sabato 29 febbraio 2020

Horrornomicon: Gli inquilini di Polanski

11:42
Parlare della trilogia dell'appartamento di Polanski mi permette di sedermi un momento qui con voi per parlare di un argomento che ancora sulla Redrumia non ci era finito, il rapporto tra artista come persona e la sua arte. Spero di essere veloce.
Prima di essere appassionata di cinema e letteratura sono una femmina, e sono una femminista. Una di quelle che detestano le stronzate alla 'Gli uomini sono tutti uguali', soprattutto nella sua variante femminile, che combatte contro le donne nemiche delle donne, che litiga per i luoghi comuni anche se sono solo pourparler. Non posso star zitta, la mia lingua si agita e la mia mimica facciale mostra quel poco che la lingua tace.
Sono l'anima della festa.
Per questo quando è (finalmente!!!!) scoppiato il caso MeToo mi sono interrogata su cosa fosse giusto fare. Del resto, come dicono i faciloni, anche Caravaggio e Picasso non erano stinchi di santo, cosa facciamo, bruciamo tutta la storia dell'arte?
No, non la bruciamo. Però ne parliamo, e capiamo insieme cosa conta davvero.
Non starò qui a criticare grandi film del passato perché il loro regista stuprava le bambine. Non taglierò tele storiche perché il pittore era un omicida. Però non farò nemmeno finta di nulla. Ogni caso va giudicato secondo la sua epoca, ma fingere che oggi non ci sia, grazie al cielo, una consapevolezza maggiore è inutile.
Se domani un film nuovo di Polanski uscisse al cinema non andrei a vederlo nemmeno sotto tortura. Non sosterrò economicamente persone colpevoli di reati sessuali, non darò i miei soldi ai molestatori.  Posso rinunciare al cinema, con dolore ma posso, alla dignità delle persone mai. Con calma, mano a mano che il mio sguardo si farà più aperto e la mia conoscenza maggiore, applicherò lo stesso metro di giudizio a un range di reati più ampio, ma oggi la mia sensibilità è più spiccata su questi. La mia decisione conterà qualcosa ai fini del loro successo? Chiaramente no, ma ho la possibilità di scegliere cosa fare e scelgo. Credo nella rieducazione e nella riabilitazione, credo (ancora) nella giustizia e non sono una che urla con le torce e i forconi. Però non dimentico, e se guardo Rosemary's Baby lo guardo con una consapevolezza ben diversa rispetto a quella che avevo qualche anno fa.
La prima volta che l'ho visto manco mi era piaciuto, tra l'altro.

Ci saranno spoiler!

Fatte le dovute premesse, e ricordato quindi che da queste parti non si dimentica, parliamo di cose un momento più leggere: i suoi film. Il che è tutto un dire, perché se al mondo esistono tre film che non sono leggeri manco per scherzo sono questi.
Nello specifico, facciamo questa volta due chiacchiere sul giretto che il regista ha fatto nel mondo dell'orrore: Repulsion, Rosemary's baby e L'inquilino del terzo piano.

Anno domini 1965: il regista si trova in Inghilterra e gira il suo primo film in inglese, Repulsion. 
Una Catherine Denevue con i capelli più belli della storia del mondo interpreta Carole. Di lavoro addetta alla manicure in un centro estetico, Carole vive da sola con la sorella e ha un grosso problema a relazionarsi con gli uomini. Li allontana, li teme, la sola loro presenza la sconvolge. Essere bellissima non è che la aiuti, gli uomini la guardano con bramosia. Quando la sorella parte per una vacanza con il fidanzato, Carole resta a casa, da sola con i suoi pensieri. Non riesco ad immaginare un solo scenario in cui questa cosa possa finire bene.

Ho fatto fatica ad approcciarmi al primo film della trilogia. Non è che non mi sia piaciuto, anzi, ma Carole è difficilissima da affrontare. Dirò l'ultima cosa sulla questione molestie di Polanski, lo giuro.
La sensibilità con cui i traumi della protagonista sono ritratti è allucinante. Il modo in cui la sua paura folle, la sua repulsione, appunto, vengono messi in scena è davvero realistico, e che arrivi proprio da lui è quasi incredibile. Che certe scene di violenza arrivino da lui è surreale, non ci faccio pace con quella cosa qua. Ho finito.
C'è una scena, ad inizio film, in cui la protagonista esce dal lavoro e viene notata e seguita da un uomo. Non sappiamo ancora se si conoscono oppure se lui la voglia conoscere. Lei viene seguita da dietro (l'ho già detto? i capelli più belli della storia del cinema, Denevue non invidio nessuna quanto te) e ho temuto per lei. Per la sua anima fragilissima e spaventatissima, che viene perseguitata da uomini che non sono in grado di accettare di non essere il centro del mondo di qualcuna. Tutti i maschi di questo film sono ripugnanti: insistenti, egocentrici, superficiali, violenti. E lei, che di questi uomini è circondata, non ha altra scelta che di guardare sospirando le suore sotto casa.
Diventa se stessa solo quando in compagnia di altre donne, come la sorella o la collega. Riesce a sorridere, parlare normalmente, divertirsi, essere sincera. Quando quindi la sorella la lascia sola, ecco che tutte le sue fragilità non solo vengono a galla, ma prendono il sopravvento, in una discesa verso la psicosi che non lascia scampo, né a lei, né agli uomini che la circondano, né a noi.
Così forte è il senso di protezione verso Carole, che pur adulta è più fragile di una bambina, che l'empatia per la sua totale perdita di sé è una delle cose più profonde del film.

Tre anni dopo succede un film immenso. Il mondo riceve in dono Rosemary's baby e le cose non sono più le stesse.
Sul blog esistono due post su di lui: una secolare recensione cringe in cui dicevo che non mi era piaciuto e un addolorato pentimento, scritto in occasione di una collaborazione con gli altri blogger. Mi dà quasi fastidio che mi piaccia così tanto, perché se gli altri due sono grandissimi film questo è uno di quelli a cui vanno rivolte le preghierine la sera prima di dormire.
Rosemary e il marito Guy prendono casa in un condominio a New York. Lei casalinga, lui attore emergente, sono giovani, innamorati e pronti a mettere su famiglia. Nella nuova casa conoscono i Castevet, una coppia di anziani vicini che si prende molto a cuore la giovane coppia.
Anche in questo caso, poteva mai finire bene? Ma certo che no.
Siamo nei primi anni del satanic panic e anziché fare un opera rumorosissima e fragorosa, come farà qualche anno più tardi un tale William Friedkin, di cui riparliamo il mese prossimo, Polanski sceglie la via dell'eleganza. Il suo film è lento, pacato, subdolo. Un viscido e invadente entrare nelle vite degli altri che culmina con uno dei più strepitosi finali della storia di ogni tempo. Con la lentezza che caratterizza tutti e tre i film, la storia di Rosemary si dispiega davanti a noi, le sue insicurezze diventano le nostre, le sue paure diventano le nostre, la sua scelta diventa la nostra.
Anche qui la protagonista è una donna bambina. Se nel caso della Denevue la puerilità riguardava solo la psiche, qui è manifestata soprattutto nell'aspetto. La Farrow era un fuscello, una piccola, esilissima donna con i capelli biondi corti da bambina, il viso minuto e con i lineamenti fini, una minidonna. In compenso, il marito (un bellissimo John Cassavetes) ha colori scuri, spalle larghe, lineamenti durissimi. E infatti è il peggior villain del cinema. Lasciate perdere il diavolo, il vero problema sono gli uomini egocentrici, disposti a vendersi la madre (o, in questo caso, la moglie) per il raggiungimento di sogni resi evidentemente impossibili dalla loro mediocrità.
Il magnifico ritratto di una borghesia ipocrita e venduta che esce da qua è uno dei migliori che si siano mai visti, i vestiti di classe e i volti curati messi al servizio del Male supremo, il ruffiano viscidume di quella grottesca e straordinaria scena finale non sono da annali della storia del cinema, sono da annali della storia dell'arte.

E infine, nel 1976, arriva L'inquilino del terzo piano. 
Forse dei tre quello di cui si parla di meno, il povero film ha solo avuto la colpa di essere stato preceduto da un capolavoro di quelli grossi, ma ha il pregio enorme di essere molto stratificato e aperto ad un milione di possibile interpretazioni.
Un giovane architetto, il signor Trelkowski, vuole un appartamento in affitto. Lo vuole a tutti i costi, e se lo accaparra dopo che la precedente inquilina, Simone Choule, muore suicida. Qualcosa, nella casa e nel vicinato, però, non lo convince, e nemmeno in questo caso la faccenda può finire bene.
Sebbene, per mio gusto personale, inferiore ai suoi due predecessori, questo film ripropone in chaive maschile i temi principali dei due film precedenti, mettendoci non solo un altro di quei bei finali che rimescolano le carte in tavola ma anche la voglia di esplorare temi nuovi e controversi soprattutto per l'epoca, come l'identità di genere.

Nella maniera più assoluta, questi non sono film adatti a chi ama la chiarezza e le risposte certe. Sono film che non hanno alcun interessi a dirvi come stanno le cose, ma che amano farle vivere allo spettatore allo stesso modo in cui le vive il protagonista: il dubbio, l'incertezza, il sottilissimo confine che separa follia e paranoia da ragione. Carole è l'unica a cadere effettivamente in una psicosi effettiva, mentre Rosemary e il signor T. vivono in una realtà incerta, circondati da persone delle quali non sanno se possono fidarsi, vedendo cadere intorno a sé le proprie ben poche certezze, perdendo le persone sincere per morti misteriose (Hutch, l'amico di Rosemary) o perché nemmeno i volti amici si rivelano esserlo (Stella per L'inquilino), cercando di costruirsi un'identità in contesti nei quali viene per un motivo o per un altro viene negata.
Carole ha subito abusi che le hanno impedito di diventare la donna che avrebbe potuto, e la sua crescita è costantemente messa alla prova da persone che non la rispettano. Rosemary ha un marito (verme maledetto detesto te tanto quanto il tuo regista) che non fa altro che sminuirla, trattarla come la sola donna trofeo che la ritiene essere. Non è stimata, non è creduta, viene violentata dal marito, e infine tutto il suo corpo viene venduto, e mentre la sua mente cerca di riprendere possesso di sé ecco che viene di nuovo trattata come la bambina capricciosa che non è. Il signor T, infine, in una delle mille interpretazioni che vengono date al film, è semplicemente una donna transgender, non in grado di emergere come dovrebbe e meriterebbe. La sua vecchia identità si sta annullando, senza però essere in grado di lasciar spazio a quella nuova. Quello che potrebbe essere un film solo sulla paranoia diventa anche un film sulla conoscenza di sé, sulla manifestazione di quello che si è davvero, sulla capacità di accettarlo.
Oppure no, invece T. è "solo" una persona disturbata con una percezione falsata della realtà. Non lo sapremo mai, e il bello è esattamente quello.

In mezzo a immagini dalla bellezza straordinaria, sono soprattutto i suoi che in questi film smuovono le viscere. Sono le campane e il telefono di Carole, la ninna nanna di Rosemary (che incubi, amici miei, che notti insonni), l'urlo straziante di Simone in ospedale. Sono dettagli che elevano film molto belli a molto grandi, che contribuiscono a creare quella atmosfera distorta e confusa che ottiene così bene l'effetto di confondere anche noi.
Con tutto il risentimento che posso avere, con tutta l'ostilità che devo sempre sottolineare di avere verso chi li ha creati, amo comunque moltissimo questi film, sono lavori straordinari di qualcuno che è evidente sia in grado di creare atmosfera come pochi altri.
Sono film estremamente pessimisti, nei quali il male vince sempre e per noi non c'è scampo. Il male è ovunque, e come ci mostra molto bene Rosemary, sta a noi scegliere cosa farne.




Edit: giusto ieri sera, il 28 febbraio 2020, c'è stata la premiazione dei premi César. Polanski ha vinto come miglior regista. Ecco, sulla questione io mi pongo in mezzo a quelle che hanno lasciato la sala seguendo Adele Haenel. Adesso anche basta. Lo dirò con la femminile grazia che mi contraddistingue: ci siamo anche un po' rotte i coglioni.



mercoledì 29 gennaio 2020

Horrornomicon: A new world of gods and monsters

13:39
Io e la mia consueta sindrome dell'impostore vi diamo il benvenuto nel primo Horrornomicon del 2020. Come sempre, è per me difficilissimo parlare delle grandi icone della storia del cinema, ma ci sono volte in cui metto da parte la sindrome di cui sopra e mi decido, in nome di un grande amore, a parlare di cose ben più grandi di me. Senza pretesa di insegnare nulla, solo di condividere.
E quindi, questo mese, gli horror Universal.
Anche se temo sarà un monologo su Frankenstein.


Per me tutto è cominciato con Dracula. 
Anni fa ho fatto uno speciale vampiri, qui sul blog, e non avrei potuto evitare Bela Lugosi nemmeno volendo. Ma perché volere, poi? Pur avendo un cuore che palpita per Christopher Lee, il Conte di Lugosi è una goduria. Oscuro, silenzioso, lento. Lontano anni luce da quello a cui siamo abituati, alla frenesia, alla lunghezza, al suono incessante. Il film di Browning e il suo protagonista entrano dentro come ospiti silenziosi e aprono le porte alla meraviglia che viene dopo.
Se volessimo andare in un rigoroso ordine cronologico, dovremmo specificare che non è con Dracula che si è aperta la gloriosa stagione dell'horror di Carl Laemmle e soprattutto del figlio, i boss Universal, è stato solo il mio battesimo. Prima di lui c'è stata tutta la fase Lon Chaney, che forse affronteremo più avanti, quando me la sentirò ancora più calda di così.

Nel 1931, però, non è stato solo Bela Lugosi ad abitare gli incubi degli americani. Nello stesso anno usciva il film che, insieme al suo sequel, è stato la mia motivazione a scrivere questo post. Niente è più stato lo stesso, per me, dopo Frankenstein e, soprattutto, dopo La moglie di Frankenstein. 
Ci sono mille motivi per cui una persona ama tanto l'orrore, e se ascoltate chi ha voglia di raccontarvelo, non sono quasi mai i litri di sangue e gli sgozzamenti. A quelli ci siamo solo abituati. Il cinema di genere ha un modo che è solo suo di parlare della realtà con una sincerità che spesso ai drammi o alle commedie manca. Il ritratto dell'umanità che esce da certi film che vengono snobbati in nome del loro genere è così profondo, e genuino, e sincero, che guardarli aiuta a leggere la realtà molto meglio di quanto faccia leggere un bell'articolone sul quotidiano. (Cosa che comunque raccomando di fare). Dietro la storia agghiacciante e spaventosa c'è il mondo reale, e a volte è così difficile affrontare il ritratto onesto che ne viene fatto che è più facile snobbare. I due film di James Whale sono un modo così spietato di mostrarci quello che siamo che risuonano più forte di uno schiaffone. Non che il resto della sua cinematografia sia da meno, non fraintendetemi, ma c'è un livello in questi due film che è difficile toccare. Il ritratto di una Creatura così imponente e fragilissima insieme, che nasce priva di sovrastrutture e influenze e diventa violentissima come conseguenza del modo in cui è stata trattata è così spaventosamente attuale che 90 anni dopo ancora dobbiamo interiorizzarli, certi concetti. Il criminale che viola la legge per colpa della società in cui è inserito è ancora una follia agli occhi di qualcuno. Che siamo tutti responsabili, è impensabile. 
Eppure, 90 anni fa, in film che avrebbero potuto parlare solo di mostri, ecco che si ripete spesso la scena della folla in piena isteria, con le fiaccole, le armi. Ed eccolo lì, il circolo vizioso di cui ancora ci sporchiamo dopo così tanto tempo: io, spaventato, attacco te, fragile, e insieme creiamo la criminalità. Non è colpa mia, non è colpa tua, sa soltanto quello che non è (cit). In quasi i tutti i film Universal c'è lo scontro tra il villaggio inferocito e ferito dalle proprie perdite e la creatura mostruosa inconsapevolmente violenta. Ed ogni volta è uno scenario desolante. Non è un caso che la sola persona a non essere terrorizzata dalla Creatura sia un non vedente: non c'è percezione della diversità e pertanto la diversità non esiste. O ancora, nella mitologica scena della bambina, non c'è paura della Creatura, non incute timore per il suo aspetto. Il sorriso che Karloff tira fuori in quella scena lì fa un effetto al cuore che non so spiegare. 
I cattivi, in queste storie, sono gli arroganti: coloro che mettono se stessi al di sopra degli altri, coloro che si ritengono superiori. Non solo gli scienziati in generale, come potrebbe sembrare. Sono coloro che mettono il proprio ego e la propria soddisfazione al di sopra del bene collettivo, del buonsenso, dell'umanità stessa. Henry Frankenstein è rimasto per sempre orgoglioso del suo successo, nonostante tutto. Pretorius lo istiga, lo stimola, lo mette sotto pressione, nel sequel, ma entrambi sono gonfi di se stessi dalla partenza. Non è mai una discesa verso la follia. Frankenstein si apre con due persone che profanano una tomba, non è certo una partenza delicata. Quello che succede, invece, è che il durissimo ritratto della vita della Creatura sovrasta tutto il resto. Le vessazioni perpetrate da Fritz nei confronti del mostro sono quasi insostenibili da vedere: un mondo in cui il debole per sentirsi meglio se la prende con il più debole è un mondo difficilissimo in cui vivere, figuriamoci da ritrarre.
E invece Whale lo fa, con una sensibilità e un'onestà che lo elevano al rango dei Grandi. 
E Karloff ci regala un personaggio che non è solo diventato una grande icona popolare blablabla. Ha parlato con le mani e gli occhi, ha commosso, emozionato, estasiato. Il suo corpo, instabile e furioso, ha parlato molto meglio di quanto avrebbe fatto con la voce. 
E nel caso in cui qualcuno se lo stesse chiedendo: sì, piango tanto con i Frankenstein di Whale, piango un casino che proprio poi mi fa male la faccia. Sono film di un bello che non ci crede.


Questi film sono stati così significativi che quello che Universal ha creato dopo ha sfruttato tutti i loro elementi di forza: la scienza che quando fuori controllo diventa follia, per esempio, come ne L'Uomo Invisibile, sempre di Whale. Meno emotivo di F. ma sicuramente altrettanto forte, è un impietoso ritratto di cosa diventiamo quando qualcosa ci sfugge di mano. E ancora, folle impaurite, la voce inconfondibile di Una O'Connor, e la disturbante (vinco qualcosa ogni volta che lo scrivo? la parola più odiata del web) risata che compare dal nulla.
Meno efficace, ma solo per gusto personale, la saga de La Mummia, che ha comunque i tratti ormai distintivi Universal.
E infine, negli anni 50, un ritorno a quell'emotività che era così significativa in Frankenstein, con la creazione de Il mostro della laguna nera. 
Non c'è uno solo di questi film che non valga la pena vedere. In un'epoca che sembra di un altro pianeta, da quanto ci è lontana, Universal ha tirato in piedi, con i suoi nomi iconici, film dove si mette in dubbio l'efficacia della scienza, l'erotismo, un'omosessualità velata, l'ignoranza, la paura, la desolazione, la solitudine. 
Dopo 90 anni, non siamo cambiati di una virgola, e niente mi spaventa più di questo.

martedì 7 gennaio 2020

Chiacchieratina su Casa di foglie

15:42
Vediamo se mi ricordo come si scrive un post.
Ciao a tutti, buon anno!
Dopo un dicembre intenso colgo la fine delle feste come occasione per fare due chiacchiere insieme sul libro che ho letto a fine 2019.
Sì, avete di fronte l'ennesimo post su Casa di foglie.


Il mitologico volumone di Danielewski è tornato in libreria dopo, quanto?, quasi dieci anni?
Lettori disperati alla ricerca del libro online, sulle bancarelle, gente disposta ad immolare il proprio primogenito, lacrime versate e speranze perdute. Chi ha avuto la bella pensata di riportarcelo? Uno storico gruppo editoriale? Un editore miliardario? Una mastodontica realtà? No, 66thand2nd, un piccolo e recente editore indipendente che con questa mossa si è messa sulla bocca di tutti, a dispetto di un nome impronunciabile. Il tutto ha contribuito a creare l'alone di mistero intorno al libro, tale da spingere la sottoscritta me medesima a spendere la cifra di euro ventinove in una libreria.
Ricordo a chi mi conosce poco che io i libri in copia fisica li compro pochissimo e sempre usati, Casa di foglie mi è costato come una ventina delle mie letture abituali.

Ma di cosa parla, il libro più discusso del momento?
Non si può parlare di una trama in senso convenzionale, ma si può dire che c'è tale Johnny Truant, il nostro narratore, il tipo che porta il concetto di narratore inaffidabile ad un livello tutto nuovo. Johnny ha un amico, Lude. Nel condominio di Lude si è appena liberato un appartamento, perché Zampanò, il vecchio e non vedente proprietario, è morto. In casa di Zampanò si trovano le cose di una vita intera, ma soprattutto si trovano parole. Una montagna, una cascata, un fiume in piena di parole, su ogni superficie disponibile. Per quella che sembra essere stata una bella fetta della sua vita, il vecchio si è appassionato ad un documentario, intitolato La versione di Navidson, e sembra avere scritto un lungo e approfondito saggio sulla vicenda. Questa storia finisce per imprigionare la mente di Johnny, e la nostra insieme alla sua.

Ora, leviamoci l'ovvio.
Il punto principale di Casa di foglie, ciò che lo ha reso il libro famoso che è, è l'impaginazione. Il delirante, scombussolato, avviluppato modo in cui le parole sono disposte sulle pagine. Ci sono pagine bianche, con una sola frase, con una sola parola, pagine piene zeppe di parole fittissime e righe cancellate, colorate, sottolineate. Si tratta di un S, La nave di Teseo level extreme, un parco avventura letterario dal quale si scende con la testa che gira un po'.
Ma ne vale la pena? In effetti un'esperienza di lettura di questo tipo è certamente interessante, ma richiede anche pazienza, concentrazione, tempo. Ci vuole una storia che ne valga la pena.
Io a volte ne ho dubitato. Ci sono stati momenti in cui mi sono chiesta se non fossi incappata nella più clamorosa supercazzola editoriale del 2019. Eppure il libro non lo posavo mai. Ho vissuto giorni incatenata alla storia (alle storie) di questi personaggi tutti lentamente in discesa verso la follia. Ho letto di menti che perdevano il controllo, di vite rovinate, di case che ignoravano le leggi della fisica e ne sono stata completamente rapita. Ho letto diari, lettere, appunti, annotazioni, saggi, spunti, voli pindarici grandi come la casa in questione. Ed è stato bellissimo.
Quindi, sto Casa di foglie, vale tutto l'hype che si porta dietro non da ora ma da anni?
Sì, assolutamente sì. Un ritratto delle ossessioni come non avevo mai letti prima, un racconto marcio dentro ad una storia inquietante e che non diventa mai spaventosa ma sa come fermarsi mezzo passetto prima, diventando così non un canonico romanzo dell'orrore ma una storia che crea quella tensione che aleggia nell'aria anche intorno a chi si limita a leggere.
Certo, non fa per voi se amate le trame in senso classico: inizio, svolgimento, fine. Qua non ci sono risposte, e se Casa di foglie dovesse fare a voi l'effetto che ha fatto a me, smetteranno di esserci anche domande.
Si vive e basta.

martedì 10 dicembre 2019

Gift Guide 2019: Libri di cucina

10:55
Io mi son proprio rammollita.
La mia wishlist una volta comprendeva solo vinili, libri enormi e gioielli. Oggi guardo sbavando il Soda Stream e le offerte dei detersivi. Sono andata a convivere più un anno fa e le mie priorità si sono tutte sballate. Quest anno, quindi, ho deciso di fare due cose: un libro al giorno su Instagram, dove vi do consigli lampo per regali letterari, e libri di cucina sul blog, dove posso essere la vera anziana che sono.
Preparatevi, ci sono delle bellezze qua dentro, per risparmiarvi l'ennesimo anno con i libri delle due Benedette o de La prova del cuoco.



Quando sono a letto la sera e rivolgo le mie preghiere agli dèi delle arti, uno di loro è Yotam Ottolenghi.


I suoi libri sono editi in Italia da Bompiani, sono bel lis si mi. Sono i più bei libri di cucina del mondo e li accarezzo ogni volta che vado in libreria. Io ho Jerusalem, un compendio di cucina mediorientale da sbavare sulle pagine. Quello che vi consiglio oggi è Plenty, una raccolta di ricette vegetariane che sono stupende da vedere e da mangiare non ve lo dico nemmeno. Se dovete fare un regalo con questi andate sul sicuro, non fosse altro per il fatto che sono libri dall'estetica molto appagante, se invece fossero per voi ma ancora non siete certi di voler fare la spesa, li trovate tutti sulla media library online, così ve li spulciate e decidete se valgono la spesa!
Spoiler: la valgono.

Secondo consiglio: i libroni di Mélanie Dupuis.


Nello specifico, se avete la classica amica a cui piace fare le torte, Il grande manuale del pasticciere è un sogno ad occhi aperti. Colorato ma con estetica minimal, parte dalle basi ed esplora tutto quello che serve. Un grosso coffee table book ma di quelli che servono a qualcosa. Bellissimi tutti quanti, da scoprire.

Per l'amico grafico, eternamente single che teme di non sapersi cucinare nemmeno un uovo, ho il libro perfetto, anche lui bello bello in modo assurdo.


 Eat! The quick-look cookbook è un libro di ricette semplicissimo e fatto solo con disegni piccoli, semplici e coloratissimi. Stupendo, ironico, e anche utile!

Al milanese imbruttito della compagnia: Schiscetta Perfetta.



Costa nulla, è simpatico, lo regalate insieme al porta pranzo che vendono da Tiger che si può anche mettere in microonde, e sciao cari, regalo fatto. Vannicelli poi ho scritto anche la variante per neo - genitori, Baby Schiscetta, altrettanto carino!

Lo so che i libri degli youtuber sono detestati da tutti coloro che si ritengono letterati coltissimi, ma date una possibilità a Niomi Smart. Inglese, è diventata famosa per i suoi contenuti a tema plant based e sostenibilità, ha scritto un libro di ricette (vegane) che si chiama Eat Smart.


Anche in questo caso si possono "provare" i contenuti di Niomi prima di comprare il libro. Ha una serie di video sul suo canale che si chiama What I eat in a day (sì, se li avete visti mille volte su youtube dovete dare la colpa a lei, che ne è l'iniziatrice), nei quali cucina e mostra alcune delle ricette che si trovano nel libro. Un ottimo primo passo per chi volesse iniziare a ridurre l'apporto di carne e di alimenti di origine animale. Unica pecca: è solo in inglese.


  • Pro tip, idea romantica da Mari: libro di ricette homemade. Per la mamma, con le ricette storiche della nonna rilegate in modo carino, per il fidanzato, con magari le ricette che vi hanno accompagnato nella vostra storia, per la figlia, con le ricette che una mamma vuole passarle per ricordo, per esempio quando esce di casa. Costo: poco più di zero, sentimento: mille. Scusatemi, sono smelensa anche se lo nego.
Ora, sono quasi le 11, quindi se vi ho fatto venire fame scusatemi e tenete duro, è quasi ora di pranzo. Per quanto mi riguarda ormai sono nella fase in cui mi perdo nelle sezioni di cucina delle librerie e questi libri piano piano verranno tutti a casa con me. Agli amici cremonesi che amano la mia stessa sezione consiglio di stare lontani dalla Feltrinelli perché quel posto è il demonio e la sezione cucina è immensa e fornitissima. Vi amo, bellissimi libri colorati e pieni di foto, vi penso sempre.

lunedì 2 dicembre 2019

Gift Guide 2019: Gioielli belli

13:02
Ah, rieccoci.



Mi sono sempre proclamata poco amante del Natale, anche se da quando ho una casa mia ammetterò di starmi rammollendo, ma una cosa è certa: mi piacciono i regali.
Presente quelle persone che dicono che preferiscono farne che riceverne? Mentono.
No, scherzo, magari qualcuno molto più generoso di me c'è, ma quel che è sicuro è che io so sempre esattamente cosa vorrei ricevere, e anche quest anno cercherò di dare consigli sulle cose bellissime che popolano l'internet e non solo, e che starebbero da dio sotto l'albero.
Cominciamo con i gioielli.
Basta Pandora pacchianoni, basta Morellato! Il mondo è pieno di cose da scoprire.


Per chi ha un budget che invidio

Rubinia Gioielli

Non che tutto il resto della collezione di Rubinia sia brutto, ci mancherebbe altro, ma nello specifico hanno una linea, Filodamore, composta di gioielli personalizzabili con frasi, lettere, numeri, che è bellissima, minimal ed essenziale. Rubinia è una gioielleria vera e propria, ha prezzi da gioielleria (che pure non sono eccessivi, l'argento è accessibilissimo per esempio) e ne va tenuto conto. Per regali speciali è meravigliosa.

Lil Milan



Forse la più social delle aziende di gioielli in circolazione, Lil è il luogo in cui temo spenderei ogni soldo se ne avessi. Anche in questo caso si tratta di gioielli dalle linee essenziali, che come avrete capito sono i miei preferiti, e nel suo caso è solo oro, non mi pare di avere visto argento nel sito. I prezzi, di conseguenza, sono altini. Però è un colpo al cuore se non ve la segnalo, e tutto sommato ci sono anellini finissimi sotto i 100 euro, per chi vuole dare una possibilità ad un brand italiano giovane, secondo me sono gioielli bellissimi.


Per chi ha il mio budget

By Lia Jewels



Brand spagnolo, ha una collezione bella ampia per tutti i gusti e soprattutto prezzi decorosissimi. Secondo me è lo step migliore da fare per chi desidera provare qualcosa prima di lanciarsi nella spesa folle dell'oro puro, che è sicuramente un investimento ma che non tutti possono fare in ogni momento. I gioielli di By Lia sono secondo me proprio carini.

Fretsy Creations


Ah, anche questi mi piacciono da morire. Il brand è di una ragazza siciliana, che trovate con lo stesso nome anche su Etsy, e i suoi gioielli in ottone somigliano molto alla linea di Rubinia. I suoi hanno un prezzo ben diverso, e sono secondo me un'idea regalo bellissima, ho in progetto di spendere grandi soldi da lei!


Come ogni anno, sentitevi liberi di linkare (erroneamente, s'intende...) i post della gift guide a chiunque desiderate, e ricordate di fare la faccia sorpresa quando aprite i regali!

venerdì 29 novembre 2019

Horrornomicon: The Roth Inferno

20:10


Io sono peccatrice, e uso questo spazio per redimermi dalle mie colpe.
Quando ho capito che un certo tipo di cinema era la cosa che mi piaceva più di tutte, ho iniziato ad approfondire, a guardarmi meglio intorno. Me la sentivo caldissima. Ma soprattutto, ero di uno snobismo spaventoso, ho riletto di recente certi miei vecchi post da far accapponare la pelle.
Chiedo perdono.
Mi piaceva sentirmi intelligente, e credevo che questo fosse sinonimo solo di piccolo film indipendente girato in bianco e nero sulle coste di una piccola isoletta del Pacifico, oppure meglio ancora solo i grandi autori arcinoti e straordinari. Se solo avessi saputo prima che mi sarei divertita molto di più una volta levata quella patina di arroganza...
E quindi, oggi, Eli Roth.

Eli Roth o Miguel Angel Munoz? Chi può dirlo.

Eli è uno di noi. Se ci sedessimo a parlare una sera in birreria staremmo ad ascoltarlo incantati e poi dovremmo riportarlo a casa in spalla perché non sarebbe in condizioni di guidare, ed è per questo che, nonostante i suoi film siamo brutti per davvero, non per snobismo, io oggi gli voglio bene. Quel bene che si vuole agli amici a cui si darebbe una schicchera sul collo, presente? Quel bene lì.
Mamma come gli piace il cinema dell'orrore. Si diverte un casino, da quando, piccino, ha visto Alien la prima volta. Lo possiamo biasimare? No che non possiamo.
Da allora ha cominciato a giocare con dei corti, andare a scuola per imparare a fare bene quello che voleva fare, e alla fine era il 2002, ed è uscito Cabin Fever. Fa i soldini, si fa notare, poi arriva Tarantino e lo trasforma nella nuova star dell'orrore. Che grandissima botta di culo.
Insomma i due diventano amici e Eli entra a far parte di quella compagnia che comprende anche Rodriguez. Da lì in poi son mazzate, letteralmente.

Ma torniamo a Cabin Fever.
In realtà per capire la poetica (dai, scherzo, non andate via...) del nostro regista ci bastava il suo primo film: lunghi inizi nei quali conoscere i nostri protagonisti, per sfogliarne tutte le qualità e le sfaccettature (sì, sono ironica), per entrare in sintonia con loro e sentirsi parte della goliardica compagnia, cambio radicale di colori che poi conduce alla parte di mattanza, scene di sangue, un po' splatterine ma di questo ne parliamo dopo, un bel po' di sesso, finali che vogliono essere sconvolgenti, sano trash. Sono tutte componenti fisse del lavoro di Roth, tutte quante.
Ci prova con una costanza che alla lunga ti ci fa affezionare.
Insomma, Cabin Fever parla di una compagnia di amici che affitta una casetta in mezzo ai boschi per trascorrerci una vacanza. Un misterioso morbo inizia a prenderseli tutti.
Non so come difenderlo, il povero film. Ha personaggi talmente malconci che pare brutto anche infierire. Sono tremendi. Attori inqualificabili costretti dalla sorte a pronunciare dialoghi ben oltre la soglia del ridicolo, a fare scelte al di là di ogni logica, a morire in modi semicomici. Ti West ci ha provato, a girare il sequel, adesso se glielo nominate si nasconde dietro le piante, povera stella.

Poi però è arrivato Hostel, e la gente è andata in visibilio. Siccome il mondo non è fatto solo di cinefili dagli stomaci di ferro, il film del 2005 si è fatto una fama come film estremo. Pare scontato dire che in effetti di estremo non c'è proprio nulla, non per chi ha visto ben di peggio, ma è anche comprensibile che qualcuno di sconvolto dalla sala ci sia uscito. Il famigerato Saw era uscito l'anno prima, e lo avevano visto anche i morti, ma dal primo film ancora non si poteva capire la piega che la saga avrebbe preso, non aveva la violenza (prima o poi parleremo anche di questo) che è arrivata dopo, quindi Hostel si è preso la fama di iniziatore del torture porn e tutto il baccano che è venuto dopo. Ora, Hostel racchiude tutti gli elementi che ho elencato poco sopra, ed è di un brutto che non ci si crede. Però riesco tranquillamente ad immaginare un gruppo di amici sul divano con la birretta che si sganasciano dal ridere. E preso per quello che è, un giocattolone fracassone con un po' di sangue e un pochino di parti del corpo esposte (sia sessualmente che violentemente) fa passare un'oretta e mezza in un soffio.

Hostel 2 fa un errore che il suo predecessore non faceva: ci crede. Ci crede al punto che in un film adatto proprio per non pensare a niente e divertirsi a buon mercato ci prova a mettere la morale. Questo è inaccettabile. Lascia stare, Eli, accanna. Andava bene così. Questa volta alla consueta trama su turisti in viaggio all'estero che finiscono in mani sbagliate attacca una riflessione su come la violenza sia nascosta in persone insospettabili e sul valore del denaro. L'uomo qualunque che diventa un mostro e la ragazza giovane e innocente ma disposta a tutto. Ora, lungi da me rinnegare una buona morale ogni volta che si può, che dio solo sa in questi tempi bui quanta ce ne serve. Però ho dei limiti anche io.

I film con una morale sembrano essere piaciuti al Nostro, che qualche anno dopo se ne esce con The Green Inferno, un film su un gruppo di attivisti che parte per il Sud America per un'azione di protesta in tutela delle tribù locali. Avessero saputo prima come sarebbero finita avrebbero mandato sotto le ruspe la tribù e anche tutti i loro discendenti.
Ambiziosissimo, sto progetto. In milioni di interviste ha dichiarato il suo amore per i cannibal movies, per il cinema di genere italiano, salvo poi trattare Deodato come un menomato in questa breve intervista. Polemichella a parte, si vede che queste cose le ama davvero, ne prende a piene mani e ne cosparge il suo film, che però risulta essere comunque fiacchissimo. Si spinge un po' più in là con la violenza, ma d'altronde siamo nel 2013 e anche il grande pubblico inizia ad essere più esigente e ad aspettarsela, da Roth soprattutto. Eppure riesce ad ammazzare l'atmosfera con picchi di trash che non devo nemmeno citarvi, li avete già in mente da voi, e un film che avrebbe potuto sì portare di nuovo quella morale che conosciamo sullo schermo finisce per andarsene prestissimo nel dimenticatoio.

E allora ci riprova, a fare qualcosa che lasci il segno, con Knock Knock, home invasion del 2015. Io credo di poter dire con discreta sicurezza che il segno sia stato lasciato solo dalle due ragazze (una delle quali è l'onnipresente Lorenza Izzo, l'ex moglie del regista) nei sogni di chiunque ne fosse interessato, perché, di nuovo, il tentativo di dare profondità e messaggio alla storia finisce perso in un meandro di botte, vendetta e la consueta dose di sesso. Sono cambiati i colori, la sporcizia, gli attori, e di quelli manco tutti, ma la sostanza è quella.

Il problema di tutta la sua cinematografia è principalmente uno: la scrittura. I film hanno un ritmo sbagliato, dialoghi al limite del fantascientifico, logica ignorata e soprattutto un'enorme superficialità. Questo suo essere così approssimativo ha fatto sì che la gente con lui si incazzasse, per gli impietosi ritratti delle nazioni europee, per la descrizione dei ragazzi come di peni deambulanti senza alcuna razionalità in contrapposizione a giovani innamoratissimi, sensibili, e con velleità da scrittori e delle ragazze come di 1. promiscue seduttrici, 2. bionde dal qi 12, 3. sprovvedute incapaci di stare al mondo, degli attivisti come di sognatori senza alcun contatto con la realtà. In qualche modo è riuscito a farsi dare del fascista. Ed è ebreo. Non ne ha presa una, i suoi personaggi sono insalvabili. Non ha nemmeno provato a rappresentare un'umanità intelligente, non c'è il minimo sforzo di andare più a fondo, è come se tutto fosse solo un modo per arrivare alla mattanza. Come o con chi, poco importa.
Se si accetta questo, i suoi film sono giocattoloni divertentissimi e come tali vanno presi. Si toccano picchi di trash per i quali provo grande gratitudine.
Grazie a film nei quali gli aguzzini scivolano sul sangue e si tranciano le gambe, attacchi di diarrea sconvolgono dei prigionieri in punto di morte e si hanno attacchi di panico in seguito all'efferata rapina di un ipod, Roth non si è solo fatto un nome: ha sgomitato nell'industria fino a fare tutto.
Roth produce, scrive, anima, recita, fa le serie tv.
Ha smesso di fare orrore ed è passato ai film per bambini (non gli vengono particolarmente bene manco quelli) o i remake di quelli storici.
Non è strano che il suo nome nonostante tutto sia così rilevante. è onnipresente, ha gli amici giusti e ha dato al cinema quello che voleva al momento giusto: i tendini tranciati.
Un posticino nell'horrornomicon gli spettava, dai, non fosse altro per il fatto che alla sua grandissima faccia di tolla ci siamo affezionati tutti quanti, se non altro per il modo in cui gli si illumina tutta la faccia quando parla dei cinemacci dell'orrore che ci piacciono così tanto.
E ne parla tantissimo, History of Horror lo prova.
Quello sì che è carino.

martedì 19 novembre 2019

The Crown - Stagione 3

10:19
Se mi seguite su Twitter prima di tutto mi dispiace per voi, lì sono logorroica.
In secondo luogo, però, sapete già che The Crown non solo è uno dei miei prodotti Netflix preferiti ma anche che aspettavo questa terza stagione come si aspettava il messia.
Sì, anche solo per lei, la Regina del mio cuore, Olivia Colman.
Ho sempre tentennato di fronte a domande come 'Chi è il tuo attore preferito?', cose del genere. Olivia Colman, però, è la mia attrice preferita, oltre ogni dubbio. L'ho vista per la prima volta prendere a calci e pugni il marito in Broadchurch (guardatela che è una serie breve pazzesca) e da quel momento tra me e lei è stato amore folle. Vederla diventare sempre più popolare e presente è per me fonte di orgoglio personale, le voglio il bene sincero che si vuole a certe celebrity che non hanno paura di mostrarsi umane. (Chi se lo scorda più, il suo discorso agli Oscar?)
Ma torniamo alla serie.


Per chi fosse nuovo da queste parti: The Crown è una serie che ripercorre il regno di Elisabetta II del Regno Unito, un decennio per stagione, a partire dalla morte del padre Giorgio VI. In questa terza stagione siamo tra gli anni 60 e i 70.

Sono nella solita estasi visiva da fine di The Crown. La serie si conferma esteticamente una goduria, tra abiti, trucco, il clima e i suoi colori, la natura, i castelli. Davvero conta come un ottimo motivo per guardarla, è curatissima ed eccezionalmente bella da guardare.
Dal punto di vista narrativo siamo di fronte a dieci puntate autoconclusive, ognuna delle quali racconta episodi specifici della storia della Gran Bretagna oppure si sofferma su un personaggio nel dettaglio. Spesso l'episodio si conclude con le classiche righe di spiegazione da film tratto da una storia vera, che non solo non danno fastidio ma danno anzi un senso di chiusura per quanto possibile, proprio perché, essendo gli episodi in linea di massima slegati tra di loro, si parla di certi fatti storici in un occasione e poi basta, e così si dà loro una giusta conclusione.

Poco importa che dei Windsor interessi o meno: la serie sarebbe magnifica anche se si trattasse di una serie di finzione. Ha una tale profondità nel mostrare (non raccontare, mostrare proprio) le persone e i loro rapporti che ha bisogno di poche parole. Ci sono tanti primi piani messi in mano ad attori (tutti quanti) che sono in grado di comunicare ogni cosa senza parlare, e la serie ne guadagna in eleganza.
Non di solo Colman è fatto il cast: se lei è la più brava di tutte (non dico nella serie, dico nel mondo) è vero anche che è stato fatto un lavoro di casting riuscitissimo. Ad eccezione della Bonham Carter, mi dispiace. Non me ne faccio una ragione che Margaret sia lei, non ha alcun senso, non la mando giù. A me la BC non piace proprio, la trovo sempre uguale a se stessa e che un personaggio tormentato come la sorella della regina sia uguale a Bellatrix Lestrange scusatemi ma non riesco a tollerarlo. A rubarci il fiato, però, è Derek Jacobi, nei panni del malato zio abdicatore, il Duca di Windsor. C'è una scena di un dialogo tra lui ed Elisabetta che è incredibile, lo zio è gravemente malato e Jacobi è di un bravo che non ci si crede.

In questa stagione troviamo anche un Filippo mai così umano e apprezzabile, proprio lui che nelle scorse stagioni si era fatto così detestare. A volte è difficile tenere a mente che quel personaggio lì è il memabilissimo duca di Edimburgo che conosciamo nella vita reale, perché questo Filippo, pur mantenendosi se stesso, è diventato più profondo, meno ossessionato dal suo ruolo di eterno secondo e più presente nella vita della moglie. Mi sono piaciuti tanto personaggio e interprete. Abbiamo anche il faro puntato su Charles, sulla sua vita e il suo ruolo che pian piano inizia a definirsi e acquisire importanza nella famiglia reale, non tanto per i suoi meriti personali, che come di consueto tra i Windsor non hanno alcuna importanza, anzi, ma solo per la figura che rappresenta. Charles è inquieto, frustrato, innamorato. Lui e soprattutto la sorella Anne portano una ventata di freschezza a questa stagione, la voglia di essere e fare niente di più di quello che ci si aspetta da due ragazzi della loro età.
Ma soprattutto, come sempre, il faro è puntato su di lei, Elisabetta, che in questa stagione si lascia andare a qualche momento di emotività in più, pur faticando a tirarli fuori. Si emoziona, piange, si lascia andare a dichiarazioni di affetto più ardite rispetto a quelle a cui ci aveva abituati. E poi ha la faccia della Colman, e prometto di non continuare a fare la fangirl, ma quella lì ha una faccia a cui basta un quarto di movimento per dire tutto, e quando si interpreta un personaggio che non può dire tutto quello che vorrebbe in ogni momento beh, è la scelta migliore che si potesse fare.

E adesso siamo qua, orfani dei Windsor, dei loro casini, dei loro sotterfugi, dei complotti politici e degli sguardi silenziosi. E prima di averne ancora dovremo aspettare che la piattaforma sforni altre 3 stagioni di roba come Tredici prima di avere la nostra meritatissima quarta stagione.
Mettiamoci comodi, sarà un'attesa lunga.


Disclaimer

La cameretta non rappresenta testata giornalistica in quanto viene aggiornata senza nessuna periodicità. La padrona di casa non è responsabile di quanto pubblicato dai lettori nei commenti ma si impegna a cancellare tutti i commenti che verranno ritenuti offensivi o lesivi dell'immagine di terzi. (spam e commenti di natura razzista o omofoba) Tutte le immagini presenti nel blog provengono dal Web, sono quindi considerate pubblico dominio, ma se una o più delle immagini fossero legate a diritti d'autore, contattatemi e provvederò a rimuoverle, anche se sono molto carine.

Twitter

Facebook