domenica 10 aprile 2022
venerdì 1 aprile 2022
Gli anni '30: Come sta il cinema?
Ci siamo, il cinema delle origini ha avuto i suoi due mesi di approfondimento ed è giunto il tempo di passare al decennio che ha formato il linguaggio del cinema di genere come lo conosciamo oggi.
Ho pensato di introdurre ogni decennio con un primo post introduttivo, per capire come se la passa il mezzo cinema a prescindere dal nostro genere di riferimento, per dare un'occhiata generale su cosa succedeva in tutto il mondo che ruota intorno a quello dell'orrore. Saranno proprio post di passaggio tra un decennio e l'altro, come al solito per approfondimenti e completezza rimando alle fonti che sono sempre in fondo ad ogni post.
Innanzitutto, cara Redrumia, grazie della domanda: il cinema sta un fiore. Mai stato meglio, stiamo per entrare in un decennio dorato. Vediamo perché.
Un micro contesto storico
Il decennio precedente si è chiuso con la famigerata crisi del '29. I primi segnali di una caduta sono arrivati l'anno prima, ma è nel '29 che hanno dovuto scavare per capire dove fosse finita la Borsa di New York. Il sito tuttoamerica.it attribuisce le responsabilità del disastro a speculazione esagerata, inflazione del credito, speculazioni in Borsa e distribuzione ineguale della ricchezza.
Il caos generato dalla crisi si è trascinato per almeno una decina d'anni, nonostante con l'elezione di Roosevelt nel '32 e con il suo New Deal si sia cercato di mettere una pezza. Se il caos è americano, però, diventa caos per tutto il mondo occidentale: prestiti internazionali, importazione ed esportazione, il recente trattato di Versailles...nessuno ne è uscito senza ammaccature.
Il cinema, però, trova sempre il modo di godere di queste circostanze complesse, e ne esce sempre vincitore. Offre da sempre una forma di evasione tutto sommato accessibile ai più, sfrutta le storie come breve momento per dimenticare o come metafore per analizzare e comprendere meglio quello che succede fuori dalla sala.
Prima di questo decennio, però, tutta una fetta di pubblico rischiava di essere tagliata fuori da questo momento di svago: chi non poteva leggere le didascalie. E quindi ecco la prima, immensa rivoluzione, che ha reso il cinema la più democratica delle arti: il sonoro.
L'avvento del sonoro
Se il cinema doveva offrire una scappatoia dalla realtà doveva però anche assomigliarle, rappresentarla al meglio, in modo che chi ne fruisse potesse riconoscere il mondo che vedeva rappresentato. Il silenzio imposto dai mezzi del cinema muto bloccava questa possibilità.
In realtà le prime produzioni sonore risalgono alla metà degli anni Venti, con quel Don Juan del '26 che tutti conosciamo ma che avranno visto in 6 compreso chi lo ha fatto, che però di sonoro aveva solo una componente musicale. La parola arriva con il successivo film dello stesso regista, Alan Crosland, Il cantante di Jazz.
Ovviamente questa ventata di novità portò con sé inevitabili problemi tecnici, che come tutte le cose nuove costavano una badilata di soldi ed erano un casino da gestire. C'era il modo di registrare i suoni, sì, ma si registravano tutti. Se qualcuno in lontananza parlava male del regista era un bordello, tutto registrato. Le macchine da presa facevano un casino infernale, e allora via a rinchiuderle in cabine insonorizzate. C'era ancora da imparare a gestire cose che oggi sono assolutamente scontate, come la sincronia labiale. L'abbiamo superata brillantemente sta fase, ma immagino i poveretti al lavoro per risolvere problemi mai visti prima. A loro, tutta la mia solidarietà: lo so raga, la tecnologia è molto bella finché ci lavorano gli altri.
Il sonoro segna la fine di un'epoca: quella in cui ogni proiezione era diversa dalla precedente. Il cinema muto portava con sé presentazioni e accompagnamenti musicali sempre nuovi e diversi, e questo lo rendeva ogni volta un'esperienza unica. Il sonoro universalizza l'esperienza, e segna una nuova epoca.
È pur vero che parlare in inglese porta con sé un'ulteriore limitazione: come lo esporti un film in cui nessuno capisce una fava? Per lo spagnolo era semplice: finito di girare una scena arrivavano attori nuovi madrelingua e rigiravano la stessa cosa nella loro lingua, sugli stessi set. A volte capitava che gli stessi attori girassero la scena più volte in lingue diverse (e questo spiega perché Stanlio e Ollio parlano in italiano ma con accento inglese, per esempio), ma per il doppiaggio vero e proprio dobbiamo aspettare la fine del decennio.
Con l'arrivo degli anni '30, ormai in America il muto è del tutto abbandonato: tutte le case cinematografiche di Hollywood si sono adattate alla novità, e nonostante diversi nomi popolari avessero manifestato un parere contrario all'innovazione, non ci fu modo di fermare l'ondata. Il cinema muto era destinato all'estinzione.
Lo studio system e il divismo
(ovvero il motivo per cui i post dei prossimi due mesi saranno divisi per case cinematografiche)
Ora, il problema del sonoro, oltre a quelli elencati su, era uno su tutti: costava un sacco di soldi. E quando ci sono i soldi in ballo cambiano tutte le dinamiche. Avere bisogno di più soldi vuol dire avere bisogno di qualcuno che te li dia, e se qualcuno ti dà soldi si prende potere. Signori, nascono i produttori.
Ora, è pur vero che ci sono sempre state figure come quella del produttore, ma fino a questo momento il loro potere era tutto sommato limitato. Con l'arrivo del sonoro il loro ruolo superava tutti gli altri. È lui che nomina il regista, che sceglie il cast, che sceglie quali film fare e quali scartare.
La componente artistica passa in secondo piano rispetto a quella industriale: se una cosa funzionava si riproduceva a catena, per trarne tutto il traibile. Nascono i generi: horror, commedia, musical, western, animazione e gangster. Venivano realizzati film sulla base di caratteristiche precise, che rientrassero in canoni facilmente identificabili ed etichettabili, con produzioni in serie e confezionamenti quasi meccanici.
Non fraintendetemi, nei prossimi due mesi avremo modo di vedere che le personalità di spicco del periodo sono state in grado di girare intorno al sistema e risplendere in mezzo alla produzione di massa, ma è pur vero che restare entro certi canoni di riconoscibilità era la strada del successo sicuro. E l'industria, in un periodo di crisi nera come quello che la nazione stava vivendo, non poteva permettersi di sbagliare.
È così l'avvento del sonoro a far sì che si ridisegni il sistema generale delle case cinematografiche di Hollywood. Se ne distinguono tre categorie. Ci sono le cinque major (Paramount, MGM, 20th Century Fox, Warner Bros. e RKO), le tre minor (Universal, Columbia e United Artists) e un sottobosco di produzioni indipendenti, quelle destinate a creare i film della seconda serata nelle double feature, le serate di doppia proiezione.
Lo studio system, che vede tutta l'industria basata sulla potenza delle case in questione, fa sì che a delineare lo stile del cinema non sia il singolo artista ma la casa per cui lavorava. Erano loro a dare il tono, a creare un paradigma collettivo che accomunasse i loro lavori. Di nuovo, occhio a quanto detto su, però, che chi voleva farsi riconoscere aveva modi e capacità per farlo.
Elemento di successo delle case era dato sì dalla propria impronta personale, ma anche da certi volti noti. Il fenomeno del divismo, che già negli anni '20 aveva posto le sue radici, è qui una delle armi più forti. Il divo o la diva erano la caratteristica più forte del cinema anni '30, la chiave di riconoscibilità immediata. È importante sottolineare che non è l'attore il punto, ma il personaggio-divo. Un mito che si ripeteva film dopo film, che nulla aveva a che vedere con la persona dietro il ruolo, ma solo con la riconoscibilità del personaggio portato in scena. Gli uomini imponevano lo standard della mascolinità, le donne erano la blueprint della femminilità, che a volte era imposta fin da bambine, con casi eclatanti come quello di Shirley Temple. Sarà interessante vedere, mano a mano che ci addentreremo nel nostro genere preferito, come ci siamo creati un Olimpo tutto nostro, fatto di persone e mostri che da allora non ci hanno lasciato più.
Il Codice Hays
Lo abbiamo già visto parlando della situazione italiana qualche settimana fa, ma è fenomeno mondiale: il cinema intimorisce i benpensanti. E siccome, lo ribadisco, è pur sempre di un'industria che si parla, era importante tenerseli buonini. Nel 1922 era nata la MPPDA (Motion Picture Productors and Distributors Association), un modo sicuro per, credo che possiamo dircelo serenamente, pararsi il culo, garantendo una sorta di legittimità morale delle cose portate in scena. A dirigerlo era Will Hays, presidente del, ehm, partito repubblicano.
Per garantire che tutti stesso tranquilli e dormissero sonni sereni ha creato un Codice che portava il suo stesso nome, che elencava una serie di norme da rispettare affinché il film fosse considerato accettabile. Vi riporto da Wikipedia i principi fondamentali:
- Non sarà prodotto nessun film che abbassi gli standard morali degli spettatori. Per questo motivo la simpatia del pubblico non dovrà mai essere indirizzata verso il crimine, i comportamenti devianti, il male o il peccato.
- Saranno presentati solo standard di vita corretti, con le sole limitazioni necessarie al dramma e all'intrattenimento.
- La Legge, naturale, divina o umana, non sarà mai messa in ridicolo, né sarà mai sollecitata la simpatia dello spettatore per la sua violazione.
Ovviamente la lista è ben più lunga di così: niente nudo, niente droghe, niente omosessualità, adulterio, niente sexo tra persone di RaZzE DiVeRsE, e così via. Insomma, il tono vi è chiaro.
Questo elenco di squisitezze esce nel '30 ma viene bellamente ignorato fino al '34, anno di vera e propria entrata in vigore, e anno in cui veniva richiesta una preapprovazione prima che il film approdasse in sala.
Come detto in precedenza, quando le cose vengono vietate agli artisti non resta che trovare modi creativi ed artigianali per girarci intorno, ma è impossibile negare che questo sia stato l'ennesima cancellazione del ruolo del regista, che ormai era quasi bassa manovalanza messa a creare film cercando in ogni modo di restare nei paletti imposti da studio e produzione.
Nonostante tutto, quella degli anni '30 è un'epoca tra quelle ricordate con più amore tra gli appassionati. Sono state poste le basi per tutto quello che vediamo in sala ancora oggi, e forse proprio a causa di tutte le limitazioni ricordiamo gli artisti dell'epoca con un po' di affetto in più.
Nei prossimi due mesi elogiamo chi, nonostante tutti i bastoni tra le ruote, ha portato il mondo dell'orrore al cinema, e ha cambiato la storia.
venerdì 25 marzo 2022
Il cinema muto: Don't step on it - it may be Lon Chaney!
Chiudere i due mesi dedicati al cinema muto è un po' strano e un po' un sollievo. Dalla prossima settimana tutto cambia, e il cinema torna ad essere un linguaggio più familiare.
Per chiudere questa prima carrellata nel nostro progetto sulla storia del genere che tanto amiamo, non poteva mancare un omaggio all'uomo che ha preso residenza nell'immaginario collettivo dal primo momento in cui ha messo piede su un set cinematografico e che non ha alcuna intenzione di lasciarlo a breve.
Come dice David J Skal nel suo The monster book, "The idea of Lon Chaney was everywhere", e forse è ancora così, a giudicare dal modo in cui parlano di lui le persone che lo amano.
Sarà impossibile nel 2022 scrivere un post innovativo sul signor Chaney e le sue mille facce, perché di lui si è detto e si continua a dire di tutto, ma in una rassegna che vuole ripercorrere la storia del genere più bello di tutti, non si poteva prescindere dalla sua fondamentale influenza.
La vita
La carriera di Leonidas Frank Chaney era segnata nel destino, se a questo genere di cose si crede, fin dalla sua nascita, nell'aprile del 1883, da genitori sordomuti. Usare il corpo per comunicare per lui non era un'arte, ma il modo più naturale di esprimersi.
E sì, se ve lo steste chiedendo: ovviamente era uno di quei bambini che mettono su spettacoli in casa coinvolgendo fratelli e familiari.
Non sorprende quindi che, alla prima occasione possibile, diventato grande a sufficienza, abbia accettato un lavoro da prop boy a teatro, grazie al fratello John. Il passaggio da ruolo dietro le quinte a stella dello show è piuttosto rapido, ed è in tour che conosce Cleva, la prima moglie.
Non sono solita discutere della vita privata dei personaggi di cui chiacchieriamo in questa sede, ma il matrimonio con Cleva è significativo non solo perché porterà alla nascita dell'unico figlio Creighton, in futuro noto come Lon Chaney, Jr., ma anche perché finirà in mezzo a scandali e rotocalchi, e questo metterà in serio pericolo la carriera del Nostro. Cleva, aka Francis Cleveland Creighton, era una cantante altrettanto famosa del tempo, che aveva problemi di dipendenza e diversi tentativi di suicidio alle spalle, e gli scandali legati a questa relazione hanno rischiato di insabbiare il successo teatrale di Chaney che, senza più una lira in tasca e con un bimbo piccolo in sua custodia da tirar su, va a bussare alle porte di casa Universal.
Da quel momento è leggenda. Più di 150 film girati in poco più di quindici anni, con una varietà di generi, vicende, situazioni narrate forse ancora oggi unica.
Eppure, della persona dietro al personaggio si sa e si è sempre saputo molto poco. Chaney ha sempre tenuto molto alla sua riservatezza. Di rado si è presentato alle prime dei suoi film, anche di quelli che ha combattuto in prima persona per realizzare, ancora più di rado ha lasciato interviste. Eppure il mondo era affamato di lui, dei suoi volti: era sulle copertine dei giornali, soprattutto di quelli dedicati agli esordi del cinema di genere, era nel linguaggio popolare, era ovunque e nessuno lo sapeva. Davvero, l'idea di Lon Chaney era ovunque. Ha messo per tutta la carriera i suoi personaggi davanti a se stesso, lasciando che fossero loro a parlare per lui.
Capita spesso, leggendo di lui in giro, che le persone che hanno avuto la fortuna di averci a che fare parlino di lui come di un regular fellow, un tizio qualunque. Altrove si fanno supposizioni su un possibile brutto carattere, su un'eccessiva severità con il figlio, su una personalità troppo dura, sull'invidia che suscitava quotidianamente in Carl Laemmle.
Sappiamo solo che, da brava persona di origini umili, ha sempre saputo che il suo tempo valeva caro, e in carriera ha fatto scelte uniche per l'epoca e molto coraggiose, lasciando la sicurezza di una grossa casa come Universal per darsi al lavoro da freelance, e arrivando a guadagnare cifre da capogiro. Non che abbia mai avuto un grande desiderio di ostentazione, però. Ha mantenuto uno stile di vita modesto, ma ai grandi capi di Hollywood ha portato via tutto quello che ha potuto.
Poco importa quello che si sa o meno, in realtà, e sicuramente poco importava a lui: con 150 film all'attivo, c'è ben poco altro da aggiungere.
Chaney muore nel 1930, solo due mesi dopo l'uscita del suo unico film sonoro, una riproposta del suo celeberrimo The Unholy Three con l'aggiunta di dialoghi. Ci ha detto tantissimo, non dicendoci nulla, e sebbene sarebbe stato interessante vederlo lanciarsi nella sfida del cinema sonoro, ci ha fatto alzare da tavola sazi: non gli serviva altro, per essere la leggenda che era.
I film
In questa playlist sul muto americano potete trovare alcuni dei film più famosi.
Se avete visto le storie di instagram di qualche giorno fa, saprete che sto per lanciarmi nell'ennesima polemica. Ho letto un testo, che riporterò nelle fonti. Lo scrive Michael F. Blake, il biografo ufficiale di Chaney, che oltre ad un testo strettamente biografico ha scritto anche questo che ho letto io, che si occupa più nello specifico della produzione cinematografica. Sia chiaro, da quel punto di vista è un testo ottimo perché riporta parte della corrispondenza dell'attore con il proprio agente, espone nel dettaglio problematiche e vicende che hanno portato alla nascita di alcuni dei lavori più famosi e da un punto di vista strettamente "tecnico" è molto interessante, e offre interessanti dietro le quinte del mondo del cinema degli anni '20. Però si apre con questa frase: "Lon Chaney was not an horror actor."
Non solo, il signor Blake cita questa questione ogni volta che viene interrogato sul suo prediletto, e nel corso del testo in questione ci tiene a sottolineare diverse volte quanto sia degradante per la carriera di Chaney dargli una definizione così limitante. Poi applica la stessa problematica a Boris Karloff e su quello non mi esprimo nemmeno perché si fa giudicare da sé.
Ora, se è pur vero che Chaney non si è mai limitato ad un genere soltanto, che per tutta la vita ha spaziato ed esplorato le mille possibilità che il suo corpo gli poteva offrire, io me lo rivendico come attore dell'orrore. E non lo faccio solo io, che nel 2022 ho modo di vedere le immense influenze del suo operato in tutti quelli che sono venuti dopo, o di sentire direttamente make up artist e trasformisti ispirarsi tutt'ora a lui, ma la comunità del cinema di genere, che era acerba e si stava appena formando, se lo è adottato da subito. Ogni "rivista di mostri" aveva Lon Chaney in copertina, parlava di Lon Chaney, bramava Lon Chaney.
Il cinema di mostri era già nato. C'erano già i vampiri, i Jekyll e Hyde, le creature infernali. Qualche folle aveva anche cercato di portare al cinema L'isola del dr Moreau. Il mostro, però, era cattivo, estraneo, foriero di cattive nuove.
Il mostro di Chaney è il primo ad essere portatore di sentimenti umani. Quando sfocia nella "mostruosità" effettiva, e non si limita per esempio al trasformismo come per esempio nel sopracitato The Unholy Three, attribuisce alle sue creazioni una componente umana così potente che è diventata rivoluzionaria.
Parlare di ognuno dei lavori di Chaney è impensabile in un solo post, ma a proposito di questo dobbiamo per forza parlare del mio preferito, che non poteva che essere altri che Il gobbo di Notre Dame. Dico "per forza" perché quella di Quasimodo ed Esmeralda è una storia che amo moltissimo in ogni sua versione, è proprio una parte del mio cuore. Il film lo ha voluto così tanto da spedire il suo povero agente in giro per mezza Hollywood per trovare qualcuno che lo girasse alle sue condizioni, francamente ridicole. Ma lui aveva una visione ben chiara in mente, serviva solo qualcuno che gliela finanziasse.
La genesi del film sul Gobbo è combattuta; gli storici ne danno tutta la responsabilità a Irving Thalberg, personalità di spicco di Universal di cui a partire dal mese prossimo parleremo più approfonditamente, Blake ne dà ogni merito a Chaney. Nel testo citato su troverete i dettagli sull'argomento, ma quello che mi interessa qui è quello che è successo quando il film, alla fine, si è riusciti a farlo. Una produzione esorbitante, costosissima e logorante, così notevole che tra gli addetti ai lavori cominciò a girare un giornaletto pieno di aggiornamenti sulla lavorazione e inside jokes che si chiamava The Hunchback Illuminated, tanto per consolarli dalle tremende nottate al lavoro che si stavano facendo.
Il risultato oggi non è così amato come si potrebbe pensare data la fama che lo precede. Sono diversi gli articoli che lo vedono come un buon prodotto solo grazie alla performance di Chaney. Il mio giudizio è di parte, trovo che questa storia sia sempre straordinaria, appassionata, dolorosissima e la amo anche in questa versione, ma è indubbio che questo Quasimodo, costruito su misura dal suo interprete basandosi su illustrazioni originali di Hugo e sulle descrizioni del romanzo, sia la cosa più potente. Quasimodo è mostruoso, ripugnante, ma non c'è un solo momento in cui il pubblico non soffra per lui, in cui le sue movenze storte e la sua lingua sempre fuori a inumidire le labbra suscitino sentimenti diversi dall'umana compassione. Quasimodo, nella sua rappresentazione estrema, è la base del diverso, il mostro che prima di tutti ci insegnato che la mostruosità è componente fondamentale dell'esperienza umana, e pone le basi per uno degli elementi più ricorrenti di Chaney: l'amore non ricambiato. I suoi mostri hanno cuore caldo, sono appassionati, guardano alle donne con bramosia e puntualmente sono rigettati. Anche quando per le donne arrivano a sottoporsi alle peggiori mutilazioni (come ne Lo sconosciuto). Il suo Erik, per fare un altro esempio, tanto celebre quanto ancora non citato in questo post, è un uomo rovinato prima di tutto dalla società, e infine dall'amore. Ed è anche il solo Fantasma dell'Opera che non ha sentito il bisogno di dover giustificare il suo aspetto: è così e basta.
È con il suo Quasimodo che nasce anche la leggenda delle torture che Chaney infliggeva al suo corpo per entrare nei panni dei suoi personaggi. Occhi tenuti spalancati, braccia tenute legate al corpo, pesi sulle spalle che impedivano la postura eretta, denti dolorosi. In un mondo in cui la cgi non era contemplata, c'erano solo due modi per avere aspetti mostruosi: il make up e gli artigianali attrezzi del demonio che non solo non intimorivano il nostro ma che anzi si creava da sé, con sorprendente iniziativa e artigianalità. Leggenda narra che non fu solo la sua bravura a trascinare la gente a vederlo al cinema, ma anche la genuina curiosità di scoprire a cosa si sarebbe spinto. Un pochino intrigati dal dolore lo siamo sempre stati.
Questo, signori miei, lo fa un attore dell'orrore.
Certo, lo fa anche un attore americano degli anni '20, costretto ad assistere ai suoi coetanei di ritorno da una guerra che quelle stesse mutilazioni che lui ricreava le avevano davvero. E allora, forse, ad attirare al cinema era anche la voglia di ritrovare qualcosa di simile a sé, qualcosa di familiare, per cui poter tornare a casa e forse un po' accettarsi in un corpo nuovo e provato. Il suo essere mutilato lo rendeva l'uomo qualunque, distrutto dalle circostanze, dalla società, dalle persone che lo circondano. Ah, l'importanza della rappresentazione...
Parlando di lui, il sopracitato Thalberg dice:
He was great, not only because of his God-given talent, but because he used that talent to illuminate certain dark corners of the human spirit. He showed the world the souls of people born different from the rest, because he himself was bornof parents who were different.
Oggi lo sappiamo, che la diversità è parte naturale dell'umano, e stiamo lavorando affinché diventi un concetto scontato, ma Lon Chaney aveva iniziato a mostrarcelo un secolo fa, zoppicando sotto gobbe, ghignando dietro sorrisi dolorosi, levandosi maschere spaventose.
Avesse avuto più tempo, chissà di quanti altri mostri ci avrebbe mostrato l'anima, di quanti umani avrebbe evidenziato i lati oscuri, e di quanti amori avrebbe mostrato la triste sorte. E io me la sarò pure legata al dito, ma queste cose le fa proprio un attore dell'orrore.
Le fonti di questo post:
(I link segnalati con un * sono link affiliati Amazon. Se i testi vi ispirano e li acquistate tramite questi link prendo una piccola percentuale, ma all'acquirente non costa nulla! Grazie se lo farete. Fine spazio pubblicitario.)
* Rondolino G., Tomasi D., Manuale di storia del cinema, UTET Università, 2014
* Blake, M. F., A thousand faces: Lon Chaney's unique artistry in motion pictures, Vesteal Press, 1997
* Skal, D.J., The monster book. Storia e cultura dell'horror, Cue Press, 2020
* Gifford, Denis, A pictorial history of horror, Book sales, 1973
Una rara intervista a Chaney su un numero di Movie Weekly
Feast Your Eyes! The terrifying genius of Lon Chaney - documentario su Youtube (in questo doc si può ammirare lo splendido modo in cui si esprime Doug Jones e l'eleganza con cui gesticola. Se non lo si poteva amare più di quanto già lo amavo prima...)
venerdì 11 marzo 2022
Il cinema muto: dalla Germania agli USA - Paul Leni e gli altri
Il modo in cui mi sono lasciata per ultimo l'Espressionismo Tedesco dandomi così modo di fare un post di collegamento tra USA e Europa mi commuove quasi. E io il post lo avevo lasciato ultimo solo per farlo la stessa settimana della live su Nosferatu, quindi posso commuovermi per la coincidenza perché non ne ho alcun merito.
Questa settimana vediamo come il cinema dell'orrore (ma anche il cinema tutto) sarebbero stati radicalmente diversi se la Germania degli anni '20 non avesse fatto schifo e non avesse costretto tanti dei suoi talenti ad andarsene dall'altra parte dell'oceano.
Come al solito, c'è una playlist sul mio canale youtube, che trovate a questo link.
* Rondolino G., Tomasi D., Manuale di storia del cinema, UTET Università, 2014
Out of Many, One: European film-makers construct the United States
* Tortolani, E., Norden, M., Refocus, The Films of Paul Leni, Edinburgh University Pr, 2021
venerdì 4 marzo 2022
Il cinema muto: info veloci per fare bella figura con quell* tip* del Dams con cui ci vuoi provare parlando dell'Espressionismo Tedesco
Lo sapevo che questo momento non poteva ritardare troppo. Ho cercato di procrastinare e rimandarlo il più possibile, ma non potevo iniziare il secondo mese dedicato al cinema muto con qualcosa che non fosse l'Espressionismo Tedesco, la prima e forse l'ultima volta fino ai tempi recenti in cui il cinema dell'orrore è stato considerato come una cosa seria da persone intellettuali. Lungo il post capirete perché ho aspettato proprio questa settimana.
Poiché questo è forse il movimento più chiacchierato e studiato di sempre, metto le fonti ad inizio post. Internet è ricolmo di informazioni sui tedeschi più famosi di sempre, io mi limito a farne un post giusto per dovere di completezza e che butto in caciara giusto per non soccombere all'ansia. Vi lascio però una serie di testi (seri, giuro) che possono interessarvi se volete approfondire quello che l'Espressionismo è stato per il cinema tutto.
Come sempre, i link con l'asterisco sono affiliati Amazon. Se acquistate da questo link io prendo una piccola percentuale che mi può aiutare a proseguire in questa missione nella storia. Grazie se lo farete!
* Rondolino G., Tomasi D., Manuale di storia del cinema, UTET Università, 2014
* Kracauer, Siegfried, Da Caligari a Hitler. Una storia psicologica del cinema tedesco, Lindau, 2007
Questa intervista di Friedkin a Fritz Lang
Perché proprio in Germania?
Prima della Prima Guerra Mondiale non interessava troppo agli amici tedeschi il cinema. Erano un po' in ritardo rispetto al resto d'Europa, c'avevano le Cose Serie da fare. Tra le Cose Serie, una guerra da scatenare (scherzo, lo so che le cose sono più complesse di così, ma possiamo ammettere in tutta serenità che i tedeschi rompevano i coglioni a tutti), che poi hanno finito per perdere in maniera proprio bruttarella e lasciando la popolazione inguaiata e con anche una stima ai minimi storici per l'autorità. Ci stupisce? No, noi stiamo ancora a quel punto qua, figuriamoci.
Come sopravvive il popolo a tanto dolore? Con gli strumenti che ha: magia, misticismo, credenze popolari, fantasia, irrazionalità. Sorprende quindi che sia proprio un movimento come l'Espressionismo a nascere in questa fase?
I tedeschi non avevano più una lira, ma la cosa al cinema andava benissimo così, e il motivo è semplice: per prima cosa si esportavano i film a prezzi concorrenziali (e la storia ci insegna quanti film abbiamo salvato solo grazie all'esportazione), e soprattutto la gente aveva già capito che l'evasione a poco prezzo che il cinema poteva offrire è salvifica quando tutto il resto della vita è da prendere e buttare nell'umido. Del resto la storia delle storie è la più vecchia del mondo: ne abbiamo bisogno da sempre.
In Germania quindi succedono due cose: il governo blocca l'importazione durante degli guerra (e quindi se vogliamo i film ci tocca farceli) e nasce una casa che ci regalerà la gran parte delle cose di cui parleremo in questo post, la UFA, il cui nome completo non scriverò perché il tedesco non è una lingua, è una condanna a morte.
Insomma, se qualche silver lining in quella montagna di merda che è stata la prima guerra mondiale vogliamo trovarlo, questo è il cinema tedesco.
Sì ma l'Espressionismo cos'è?
Lo sapete cosa so io di storia dell'arte?
Nulla, manco studiata al liceo perché io ho fatto un liceo della mutua. Quindi vi riporto una definizione bella a modino di Film Inquiry:
German expressionism was an art movement that began life around 1910 emerging in architecture, theatre and art. Expressionism art typically presented the world from a subjected view and thus attempted to show a distorted view of this world to evoke a mood or idea. The emotional meaning of the object is what mattered to the artist and not the physical reality. While already making waves in the art world, expressionism would really come into its own when expressed in cinema.
Per metterla giù un po' più concreta: si usano, nell'arte come nel cinema, segni distorti, che esasperano i sentimenti, ignorando in maniera spudorata il buonsenso e la logica. A noi quella roba non piace, lasciate il realismo ai noiosissimi italiani. Per fare degli esempi di cosa si intende quando si dice così, se li volete riportare alla vostra crush del Dams, la soluzione è guardare Caligari, che sarà pure scontato ma è quello che fa sempre fare bella figura.
Il dr. Caligari e il suo gabinetto sono un'esperienza cinematografica unica nella sua specie, come La passione di Giovanna d'Arco era stata la scorsa settimana. Io ho avuto la fortuna sfacciata di poterlo vedere in un cinemino con gli studenti di Musicologia che suonavano dal vivo, e non assomiglia a nient'altro. Ne Il gabinetto del dottor Caligari il ritratto fedele del mondo viene volentieri sacrificato in favore di scenografie che contribuiscano a costruire anche in noi poveri spettatori ignari la totale alterazione della realtà. E del resto parla di ospedali psichiatrici e di persone instabili, non poteva che renderci il più possibile simili a loro. È tutto storto, allungato, dalle mie parti si dice che è tutto di bighega. Se avete poco tempo per prepararvi all'appuntamento, vedete lui e basta, che tanto è di quello che si finisce sempre a parlare. Poi dipende tutto dalla persona che avete davanti, ma se volete fare i goliardici e suscitare forti reazioni, buttate lì che solo Shutter Island ha reso giustizia al film di Wiene, e guardate la rivolta dell'intellettuale medio iniziare.
Per Roger Ebert è lui, Caligari, il primo vero film dell'orrore. Ormai abbiamo visto che la storia è ben più complessa di così, ma è indiscutibile che abbia segnato un punto di svolta senza precedenti.
Certo è che Caligari è un film parecchio pessimista, cinico, infelice. E il fatto che sia anche questo lo rende un ottimo portavoce di tutto il movimento, che di sicuro non è caratterizzato dalla profonda fiducia in un futuro migliore. Lo sconforto regna sovrano. Prima della triste storia di Cesare e Franz, c'era stata quella di Balduin, e già se parlate di lui che è meno noto al grandissimo pubblico un paio di stelline con la crush me le guadagnate. Balduin è Lo studente di Praga, un infelice poveraccio che si innamora di una donna che non si può permettere di desiderare. Balduin e la sua storia ci permettono di aprire un milione di temi, ma ne vediamo solo due. Il primo è Paul Wegener, ma su di lui torniamo dopo. Il secondo è uno dei temi ricorrenti dell'Espressionismo: il doppio. Balduin per avere soldi facilmente cede ad un misterioso individuo il suo riflesso allo specchio, e non esiste al mondo un solo caso in cui la faccenda si possa risolvere felicemente. La storia di un amore triste, di un'ambizione punita, di un futuro bruciato, che Stellan Rye racconta è un esempio molto classico del movimento tedesco, perché pur non arrivando mai agli estremi estetici dei suoi film più celebri è un ottimo riassunto di tutti i suoi temi principali: il patto con il diavolo (o con chi per esso), la perdita dell'identità, l'ineluttabilità del proprio destino. Non ci sono quasi mai creature soprannaturali, in questo cinema, il terrore deriva dal perdersi, dal vendersi, dal non sapere più chi si è, e davvero non stupisce che sia così, in un momento di identità nazionale così compromessa come può esserlo solo dopo una guerra da cui si è usciti distrutti.
Sono le persone smarrite ad essere le protagoniste, le persone che non riconoscono più se stesse, come il protagonista de Le mani dell'altro, un pianista che perdendo le proprie mani perde anche la propria identità. Gli vengono donate le mani di un assassino condannato a morte poco prima, e la faccenda giocherà brutti scherzi alla sua psiche compromessa. Ora, ci siamo detti che in questo periodo serviva evasione, serviva allontanarsi dal reale per respirare un po'. Questo è vero, ma solo per un po': non si poteva lasciare la sala credendo che avere delle nuove mani installate al posto delle proprie rendesse un mostro, così come non si poteva lasciar credere che esistessero medici pronti a far uccidere le persone ai loro pazienti sotto ipnosi. Nascono così alcuni dei finali più sconvolgenti e oggi noti del cinema, in cui con un twist si riporta tutto al piano della realtà: ti sei divertito con la storia di Cesare? Perfetto, però ricordati che è il frutto della mente di un folle. E le mani del povero Orlac? Solo un piano diabolico congegnato per estorcergli denaro. Perché va bene divertirsi ma sempre entro un certo limite.
I personaggi chiave, un mini elenco per distinguerli
che faccio in elenco puntato perché davvero, per parlare di tutti in modo approfondito avrei dovuto mettermi in malattia al lavoro
- Robert Wiene. L'abbiamo già citato più volte e sarò breve: è il regista di Caligari e di quello sulle mani del pianista, Le mani dell'altro. In realtà ha una bella lista di produzioni, ma per far bella figura sono sufficienti il suo capolavoro e, se proprio volete esagerare e unirci il bonus letteratura russa, che fa subito anima impegnata, ha fatto un adattamento da Delitto e castigo nel '23, che si chiama Raskolnikow.
- Fritz Lang. Nel post non abbiamo ancora citato lui e i suoi lavori, ma è bene che prima dell'appuntamento almeno vi leggiate la sua wiki perché lui funziona molto, fa subito presa. Lang lo distinguete dagli altri perché è quello della fantascienza, del thriller. Quando si dice che il noir deve molto all'espressionismo, è a Lang e al suo cinema che ci si riferisce, di solito. Anche perché è vissuto talmente tanto che è finito anche temporalmente a farli davvero, i noir, non solo a ispirarli. Di lui sicuramente parleremo più volte nel corso della rubrica, fatevi un post it che ci torniamo, cos' avete di che parlare anche al secondo appuntamento.
- Conrad Veidt. Questa volta un attore e non un regista, Veidt è il volto di Cesare, quello della foto su in cui evidentemente sta un fiore, ma in realtà sta ovunque. È il pianista già più volte citato, è il Balduin innamorato nel primo remake dell'originale, ma sta anche in Il gabinetto delle figure di cera, La testa di Giano, nel Satana di Murnau, ne L'uomo che ride. Più di tutti, forse, rappresenta l'Espressionismo perché, semplicemente, gli ha dato un volto. Il Christopher Lee dell'Espressionismo Tedesco, che sta ovunque e sta sempre, sempre bene.
- Paul Wegener. Con lui andate sul sicuro, non potete confonderlo: è quello ossessionato col Golem. Ma quanto gli piaceva, a Paul, il Golem, una roba proprio incredibile. Wegener era il Balduin originale, e dopo questo successo produce e interpreta (ma anche co-produce e co-dirige, perché era proprio la sua storia prefe) un primo film sul famigerato mostro d'argilla della tradizione ebraica. Si chiama Der Golem, e siamo nel '15. Lui fa proprio la creatura. Si diverte così tanto che tempo due anni ne fa una parodia, ma li abbiamo persi entrambi perché la vita fa schifo. Ritorna sul suo personaggio nel '20, con l'unico film della trilogia che è arrivato a noi, un prequel: Il Golem - Come è venuto al mondo, noto al pubblico italiano anche con il pregevolissimo titolo di Bug - L'uomo d'argilla. È un film magnifico che parla sì di leggende e folklore ma anche e soprattutto di soprusi, antisemitismo e segregazione.
Il grande assente
È sotto gli occhi di tutti che in questo post manchi uno dei più grandi esponenti dell'Espressionismo, Murnau. Non è un caso, ovviamente. Oggi, però, il 4 marzo 2022, il suo film più famoso, Nosferatu, compie cento (CENTO) anni, e ieri sera per celebrare questa occasione che ci è parsa un pochino dimenticata, io e il mio amico Sauro, che potete leggere a questo link, abbiamo deciso di farci su una bella chiacchierata su Twitch, che se vi fa piacere vi lascio qui sotto.
Io naturalmente in questo post sono stata sintetica e stupidella, perché l'Espressionismo è un fenomeno a cui la gente dedica anni interi di studio che in nessun modo potevano essere riassunti in un post solo. Però non mi sarei mai sentita a posto con la coscienza se non avessi almeno detto due parole in croce sul tema, e soprattutto se non avessi reso giustizia a Bug, l'uomo d'argilla.
venerdì 25 febbraio 2022
Il cinema muto: Dreyer e la Scandinavia
Ogni volta che il cinema scandinavo ha 5 minuti da riempire, brucia una strega.
Così sembra avere detto Elizabeth Dylis Powell, storica critica cinematografica del Sunday Times, parlando de Il settimo sigillo.
Dylis Powell non aveva torto. Di streghe temo che ne abbia bruciate un bel po' tutta l'Europa, ma l'entusiasmo con cui la cosa è stata messa in scena nelle fredde terre del nord è insuperato.
Certo non è un caso. Lo è mai? La Scandinavia è stata una delle ultime regioni a convertirsi al cristianesimo, e aveva una cultura pagana potentissima. Uno dei principi fondanti della SaNtIsSiMa religione cristiana è il perdono, concetto interessante da cercare di inculcare in una cultura, quella pagana del nord, in cui il valore principale era la sana vendetta. Non stupisce quindi che, una volta inculcati i valori della nuova religione, esistesse un grande timore che rispuntassero quelli appena abbandonati.
E come li rappresentiamo, questi vecchi e crudeli valori, se non con le donne?
Ecco allora che ci cacciano dueoredue di documentario muto sulla stregoneria, che mescola finzione e intenti documentaristici, e diventa una delle più famose produzioni dell'epoca: La stregoneria attraverso i secoli è un lavoro gigantesco del 1922, che trovate nella playlist linkata su, di Benjamin Christensen (Lucia, se mi leggi: prometti che non faremo mai una stagione di Nuovi Incubi su svedesi e vicini di casa perché mi rifiuto di dire i loro nomi. Christensen ancora ancora, il resto è un incubo).
Chi l'avrebbe mai detto che in un film del genere avrei ritrovato il nostro amico di vecchia data, Pazuzu. Si ripercorrono, in quattro segmenti separati, momenti diversi della storia della stregoneria: dall'antica Mesopotamia, al Medioevo. Le streghe che racconta Christensen sono donne deviate dal diavolo in persona (in anima? in spirito? come si dice?), tradite da chi le accusa, forzate a confessioni estorte con la violenza. Sono già vittime.
Specifico già perché l'ultimo processo per stregoneria in Occidente sembra essere quello di Helen Duncan, ventidue anni dopo l'uscita del film.
Lo stesso Dreyer che sta nel titolo del post, un signore di cui potreste avere già sentito parlare, ha lavorato parecchio sulle streghe.
Qualche anno prima della sua ben più nota Giovanna d'Arco, Carl Theodor Dreyer, danese, classe 1889, si fa notare con un film che si chiama Pagine dal libro di Satana. Sta sempre nella playlist e lo ammetto, questo è pesante come il piombo, una visione che, come dirlo dolcemente? richiede molto allo spettatore, ecco. Anche questo è a episodi, anche lui ripercorre epoche e momenti storici diversi, dei quali il secondo è proprio il periodo dell'Inquisizione. Tornerà anche negli anni '40 a parlare di donne bruciate sul rogo dalla fragilità maschile, ma è ovviamente della sua pulzella d'Orléans che dobbiamo parlare.
Mi rendo conto che parlare di film dal tale livello di fama è quasi ridicolo, soprattutto perché è dalla sua uscita (94 anni fa) che si parla dell'incanto di questo film, ma io voglio fermarmici lo stesso perché lo amo e penso ne valga sempre la pena. Per lo spettatore medio di oggi, categoria nella quale rientro con tutte le scarpe, questo è un film con tutte le carte in regola per essere definito respingente. È muto, ovviamente, e in alcune versioni che si trovano in giro lasciato anche senza accompagnamento musicale. È ridotto all'osso, non ci sono scenografie, spesso ci sono lunghissimi momenti di una lunghezza quasi esasperante in cui primissimi piani su sfondo bianco si alternano alle didascalie. Parla di temi religiosi che per qualcuno, di nuovo, me compresa, rientrano nell'ambito della fantascienza.
Eppure c'è un momento in cui il film riesce a scavalcare le difficoltà, ad entrare sotto la pelle, e da quel momento è disperazione cieca: Giovanna è prigioniera di miserabili pronti a tutto pur di estorcerle realtà che esistono solo nella loro testa. È una contadina, non ha nulla, non sa nulla, ma soprattutto non sa leggere. Il momento in cui è costretta ad ammetterlo è devastante, è il momento della vittoria dell'oppressore, è il momento in cui capiamo che la tortura che lei subirà più avanti è gratuita. La sua posizione di netta inferiorità è la sua rovina fin dal primo istante, non c'è un solo secondo in cui si possa sperare che per lei la triste faccenda finisca bene, a prescindere dalla fama che la precede tra gli spettatori. Il film è interamente nelle mani della prova recitativa di una donna che ha fatto davvero qualcosa che ha del miracoloso. Come sempre, in me non troverete mai tecnicismi che non mi appartengono, è solo di emozione che mi piace parlare, e se la visione di questo film non vi lascia dilaniati, siete senza anima ed è il momento di vedere qualcuno che vi aiuti. Il Dio cattolico è stato per milioni di persone come Giovanna il faro, la guida, il lato buono del mondo, e che qualcuno abbia per decenni interi deciso di strapparlo ai più fragili mi angoscia. Prima si nutrono le anime con qualcosa di creato ad hoc per funzionare e poi li si minaccia di portarlo loro via, nella più classica delle dinamiche di sopraffazione che la chiesa indossa così bene da quando esiste.
La smetto, eh, è solo che La passione di Giovanna d'Arco è un film che fa così male che per liberarmene dovevo parlarne un po'.
Non solo streghe ma comunque restiamo nella religiosità
Come abbiamo visto parlando dei film citati su, anche gli scandinavi hanno avuto la loro bella passione per il nostro ormai compare Satana. Possiamo dircelo: Satana piaceva più di Dio. Ce lo sentiamo vicino perché abbiamo bisogno di attribuire a qualcuno di esterno la nostra voglia di evadere, di sbagliare. Dobbiamo sentirci dire che non è colpa nostra, che siamo stati tentati, nella trovata più paracula della chiesa di cui sopra.
Satana lo vediamo percorrere la terra mietendo vittime, bussare alle finestre delle donne per allontanarle dai mariti, calpestare le terre calpestate dal figlio di dio spargendo falsità. Insomma, la Scandinavia si allinea al resto d'Europa, mettendo il principe dei demoni spesso protagonista.
In uno dei film più famosi, però, è un altro il tema spirituale che affrontiamo. Parlo de Il carretto fantasma e della vita dopo la morte, ovviamente. Se non ci fosse stata Giovanna, questo sarebbe stato il mio preferito. È del 1921, di un regista di cui non so nemmeno come scrivere il cognome sulla tastiera e quindi per correttezza lo copincollo: Victor Sjöström.
Una leggenda vuole che l'ultima persona a morire allo scoccare della mezzanotte di Capodanno debba acquisire un compito: guidare per un anno il carretto della morte, e girare per il mondo raccogliendo le anime dei defunti. David è il defunto dell'anno in corso, e la persone che lo ha preceduto nel ruolo gli spiega che cosa, nella sua vita, lo abbia condotto a fare quella fine miserabile. Sì, è un Canto di Natale ancora più crudele, infarcito del moralismo che solo una storia del genere può portare con sé, ma che lo è perlomeno con scopi nobili. È tratto da un romanzo omonimo, scritto da Selma Lagerlof (che scopro essere la prima donna ad avere vinto il Nobel per la letteratura) su commissione: visto il preoccupante dilagare della tubercolosi, all'autrice venne chiesto di scrivere un testo che aiutasse a prevenirne la diffusione. A lei però di scrivere un saggio non andava, e quindi via di romanzone in cui il protagonista vive un'esistenza piena di errori e scelte sconsiderate, che lo portano non solo ad ammalarsi ma anche a rovinare le vite di tutti quelli che lo circondano. Più morale di così si muore, e David, infatti, muore.
Solo dopo avere preso a picconate la porta del bagno, però, che Kubrick quell'ispirazione lì doveva pur prenderla da qualcuno.
Nella playlist di questa settimana trovate anche un film successivo dello stesso regista, La prova del fuoco, che però la Vostra non ha avuto tempo di vedere. Mi sono sopravvalutata per questa missione della storia del cinema? Questo è proprio fuori da ogni dubbio.
Quel film lì famoso di Dreyer che ancora non abbiamo nominato
Questa è la prima volta che in questa rubrica bariamo, ma se di Dreyer parliamo temo che noi non si possa saltare quel film del '31 che tecnicamente spetterebbe al decennio successivo. Bariamo due volte, perché non solo è del decennio dopo ma è pure una produzione mezza francese che non dovrebbe stare in un post sulla Scandinavia. Anzi, bariamo tre: non è nemmeno muto. Ma tant'è, a noi cippiace l'anarchia.
Vampyr è recentemente tornato in sala, e indovinate chi se lo è perso? Proprio io. Proprio io. Per nostra fortuna sta nella solita playlist.
Qui mi permetto di fare la cinefila dell'internet che ripensa con nostalgia ai bei tempi andati e dice che l'horror è morto, ma non posso che chiedermi: oggi, con il modo che abbiamo di disporre della luce e dei suoni, è ancora possibile fare un film sinistro come questo? Non è muto, ma è indubbiamente molto più silenzioso di tutto quello a cui siamo abituati. Il modo in cui le cose che succedono in questa storia entrano nella schiena dello spettatore e fanno accapponare i peletti della nuca è quasi inedito, a chi come me sia ancora lontano dal conoscere bene questo periodo del cinema. Ci si avvicina convinti che l'avanzamento tecnologico ci abbia abituato a tutto, e invece è proprio quello a cui non siamo più abituati a lasciarci atterriti sul divano.
La storia è goticheggiante e il film sovverte quelli che oggi consideriamo cliché del genere prima ancora che questi fossero del tutto formati: è ambientato quasi tutto alla luce del sole, gli attacchi del vampiro sono appena intravisti...e poi c'è la vampira donna, che solo più avanti impareremo a riconoscere come elemento ricorrente, nonostante la Carmilla.
La Scandinavia delle origini non aveva nulla da invidiare al resto del mondo. Il suo cinema era angosciante, pieno di sorprese, critico verso la storia, la religione e la società, ma anche molto emozionante, e io di questo non finisco mai di sorprendermi.
Le fonti di questo post:
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* Rondolino G., Tomasi D., Manuale di storia del cinema, UTET Università, 2014
Questo articolo su multiglom.com
Questo articolo di cinemascandinavia.com
The story of film, documentario disponibile su Raiplay