martedì 31 maggio 2016

Non solo cinema : Kobane Calling

16:45
Per tutta la vita ho pensato che io e i fumetti fossimo due rette parallele destinate ad ignorarsi con sufficienza. Se poi i fumetti in questione riguardano supereroi di qualsiasi forma e colore, allora CIAO, lontani da me.
La verità è che di fumetti ne leggo un po', ma devono essere come dico io. È stata la lettura di Kobane Calling a farmi intuire il collegamento tra le mie letture disegnate. Io leggo solo fumetti con un cuore grande. I Peanuts, Mafalda, Calvin and Hobbes, Sandman, Dylan Dog, quel lavorone di Locke and Key, mi sto avvicinando ad Alan Moore. . . 
Voglio cose dolcemente malinconiche, voglio case fumose, bambini brillanti e sfigatelli, voglio che mi tremino le mani dalla passione che trasuda da quello che sto leggendo, voglio menti geniali, voglio emozionarmi, e piangere poi ridere poi piangere ancora poi sorridere tra le lacrime.


Kobane Calling è la quintessenza di quello che ho sempre cercato. Ho sempre saputo che sarebbe stato così, dal momento in cui ho letto su Internazionale il primo estratto di quello che è, per me, il punto più alto toccato finora dall'incredibile Michele Rech, noto al web come Zerocalcare. 
Innamorata fino al midollo di lui da quando ho scoperto il suo blog, ho avuto la certezza che il mio amore fosse ben riposto dopo averlo sentito fare due chiacchiere allo scorso Festivaletteratura di Mantova. 
Quando lo senti parlare ha l'aria stralunata. io me lo sono immaginata in un'altra epoca come uno di quegli artisti folli con i capelli ingestibili e migliaia di fogli sparsi per il tavolo, uno di quelli costantemente insoddisfatti, che appallottolano la carta e sbuffano. Stava lì, a rispondere alle domande di un gruppo di ragazzi, con l'aria di chi non aveva la più pallida idea del perché fosse lì e soprattutto del perché ci fossero così tante persone ad ascoltarlo parlare. Niente di quello che fa o dice è a scopo di notorietà. (Non potrebbenemmeno permettersi di essere così chiaramente politicamente schierato se così fosse)
Questa scarsa considerazione di se stesso, questo suo sentirsi inadeguato, è onnipresente nei suoi lavori, è la spinta principale della sua (auto)ironia, è quello che me lo fa guardare con ancora più apprezzamento. Quanto avrei voluto abbracciarlo, ogni volta che in KC parla di se stesso come di un idiota, dello scemo del villaggio! Quanto vorrei che sapesse che nel mio mondo ideale le persone hanno tutte la sua passione e il suo cuore.


Sentir parlare Zerocalcare è un'esperienza: un secondo prima è lì impacciato e con l'accento romano che francamente è il più buffo d'Italia e un attimo dopo il suo tono cambia, quello che sembrava un ragazzetto goffo si trasforma in un uomo pieno di opinioni nette, di capacità di analisi della società e delle persone che fa invidia, di esperienze, di storie da raccontare.


Questa, in particolare, è la storia di due viaggi. Il primo, nel 2014, nei pressi di Kobane, la quasi mitologica città nota per essere il cuore della resistenza al tanto chiacchierato ISIS, la città che ha resistito, la città che si è liberata. Lì Michele ha collaborato ad azioni umanitarie, portando cibo e medicinali. L'anno dopo, invece, decide di tornare nella zona dell'utopica regione del Rojava, ma in un viaggio diverso. Stavolta incontra (e ci racconta) i volti di chi per questa guerra si sta preparando, degli uomini e delle donne che sono scappati dal regime turco, racconta la motivazione di chi da quella guerra è apparentemente lontano (sì, parlo di lui stesso e di tutte le persone che condividono con lui questo viaggio e questo sogno) ma che ci si sente vicino, con il cuore e con la mente, e che quindi decide di andare vicino con il corpo, per comprendere un po' di più.


E sarebbe facile parlare di guerra e morti e orrore e sangue usando quei pipponi retorici che tanto ci piacciono, che commuovono le gienti e che ci fanno sentire così distanti, così fortunati nella sicurezza dei nostri paeselli. Ma Zerocalcare è più intelligente di così, lui ti racconta di come le guerrigliere del PKK quando sono insieme si divertano, scherzino insieme, di quanto materna sia la donna che le addestra, e tu le senti vicine, le senti tue amiche, poi ti racconta che la più piccola di loro si trova lì per scappare da un matrimonio combinato con un uomo che la violentava e tu torni piccola piccola, umile, abbassi la testa, quasi colpevole per la fortuna sfacciata che hai avuto a nascere da questo lato del Mediterraneo.
E lui, per tutto il tempo, si è sentito così: in soggezione, lo scemo del villaggio, appunto. Perché hai davanti uomini e donne che sembrano tanto assomigliare a te e che invece hanno un fardello sulle spalle incredibile, e che nonostante questo sorridono.
Con la sua dolcissima ironia Zerocalcare mi ha conquistato per l'ennesima volta, scoccando splendide frecciatine al sistema dei media italiani, al modo in cui il mondo curdo ci è presentato, al modo in cui lo stesso ISIS ci è presentato, al modo in cui parliamo parliamo parliamo e poi non sappiamo un bel cdn (cit).
Qua non siamo più dalle parti del (comunque bellissimo) Armadillo, nè nelle tavole del blog, nè dei polpi alla gola. Qua siamo più su, nella consacrazione di un talento vero, nato solo dal cuore grande di uno a cui piace fare i disegnetti. 


Vorrei che gli insegnanti leggessero Zerocalcare nelle scuole, che i tg lo invitassero a parlare (ma tanto mica ci andrebbe), che il suo messaggio passasse forte e chiaro a chiunque lo incroci per caso.
Lui mica propone soluzioni, non le ha. Ma invita a conoscere. Io manco sapevo cosa fosse, il PKK. E manco YPG o YPJ. Sono quelle persone che, mentre noi creiamo hashtag per commemorare i morti di Parigi e Bruxelles per mano dell'ISIS, questo benedetto Daesh lo stanno combattendo per davvero. 
Oggi, grazie a Calcare, io so che queste persone esistono, che viviamo la nostra serena vita perché qualcuno sta rischiando quotidianamente la sua. 
Per poi essere classificato nell'elenco delle associazioni terroristiche dall'ONU.
Ma questa, per ora, è un'altra storia.

Comprate i libri di Zerocalcare, supportate i giovani pieni di talento e cuore e cervello e disegnetti buffi dai richiami 80s. 
Lui ci fa i soldi, ma voi guadagnerete molto di più.

mercoledì 25 maggio 2016

#CiaoNetflix: Into the wild

19:12
Solita intro infarcita di fattacci miei, perdonatemela.
Un mesetto fa sono stata a Praga. Era il mio Sogno da Visitare Numero 2, la aspettavo da tempo, e prevedibilmente quando sono tornata non sono stata la stessa per un po'.
Mi è presa una frenesia senza precedenti, una voglia di mollare tutto e andare, perché se tutto il mondo è così bello io non posso stare qui sul divano a sentirlo respirare a distanza. L'amore per i viaggi l'ho sempre avuto (ostacolato da un'insormontabile paura di volare), ma da un mese a questa parte lo sento incontenibile.
Mi sembrava un buon momento per guardare Into the wild.

Sbagliato, non è mai un buon momento per Into the wild, perché Into the wild è un film del cavolo che mi ha fatto perdere più di due ore in cui avrei potuto dormire, per raccontarmi di un povero deficiente. Prima di offendervi perché sto per insultare il vostro personaggio del cuore suppersuppercult, per favore, finite di leggere e poi proseguite con il defollow.
Mi calmo e andiamo con ordine.

Ho deciso insindacabilmente che Christopher fosse un deficiente al minuto 55.
(Chiarimento per evitare discussioni: parlo del protagonista del film. Non ho sufficiente conoscenza della VERA storia del VERO Christopher per poterne parlare.)
Chris, il grande sognatore pieno di ideali, vede un kayak e decide che adesso vuole andare col kayak, lui che fino a una settimanina prima aveva paura dell'acqua. Va a chiedere informazioni, gli dicono in soldoni che non può navigare sul fiume e lui chiaramente piglia il due e lo fa a fare.
Il grande ribelle si lancia nel fiume nonostante il funzionario (che è OVVIAMENTE un fannullone che sul lavoro telefona per i cazzi suoi, non sono tutti così? brutti cattivi corrotti fannulloni capitalisti) gli abbia detto di no. Stato malvagio che blocchi la libertà individuale e non ci fai andare sui fiumi. Stronzo. E io allora ci vado lo stesso.
Capito la ribellione? Capito lo spirito libero? Capito come ci si gode la vita vera?


Oh, Christopher. Siediti, parliamo un po'.
Io un po' ti capisco. Ogni tanto ho sentito, e sento ancora, il bisogno di scappare via. Di non dover aver a che fare con nessuno, di prendere un paio di libri e di rifugiarmi in una spiaggia, da sola, con solo il mare a farmi compagnia. Ogni tanto lo sento il peso di questa vita che ci viene imposta, di questi modelli tradizionali a cui dobbiamo guardare per prenderne ispirazione: scuola, poi lavoro, il posto fisso, e poi trovare la persona giusta, prima sposarsi, poi vivere insieme, poi fare almeno due bambini e vivere felici fino alla vecchiaia.
Ma sai, cosa, Chris? Mica lo sento solo io.
Ce li hanno tutti, questi desideri di fuga, ogni tanto. E magari qualcuno (non io, almeno per ora) lo fa pure, per un po'. Erasmus, anni sabbatici, ferie prolungate, viaggi avventurosi...
Qualcuno, quindi, guardando il film sulla tua gloriosa avventura in giro per l'America, potrebbe pensare a che eroe tu sia, a quale coraggio tu abbia avuto, a quale vita straordinaria tu abbia vissuto, scuoiando alci e rubando passaggi.
A me, invece, sei stato in culo. Avevi una vita che non piaceva, come ce l'hanno chissà quanti altri poveri cristi al mondo e hai deciso che la cosa migliore da fare fosse mollare tutto ed andare. Comodo, eh, gigione?
Ma sono le persone come te a far sì che quel sistema lì, quello che tu odi così profondamente, non cambi mai. Se ti fa così schifo il mondo in cui vivi, se ti annienta il pensiero di quella mediocre borghesia a cui la tua famiglia ti ha costretto, sai cosa potevi fare? Potevi cambiare strada. Se i tuoi genitori non ti hanno cresciuto nel modo in cui avresti voluto, sai quale sarebbe stato il riscatto più grande? Diventare il genitore che loro non sono stati per te.
Se la società non ti piace agisci nel tuo piccolo per cambiarla. Io odio l'evasione fiscale, mi fa salire i cinque minuti, e quindi nel bar in cui lavoro batto gli scontrini per ogni singolo caffè. Non ne salto uno. E se nei locali non me lo fanno, lo chiedo. Non sono mica un eroe, faccio la mia piccola normalissima parte. Perché la società siamo noi cittadini, e, perdonami la banalità che sto per dire, se facessimo tutti come te? Se mollassimo il mondo civile per il sogno della libertà assoluta che hai inseguito tu, chi resterebbe a mettere la benzina nelle auto a cui tu per primo hai chiesto l'autostop? Chi guiderebbe quel treno che tu stesso hai usato per farti dare un passaggio clandestino?
E allora, mio amato idiota, lo vedi che la civiltà ti serve? Perché a tutti, me per prima, ogni tanto piacerebbe dichiararsi totalmente indipendenti da quei meccanismi che tanto a volte ci fanno infuriare. Ma non lo siamo. Le persone stanno intorno a noi per un motivo, chissà se te lo sei ricordato mentre correvi con i cavalli e per questo ti sentivi tanto tanto cool. Non sei un cavallo, Chris, non credo sia necessario che te lo ricordi io gioia santa. E alla sera, quando ti chiuderai nel tuo furgone da solo, dopo una splendida giornata a spellare alci e sparare agli scoiattoli, non avrai nessuno con cui condividerla, questa libertà. Non vorrai un cavallo accanto a te, vorrai una persona. E non parlo necessariamente di un amore. Sarai lì, in una tenda, senza un volto amico, senza l'abbraccio di tua sorella, senza il sorriso di tua madre, perché la TUA libertà era più importante di tutto il resto.
Perché chissà se ti è mai passato per la testa, maledetto egoriferito, che a casa qualcuno soffriva per te. Chissà se dietro ai quei profondissimi ed intensissimi monologhi che Penn ha fatto dire a tua sorella, o a te, usati come sottofondo per quelle bellissime immagini che avete usato, c'è anche della sostanza, dietro alle belle parole. Chissà quanto hai sofferto TU, quando, alla fine, hai realizzato quella banalissima verità sulla felicità condivisa. Quanto ho detestato la tua presa di coscienza finale. Pensa, vogliamo tutti qualcuno accanto quando stiamo male. E quando sono gli altri, a soffrire?


Pensavo che ti avrei preso a schiaffoni, Christopher, ma forse quelle lacrime versate sul finale sono state una punizione sufficiente.

venerdì 20 maggio 2016

Film rivalutati

15:02
Attenzione alla citazione altissima con cui apro il post:
'Quando sbaglio, io lo riconosco.' (papà di Baby, Dirty Dancing)

Io e qualcuno dei soliti noti blogger che parlano di firns sentivamo la mancanza dei post di gruppo, quindi eccoci qua a fare il più vergognoso degli outing. Almeno, per me di questo si tratta, magari gli altri, giustamente più sani, la vivono in modo più leggero.

È che guardare certi film quando si è giovani, innocenti e malleabili come me è difficile. Deve piacerti per forza, è un capolavoro, è un pezzo di storia. . . a me piglia l'ansia da prestazione e alla fine non me li godo. Men che meno ne scrivo, oggi. Ma una volta mi piaceva far vedere che la mia vastiiissima cultura si era allargata ancora un po'.
È successa una cosa del genere con la mia prima visione di Rosemary's Baby.
Ci avevo scritto un post che non vi linko per pudore ma che è facilmente riassumibile con un 'Tutto qui?'


Ma sbagliare non mi piace, e ancora meno mi piace non capire, quindi sono tornata nell'appartamento di Guy e Rosemary.
Forse il sapere la fine della faccenda ti aiuta a guardarla in modo diverso, forse è solo che quando guardi un film horror non ti aspetti avvenimenti gioiosi, sta di fatto che quei titoli rosa, quella panoramica sulla pacifica ed ignara cittadina, alla seconda visione mi hanno iniziato ad infastidire. E da lì la sensazione è quella di un disagio crescente e viscido, come una zanzara che ti ronza intorno ma che non riesci proprio a colpire. E lei continua a volare e sfuggirti, volare e sfuggirti, fino a lasciarti sfinito e vittima di pungiglioni che daranno prurito eterno.
Che poetessa, che similitudini auliche.
Quando poi pensi di averne abbastanza, quando senti che le due ore precedenti piene di strisciante tensione ti abbiano ormai privato di energie, ecco che arriva l'agghiacciante scena finale, che se già alla prima visione mi aveva turbato parecchio stavolta mi ha tolto il fiato.
E anche fatto dormire un po' meno bene del solito.
Il che è tutto un dire.

Mi piacerebbe dire che quella del film di Polanski è stata la sola volta che il mio primo giudizio su un film è stato fuorviante, ma non è così.
C'è stata anche la volta di Cimitero Vivente.



Quella volta lì è stata interessante: una Mari ventenne a malapena che liquida la questione con un 'Ma non fa paura!'
Al primo che mi giudica maratona di film di Snyder a ripetizione (Giacomo, trattieniti).
Avete avuto vent'anni anche voi, avrei potuto seppellire la mia già scarsa ragione sotto chili di cannette fatte col rosmarino, e invece no, giudizi approssimativi su film horror storici perché sì.
Oggi Per Sematary mi fa una paura maledetta, ma non di quella che io mi aspettavo, con i saltoni sulla sedia e gli occhi coperti. (Nonostante fatichi a guardare il volto di Zelda, perché sono una vera tosta, io.) Racconta di un dramma terrificante, di un dolore atroce, della disperazione più nera e delle azioni che comporta. E delle conseguenze di queste azioni, che non possono essere altro che dolorose, di nuovo.
Se alla me insoddisfatta e insoddisfacente il piccolo zombie Gage aveva poco convinto per il suo aspetto così tranquillo, oggi è proprio quello a farmi sobbalzare di più, il suo faccino pulito e bellissimo mi affliggono in modo spropositato.
Una volta mi lasciava indifferente, oggi singhiozzo agghiacciata.

Concludo questa imbarazzante panoramica (fortunatamente breve), raccontandovi anche di quella volta che andavo dicendo che la brutta faccia di tolla di Bruce Campbell non mi piaceva.
Poi ho visto Army of Darkness.


Leggete anche i rivalutati di:
White Russian
Director's cult
Non c'è paragone

venerdì 13 maggio 2016

#CiaoNetflix: American History X

19:01
È così facile essere razzisti, in Italia, oggi.
Abbiamo un equilibrio così precario che ogni variazione ci fa vacillare, ogni piccola crepa nella nostra immaginaria perfezione ci fa dimenticare anni di consapevolezze, siamo così fragili da non avere più una mente elastica: è rigida, fatta di cemento, e la prima palla da demolizione che la colpisce la abbatte completamente, per costruirci su da zero.
Lo sono stata anche io. Camminavo per la strada guardandomi alle spalle, perché se fosse passato uno straniero l'avrei visto e mi sarei potuta tenere la borsa un po' più vicina, perché me l'avrebbe potuta rubare. 
Per questo il razzismo lo comprendo. Non lo posso condividere, ma lo capisco. È facilissimo ascoltare quello che ti dice il tiggì delle 8, che guardi mentre ceni con la tua famiglia, e spaventarti per il terribile scenario a cui ci mette davanti. È di certo più facile quello che non prendersi il tempo di andare a fondo alle cose. Spesso il tempo la gente manco ce l'ha. Accende la tv e si gode il piatto pronto e caldo. È esattamente come comprare i 4 salti in padella: economici, veloci e il gusto non è proprio da buttare. Ma la pasta vera è quella fatta in casa, come te l'ha insegnata la nonna, con il sugo fatto con i pomodori freschi, con il basilico vero e non chimico, con il profumo di ragù per casa. 

American History X parla delle conseguenze del non volersi mai fare la pasta in casa. Dell'accontentarsi di parole che ci sembrano convincenti, di frasi fatte composte ad hoc per darci motivo di credere che la ragione ce l'abbiamo noi. Parla di un uomo, Derek, ferito per la morte del padre, che deve dare un responsabile a questo dolore, e che per tutta risposta ne causa dell'altro, creando intorno a sè una spirale di sofferenza per la quale pagherà le conseguenze per sempre. 
Parla di un fratello minore, Danny, che, privato di ogni altro riferimento prende quello sbagliato, fidandosi ciecamente di chi non era degno della sua fiducia. 


Parlando concretamente, parla di Danny Vinyard, il cui fratello maggiore Derek sta per uscire dalla prigione in cui stava per aver ucciso due ragazzi di colore. Derek era un filonazista dalle tremende idee razziste, pronto ad esibire le sue convinzioni come un trofeo, orgoglioso della propria ottusità, talmente pieno di sè da avere preso la mente del fratello minore e da averla modellata a propria immagine e somiglianza senza nemmeno essersene reso conto.

È un potente esame di coscienza, uno specchio che ti riflette la parte peggiore di te, che ti costringe a ricordare ogni tuo comportamento sbagliato e te lo risbatte in faccia. Siamo tutti stati Derek, prima o poi, per i motivi più sbagliati. Se non lo siete mai stati avete tutta la mia ammirazione. L'importante, però, è che sappiamo tutti riconoscere di dover diventare come il Derek post galera.
C'era un rischio che il film correva, nel proporre una storia di 'redenzione': quello di diventare un fastidioso polpettone morale utile solo a farsi mandare a cagare. E invece no, Derek non diventa mai la figura angelica salvatrice dei popoli. Si redime, di sicuro, comprende quanto terribile fosse prima, ma mica lo fa per apparizione magica della madonna. Ci ha dovuto sbattere il muso, pesantemente, nel peggiore dei modi. Sia nel suo passato in carcere, che durante quella che per noi è la scena finale.
Di certo non è stato solo l'aver incontrato un negro simpatico. 


Come avevo già detto per Requiem for a dream, anche questo è un film che avrei voluto vedere a scuola. Vorrei che ogni scuola lo vedesse, che i professori ci sputassero in faccia che l'odio ci sta corrodendo, che stiamo perdendo l'umanità, che siamo delle bestie. Invece l'ho scoperto grazie a mio fratello, classe 1999, cresciuto fin dall'asilo in classi multirazziali e che oggi, grazie a questo, è la persona più lontana dal concetto di razzismo che conosco. E che per questo, nonostante i costanti scontri che ho con lui che in fondo è una testina di cazzo, mi fa nutrire nei suoi confronti una profonda ammirazione.

martedì 10 maggio 2016

Intervista col Vampiro

20:20
Ho incrociato il libro della Rice nella biblioteca del mio paese, anni fa. Ero nel pieno della mia traumatica fase post - Friedkin, e siccome all'inizio del romanzo si parla di un personaggio posseduto dal demonio, il buon Intervista col Vampiro, dopo essere stato accuratamente cosparso di acqua di Lourdes direttamente dalla testa di quelle inquietanti madonnine di plastica, è tornato nel posto in cui meritava di stare: ad impolverare sugli scaffali.
Lo riprendo oggi, a trauma QUASI superato, perché in questi giorni si parla tanto di un suo remake con Jared Leto. (A me Leto è sempre piaciuto, ma non si starà trasformando in una macchietta johnnydeppiana? Mi esprimo dopo Suicide Squad)

Daniel è un giornalista che si trova nella situazione di dover intervistare un vampiro, Louis, il quale nel corso della chiacchierata gli racconta tutta la sua lunga esistenza, dalla sua creazione da parte del vampiro Lestat all'incontro con la piccola Claudia.


Quante volte sarà già stata fatta secondo voi la battuta sulla crescita di Claudia all'interno di una famiglia gay? Che dite, mi trattengo? La tentazione è forte.
Di certo la regazzina è venuta su in un ambiente completamente maschile, e la sola conseguenza negativa che ha subito nulla ha a che vedere con l'assenza di una donna. Di certo amore ne ha avuto. Tanto, tantissimo, da spalancare il cuore, da quel Louis che ha vissuto (e sta vivendo) un'esistenza colma di senso di colpa per avere causato alla piccola quella trasformazione che lui stesso aveva tanto detestato. Bellissimo, eh, il rapporto tra i due, per quanto sia difficile vedere le sembianze di una bambina chiamare 'Amore' un adulto Brad Pitt, ma che nooooia Louis. Buono, buonissimo, pieno di buoni valori e incapace di crudeltà, ricorda la noooooia di quel Ned Buoncuore Stark che sappiamo tutti bene che fine ha fatto.
Molto più interessanti i Lannister, allora, così come è molto più interessante Lestat, con quella sua risata incredibile e quella splendida sfrontatezza. Le lagne etiche ci stanno per cinque minuti, poi davvero non se ne può più, vai piuttosto avanti a mangiare i cagnolini delle ricche megere ma smetti di rompere l'anima a noi, ché la scelta ti era stata data e tu non hai voluto morire.


Insomma, io stasera sono poco seria perché non scrivo da un po' e devo tornare a mio agio, ma Intervista col vampiro è un film pieno di fascino. Aiutato sicuramente dall'oggettiva bellezza dei signori coinvolti (Cruise non è per niente il mio tipo, ma se considerate che a me piace da morire Bardem forse il problema sono io), ci conduce in un mondo in cui il tormento regna sovrano, sia esso per il senso di colpa di cui parlavamo prima, sia per l'insaziabilità dei vampiri, sia per l'attrazione non corrisposta, sia per l'amore ossessivo che lo lega a Claudia. 
Certo, se quelli che piacciono a voi sono i vampiri brutti e cattivi, violenti e caciaroni, Intervista col vampiro lasciatelo proprio perdere. Se invece, come a me, vi piacciono gli uomini più composti ed eleganti, che portano giacca e cravatta con la dimestichezza con cui io porto i pantaloni con su Ganesh comprati a 5€ sul mercato, allora siete nel film giusto.
Un gusto incredibile per il romanticamente bello, tre (facciamo due, dai) personaggi indimenticabili, una lentezza di quella dolce che ti culla un po', e tanto è bastato a rendere questo pomeriggio di angosce un po' meno tremendo.

venerdì 29 aprile 2016

Lo squalo

20:11
Vi devo dire una cosa, però promettetemi che state calmi.
Spielberg mi sta un po' antipatico.
Sarà che lo conosco poco, sarà che sono troppo giovane per far parte di quella generazione che ha lasciato il cuore su E.T., sarà quello che volete, ma a me lui è sempre piaciuto poco.
E questo, lo comprendo, sarebbe un ottimo momento per far partire il defollow istantaneo.
Ma perché scappare proprio ora, quando io e S.S. ci stiamo conoscendo un po' meglio?

Il vero motivo per cui siamo qui riuniti oggi, a cercare di mettere una pietra sopra le mie passate ostilità verso SS, è uno solo: il GGG.
La mia ossessione per i libri è da attribuirsi a quattro signori, che hanno cullato la Mari bambina fino a renderla il mostro fissato con le parole che è adesso: J.K.Rowling, chiaramente, Bianca Pitzorno, Roberto Piumini e Roald Dahl.  L'ipotesi di un film sul Gigante Gentile mi scalda profondamente il cuore. Diretto da SS, si dice.
E allora eccomi qui, a cercare di fare pace con l'uomo che darà al mio omone un volto.
Inizio con gli squali, ché se vi dico che fino ai 25 anni non avevo mai visto il Signor Squalo mi mettete il muso.

SERVE UNO SPOILER ALERT? IO NON CREDO.


Ho sempre paura, quando guardo questi Grandi Film.
Che non mi piacciano, di non capire la loro influenza su chi è venuto dopo, di non sapere come parlarne. . .
In questo caso le mie paure erano elevate al cubo, perché non è che a me fregasse poi molto di vedere un film su uno squalo gigante che mangiava le persone. Mi dispiace, lo so. Ogni tanto vorrei essere una di quelle persone che amano i mostroni e si esaltano con l'azione, ma non è così, fatta eccezione per quei momenti in cui odio il mondo e lo voglio vedere finito almeno nella finzione. Sono solo momenti, però, di solito resto freddina.
L'ho visto per completezza, perché mi sembrava giusto guardare prima di giudicare, e blablabla.

Stavo in panciolle sul divano, convinta che dopo 10 minuti secchi mi sarei addormentata anche grazie alle 23 ore di lavoro in due giorni che avevo alle spalle. Non mi ero nemmeno preparata la merenda, cosa surreale, non si guardano i film senza mangiare.
Copertina, ché siamo quasi a maggio ma fa un freddo cane, cuscino, pc caldo sulle gambe. Mi davo giusto qualche minuto prima di soccombere.
Risultato: occhi incollati allo schermo.
La mia testa ha iniziato a scuotersi dall'alto verso il basso più o meno al minuto 18: squalone magna bambino. Io lì pronta sul bordo del divano, la mano sul bordo dello schermo del pc pronta a chiuderlo con sdegno: aspettavo la scena straziante della mamma urlante. E invece. E invece costumino che torna a riva, e bam, cambio scena.
Schiaffetto in faccia a farmi vedere chi comandava e io tornata cheta al mio posto.
Non sto ancora facendo plausi a SS, non fraintendetemi, ma quando il regista si esime dal lasciarsi andare a piccolezze dalla lacrima facile, io batto furiosamente le mani.
GRAZIE.

E questo rispetto per il lutto compare sempre, perché non è la sofferenza dei parenti delle vittime ad interessare, nè a SS nè a noi. Che ce ne frega, quelli sono affari loro, son cose private. Qua abbiamo una cittadina dal tenero nome che vede le persone morire una dopo l'altra ma che se ne fotte completamente (sentite che francese), perché se qua non lavoriamo moriamo tutti, oh.
Ehm.
Ci sono giusto due stramboidi che pensano ai morti, ma a cui nessuno crede, perché lo squalo è stato catturato, e credere che quello sia l'animale giusto non solo ci fa sentire a posto con la coscienza, ma ci permette anche di riaprire le spiagge, che è quello che a noi importa. Giusto giusto per il 4 luglio, festa dell'americano medio, a cui per l'appunto l'unica cosa che sembra importare è il guadagno.


Poi, chiaro, c'è lo squalo.
Mai nella vita avrei pensato che un film su uno squalo avrebbe potuto farmi paura. Vivo in Italia, gli squali giganteschi ammazzagente li sento come un pericolo troppo lontano da me per temere per la mia sopravvivenza e per quella dei miei cari. Qui, invece, è successa una cosa bizzarra. Ho tremato dalla tensione. È, mi permetto di fare un paragone di quelli rischiosi, il discorso della suspence hitchcockiana: sappiamo che sta per succedere qualcosa, lo sentiamo perché il film in qualche modo ce l'ha detto (e questa musica, ne Lo Squalo, funziona benissimo a dispetto della sua notorietà), ma i personaggi non ne hanno idea, il pericolo si avvicina e noi vorremmo gridarlo all'ignara vittima, ma ovviamente non possiamo, quindi quel qualcosa di brutto succede e noi ne usciamo stremati.
Due ore così.
Ho avuto l'impressione che SS abbia sempre saputo dove fermarsi: mostro il dolore della mamma che perde il figlio, ma non lo faccio ostentare, creo un falso allarme per stemperare un po', ma lo faccio solo una volta, poi sono volatili senza zucchero, vi schiaffo un po' di sangue ma senza piogge rosse.

Tregua, però, non ce n'è stata data fino alla fine: due ore di pianti e stridore di denti.

venerdì 22 aprile 2016

Non solo horror: Hamlet

14:25
Non sono mai stata una di quelle che su un isola deserta porterebbe Shakespeare. E se proprio dovessi portarlo lascerei a casa volentieri le tragedie in favore delle commedie.
Colpa della mia prof delle superiori? Colpa della mia ignoranza e basta? Chi lo sa.
Sta di fatto che è così, e dovrò migliorare.
Amleto, però, ha sempre esercitato su di me un fascino tutto suo, per colpa della versione del 96 di Kenneth Branagh.

Un bel giorno, grazie al video che trovate qui sotto, scopro che è in giro a Londra un nuovo Amleto.
Con Cumberbatch.

Mi sono sentita male a lungo, pensando a quanto inutile sarebbe stata la mia esistenza se non avessi  mai avuto l'occasione di vedere il mio adorato Benedict nei panni dell'altrettanto adorato principe di Danimarca.
E invece il mondo ha agito in mio favore, portandomelo in sala.
In lingua originale.

Per quanto possa sembrarvi assurdo, prendetemi sul serio quando vi dico che ogni parola che seguirà non sarà influenzata in alcun modo dal mio sconfinato amore per il Cumberbatch.
Il fatto che lui sia smisuratamente bello, che abbia un'eleganza e un portamento da scombussolamento ormonale, che si porti a spasso la voce più bella e sensuale mai udita in tempi recenti, che ne sia talmente infatuata da essermi presa una cotta anche per il modo in cui porta la fede nuziale, non hanno niente a che vedere col fatto che lo consideri anche un attore straordinario.
E la mia dichiarazione di imperituro amore si conclude qui, con un piccolo pensierino per tutte le altre donne che guardano a quel paio di occhi che riflettono la luce sospirando.
Prego, signore, è un piacere condividere con voi tutte:


Ok, Amleto.
È stato bizzarro guardare il teatro al cinema.
Non che si sia sofferto alcunché, ma è stato particolare, e mi è piaciuto molto.

Balza subito all'occhio la singolare scelta dei costumi, dal momento che Orazio si presenta in scena con la tenuta più hipster che abbia mai visto in lavori così seri. Scelta che magari avrà fatto storcere il naso ai puristi, ma che io ho trovato gradevole, quasi frizzante.
Così come piene di vitalità si rivelano le scene con un brillante e divertente Polonio. Eppure nessuna delle risatine strappate dalla sua colorata recitazione ha tolto il minimo pathos al profondo dramma che si stava svolgendo intorno a lui, ignaro del dolore, del trauma, costretto a ridurre tutto ad una pena d'amore.
Vorrei dire che ho amato tanto anche Ofelia, ma mentirei sapendo di mentire: troppo Zooey Deschanel per convincermi. E badate che a me la Deschanel piace, ma non qui, non così. L'ho trovata poco delicata, è una critica che ha senso di esistere?


Il vero punto della questione è che tutto questo non ha contato niente. Non ho nemmeno dato troppo peso al fatto che Guildenstern fosse indiano. Intendo proprio indiano dell'India, con l'accento di Rajesh Koothrapali. Il punto è che Cumberbatch ha preso possesso del palco, dell'attenzione del pubblico, della scena tutta, e ha coperto tutto il resto. Una monumentale presenza che è riuscita a sovrastare tutto ciò che la circondava senza mai dare la sensazione di VOLERLO fare. Mai che abbia dato l'impressione di godere della maestosità dei suoi interventi. Mai che abbia messo nell'ombra gli altri con la ferma intenzione di farci gridare che più bravi di lui non ce n'è.
Eppure ogni sua comparsa in scena le regalava luce nuova.
O forse si dovrebbe dire oscurità nuova.
Io non lo so se Cumberbatch nella sua vita abbia mai sofferto per grandi traumi, o lutti. Se non è così, il suo modo di trasmettere il dolore è spiazzante. Amleto è tante cose, ma prima di tutto è un uomo che soffre profondamente. Ha perso la guida di un padre ideale, nobile più nello spirito che nel sangue, e lo piange con una convinzione che lascia il pubblico affranto. Non paga di ciò, la vita lo mette di fronte allo sgretolamento del concetto di famiglia, ad una madre privata della sua umanità, alla totale assenza di empatia da parte di chiunque lo circondi.
E lui, lo Sweet Prince, impazzisce.
Per finta, lo sappiamo, ma in fondo potrà mai un uomo, dopo tale dolore, tornare quello di prima? Non lo sapremo mai, non per Amleto.
Non per quell'uomo che, in ginocchio su una tavola, vestito come un soldatino di piombo, si interroga sulla vita, nel monologo più famoso di sempre. Benedict fa il miracolo di pronunciare delle parole così note e ripetute da essere diventate quasi l'ombra di se stesse senza sembrare che le stia recitando. Per la prima volta in anni ho sentito qualcuno chiedersi 'Essere o non essere?' senza dirlo con il piattume e la consuetudine che la notorietà hanno inevitabilmente donato al lavoro di Shakespeare. Ho visto davvero un uomo affranto, accasciato sulle ginocchia, decidere se questa vita valesse la pena di essere vissuta o se porle fine per liberarsi dal fardello del dolore.


Vorrei essere in grado di parlare di Amleto nel modo in cui merita.
La cosa più semplice e superficiale che mi sento di dirvi per comunicarvi la potenza di questa particolare trasposizione è questa: ero al cinema con la mia amica, la mia partner in crime per eccellenza, davanti a noi una numerosa scolaresca delle superiori.
Ho iniziato la visione pronta ad usare la violenza contro le bestiacce adolescenti se solo qualcuno si fosse azzardato a fiatare.
Nessuno ha detto una parola, in tre ore abbondanti di opera teatrale in un inglese del 1600.
Il merito è di sicuro da attribuirsi anche al reparto tecnico, che con un gioco splendido di luci e musica ha trasformato un'opera in un'esperienza.

Tre ore di magia, e the rest is silence.

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