martedì 18 ottobre 2016

Un lupo mannaro americano a Londra

12:07
Ah, i film iconici.
Tutti li hanno visti, tutti sanno di cosa si tratti, tutti li amano.
Io me la faccio sotto perché generalmente le cose cariche di aspettative mi mettono soggezione. Il mio percorso nel mondo dei film non è per niente lineare, guardo cose senza alcuna logica, nè seguendo il filone del 'questo è storico e va visto per forza', tanto è vero che centinaia di film cult non li ho mai visti e li guardo se e quando mi viene voglia.
Qualche giorno fa me ne è venuta voglia.
Come al solito, poi, mi è venuta voglia di parlarne e di conseguenza ho iniziato a farmela sotto ché parlare di cose Grandi e Importanti sul web spaventa sempre un po'.

Per chi, come me, è caduto ora sulla Terra, ecco chi è il lupo mannaro americano a Londra: è un giovane, capitato nella brughiera inglese per una vacanza con un amico, che ha uno sfortunato incontro con un licantropo. La sfortuna non è tanto quella di averlo incontrato, quanto piuttosto il fatto di essere sopravvissuto all'attacco.


Non ho mai subito in modo particolare il fascino degli uomini lupo, ma c'è un aspetto che li rende sempre molto interessanti: la colpa. I licantropi sono spesso torturati dal proprio 'dono', il senso di colpa è devastante, come se peraltro loro avessero davvero una qualche responsabilità.
Remus Lupin, da sempre uno dei miei personaggi preferiti dell'universo Harry Potter, ha rischiato di perdere l'amore della sua vita, perchè si ostinava a impedire la nascita di una relazione con l'adorata (anche da me) Ninfadora, a causa della sua natura. Come se tentativi di protezione dell'amata servissero a qualcosa. Se ormai ti amo sono già fregata, bello, ti conviene rassegnarti.
(Sì, la maggior parte dei miei riferimenti sono sempre ad Harry Potter. Confido che ci siate abituati.)
E così il povero David, come se tutta la vicenda fosse stata per lui una passeggiata, si ritrova in uno squallido cinema a luci rosse, circondato dalle anime di chi aveva perso la vita per mano sua. Tremendo. Non stupisce che poi si lanci a Piccadilly Circus disperato, cercando di porre rimedio all'irrimediabile.

Onestamente, non credevo che il film di Landis mi sarebbe piaciuto, un po' per disinteresse generale verso il tema, un po' perché non mi aveva mai ispirato particolarmente. È stato piacevole, per l'ennesima volta, essere smentita. Il film è di una leggerezza completamente inaspettata, per me che non ne avevo mai nemmeno letto un post a riguardo, o un articolo, e riesce con una grazia piacevolissima a passare da momenti davvero divertenti (senza pai passare per quel passaggio sgradevole in cui percepisci che si stanno tutti sforzando un casino di farti ridere) a momenti di reale sgomento. So che tutti amano la scena della metropolitana (adesso i post a riguardo li ho letti), ma a me sono state le visioni in ospedale a colpire di più, insieme alle varie comparsate del compianto Jack, di volta in volta più malmesso. Vedere l'amico perduto, con le sue nefaste profezie, non è stato proprio esattamente piacevole.


Come al solito, il cinema mi insegna che mettere da parte il mio snobismo non può che essere una buona idea. Aprire la mente all'inaspettato riesce ad essere una sorpresa continua. Non dico che da oggi il lupo mannaro americano sarà uno dei preferiti, non è così nonostante ne riconosca l'indubbia importanza, ma la simpatia che mi ha fatto è stata piacevolissima.


NB per il mio amicone Alessandro: Doc, sono QUESTI i lupi mannari che devi guardare! <3


domenica 9 ottobre 2016

Maripensiero: Guillermo Del Toro

14:04


Il Cinema è una di quelle cose, come l'arte in genere o i profumi, per esempio, che segnano le fasi della vita, sia di chi se ne dichiara grande appassionato sia di chi lo vive come un semplice svago. Non è un caso se da adulti ci ricordiamo ancora le canzoni dei film che guardavamo da piccoli.
(Garantisco che se li ricorda anche chi di cinema se ne frega, avrei qualche amico da citare ma confido che chi di dovere si riconosca!)

Una nuova, diversa, fase della mia vita è iniziata quando ho visto il mio primo film di Del Toro, quell'omone dal viso incredibilmente simpatico che oggi compie 52 anni. Una fase molto recente, eh, questo non è un amore che dura da una vita. È iniziata così: io e Riccardo abbiamo il nostro personalissimo cineforum, che ha sede sulla sua auto ogni volta che torniamo dal cinema. Un giorno mi dice che secondo lui mi piacerebbe tantissimo Il labirinto del fauno. Lo conosco solo di fama, mai visto. Riccardo, però, ha totale accesso alla mia mente, se vede una cosa sa immediatamente quale sarebbe la mia reazione a riguardo. Se mi dice di vedere il Fauno, quindi, io lo guardo. E la mia vita cambia.
(Credo di non averti mai detto che è tutto merito tuo. Grazie.)

A lui non è piaciuto granché, dice. Io lo so il perché. Non è vero che non gli è piaciuto, è solo troppo ferito. Io ci ho messo giorni a riprendermi, e ancora adesso vedere Ofelia mi lascia un macigno sul cuore. Esiste una recensione, qui sul blog, che ai tempi era piaciuta e che io ora mi vergogno a rileggere perché la odio. La strapperei, ma nessun post è mai stato cancellato dall'universo redroomiano e non inizierò certo ora. 
A film finito ho pensato che allora una dimensione adatta a me ESISTEVA. Solo che non l'avevo ancora trovata. Un mondo in cui la magia esiste, ma senza le bacchette magiche, in cui i colori non erano solo lì perché ci erano capitati, ma perché qualcuno ci stava giocando, in cui la mente e la fantasia sono IMPORTANTI, e non capricci di un bambino. 
Ho pianto fino a sentire i dolori alla pancia, la prima volta che ho visto un film di Del Toro, e se ad una persona sana questo può far dire 'Ok io di questo non vedo più niente' a me ha fatto dire 'Non voglio altro che questo'.

Palesato il mio entusiasmo a Riccardo, mi sento dire che è il turno di Hellboy.
Uououo, calma, che a me i supereroi stanno tendenzialmente sulle balle. 
'Ma no, fidati, guarda che è una cosa diversa.'
E nella mia vita entra anche un coso rosso molto grande con il sigaro e i gattini. 
Dopo di lui ci sono stati altri bambini, con i loro fantasmi reali o metaforici, vampiri, uomini pesce, generali, robottoni giganti, amanti sofferenti.
È troppo facile dire che i film di Del Toro sono belli. Lo sono, fine del post e ciaone con la manina. Lo sapete che non sono una tecnica, se volete che vi dica quanto e perché sia un bravo regista non è qui che dovete rivolgervi. Ricordo un post di Lucia in cui parlava di quanto fossero ben girate le scene d'azione di Pacific Rim, cercate lì, che io non ci capisco un cazzo.

Quello che a me ha lasciato interdetta è il filtro straordinario attraverso cui le persone come Del Toro interpretano il mondo. Lo stesso mondo che vedo io. Le stesse foglie degli alberi, le stesse risate dei bambini, le stesse notizie al tg. Vive come me, mangia come me (forse un po' di più, ma niente body shaming), suppongo espleti anche le mie stesse funzioni corporee. Eppure sembra che sia stato dotato di qualcosa che ai comuni mortali non è stato consegnato. Una mente incredibile grazie alla quale quella che io vedo come una bambina per lui diventa una principessa strappata al suo regno. È strabiliante. 
La Mari di qualche tempo fa avrebbe provato invidia per questo superpotere: quello di rendere magico il mondo. Oggi, sebbene non neghi che avere il cervello di questo signore non mi dispiacerebbe per niente, sono grata che ce l'abbia lui. Grata di essere nata in un'epoca in cui posso andare al cinema a vedere che cosa la sua mente stavolta ha fabbricato. Grata di poter accendere il pc, e di permettere ad un universo nuovo di entrarmi dentro e di rendermi un po' migliore, ogni volta.
Un po' più sensibile, un po' più aperta alle storie di chi mi circonda, un po' più umana, perché è proprio il fantastico, quando è così, che ti fa amare ancora di più la realtà.
Le persone come Del Toro (insieme a lui mi viene in mente il solito Neil Gaiman, per esempio) mi fanno credere che allora il problema non è il mondo, il problema sono io. Il mondo non è grigio, o triste, o monotono, o banale. Sono io che quando guardo un albero vedo solo un tronco con delle foglie, loro mi stanno insegnando ad aprire bene gli occhi, quelli che stanno dentro al cervello, perché dentro l'albero ci sta Doug Jones, e non è mica colpa sua se io non l'ho visto. 
Perché i segni del passaggio della principessa sulla terra sono visibili solo agli occhi di chi sa guardare, e dio solo sa quanto sono grata a Guillermo Del Toro per avermi insegnato a farlo.



martedì 4 ottobre 2016

#CiaoNetflix: Amanda Knox

15:40
La nostra splendida Costituzione dice (all'articolo 27) che si è considerati innocenti fino a condanna definitiva.
La nostra (a volte) miserabile popolazione dice che se compari in tv associato ad un omicidio, allora sei colpevole. E se ti assolvono è colpa della giustizia e dei poteri forti e delle scie chimiche.
Amanda Knox, per la quale nessuno di voi necessiterà di alcuna introduzione, mi è sempre stata di un'antipatia allucinante. E sì, anche io a volte sono scaduta nella trappola del 'È stata sicuramente lei'. Ma quanto mi ha affascinato il suo essere eletta super paladina delle vittime del sistema negli Stati Uniti! Arriva il documentario su Netflix, mi ci fiondo perché i documentari di Netflix > tutto il resto.


L'inizio è folgorante. La Knox, su sfondo grigio dice questa cosa che trovo pazzesca, e ve la riassumo: se sono colpevole faccio paura, perché non vi aspettereste che una così sia un'omicida, se sono innocente significa che tutti siamo vulnerabili. Quindi o sono una psicopatica o una di voi.
Qualunque sia la sua posizione, ha ragione da vendere perdio.

Prima di entrare nel merito del caso specifico, però, diciamo la solita cosa: Netflix ha una cura nel realizzare documentari che è impareggiabile. Sono quasi tutti medio-brevi (si parla di un'ora, massimo un'ora e mezza ciascuno), intensi, curati, appassionanti. Solo per questo varrebbe la pena di fare l'abbonamento. Le immagini sono quasi cinematografiche, e i toni non sono mai melò nè pedagogici. Splendidi e basta.

Torniamo al caso Kercher.
Il doc si propone semplicemente di raccontarlo, dall'inizio alla fine. Con chiarezza e completezza hanno preso tutta la vicenda e l'hanno completamente vivisezionata sotto i nostri occhi, partendo dalla tesi che ha dato a lungo Knox e Sollecito come colpevoli, arrivando alla sentenza di assoluzione definitiva, e spiegandocene le motivazioni. Come al solito non si prendono parti, si ascoltano le persone coinvolte, si leggono i giornali, si ascoltano i notiziari, si analizzano i documenti ufficiali. E la conclusione è che sì, a dispetto dell'opinione pubblica pare proprio che i due siano innocenti. La storia finisce così.

Quello che è successo nel frattempo, però, è che due vite ne sono comunque uscite rovinate (non parleremo di Meredith perché anche il documentario in questo è molto elegante e non si sofferma su qualcuno che non può dire la sua): i giornali di tutto il mondo hanno perlustrato vite private anche in quegli ambiti che ci piace tenere chiusi a chiave, il bigottismo universale si è palesato in tutta la sua gloria, rovinando l'immagine di una donna la cui sola colpa è stata, pensate un po', fare tanto sesso con tante persone.
E allora brutta Amanda, non sei seria, sei una zoccola (ma anche cagna ci piace tanto dirlo, vero?), devi per forza essere stata tu con quella mente da piccola pervertita che voleva fare il sesso strano e la povera Meredith non voleva e allora l'hai ammazzata. Trovato il nomignolo, l'umiliazione era ormai pronta e calda da essere servita. (Ma ci pensate se tutto il mondo vi chiamasse con il nick che vi eravate messi su social preistorici? Fuori allora i vostri nomi su Netlog, Myspace, 2.0, MSN, chè secondo me rideremmo tutti un po')

L'Italia non ne esce benissimo, va detto. Ci sono certe scene di perculo che mi hanno ferita, perché questo Paese lo amo tanto anche se a volte lo picchierei selvaggiamente. Credo che, alla luce di come si sono conclusi gli eventi, Giuliano Mignini (pubblico ministero colpevole di aver accusato la coppia) abbia fatto una bella figura a comparire nel documentario. È un uomo che ha sbagliato, e il cui errore ha causato sofferenza, ma che piuttosto che nascondersi e difendersi ha preferito comparire e dire le sue ragioni, con calma e consapevolezza.

Un tremendo lato dell'umanità si palesa, in Amanda Knox: i malefici media, rappresentati dalla ripugnante personalità di Nick Pisa. Questo, per tutto il tempo, parlando di una tragedia in cui, ricordiamolo, un essere umano ha perso la vita e altri due hanno fatto anni di carcere da innocenti, RIDEVA. Lo stavano intervistando su un caso storico di cronaca, su una pagina poco gradevole di storia, e questo sghignazzava, perché 'siamo fatti così', perché 'vedere il tuo articolo in prima pagina è bello quanto il sesso', perché 'è così che funziona il mondo delle notizie'. Ovviamente, non mi metterò a fare la stessa cosa che Pisa stesso ha fatto, ovvero la pubblica gogna. Il web ci sta già pensando da sè. Lui è parte di un sistema più grande, per cui se lui ha bisogno di questo per sopravvivere come giornalista (e se quindi la testata ha bisogno di lui) è perché noi, miserabili, di queste cose ci campiamo. Perchè siamo curiosi fino alla nausea, perché crediamo di avere il diritto di sapere, perché ne siamo lontani, e allora siamo dispiaciuti ma non ci fa male. E mi ci metto anche io, che mi sono guardata il documentario a pochi giorni dall'uscita, perché ne ero affascinata.

In ogni caso, fossi in voi lo guarderei comunque. Se non altro per imparare che ogni caso di cronaca con così tanta risonanza non è mai solo quello che sembra.

lunedì 3 ottobre 2016

Non solo horror: Una tomba per le lucciole

15:38
Oggi sono incazzata. Di quell'incazzatura che ti prende quando ti svegli alle 6 e alle 6 e 10 già vorresti finire in galera per omicidio. Quantomeno in galera non devi avere a che fare con chi ti fa girare così tanto i cosiddetti.
Così, qualcosa mi suggerisce che una giornata di merda ce l'abbiate avuta grossomodo tutti, quindi capirete lo stato d'animo che mi ha portata a sedermi sul divano, coperta con un plaid, tisana ai frutti rossi piena di miele (perché, come se i nervi scoperti non fossero sufficienti, ho pure il raffreddore da quelli che sembrano venticinque anni), gatti di fianco, e film di quelli capaci di farti piangere anche le lacrime che non hai.
E quando sto così solo il Ghibli mi può salvare.


Il film si apre con un giovane, Seita, che parla del giorno della sua morte. Dalla scena seguente ripercorriamo la sua vita, quella di un giovane orfano che deve occuparsi della sorellina Setsuko durante la Seconda Guerra Mondiale.

Io i film sulla Seconda Guerra Mondiale li odio, in linea di massima. Trovo sia impossibile fare qualcosa sul tema e che non sia un polpettone melò di quelli che non avendo altro puntano sulla disperazione. Sì, odio anche Schindler's list e La vita è bella. Mi urtano e basta.


Poi, però, è successo lo Studio Ghibli.
Come una specie di Attila al contrario, anziché distruggere al proprio passaggio, i film Ghibli hanno il potere quasi surreale di creare. Luce, emozione, parole. Il Ghibli stimola la creatività di chi si lascia trasportare dalla magia, e questo sempre, in ogni film, anche in quelli meno riusciti come Marnie. 
(Che poi, sia chiaro, con loro quando parlo di 'meno riusciti' intendo che sono comunque film incantevoli, qui si passa da 'capolavoro' a 'comunque film molto bello')
Per quanto nessuno dei film sia una semplice poesiola colorata per bambini, Una tomba per le lucciole riesce nell'impossibile. Far crollare me, detestatrice di film sulla guerra, in una pozza di disperazione come poche altre volte mi era successo. Ho pianto per ogni genere di film, nella mia vita, Interstellar mi aveva ridotto ad un pozzo singhiozzante. A volte ho frignato ascoltando Unconditionally di Katy Perry, e la canzone nemmeno mi piace. Qui, dove mi aspettavo di cadere in pianti a dirotto, non sono riuscita a versare nemmeno una lacrima.
Ho guardato il deperire di due esistenze, e non sono riuscita a piangere. La loro morte ci era chiara dal primo fotogramma, non è stato un subdolo colpo di scena. Eppure li abbiamo visti vivere, li abbiamo visti combattere per sopravvivere. E quanto questo sia stato difficile ci è mostrato senza alcuna censura: morti, botte, bombe, umana crudeltà. Non siamo certo di fronte ad un altro Totoro. Sapevo che mi avrebbe distrutta, e ci ho provato a non affezionarmi, a non empatizzare, perché ero stata avvertita. Ad un certo punto, però, Setsuko si toglie il cappuccio che la mamma le metteva, e svela una testa circondata da un caschetto nero come la pece, tagliato corto, con la frangetta densa. Che ci crediate o no, il taglio di capelli storico della Mari bambina.


In questo quadro di disperazione (che però non cade mai nel 'State piangendo, pubblico? Non ci siamo riusciti? Rincariamo la dose'), la guerra sta sullo sfondo. Presente, ogni tanto rimbalzata all'attenzione di chi guarda con un suono o un accenno, tanto per ricordarci perché siamo qui, in una grotta. Ma non è la protagonista, è solo la scusa per prendere i nostri cuori e farne qualcosa di diverso da quello che erano solo un'ora e mezza prima. Il mio, al momento, sta in un angolo, a leccarsi ferite autoinferte. Ha appena visto un film in cui apparentemente niente accade, ma in cui accade tutto.


Le immagini, cosa ve lo dico a fare, sono poesia. Non mi capaciterò mai di come possiate preferire l'animazione occidentale ad una cosa del genere. E la musica, con la solita dolcezza infinita, sembra non capire che stiamo vivendo il più grande dei dolori, e ci accompagna verso il lutto con una tenerezza che non fa altro che infliggerci sofferenza in più.


Sì, fiera delle banalità: la morte dei bambini è qualcosa a cui si fatica a credere, qualcosa che per nostra stessa natura non possiamo accettare. Il Ghibli ce la serve su un piatto dorato, facendoci ancora più male. E sì, sto continuando a premere sul pedale della sofferenza, perché oggi il Cinema mi ha ferito ancora una volta. Continuo a perdonarlo, come un'amante tradita che torna dal fedifrago. Fino a che esisteranno film del genere, io sarò qua a parlarne.

giovedì 29 settembre 2016

Streghe di Blair varie ed eventuali

18:42
Da quando il trono di Sfigheira mi è stato consegnato, me ne sono successe di tutti i colori.
Una su tutte: 
'Ah, quest anno faccio proprio la tessera del cinema, eh! Così risparmio e ci posso andare spesso!'
E quelli del cinema:
'Cosa dite, quei giganteschi e infiniti lavori li facciamo quest anno? Così niente di decente o anche solo accattivante verrà messo in tabellone?'
Fine.

Tutti state parlando del remake di The Blair Witch Project, che mi sarebbe piaciuto tanto vedere in sala. E io non ci posso andare.
Ergo, con fare risentito e conseguente pestata offesa di piedi per terra, eccomi qui, nell'amarezza di casa mia, a fare una minimaratona di streghe di Blair.

The Blair Witch Project (1999)


Tutto quello che sta 'dietro' al primo film della serie delle streghe di Blair mi piace da matti. L'idea, la quasi totale assenza di copione, i pochissimi soldi investiti, la strepitosa campagna marketing. Quando ne leggo in giro gongolo. Mi basta poco? Mi basta poco.
[Se non sapete di cosa sto parlando, eccovi serviti: il BWP parla di tre ragazzi che si avventurano nei boschi della fittizia cittadina di Burskittville, armati di un paio di telecamere, per realizzare un documentario sulle locali leggende a proposito di streghe, sparizioni di bambini, boschi infestati..]
Poi inizia il film, ed Heather inizia a parlare. Guardate, vi posso giurare che questo non inficia il mio giudizio sul film (a me BWP piace ed è sempre piaciuto, a partire dal titolo che amo), ma se non comunico per iscritto la mia ostilità verso questa DEFICIENTE rischio di esplodere. 
Gli errori sono umani. Sono entrati nel bosco, si sono persi, capita. Si sono persi seguendo le indicazioni di una tipa che si è detta convinta di sapere la strada giusta. Non ha minimamente preso in considerazione la possibilità di essersi sbagliata: lei sa la strada. L'errore è umano, ma se insisti allora ti meriti gli insulti in caps lock nei post degli sconosciuti su internet. Fin qui, potrei anche perdonarti, Heather. 
Poi, però, succede che Mike, in un momento di rabbia e sconforto, calcia via la cartina, e le loro possibilità di ritrovare la strada diminuiscono notevolmente. Idea geniale? No, ovviamente. Cosa fa Heather? Quella che, ricordiamo, non solo li ha condotti qui, ma ha anche contribuito attivamente al loro perdersi? Lo copre di insulti, urla, lo morde.
Allora sei pazza. Qual'è il tuo problema, bimba? Hai sbattuto la testa da piccola? 
Mike, ricordiamolo, è l'unico personaggio con reazioni umane fin dal principio. Ha paura, molta, è scoraggiato. Eppure riesce a difenderla quando Josh (anche lui giustamente incazzato nero) la aggredisce verbalmente ricordandole tutte le brillanti idee da lei avute nel corso del breve film. Poi la sento frignare che il film 'è l'unica cosa che le rimane' con quella detestabilissima voce che il doppiaggio italiano le ha donato e allora vorrei picchiarla. Ma picchiarla proprio forte. Il suo realizzare solo di fronte all'ovvio le sue responsabilità mi commuove tanto quanto mi aveva commosso quel coglioncello di Alexander Supertramp: per niente.
Aldilà del mio giudizio su Heather (che se mi conosceste sapreste essere applicabile ad un buon 80% delle persone che conosco), BWP è un bel film, di quelli in cui te la fai discretamente addosso pur vedendo poco e niente. È tutto buio e non ce ne dispiacciamo troppo. Non è tra i film che mi hanno sconvolta dalla paura, e non è nemmeno tra i miei preferiti, se vogliamo dircela. Però è un buon film, ogni tanto lo rivedo volentieri. E poi che i film finti amatoriali siano il mio feticcio è ormai cosa nota, e il mio guilty pleasure è nato da qui.

*Qua in mezzo ci andrebbe Blair Witch 2, che non ho alcuna intenzione di rivedere dopo essermi clamorosamente addormentata alla prima visione*

Blair Witch (2016)




Mi piace un sacco quando i remake/sequel sono così legati all'esistenza del primo film. Quando questo poi viene citato chiaramente scodinzolo allegramente.
L'introduzione quindi non può che piacermi: Heather, la deficiente di cui sopra, aveva un fratello minore. Questo, un po' ossessionato dalla sua scomparsa, parte con alcuni amici per tornare nel bosco di Burskittville e cercare nuove informazioni.
Che fai, non ce lo fai un documentario?
Ce lo fai, e speri che le giovini blogger di cinema della pauraccia non lo guardino subito dopo aver rivisto il tuo ispiratore. Perché se succede finisce che le blogger in questione a 35 minuti dall'inizio siano annoiate a morte, perché vedere ragazzi che camminano nei boschi e poco altro alla lunga può essere impegnativo.
Mi è piaciuta molto la tattica alla Lake Mungo: cosa che spaventa, sdrammatizzazione della stessa, poi la paura vera. Paura che effettivamente c'è, nella dimensione in cui un film con cose strane e indefinite che succedono nei boschi vi può fare paura. Sta anche un po' a sensibilità personale. Io, che sono piuttosto cagasotto, non mi sono sconvolta più di tanto, forse perchè le scene 'peggiori' erano state in parte rovinate dal trailer.
Stiracchiato il found footage, ma effetto mal di mare quasi scongiurato. Io, quantomeno, non l'ho sofferto.
Insomma, forse questa parte di post è piuttosto chiara anche nello 'stile': mi sono annoiata un po'. Ribadisco, BWP non è tra i miei preferiti della vita forever, però mi intrattiene con interesse fino alla fine, qua mi sono sentita meno coinvolta e meno spaventata.


Nei boschi, comunque, non prevedo di dormirci a breve. 

domenica 18 settembre 2016

New York Times By The Books Tag

18:18
Ho rubato un tag dal Tubo! Si può fare, dite? Rischio qualcosa?
Oh, si parla di libri, quando si parla di libri diciamo che il mio concetto di legalità si ammorbidisce un po'.
Mi andava di parlare di libri, di pubblicare un post rapido e leggero, e quindi qui siamo.
In quanto Tag dovrei taggare qualcuno, ma siccome parlare di libri è una delle cose più belle del mondo io spero che lo facciate tutti perché voglio parlarne con chiunque, sempre, ovunque. Rispondete anche qua sotto, va bene qualsiasi cosa.


1. Quale libro stai leggendo in questo momento?
Mai un solo libro per volta, stavolta è il turno di Infinite Jest di David Foster Wallace e La breve favolosa vita di Oscar Wao di Junot Diaz. Diversissimi ma sto amando molto entrambi. IJ più che un libro è un'esperienza di vita, ma di quelle gigantesche dopo le quali non si è più gli stessi. Oscar Wao parla di una famiglia dominicana esportata negli States, e lo fa con un tono leggero e brillante, infarcito di riferimenti nerd. Non è un romanzo gioioso (con un titolo così...) ma rispetto all'altro signore che sto leggendo è una passeggiata.

2. Qual è l'ultimo grande libro che hai letto?
Forse l'ultimo gigante (e ci aggiungerei una serie di parole in rima adeguate come devastante, estenuante...) è stata la Trilogia della città di K di Agota Kristof. Non so se oggi sarei in grado di rileggerlo, non amo le cose che parlano di guerra e onestamente nemmeno mi ricordo perché mi ci sono tuffata. Romanzo notevole, ma stancante.

3. Se potessi incontrare un grande autore - vivo o morto - chi sarebbe? Cosa gli chiederesti?
Scegliere uno solo è frustrante, però.
In questo preciso momento, data la mia fissa, direi David Foster Wallace, ma mica gli chiederei nulla. Starei a guardarlo, accenderei una miccia per farlo partire con un discorso e poi starei a guardarlo adorante. Vorrei conoscere quello che era il filo dei suoi pensieri, entrare in quel gigantesco cervello e lasciarmene affascinare ancora di più.
L'altro, ovviamente, Neil Gaiman. Il mio lettore ebook si chiama Neil perché se devo intitolare qualcosa di prezioso a qualcuno quel qualcuno è lui. (La mia macchina si chiama Joyce per la Oates, forse ho un problema.) Con Neil invece vorrei interazione totale, lo seppellirei di domande sulla nascita dei suoi prodotti, su come si siede al tavolo la mattina e dalla sua testa esce Coraline. Come funziona? Cosa senti nella testa? Parti dalle voci o dalle immagini? Ti viene più semplice creare dialoghi o immaginare mondi? Voglio sapere tutto.

4. Quale libro saremmo sorpresi di trovare sugli scaffali della tua libreria?
I mammuttoni della Newton Compton sulla cucina, quelli da 4,90€ l'uno:D
Ho un feticismo, mi piacciono da matti.

5. Come ordini la tua libreria?
La mi libreria è una cartella sul pc, leggo quasi esclusivamente in digitale.
I pochi libri fisici che ho conservato sono divisi per collana o casa editrice e in ordine di altezza decrescente.
Sul pc, invece, ho un ordine ossessivo compulsivo. Prima una divisione generica: classici, contemporanei, italiani, horror, saggi e romanzi in inglese. Ogni cartella poi è divisa di nuovo: provenienza dell'autore prima, e poi per singoli autori, mentre i miei booktuber preferiti hanno cartelle a loro riservate con all'interno i libri che hanno consigliato nei loro video.

6. Quale libro desideri leggere da sempre ma non l'hai ancora fatto? Quale libro ti vergogni di non avere ancora letto?
Io e il mio problema con i libri giganti facciamo la corte a Guerra e Pace da un bel po', soprattutto dopo il mio periodo di fissazione con Anna Karenina. Sta lì, pronto alla lettura, ma ancora non ci sono arrivata. Vergogna no, ho un percorso da lettrice piuttosto variegato, avrò tempo per tutto. Se mai uscirò viva da Wallace.

7. Deludente, sopravvalutato, semplicemente brutto. Quale libro avrebbe dovuto conquistarti ma non è accaduto?
Piano con le parole, però. Io leggo solo cose che al 90% mi piacciono, ho imparato a conoscermi. L'ultima volta che con infinito dolore ho lasciato un libro è stato Io sono il tenebroso della straordinaria Fred Vargas. Il grande dolore è dato dal fatto che si tratti del secondo volume di una trilogia, quella degli Evangelisti, il cui primo volume al momento è uno dei miei libri preferiti di sempre, con un primo capitolo indimenticabile. Il secondo non mi è piaciuto altrettanto e non l'ho finito, la delusione era cocente. Ma lo riprendo, non esiste che Vargas mi deluda, non è contemplabile.

8. Che tipo di storie ti attirano? Da che generi ti tieni lontano, invece?
Qualunque cosa: è più lo stile di scrittura che mi coinvolge piuttosto che un genere in particolare. Mi ritrovo a cercare spesso gli horror perché li sento sempre affettivamente vicini, ma non sono necessariamente il mio genere letterario preferito. Mi tengo lontanissima da romanzi d'amore (con quale presunzione qualcuno crede di poter davvero parlare d'amore? Anche i film non li tollero, con pochissime eccezioni) e dai gialli, di cui ho fatto indigestione al liceo. Oggi tollero solo Vargas.

9. Puoi far leggere un libro al Presidente. Quale sceglieresti?
Ho pensato al Presidente del Consiglio e ho pensato alla saga dell'Amica Geniale di Elena Ferrante. È ambientata a partire dagli anni '50, ma incredibilmente attuale, un ritratto dolceamaro dell'Italia del Sud, ma non solo.

10. Prossima lettura?
Ho in canna Il giardino dei Finzi Contini. Opinioni? L'avete letto?

Avanti, miei prodi. Parliamo di letteratura.

mercoledì 14 settembre 2016

Non solo horror: I Tenenbaum

16:58
Una gentile signorina mi informa su Snapchat dell'esistenza di questo angolo virtuale di paradiso: un Wes Anderson shop.
Ora, io di Wes da queste parti ho sempre parlato poco, vi basti sapere che guardo a lui con lo stesso sguardo sognante che riservo alle persone a cui vorrei rubare il cervello. Sì, vorrei il cervello di Wes Anderson.

I Tenenbaum è il suo terzo film. Parla di una famiglia, il cui nome è facilmente intuibile, perfettamente nella norma. Segreti, cose non dette, problemi, comunicazione assente, rifiuto, distanza. E poi parla di droga, di lutti, di talenti sprecati, di rimpianti. Ed è bellissimo.
Eppure non lo guarderò mai più.


Si avvisa la gentile utenza che siamo di nuovo a rischio post super personale e lagnoso e forse prolisso.

I Tenenbaum ha preso certe corte, toccato certi punti estremamente sensibili della mia vita, di quelli che non faccio toccare mai a nessuno e quelle poche volte che ne parlo rimango scossa per giorni. Parla di quando non si parla, di quando si danno per scontate le cose, di quando il passato è un'ingombrante presenza che macchia il presente con un alone indelebile. Parla di quando si rinuncia alla presenza di qualcuno e si va avanti come se questo qualcuno non fosse mai esistito.
Parla di quando ci si prova, a cambiare, a farsi perdonare, a lasciarsi alle spalle il passato per crearsi nuovi momenti, nuovi ricordi, nuovi abbracci. Perché secondo Wes, a quanto pare, non è mai tardi. Non lo so se sono tanto d'accordo con lui, perchè la famiglia è un universo vigliacco, di quelli che quando fanno male (e lo fanno spesso, e tanto) lo fanno per sempre, di quelli i cui traumi restano lì, in un angolino della mente, a torturare per tutta la vita. Ma quanto è difficile iniziare a parlare quando non lo si è mai fatto? Come si comincia dopo 30 anni ad avere un rapporto vero, di quelli in cui si dà all'altro accesso totale alla propria vita e non solo al 'Com'è andata oggi?' 'Tutto bene grazie'? 


Royal Tenenbaum mi ha spezzato il cuore. Il modo pacato in cui si è alzato da letto per preparare i bagagli dopo essere stato invitato ad andarsene da suo figlio mi ha preso l'anima e me l'ha accartocciata, perché guardo i figli Tenenbaum e dico a me stessa che vorrei essere come Richie, così ingenuamente buono e capace di perdono genuino, e invece sono una banalissima Chas, rancorosa e arrabbiata, piena di cicatrici, con nessuna capacità di farle guarire e pronta ad esplodere. 
Almeno fossi affascinante come Margot, invece niente.
L'ho guardato, Royal, e ho pensato che se la sua famiglia lo ha trattato in un certo modo un motivo ci deve per forza essere, chissà cosa ha fatto lui. L'ho visto sottolineare ogni volta come Margot non fosse effettivamente figlia sua, e l'ho visto distruggere i suoi sogni, dare loro poca importanza. E che abbraccio avrei dato alla piccola, quanto avrei voluto dirle che sarebbe stata bravissima e che doveva continuare a scrivere, perché scrivere è bello e dà gioia. E se anche fosse diventata una drammaturga mediocre chissenefrega. 
Poi però ho rivisto lui, rimasto fuori dall'ospedale, a cui è stata negata una visita al figlio in ospedale, l'ho visto solo al cimitero, l'ho visto finito. E ho pensato che l'amore non può essere questo, non può essere un uomo rimasto solo al mondo. 
Perché senza di me sei solo tu, ma senza di te sono sola anche io.
E questo mi ha fatto pensare ad una canzone di Ed Sheeran, si chiama Runaway e dice grossomodo così: I love him from my skin to my bones, but I don't wanna live in this home, there's nothing to say cause he knows, I'll just run away and be on my own.
Anche quella la ascolto poco.
Non credo che questo film mi trasformerà improvvisamente in quel bell'uomo di Luke Evans e nel suo Richie Tenenbaum. È più facile indossare ancora per un po' i panni di Chas, e sentirmi dire che tanto sono sempre arrabbiata. 


Non fatevi ingannare dalle mie parole, però: I Tenenbaum è bellissimo e delicato, ed è un film di Anderson, per cui è pacato e lento nelle immagini, con i colori famigliari e la carta da parati con le zebre. 
Solo che quando è così, quando tutto è così tranquillo e preciso e meticoloso, l'arrivo delle emozioni colpisce un po' più forte, e finisce per fare un male cane.
Ti voglio bene anche per questo Wes.

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