lunedì 14 ottobre 2019

Vengo in pace: un post su Joker

09:48
Il domestico cineforum che si svolge sulla mia Yarisina dopo la visione di un film di solito dura il tempo di tornare a casa dal cinema, 30 minuti di discussione se non mi addormento prima e passa la paura.
Di Joker io e Erre abbiamo discusso per tutto il viaggio di rientro, prima di andare a dormire e per le due ore di strada che, il giorno dopo, ci hanno portato verso la meta della nostra gita domenicale.
E secondo me ancora non abbiamo finito.
Oggi, quindi, provo a mettere giù i miei confusi pensieri a riguardo.


DISCLAIMER: RECENSIONE SENZA SCORSESE MA CON SPOILER.

Prima che arrivino i sostenitori armati: in linea di massima il film mi è abbastanza piaciuto ma ho alcune perplessità.

Io arrivavo in sala avendo amato tantissimo il trailer. Le scritte giganti mi fanno questo effetto, sono una ragazza semplisce. A fine film mi sono resa conto che il trailer aveva già detto tutto quello che il film aveva da dire: che ci sarebbe stata una palette strepitosa, che Phoenix sarebbe stato il grandissimo attore che però sapevamo già essere, che Phillips voleva tantissimo che le immagini del suo film ci piacessero. E allora via di lunghi silenzi e immagini bellissime pronte per diventare la copertina su facebook dell'utente medio, primissimi piani di un protagonista al quale è stata data la dura missione di tenere in piedi qualcosa di molto fragile, una ricercata iconicità che ha ben poco di spontaneo.
Mi ha dato l'impressione di essere un film che voleva tantissimo piacere e ci ha provato un pochino troppo forte. 

Il mio primo dubbio arriva prima ancora della visione. 
Dunque, Batman Begins, il primo della trilogia di Nolan, è del 2005. Prima di allora i film sui supereroi erano roba da non considerarsi Vero Cinema Importantissimo. Arriva lui, fa i film cupi e seri e bellissimi e i suoi Batman diventano i film di supereroi che la critica può amare senza avere vergogna. Poi però è arrivato l'MCU, tre anni dopo, e i cinecomic, che pur esistono da molto prima, esplodono e diventano un fenomeno gigantesco, smuovono le masse e fanno i fantastiliardi. Non li possiamo più guardare con snobismo.
Penso, con queste premesse, che il cinecomic con pretese autoriali oggi abbia meno senso, ammesso che l'operazione Nolan ne avesse (ricordatevi che a me Nolan piace, mettete giù quelle torce, lì). L'ho trovata fuori tempo. Qualcuno potrebbe parlare di Logan, che ha un tono diverso dai suoi predecessori, ma io non lo farò perché non sono abbastanza ferrata sul tema cinecomics da perdermi in digressioni troppo profonde. Mi è solo sembrato che fosse più coerente con quello che è venuto prima e comunque collegato al suo mondo, mentre Joker spunta dal nulla ed è un fenomeno a sé, non legato a saghe pre esistenti.

Il film di Phillips si prende la responsabilità di parlare di cose grandi, e quando lo fai hai in mano una fragilità che rende tutto il lavoro più difficile. La mia conclusione è che devi essere molto più bravo di lui per farlo. Arthur Fleck come personaggio dei fumetti nasce (leggo su wiki, ché io vi ricordo non so quasi nulla sui fumetti di supereroi) nel 1940, ed è un matto incontrollato, sadico, psicopatico. Mi sta bene che nel 1940 si parli in questi termini della disabilità mentale, in un medium che non vuole certo essere scientifico. Finora anche il cinema ci aveva mostrato questo, un fuori di melone con un fascino tale da circondarsi di mistero e curiosità, inesplorato, furbo, disturbatissimo. Nel 2019 mi aspetto altro. Mi spiego: il politically correct è un concetto che sposo (ne riparleremo, magari) ma non è il metro che uso per giudicare le cose che leggo o guardo. Non sono io, quindi, che cerco questo nel film di Phillips ma è lui che pone le basi perché io me lo aspetti. Se mi fai una origin story e la fai così concentrata su quanto il personaggio del Joker sia nato per colpa di una società incapace di gestire lui e i suoi problemi, i quali ci sono anche a causa delle persone orrende, lo devi fare più a fondo di così, il tempo lo hai avuto. Invece di bruciare secondi con Arthur che guarda fuori dal finestrino dell'auto della polizia e sorride, approfondisci la questione della sua malattia, ché tanto lo sappiamo già quanto è bravo Phoenix, non continuare a buttarmelo in faccia, lo vedo. Non lasciare tutto il lavoro sporco sulla faccia e il corpo del tuo protagonista, troppo facile così. Wikipedia dice che esiste davvero qualcosa del genere, parliamone. Approfondiamo, facciamo conoscere. Non mi basta un bigliettino passato sul bus con scritto il problema. 
Parlare con questi toni di quello che poi a tutti gli effetti si rivela un criminale efferato non aiuta la causa. Cosa facciamo, ora, con questo Joker? Gli è stata data un'umanità che finora non aveva avuto, e questo non può essere un male, però non possiamo arrivare alla legittimazione dei gesti. Joker è una vittima e questa empatia che inevitabilmente crea (sempre perché Phoenix è tanto bello e tanto bravo, se lo leggo ancora una volta mi cavo gli occhi) distoglie l'attenzione dal caos totale che nel frattempo a Gotham si è generato. Joker è un cattivo, e pur essendo vero che il mondo ha mille sfumature e le persone non sono solo buone o cattive non possiamo e non dobbiamo dimenticare che Arthur non può e non deve essere idolatrato. Non possiamo farne solo una vittima.
Allora non mi bastano gli accenni (anche qui, sempre e solo grandi temi accennati e buttati lì, nessun approfondimento) a Bruce Wayne e a quello che diventerà, mi devi dare di più, e invece sto film si perde talmente tanto nel suo essere bello da dimenticarsi che, spesso, è vuoto. Io peraltro non li ho apprezzati, sti rimandi a Batman, li ho trovati solo buttare altra, l'ennesima, carne al fuoco che non aggiunge e non toglie niente al film. Lo sapevamo già chi sarebbe diventato Arthur Fleck, lo avete messo nel titolo, non mi serviva un ulteriore strizzatina d'occhio. 

Credo che a questo punto sia una semplice questione di gusti: si può amare il Joker misterioso e imprevedibile, di cui non si sa nulla, che resta uno dei villain più affascinanti del mondo oppure preferire l'Arthur umano, creato da un mondo vigliacco e crudele. 
Credo, nonostante le mille paranoie uscite in questo post, di preferire il secondo.
Avrei solo voluto non lo raccontasse Todd Phillips.


giovedì 10 ottobre 2019

Signore e signori, Alan Bennett

11:10
Che Alan Bennett fosse il genere di scrittore che piace a me lo avevo capito subito, quando ho letto La sovrana lettrice. 
Ora, con Signore e signori, è diventato uno dei miei preferiti.


Trattasi di una raccolta di sei monologhi per la tv scritti dal Nostro.
Quello uscito con Adelphi è un volumetto piccino, che si legge in un paio d'ore, ma che mi ha lasciato tante cose su cui pensare e quindi tanto di cui parlare.

Prima breve considerazione: io in digitale leggo spesso in inglese, in copia fisica in italiano, semplicemente perché i libri li compro usati e trovo più cose in italiano. Da quando leggo in inglese, però, noto il lavoro del traduttore più di quanto non facessi prima, ovviamente, e in questo caso io la traduzione, a opera di Davide Tortorella, l'ho adorata.
Per farvi un breve esempio: il primo monologo è quello di Peggy, una donna come tante (che è anche il titolo del monologo). Peggy parla mettendo gli articoli davanti ai nomi propri femminili, usa parole come moroso e riporta i dialoghi letteralmente. Io sono cremonese, e questa donna ha il mio linguaggio, e se da un lato capisco che ad un pugliese o ad un sardo possa fare meno effetto, per me è stato come leggere la storia di una delle "mie" signore. Finito il monologo ero commossa fino alle lacrime per Peggy, e la conoscevo solo da qualche pagina.

Non pensiate che la commozione sia dovuta solo alla familiarità linguistica. Ogni monologo ha una svolta inaspettata e amara, che ne cambia completamente il tono e lo rende così umano che è impossibile non amarli tutti quanti. I personaggi ritratti sono una variegata rappresentazione di quello che siamo, sono di età, generi e provenienza differenti, sono buffi, dolci, ingenui. A volte è sgradevole leggerli ma si finisce sempre, anche con quelli che ci possono apparire meno piacevoli, per provare una grande compassione per loro e le loro sofferenze.
C'è la signora che si crede fondamentale, quella che non crede lo siano gli altri, quella che si sopravvaluta, il giovane ignaro della gravità della sua situazione, l'alcolizzata inconsapevole. In ogni, breve, racconto incontriamo non solo la persona che parla ma spesso la sua comunità: vicini di casa, parrocchiani, compagni di stanza d'ospedale, crew. Non siamo mai soli, eppure in qualche modo lo siamo sempre, e i nostri personaggi, raccontandosi, ci mostrano come dentro ai nostri pensieri non ci siamo che noi, e che quello che ci succede intorno spesso non lo sappiamo leggere.

Quello che è ancora più interessante, oltre ai monologhi, sono le introduzioni.
Sono due, e Bennett le sfrutta in modo straordinario. Ci parla di come il monologo sia una diversa forma di narrazione, che non può prevedere narratori affidabili nè il linguaggio completo della prosa, che richiede al lettore uno sforzo di immaginazione e di comprensione in più. La storia ci è raccontata da un punto di vista parziale e spesso inconsapevole, sta a noi completarla, e questo per me è stato interessantissimo. Il solo monologo che avevo mai letto è Dolores Claiborne, e le cose sono troppo diverse per paragonarle. In questi brani l'immedesimazione nella persona che parla è totale, l'empatia stuzzicata a livelli inimmaginabili, e la breve esperienza di lettura è una delle più commoventi che ho fatto durante l'anno. Il tono colloquiale, le storie quotidiane, l'inconsapevolezza di cui sono composti rende questi monologhi speciali, e non fa che confermare che quella di Bennett deve essere un'anima candida. Ne abbiamo un piccolo assaggio, durante le introduzioni, che non solo parlano di cosa rappresentano questi racconti ma regalano anche piccoli accenni alla vita dell'autore.
Che piccolo tesoro sto volumetto.



(Scopro dopo avere pubblicato il post che ci sono su Youtube i monologhi letti da volti noti della tv inglese: mi do al binge watching e lo lascio anche a voi: li trovate qua)

lunedì 30 settembre 2019

Horrornomicon: A Xenomorph Extravaganza

17:47
SPOILER SU TUTTI QUANTI I FILM.

Ci sono volte in cui le Cose Grandi nascono da una sola grande, sfolgorante idea. Un'epifania, un'illuminazione, un colpo di genio.
In altre circostanze per creare una Cosa Grande servono tante teste, un milione di idee e tanto tempo.
La ricetta prevede anche di fare qualche cambio tra le teste, mixare tra loro le idee e aprire la strada anche a quelle idee nuove che convincevano poco, scovare cose nuove in giro per il mondo.
Sembra rischioso, ma qualche volta funziona.
E quando funziona, succede qualcosa come Alien.


Per parlare della nascita del film di Scott a fondo dovremmo tirare in ballo Mario Bava (e di lui abbiamo appena parlato qui), Walter Hill, Lo squalo, Roger Corman, dei gremlin durante la seconda guerra mondiale, Star Wars e anche Jodorowsky.
Io davvero vorrei stare a tavola una sera a cena con questo mix.
Non posso entrare nei dettagli perché in questo post parleremo di tutto il franchise che è nato dopo il 1979, ma un minimo accenno a come è nata la leggenda lo dobbiamo fare, per dovere morale.
Per chi volesse invece qualcosa di più dettagliato, invece, si trova su Youtube un documentario che si chiama The Beast Within: the making of Alien che vi racconta per bene cosa è successo.

La storia inizia con l'incontro tra due persone: Dan O'Bannon e Ronald Shushett. Entrambi scrivono film ed entrambi hanno un'idea: O'Bannon ha in mente quello che sarà Alien mentre Shushett stava lavorando ad Atto di forza. Il loro rapporto fa una pausa quando O'Bannon va a lavorare con Jodorowsky al suo Dune. Il film va in nulla ma in quell'occasione incontra H.R. Giger, un pittore svizzero. E aggiungiamo un altro tassello al puzzle. La sceneggiatura viene consegnata alla casa di produzione che insieme ad altri aveva aperto Walter Hill e iniziano i contatti con la 20th Century Fox. Infine, a sto film andava trovato un regista. Girano diversi nomi ma si finisce su Ridley Scott, che prima di allora si era fatto notare con I duellanti. Scott si innamora perdutamente del lavoro di Giger, e così chiudiamo il cerchio. Abbiamo in una stanza le 4 teste principali che metteranno in piedi il baraccone Alien, influenzate da tutti quei nomi citati sopra ma soprattutto con un budget raddoppiato rispetto a quanto messo a disposizione all'inizio. Il baraccone non si ferma ad un solo film, ma crea una saga: ci sono i quattro capitoli della cosiddetta Alien Anthology, ci sono i recenti prequel (se così si può dire, ne parliamo dopo) e i due episodi della saga di Alien vs Predator.

Prima di tutto ciò, però, Alien vede la luce, ed è diverso da qualsiasi cosa ci si potesse aspettare.
La gente aveva appena avuto Guerre Stellari, che è intrattenimento nella sua forma più genuina, e ora aveva qualcosa di sconvolgente. Aveva un monster movie in cui il monster non sappiamo nemmeno che faccia abbia per metà film e anche dopo lo vediamo pochissimo. Si parla di uno screen time dello xenomorfo di 4 minuti, il film ne dura 117. Ma quando lo vediamo...
Io lo capisco, Ridley Scott. Ha visto il dipinto di Giger, che si chiama Necronomicon IV, e ha deciso che quello lì era il suo alieno punto e basta. E aveva ragione lui, perché parte della ragione per cui 40 anni dopo stiamo ancora qui a parlare del suo film è perché la creatura è quanto di più bello si potrebbe immaginare. Io ancora non me ne faccio una ragione. Sono straordinari, sti xenomorfi, non hanno solo un design straordinariamente azzeccato con il tono e l'aspetto generali del film, sono proprio magnifici, delle creature magistrali che fanno una paura del demonio. Io non so disegnare nemmeno una o con il bicchiere, e il talento delle persone che sanno farlo non finirà mai di sorprendermi. Giger, poi, era un personaggio particolarissimo e con una fisicità e un aspetto che non sarebbero stonati a loro volta in un film. Le sue opere non potevano che essere così. Iconiche. Lo xenomorfo lo vediamo attraversare le diverse fasi della crescita e non per questo diventa meno spaventoso, anzi: ogni sua manifestazione è peggiore della precedente, fino all'esplosione di terrore che è rappresentata dalla sua forma adulta.

Ricapitoliamo, allora. A rendere Alien il culto che è ci sono: una bella (bella) storia, sceneggiata da chi sa davvero cosa sta facendo, un design iconico, non solo delle creature, ma della Nostromo, delle divise, di tutto quello che vediamo, ma soprattutto un regista che ha trasformato queste cose nella più tesa, cupa e alienante esperienza di cinema di fantascienza che abbia mai benedetto le nostre vite e che soprattutto ci ha rapiti tutti quanti e resi suoi sudditi fedeli.
Sedersi a cena con l'equipaggio della Nostromo è appassionante ogni volta come la prima, e l'amore per quei personaggi lì è tanto e tale da illuderci ogni volta che oltre a Jonesy e Ellen si salvi qualcun altro.

Posso solo provare a immaginare la soggezione che James Cameron può avere provato, qualche anno dopo, quando ha pensato bene di mettersi alla regia di Aliens, Scontro Finale, primo sequel del film di Scott.
O forse no, non lo posso nemmeno immaginare, perché quella soggezione lì Cameron l'ha presa e ne ha fatto un film enorme. Io la trasformerei in mal di pancia, la tensione, lui l'ha trasformata in uno dei più grandi film d'azione di sempre. Ammetterò di non avere grande esperienza nel campo dell'azione (come se nel resto ne avessi granché), e di conseguenza ammetterò una cosa che mi costerà il defollow di qualcuno: Aliens non è un film di facile fruizione. E lo so che di solito queste cose si dicono dei grandi film d'autore o del cinema estremo, ma io lo dico con lui e ora mi spiego, o almeno ci provo. Aliens è proprio un film d'azione vera. Dimenticate il clima di quiete prima della tempesta del suo predecessore, qua di calmo non ci sono manco i primi minuti. Ripley si faceva i fatti suoi nel sonno criogenico, l'hanno trovata, svegliata apposta e rispedita a combattere, tanti saluti a casa, ché tanto son passati 50 anni e a casa non c'è più nessuno. Quindi abbiamo: una tragica storia di una maternità perduta (che dolore per la mia adorata), un trauma enorme, e poi di nuovo botte da orbi. Ma stavolta botte da orbi sul serio, perché a conoscere gli xenomorfi non è stato mandato un gruppo di persone inconsapevoli. Stavolta sono partiti dei marines armati fino ai denti e con nessuna intenzione di morire.
Il risultato è un film pieno di fuoco, fiamme, urla, spari. Un film veloce (ma non frenetico), agitato, un film che, appunto, non è di facilissima fruizione, almeno per quelli che sembrano essere i miei occhi da signorina. Però ci sono gli xenomorfi che escono dalle fottute pareti, e c'è il cinema come lo sa fare James Cameron, e allora io e i miei occhi da signorina ci sediamo in un angolo con un quaderno per gli appunti e impariamo come si fa.

Sapete chi altro avrebbe tanto voluto insegnare come si facevano le cose per bene?
David Fincher.
Il quale, con poca esperienza ma tanta voglia di fare, si lancia in un franchise composto da due cose grandi come il mondo e deve cercare di emergere, per non farcisi affossare dentro. E ha rischiato grosso, perché Alien3 è un pasticciaccio brutto. Non tanto per il risultato finale del film, che in ogni caso a me ha tanto divertito, ma per colpa di quel poema epico che è stata la sua genesi. Sceneggiature passate attraverso troppe mani, anche un po' confuse, la sua idea di quello che un terzo Alien avrebbe dovuto essere, e infine un passaggio di taglia e cuci che lo ha trasformato in un film completamente diverso da quello che avrebbe dovuto essere.
Il risultato è che Fincher si è arrabbiato come un matto (dagli torto) e oggi del suo lavoro non ne vuole più sapere, e i fan sono molto divisi. Alien3 ha dei fan e io ne faccio parte: la prigione e i suoi abitanti sono stati un bel luogo in cui portare gli xenomorfi, e anche se abbiamo dovuto rinunciare alla bellissima dinamica Ripley/Newt, la banda di tremendi criminali che ci è toccata in sorte è divertentissima.

Rifacciamo il gioco delle domande.
Sapete chi invece non ha alcun fan?
Alien Resurrection.
E questo è perché Alien Resurrection è proprio un brutto film.
Lo dico ora e vale anche per dopo: una volta mi divertiva parlare dei brutti film. Ora non più, perché se io avessi una macchina da presa in mano la cosa che saprei fare è riprendere il mio cane per ore, accorgermi che non stavo girando e in qualche modo romperla. Quindi criticare gli altri dal mio divano è troppo facile.
Però il quarto capitolo della saga è proprio sbagliato: riportare in vita Ripley non si doveva fare. Era morta in un modo che mi piaceva anche, combattendo la sua nemesi, poteva andare bene così. Leggevo da qualche parte che ipotesi su un nuovo capitolo riguardavano la figlia di Ripley, Amanda, e la sua ricerca della madre. Avrei adorato.
E invece no, siccome Alien è sinonimo di Sigourney Weaver (bravissima adoratissima niente da dire) allora pur di fare il quarto film con lei dentro la cloniamo. Facciamocelo andare bene.
Il problema è che qui la Weaver non ci voleva stare, e ha trovato il modo di farcelo vedere in ogni scena. In qualche modo riesce ad essere una delle sue performance peggiori, affiancata da certi signori qui molto amati che iniziano per R e finiscono per Onperlman che sono caricature di quello che avrebbero potuto essere.
Un enorme occasione sprecata.
Se usiamo un tema come la clonazione apriamo le porte a grandissime riflessioni su cosa renda umani o meno, per esempio. Tutto al vento, un peccato enorme.
E davvero, quel neonato ibrido biancastro io non credo di essere in gradi di perdonarlo, nè ora nè mai.

Una cosa positiva, però, poi è successa: Ridley Scott ha spostato tutti un attimino da parte, si è arrotolato le maniche della camicia e ha detto a tutti che ce lo faceva vedere lui, come si faceva.
E infatti, 15 anni dopo la fine della saga originale, ritorna e lo fa con Prometheus.
Io non ho le capacità per fare grandissime analisi di cinema, me ne rendo conto e infatti condivido con voi giusto le mie impressioni, le mie emozioni. Le mie emozioni dicono che quando Ridley Scott fa fantascienza è in un terreno a lui affine, dove si sente a suo agio, dove da il meglio possibile. E infatti Prometheus è un gran film.
Non aveva bene le idee chiare su cosa farsene, di questo cosone qua. Prequel di Alien? Sì, no, forse. Ha cambiato idea un po' di volte ignorando forse il fatto che contasse molto poco. Prometheus parla di esplorazioni spaziali e di umanità e lo fa con la solita intensità a cui ci ha abituati il suo regista, che fosse o meno collegato al primo titolo di questa saga conta fino ad una certa. Mancano gli xenomorfi, e quando non ci sono io ne avverto sempre la mancanza, ma c'è tutta la vita del mondo dentro, e allora forse va bene così.

Poi c'è stato Alien: Covenant.
E in questo caso le idee erano più chiare: sì, siamo i prequel di Alien e adesso vi facciamo vedere come.
Solo che a me il come non ha entusiasmato quanto vorrei e quindi sono un po' frustrata a parlarne, perché Prometheus aveva messo belle basi per continuare a parlare della vita e delle sue origini e secondo me ho caricato il suo sequel di troppe aspettative.
Per me una conclusione un po' sottotono, anche se quando dirige Ridley noi siamo sempre i suoi sudditi.

Di mezzo, però ci sono stati gli zarrissimi Alien Vs Predator. 
Più tamarri di Fast and Furious Tokyo Drift, più seri di Mentana durante le maratone, sono poco ma sicuro giocattoloni divertenti per chi vuole una seratina con la birra e la pizza nel cartone, non starò qui a fare la snobbettina. Ci sono botte spaziali, gli xenomorfi e i predator, tutto insieme, in mezzo ai ghiacci prima e in mezzo alla civiltà poi. Acido che scioglie le maschere, uncini che trapassano le persone, armi fatte di pelle (??), non manca nulla. Se si accetta di uscire completamente dal canone e si è di bocca buona, vanno da dio. Io li ho trovati scritti male, recitati ancora peggio e se proprio voglio fare la mari supercritica che quella roba lì porti il nome (e la faccia) dei miei adorati xenomorfi è quasi un insulto. Però Erre, meno spaccaballe di me, si è divertito come un matto e questo non glielo toglieranno certo i miei occhi da signorina di cui sopra.
Una volta superato lo scoglio di veder recitare Raoul Bova il primo è tutto in discesa.
Del secondo vorrei dire qualcosa di più approfondito, ma mi annoiava a morte e mi sono distratta su Twitter. Triste ma vero. Ho provato a guardare un po' di scene ma era tutto TALMENTE SCURO che pareva una puntata dell'ottava stagione del Trono di Spade, e non c'è, nè ci sarà mai, occasione al mondo in cui questa frase possa avere una connotazione positiva.








giovedì 19 settembre 2019

Di Euphoria e deliri vari sull'adolescenza

22:09
Ogni tanto HBO si ricorda che deve tenere testa ai due giganti Netflix e Prime Video quindi si impegna e tira fuori le bombe che smuovono il web. Quest anno in più doveva farsi perdonare di quell'involontario orrore che è stata l'ultima stagione di GoT e quindi ha tirato fuori dal cilindro Euphoria, ormai considerato dal'internet che conta il miglior teen drama di sempre.
Io ho delle cose da dire, e spero davvero non vengano prese come le opinioni di una che vuole fare la bastian contraria a tutti i costi, giuro che non è così.


Quella di Euphoria è la storia di un gruppo di adolescenti alle prese con droga, sesso, relazioni malate e famiglie complesse. La protagonista è Rue, che conosciamo appena uscita da una rehab. Con l'inizio del nuovo anno conoscerà Jules, che la motiverà a diventare la miglior versione possibile di se stessa.

Partiamo dalle cose oggettivamente vere: è una bella serie, con colori, fotografia, alcune interpretazioni e colonna sonora che sono spettacolari. Zendaya è una piccola perla che dobbiamo custodire gelosamente e i temi trattati sono di fondamentale importanza. Revenge porn, body positivity, droga, violenza (sessuale e non), molestie, aborti, disforia di genere...è importante che se ne parli sempre ma forse un pochino di più che se ne parli in una serie rivolta ad un pubblico teen. Non siamo ancora pronti a smettere di parlarne e temo che non lo saremo ancora per un po', quindi benvenga. Parliamone fino a che ce ne sarà bisogno e io sarò qui a sottolinearne l'importanza.

Però ho dei però e ne vorrei parlare un pochino, e per farlo temo finiremo in SPOILER.

La mia prima considerazione è soggettiva, quindi non vuole per forza essere una critica alla serie ma ai miei gusti: io sarei anche un pochino piena di quella rappresentazione qua dei giovani. Esistono i giovani tossicodipendenti, esistono i giovani violenti e squilibrati e disagiati. Ci sono quindi va bene che se ne parli. Capisco anche (e so per certo) che certe situazioni si attirano a vicenda, quindi è facile che il tossico esca con quello che ha la famiglia problematica che a sua volta esca con quella inquieta e così via. Lo capisco, mi sta bene.
Ma se in tutta la serie tv non c'è un personaggio che sia uno che faccia un chilo io mi faccio due domande. Il solo personaggio senza drama è Lexi, che infatti è ritratta come un secondario poco interessante a fronte dei grandi problemoni degli altri. Perdonatemi questo tono sarcastico, non so bene come esprimere quello che vorrei. Mi sembra scritto in modo pigro, ecco.
La cosa che mi dispiace di più è questa: le riflessioni che fa spesso Rue, che è la narratrice, le ho riconosciuti come mie. Sono un linguaggio universale che riflette dubbi e fragilità di chiunque abbia avuto 17 anni. Anche di quegli adolescenti che fanno vite più apparentemente banali. L'intensità di pensiero e dei sentimenti sono i medesimi. Solo, è più facile raccontarli se sono associati a vite piene di drammi. Una famiglia disfunzionale o dei problemi con la droga sono senz'altro difficili da raccontare, ma portano con sè molti più eventi, e il fluire della vicenda è più facile. Mi sbaglio io? Mi sembra solo che infilandoci tutte queste cose (e sono davvero tantissime, non c'è un'anima che abbia una vita senza tanti problemi immensi) se ne perda un po' il senso.
Prendiamo Cassie ad esempio. Cassie la conosciamo come vittima di revenge porn. Problema 1. Oltre alle voci e alla fama arriva il futuro da pattinatrice troncato. Problema 2, solo accennato. Poi la madre alcolizzata. Problema 3. Il padre si allontana dalla famiglia e diventa tossicodipendente. Mi sento di classificarli come problemi separati, 4 e 5. Infine, la gravidanza indesiderata e l'aborto. Problema 6. Considero questo insieme di problemi realistico? Sì, assolutamente, ci sono situazioni degradate dove è la norma. Lo considero pigro dal punto di vista narrativo? Sì. Potevamo scegliere uno dei problemi e approfondirlo come avrebbe meritato. Ma come, direte, se hai detto che è realistico perché togliere qualcosa? Perché la vita vera non dura 8 episodi da un'ora. Se hai questo tempo cerca di far passare al meglio che puoi un messaggio, persino il veterinario del mio cane dice che chi fa troppe cose le fa tutte male. Così si finisce che l'aborto è una scena in cui piangi un po' e in una successiva in cui rispondi a qualche domanda. Magari fosse così nella vita reale. Le cose sono un po' più complicate.
Mi è sembrato che ogni episodio fosse un elenco ordinato di tutti i problemi che rendono i personaggi quello che sono e non è il mio modo preferito di scrivere una serie tv. 
Ciò detto, se esiste una serie tv che ritrae giovani meno estremi ma in grado di esprimere con efficacia problemi e dolori dell'età, vi chiedo di farmelo sapere, la guarderei con estremo piacere. Nel dubbio continuo The Office.

Un'altra cosa che proprio non ho amato è stato il modo in cui ci viene raccontato il rapporto tra Rue e Jules. Le due si conoscono, diventano amiche da subito. Poi quasi improvvisamente il rapporto diventa intensissimo, e infine qualcosa di più che amicizia. Il mio problema con questa cosa è semplice: viene più raccontata che mostrata. Le scene tra le due sono poche e fatte prevalentemente di sguardi e silenzi e notti passate insieme a dormire e se un paio di occhiate intime bastassero a far nascere un amore folle i non vedenti non avrebbero alcuna chance di trovare l'amore. Non ho empatizzato, non mi sono emozionata, non ho provato nulla. Le scene tra le ragazze sono spesso flashback o ricordi, sono raramente 'dirette' e si è assistito troppo poco allo sviluppo di questo rapporto per poterne veramente godere a pieno. Un gran peccato, soprattutto perché Jules è il personaggio che ho trovato scritto meglio. Una giovane ragazza trans che a causa del suo trascorso difficile ora ha comportamenti masochisti ed estremi. Non c'è bisogno di grandi dialoghi sulla faccenda disforia, che avrebbero potuto finire per essere ridondanti e già sentiti, bastano poche immagini a cogliere il suo disagio e il suo dolore, e il suo bisogno di sfogarli. Non capisco perché per lei siano riusciti così bene mentre con altri no. 
Nate, altro grande esempio. Questo ha una famiglia che definire problematica è fargli un complimento, una relazione sentimentale malsana e una tendenza alla minaccia che sfocia nella violenza vera e propria. Eppure, non si va mai a fondo con lui. Non si scava più di tanto, si accumulano informazioni su informazioni che restano lì, come un elenco della spesa da spuntare. Sessualità confusa? Check. Daddy issues? Check. Bisogno di violenza? Svariati check. Fragilità? Al primo posto. 

Infine, ma non per importanza, il ritratto della sessualità che viene fatto in Euphoria è desolante. Ci sono adulti che fanno sesso violento con ragazzini e ragazzine fuori dalle mura domestiche, del sesso con la moglie non abbiamo informazioni, la purezza del talamo nuziale è intatta. C'è del sesso interrotto, violento, cattivo, doloroso. Si usa come sfogo, come ricatto, come punizione. Spesso c'è solo un grande squallore e soprattutto porta un casino di guai: foto, video, insicurezze, gravidanze indesiderate.
In una serie destinata ad un pubblico giovane questo non può essere l'unico esempio mostrato. Non c'è mai sentimento, mai divertimento, mai nulla di piacevole. Non va mica bene così, lo facevano negli slasher degli anni '80 e a loro perdoniamo ogni cosa, ma da una serie fresca e giovane mi aspetto altro.

Per me un gran peccato.
Guarderò comunque la prossima stagione sperando mi dia qualcosa che qua non ho avuto, e probabilmente se l'avessi vista a 17 anni me ne sarei innamorata. 
Oggi, però, chiedo qualcosa di più.


venerdì 6 settembre 2019

It: Capitolo 2 e di gente al cinema

11:17
Festa Nazionale in Redrumia!
Pennywise è tornato e lo aspettavamo da due anni che sono sembrati giusto 27.
Serve un post dedicato.


La storia è quella dei Perdenti adulti che, richiamati da Mike, tornano a Derry 27 anni dopo gli eventi del primo film, perché It è tornato. Fine di quello che vi dirò sulla trama.

Una volta Neil Gaiman (sempre sia lodato) ha detto che nel booktour di Coraline gli era diventato chiaro quanto adulti e bambini abbiano percezioni diverse e quindi paura in modo diverso. I bambini non erano preoccupati per Coraline: lei era l'eroina e senza dubbio ce l'avrebbe fatta. Gli adulti, invece, consideravano la storia inquietante e spaventosa, preoccupati per l'anima giovane e in pericolo.
Ecco, per me It è stata la stessa cosa. La prima parte, quella del 2017, mi aveva fatto una paura che non ve la raccomando (e invece forse sì, che qua si parla pur sempre di orrore). I Losers sono un gruppo strepitoso di ragazzini coraggiosissimi, e il film aveva reso loro giustizia in modo quasi insperato. Però erano i miei bambini, no? Ero preoccupata per loro e il film era più spaventoso del suo sequel. Questa volta ho avuto meno paura, ma il cuore straripante di emozioni.

Il ritorno a Derry è stato emozionante e commovente, il ritrovo di amicizie perdute ma mai dimenticate è sempre delizioso da vedere e questi attori sono stati i Perdenti che volevo. Il cast dei bambini era perfetto nel primo film e si conferma tale, ma quello degli adulti non ha temuto il confronto, non solo per quel McAvoy e quella Chastain che sono la conferma che al mondo c'è qualcosa di buono e porta i loro nomi, ma per l'insieme, l'affinità che traspare, l'affetto palpabile, le battute sulla mamma grassa dopo 30 anni.
Tutto è come prima e niente lo è.
Nemmeno It.
Il più spaventoso dei clown smette di essere solo un pagliaccio e diventa la materializzazione di un trauma terrificante, diventa paura concreta in forme diverse, diventa la forma fisica di un terrore durato trent'anni, che sembrava dimenticato e invece stava sempre lì, nascosto ma pronto a rifarsi vivo. Cambiano le sue sembianze, a volte, ma non cambia l'effetto che ha sui ragazzi, paralizzati dal terrore eppure, passato il peggio, pronti a tutto, pronti soprattutto a scherzarci su. E quel comic relief lì, che è presentissimo e che funziona da dio (mi sono divertita un sacco) non è servito solo ai Perdenti, ma anche a noi, perché va bene che ho detto che il film spaventa meno del primo, ma il mio vicino al cinema ha fatto un paio di salti sulla sedia che non so come ha fatto a sopravvivere fino alla fine.
It è spaventoso e magnifico al tempo stesso e Skarsgard il migliore che si potesse chiedere per dargli il volto.

I puristi del libro avranno mille cose da recriminare alla fine di questa storia, e va anche bene così. Però Muschietti è riuscito nelle cose più importanti: farci un paurone dell'accidenti ed emozionarci tantissimo, come solo chi ha molto amato il libro avrebbe potuto fare. E quindi non solo va bene così, va esattamente come avrei voluto andasse. Ed è magnifico.
Io mi rileggo pure il libro, che mi mancano già, maledetti Losers.

Dicevamo, il mio vicino. Si è fatto proprio la cacca addosso, porello. Come lui, buona parte della sala. Come lo so, vi chiederete. Perché quando la gente ha paura parla. E ride, fa caciara, sgomita. Deve alleggerire la tensione. Mica fanno sto casino quando vanno a vedere altro, di solito, è proprio l'horror che tira fuori quell'aspetto qua, l'horror estivo magari leggero ma che comunque fa strizzare le chiappe.
Ecco, io prima ero pronta ad entrare in sala col lanciafiamme. Pago il biglietto, entro in sala, mi voglio godere il mio benedetto film. Ieri sera ero carica, avrei soffocato quello dietro di me con il mio sacchetto unto di caramelle, porco cane non ha taciuto un minuto. Ti ringrazio per avere letto a voce alta il contenuto dei biglietti dei biscotti della fortuna, sei una gioia ma non solo siamo tutti alfabetizzati, i personaggi stanno già facendo da soli, tu non servi, taci, prendi fiato, strozzati nella tua saliva.
Poi però sono uscita dalla sala ed ero esaltata. Avevo visto una cosa che aspettavo da tempo, non vedevo l'ora di vederlo, mi è piaciuto tanto ed ero tutta uno scodinzolio. E alla fine, forse, quel tizio logorroico là l'ho perdonato.
Eri contento, tatone, perché a volte il cinema fa anche quelle cose qua, e a me l'horror gasa (che termine vintage) tanto quanto stava gasando te. Sei comunque uno stronzo irrispettoso, ma siccome ti capisco sorrido un po', se ci penso.
E ti perdono.
Guarda te Muschietti che effetto mi fa.

martedì 3 settembre 2019

Notte Horror 2019: Society - The Horror

23:15
Ultimamente questo blog sta in piedi per miracolo. Gli eventi della blogosfera li salto quasi a priori perché so che non ci starei dietro come vorrei e pur dispiacendomene preferisco non fare nulla piuttosto che fare qualcosa ma farlo con i piedi.
Però, però, però.
Alla Notte Horror non si scappa, sono pur sempre una donna di sani principi.
E quindi eccoci qua, anche quest anno.


Prima o poi anche Society doveva arrivare da queste parti.
Sta lì, su Prime Video, comodo comodo per riguardarselo ogni volta che ci si sente giovani ribelli contro il sistema, bello sporco e ruvido come piace a noi.
Society - The Horror è un film pazzesco. Se leggete un blog di cinema dell'orrore come vorrebbe essere questo è chiaro che il film di Yuzna lo avete già visto, magari anche più di una volta, ma ne riparliamo insieme, perché è sempre un bel parlare.

Cominciamo come una bella storia teen di quelle che a me divertono sempre un casino. Ragazzi belli e abbronzati che giocano a basket in cortile, litigi con le fidanzate, feste esclusive a cui non si è invitati, armadietti scolastici...il kit base 'adolescente americano' c'è tutto e viene esposto come in un catalogo.

Però Society non è un horror adolescenziale qualsiasi, quindi non ci sono assassini seriali mascherati, niente fantasmi, niente case nei boschi, niente di quello che conosciamo (e amiamo). In Society i cattivi sono i ricchi, quelli che fanno gli ingressi in società, i giudici, i ragazzi più popolari della scuola, l'élite. E sono cattivi davvero, ché se dobbiamo fare una bella e sensata critica alla società allora ci mettiamo il carico da mille. Non parlo solo del famigerato finale, che se è così famoso avrà i suoi buoni motivi per esserlo, ma di tutto quello che succede prima: la crudeltà risiede proprio in famiglia, nel luogo sicuro, nel terapeuta, in chi dovrebbe aiutarti. L'adorato e lussureggiante nido domestico è in realtà la sede del più grande dei tradimenti, e del più sconvolgente degli amplessi.
Videocassette magicamente modificate, morti, scomparsi e matti che mangiano i capelli: Society non lesina su niente.

Ci butta dentro l'incesto, le alte cariche dello Stato,  una dose di splatter da levarsi il cappello e anche un ritratto ben poco felice delle forze dell'ordine. Non manca niente, non ha paura di niente.
Noi, invece, di quella società qua un pochino di paura faremmo meglio ad averla.
Mica lo dico io, ci mancherebbe.
Ci pensa Yuzna.

venerdì 30 agosto 2019

Horrornomicon: Operazione Paura

17:23
In un momento in cui la tecnologia ci aiuta ad avere film iper realistici e in cui siamo sopravvissuti alla fase del torture porn, una scena ha abitato nei miei incubi per settimane, ed è una scena girata nel 1960.
Siamo ai primi minuti de La maschera del demonio, e una tale Barbara Steele viene accusata di stregoneria. Le mettono una maschera piena di spuntoni, e gliela martellano in faccia. Basta, nient'altro. Mi sento male solo a pensarci.
In onore di quella singola scena, e di tutte quelle che sono venute dopo, oggi parliamo dei due Bava, Mario e Lamberto, al cospetto dei quali è cosa buona togliersi il cappello e farsi il segno della croce.


Mario fa paura. Fa paura perché ha il fascino di quei grandi che fanno soggezione, perché lo amano tutti quello che lo hanno incrociato e perché ha lasciato un'eredità difficile da riassumere in un solo post. Ma soprattutto perché ha inventato tutto lui.
Per lo slasher? Suonare Bava.
Il primo horror italiano moderno? Ok, chiedete di Freda ma guardate che poi vi passa Bava.
Per il giallo all'italiana? Sentite Mario, ne sapeva qualcosa.
E scordatevi pure di Alien, senza Mario Bava.

La faccia di chi sta al Bar Italia a giocare a briscola col lambrusco

Ora, è chiaro che le cose sono sempre molto più articolate di così, ma quello che è stato Mario Bava nel cinema italiano è una sorta di miracolo. Noi lo abbiamo capito?
No, e infatti siamo noti per mandare tutto in vacca quando serve per poi svegliarci sempre troppo tardi. Mi perdonerete, quindi, se questo post sarà un'ennesima ripetizione di cose che ormai sono già note, ma per rimediare a tutte le volte che Bava è stato ignorato di post così non ce ne saranno mai abbastanza.

Tralasciando la poco utile critica al nostro Paese, torniamo a quello che ci interessa davvero, perché i geni non restano nascosti a lungo e il nome Bava, che nel frattempo aveva il meritato successo all'estero, adesso ha il prestigio che come minimo gli dobbiamo, se non altro per il modo incivile e barbaro in cui è stato trattato.
Non aveva un soldo, non aveva tempo, non aveva possibilità. Ma aveva una testa piena rasa di risorse, e ce le ha regalate tutte quante. Dopo anni a fare manovalanza per altri (non artigianato, che era una parola che non gli piaceva mica tanto), imparando dal padre, ha messo le sue sconfinate capacità al servizio della persona più importante, se stesso, e quando hai un cervello grande e una creatività ancora di più, i soldi contano un pochino meno.
E quindi, dicevamo, La maschera del demonio.
Una sola attrice, quella sconosciuta Barbara Steele che dopo aver conosciuto Bava diventerà l'icona che conosciamo oggi, una storia tratta da un racconto russo e tanto, tanto amore per l'orrore. La ricetta perfetta, un mix mortale che ha permesso ad un signore italiano con due lire in tasca di girare una scena (una tra le tante, ma converrete con me che quell'inizio lì non lascia scampo) che mangia in testa a tutti quelli che sono venuti dopo. Tutto il film è il capolavoro che sappiamo, ma siccome quella scena lì è da annali della storia del cinema allora continuo a citarla, sia mai che convinco uno solo di voi a mollare il mio piccolo blog e andare a vedere La maschera del demonio, il più grande gotico italiano mai girato.

Da lì in poi è stato un viaggio pieno di deviazioni. Bava ha fatto un giro nel peplum (no, non l'ho visto Ercole al centro della Terra, ma si dice che anche quello sia un miracolo di economia), nel western, nella fantascienza, nel giallo e nella commedia. Quando hai una testa grande così non c'è nulla che tu non possa fare.
Ma non solo puoi fare quello che esiste già, ti inventi pure grossomodo l'inventabile.
Perché se tiri fuori qualcosa come Reazione a catena, il più onesto e crudele ritratto della malvagità umana, poi è normale che la gente ti dica che lo slasher lo hai creato tu. Non è solo questione di uccidere tante persone in modo creativo, cosa che peraltro da queste parti apprezziamo sempre tanto, è che mentre lo fai ci parli dell'umanità, e il ritratto che ne esce non è esattamente lusinghiero. E oltretutto ci metti quel finale lì...
Eppure, con il reverenziale rispetto che una come me deve a uno come te, Reazione a catena non è il mio preferito. Io il cuore l'ho lasciato su Operazione Paura. Il folklore, le credenze popolari, le tue adoratissime finestre con le facce dentro...sarà che parla di un mondo rurale e credulone che conosco bene e che mi è familiare, ma l'angoscia della maledizione cittadina mi è rimasta dentro, e Melissa Graps popola le mie notti insonni.

Io lo so che credere che un film del '63 possa fare paura oggi fa storcere il naso quelli che vanno al cinema a vedere solo roba tipo Escape Room (nessun giudizio, a me piacciono da morire gli horror adolescenziali anche quando sono scemotti). Questo accade quando non si è visto I tre volti della paura, uno dei primi horror antologici, presentato da Boris Karloff in persona, che parte con una storia interessante, con qualche richiamino lesbo neanche troppo velato per sconvolgere le signorine perbene, prosegue con i vampiri che stanno bene su tutto come il nero, e si conclude con La goccia d'acqua, film tra le altre cose in 4d, perché la goccia scorrerà anche a voi, e sarà la pipì addosso che l'episodio vi farà fare dalla paura.
(è un caso che i Black Sabbath - titolo americano del film - siano l'unico gruppo metal che mi piace? crediamo di no)

La meraviglia però non si conclude con questi, che sono i film più famosi. Gli orrori del castello di Norimberga è un ritorno al gotico se vogliamo, che pur meno efficace del mitologico La maschera del demonio, è pur sempre una gioia per gli occhi. Bava nasce direttore della fotografia, e se anche internet non ce lo avesse detto lo avremmo capito, da quanto sono proprio belli i suoi film. Io lo so che 'bello' è l'aggettivo più odiato della storia, perché vago e poco argomentativo, ma i colori, i benedettissimi zoom, e la messa in scena dei film di Bava non sono altro che belli. Potrei stare qua a cercare turboparoloni da cinefilo dell'internet (gran pagina facebook, quella) ma son proprio piccoli quadri che rendono belle e aggraziate anche le morti più truculente. Lisa e il diavolo, il film del Nostro con la storia più infelice (violentato dal produttore per farlo somigliare a quel tale film uscito nel 73 con una bambina posseduta, forse l'avete sentito nominare) ma che nella sua versione originale era interessantissimo. Schock, invece, ve lo dovete guardare. Ma proprio tutto, dall'inizio alla fine, perché nonostante la Daria Nicolodi, che insomma non è la mia preferita, ha il miglior finale della filmografia del signor Mario Bava.
Ed è tutto dire.

Non di solo Mario, però, è fatta la famiglia Bava. Dopo nonno Eugenio e babbo Mario è arrivato anche Lamberto.
Ora, se tuo padre è uno di quelli che farà la storia del cinema italiano, e tu lo sai perché lavori a stretto contatto con lui da sempre (il maggior culo che potesse capitare ad una persona), ti tocca farti su le maniche e dimostrare che anche tu sai bene il fatto tuo. Lamberto, infatti, vuole fare l'orrore anche lui. Va benissimo, unisciti a noi, più siamo più ci divertiamo. Inizia con Macabro. E Macabro è un film di quelli che non ti dimentichi più.
Inizia con una tragedia dopo l'altra, prosegue con disperazione e follia e dolore e crudeltà e finisce con una mattata sovrannaturale che mette proprio la ciliegina sulla torta che è questo film. Ha proprio messo il carico da mille, Lamberto: bambini morti, necrofilia, disabilità, menti bruciate dal dolore. Non ha avuto paura nè di fare un mappazzone (che comunque non fa) nè di esagerare. Sono il figlio di Mario Bava e faccio come cazzo mi pare.
Vagli a dare torto.

La faccia da organizzatore di Festa dell'Unità

Ora, la strada di Lamberto è meno perfetta di quella del padre, ci sono incidenti di percorso più o meno rilevanti (quello Shark: Rosso nell'oceano che anche a L. stesso non piace facciamo che non è mai successo, ti amiamo molto comunque) che verranno sempre e comunque perdonati in onore della cosa migliore mai uscita dalle santi mani del Figliol Santo: Fantaghirò.
Non era mica una battuta. Io sono figlia degli anni 90, son venuta su a pane e Fantaghirò a Natale. Era il fantastico domestico, e gli sono molto affezionata.
Certo, poi c'è Demoni, e Demoni è tutto un altro paio di maniche...
Un film sporchissimo, cattivo da morire, gore, con effetti (di Stivaletti, non quello dell'ultimo banco) adorabili, e con la colonna sonora migliore di tutti i film dell'orrore italiani.
Demoni ha più di 30 anni e non ne sente nemmeno mezzo, un fumettone insanguinato che non ha perso un solo briciolo di fascino.

Io il cinema horror di oggi lo amo. Amo Flanagan e Aster, ho amato la prima parte degli anni 2000 con i loro West e McKee e non ho mai creduto alla crisi dell'orrore.
Però ci sono giorni in cui sento bisogno di qualcuno come Mario, di mantelli e colori sgargianti e di quell'eleganza nella regia che chi lo snobbava se la può solo sognare.
Altre volte ho bisogno di facce deformate e insanguinate, di sangue a fiotti e parolacce e versi animaleschi. E in quel caso Lamberto è lì che mi aspetta, a braccia aperte.
Che vita pazzesca deve essere, la sua.
E la mia, che posso continuare a divertirmi così.

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