di là della fama che la precede, ho fatto la conoscenza diretta di Michela Murgia guardandola nel programma di Augias. In particolare, aveva fatto un intervento sul fumetto e il suo ruolo nell'editoria e nella cultura che avevo trovato perfetto, e da quel momento ho iniziato a seguirla sui social e ad adorarla.
Raccomando, in particolare, su Twitter, la sua rubrica #tuttimaschi, dove sottolinea come le prime pagine dei nostri quotidiani abbiano firme femminili quasi solo in casi di articoli di moda e tendenze e culi. Giusto per non farvi venire il fegato d'acciaio come viene a me.
Per completare il quadro mancavano i suoi libri e ho deciso di iniziare da quello che forse è ancora il suo più famoso: Accabadora.


Maria è l'ultima di quattro sorelle, figlia di una madre povera e vedova.
Quando Bonaria Urrai, una vecchia sarta del paese, la chiede come figlia dell'anima, quindi, la madre accetta senza pensarci troppo. Un figlio dell'anima è, come descritto due volte, un bambino nato due volte: dalla povertà di una donna e dalla sterilità dell'altra. Un'adozione senza contratti, enti, e marche da bollo.
Di notte Bonaria esce spesso, e Maria sembra non farsi troppe domande. Il suo 'lavoro' è quello di accabadora, ovvero di accompagnare alla morte le persone in condizioni gravissime. Un ruolo che non può che influenzare il rapporto con la bambina.

Ero certa che avrei trovato Michela Murgia bravissima. Ero molto meno certa che mi sarebbe interessato il tema, invece.

Per me Accabadora è stato fulminante. Divorato in poche ore, lascia dietro di sè la scia di sensazioni fortissime date dalla capacità della Murgia di trasportarci nel cuore di una terra anche le persone che, come me, non la conoscono.
Senza alcuna forzatura, con la semplicità tipica di chi non deve sforzarsi per riuscire bene in quello che fa, la narrazione è intensissima di sentimenti e atmosfera. Si respira l'aria del soffritto che Maria, arrabbiata e confusa, cucina, si vede lo sguardo combattuto di Bonaria, si sente il vomito di Andrìa e si prova il dolore di Nicola. Tutto è forte e vivissimo, descritto con un'efficacia che ha del miracoloso e che solo in lavori come quello della Ferrante avevo visto prima.
I rapporti mi sono sembrati così familiari, così noti, che li ho vissuti come fossero i miei. Bonaria e Maria si abbracciano poco e mai, a volte nemmeno si parlano, ma comunicano con i gesti e la fiducia e l'amore pulito e forte che nasce tra chi non ha legami di sangue ma solo di scelta.

Non è una lettura, è un'esperienza. Come entrare in una sala da tè profumatissima, e lasciarsi coinvolgere dalle storie di chi ci circonda. Come entrare in una chiesa di paese, riconoscerne l'odore di incenso anche dopo anni di lontananza, e sedersi tra le credenze e il folklore delle donne di una volta che accendono ceri e pregano per gli amati.
Certe espressioni della Murgia sono quasi un incanto: parla di 'emigrazione da sè' quando parla del suicidio di un emigrato o di 'furto dell'abito da sposa' quando parla di un matrimonio mai celebrato, per esempio.

La colpa è mia e solo mia, che finisco sempre involontariamente per snobbare la narrativa italiana senza una e una sola motivazione reale. La Murgia è una scoperta stupenda, alla faccia del mio snobismo.
E poi dicono che i social non servono a niente.

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