sabato 17 ottobre 2020

The haunting of Bly Manor

11:54

Non starò qui ad ammorbare chi legge con l'ennesima intro su quanto Mike Flanagan sia uno dei registi che amo di più al mondo e su quanto The haunting of Hill House sia per me la cosa migliore più grande mai accaduta al mondo delle serie tv. Per questo c'è un post specifico che trovate qui.

La sola cosa che è importante dire è che, nonostante le mie paure siano sempre state ampiamente smentite dal regista di cui sopra, mi sono approcciata alla visione della seconda stagione della serie migliore della storia con una bella fetta di timore. Era The haunting ma non era la mia storia, non erano i Crane, non era Hill House. Non so come avrei reagito se non mi fosse piaciuta.

Facciamo quindi una recensione breve: sebbene Hill House mantenga nel mio cuore un posto tutto suo dovuto forse al suo essere la prima (o forse al suo essere perfetta, chi lo sa), Bly Manor è stata l'ennesima conferma che io questi timori non li devo avere mai più, perché il cuore e la testa di Flanagan continuano a parlare ai miei e anche questa volta ha fatto la magia.




Per la recensione intera mi sa che ci sarà da mettersi comodi. Farò il possibile perché sia senza spoiler.

Piccolo accenno di trama per chi non sapesse di cosa di parla: la serie è tratta da Il giro di vite, di Henry James, e racconta dell'arrivo di Dani a Bly Manor come ragazza alla pari. Dovrà occuparsi di Flora e Miles, due bambini rimasti recentemente orfani. Con lei nella casa ci saranno il resto dello staff e qualche fantasma.

Ho provato diverse volte a scrivere questo post, perché ci penso da ieri sera, quando ho visto l'ultimo episodio. Eppure le parole che mi vengono in mente quando parlo di Flanagan e dei suoi lavori - anche se in questa stagione il suo ruolo è "solo" di showrunner, perché di episodi ha diretto solo il primo - sono sempre le solite: delicatezza, poesia, intimità, profondità. Alla lunga scrivere sempre le stesse cose diventa ridondante, persino per me che mi ripeto in continuazione. 

Però sto provando a mettere a fuoco cosa di lui io ami così profondamente, per imparare ad argomentare meglio quando scrivo i miei post, ed è difficile. Perché Bly Manor, tanto quanto Hill House prima di lei, non tocca la mia parte razionale. Si tratta di una serie con un'estetica che incontra il mio gusto (costumi, luci, ambienti, messa in scena, per i miei occhi è stata estasi costante), con una scrittura superba che ho ammirato scena dopo scena, con una bella regia coerente con quella del suo showrunner, con grandi interpreti. E queste cose sono certamente fondamentali per il giudizio di un prodotto del suo tipo. Flanagan ricerca sempre una raffinatezza nel comparto tecnico che anche qui si è fatta notare. Però il punto per me non è quello, e da quando ieri sera ho spento la tv rifletto su come mettere nero su bianco il modo preciso in cui mi colpisce così forte.

Il punto è sempre stato il cuore. In un momento in cui escono mille serie al giorno e si punta sempre al prossimo grande successo che farà vendere mille magliette e creerà milioni di cosplay tutti uguali al Lucca Comics (nessun riferimento a case di carta è intenzionale), Flanagan rallenta i ritmi. Non ricerca la frenesia dell'azione, l'iconicità e la riconoscibilità del suo prodotto. Lui ha storie di persone da raccontare e sa che per fare questo serve altro. Si prende il lusso della lentezza, pur essendo in grado di non creare mai storie noiose, perché, come dicevo su, sa scrivere come nessun altro. Usare la lentezza è quello che serve per creare la quotidianità. Ed è quando ricrei una quotidianità reale, con cui si empatizza così tanto, che ci sbatti con violenza dentro il cuore e la testa dei personaggi che stai portando in scena. L'amore reale che si porta a casa per queste persone non nasce nel momento in cui rischiano la vita l'una per l'altra, o quando affrontano fantasmi spaventosi. è un sentimento che si sviluppa quando assaggiano tutti le creme che Owen ha fatto e decidono quale sia più buona, è quando si prendono una pausa dal lavoro e si fermano a bersi un gin tonic e a fare del sano gossip. Li ami un po' di più quando si danno il primo bacio e non va tutto come nelle favole, quando sono spaventati, quando litigano. Quando si scambiano parole quotidiane, quando sono persone normali, con amori che fanno male, con gelosie, con piccole discussioni della vita di tutti i giorni. E per raccontare questo serve tempo. Servono 9 episodi da un'ora l'uno (e sa solo dio se ne vorrei di più) per far sì che alcune persone passino da sconosciuti a colleghi, ad amici, a famiglia. Serve morbidezza nel racconto perché alcune persone capitate lì per caso diventino l'anima intera della casa che amano. L'amore che inevitabilmente si prova per i bambini diventa collante e infine l'amore permea la casa, ed è così forte l'unione che ne nasce che l'ultimo, meraviglioso episodio ce lo conferma. Non si esce mai da quei legami qui, quelli nati con le piccole cose, con la vita condivisa. 

E noi, che lo vediamo sullo schermo, siamo con loro, con il cuore e con la testa. Siamo insieme al meraviglioso Owen quando soffre e ammette cose difficili e beve perché tanto cosa altro può fare? Siamo con Hannah che deve convivere ogni giorno con una vita nuova perché la sua le è stata stravolta. Siamo con lo zio Henry, quando con una sola battuta è stato in grado di ribaltare la sua immagine e spezzarci il cuore. E siamo con i bambini, che sono piccini e pieni di problemi, ma che sono più grandi di tutti, perché hanno segreti e li tacciono solo per il bene di quei grandi che dovrebbero nasconderli a loro, i segreti.

Il male, a Bly Manor, ha la forma del trauma, del dolore che ha fatto fermentare il germe cattivo. Non ci sono cattivi e basta, ci sono persone rotte dentro che non sanno come fare ad essere altro che così. Non ci sono nemici, non ci sono vincitori. Quello a cui assistiamo è il frammento di alcune esistenze e, sebbene da un punto di vista strettamente tecnico i tempi siano perfetti così, è ogni volta un dolore non poterli accompagnare oltre. Vedere Flora diventare grande, vedere Owen guarire dal suo mal di cuore, vedere Jaime felice, vedere la vita di tutti andare avanti. Mi pare evidente che la serie la ricomincio subito, ma mi fermerò sempre lì, e sarà sempre una sofferenza.


Il modo in cui Flanagan ha rivestito di un amore così profondo l'orrore mi lascia ogni volta senza parole. Tra gli appassionati si sa che l'orrore è cosa ben più ampia dei cinemacci di sangue e squartamenti che gli vengono spesso affibiati come unica caratteristica, ma Flanagan lo sta facendo su Netflix. Non in un cinemello di nicchia, ma sulla più grande piattaforma di streaming del momento lui sta  mostrando a tutti che quella poesia qua è possibile. Ci sta dicendo che il modo migliore per parlare di sentimenti è quello sincero, non artefatto, non costruito a pennello per ricalcare un nostro immaginario. Usa un linguaggio così vicino a noi che i nostri sentimenti si fondono sempre alla perfezione con quello che vediamo sullo schermo. Mi dispiace non essere in grado di evitare i consueti aggettivi che gli riservo, quindi li metto tutti alla fine e tutti insieme, per sfogarmi di averli trattenuti finora: Bly Manor è l'ennesima storia di Flanagan che mescola l'orrore con la poesia, fondendoli con la maestria di chi questo cuore ce l'ha sinceramente e non costruito solo per fare un buon prodotto. In questo caso c'è anche l'aggiunta di un magnifico racconto d'amore, e se aveste qualche dubbio ve lo sciolgo subito: è dolcissimo nel modo potente e mai mai mai mai mai stucchevole in cui solo lui poteva esserlo. Emozionante sempre, dolce, elegantissimo, magnetico.

Anche questa volta, Mike Flanagan è stato il più bravo di tutti. 

The rest is confetti.

mercoledì 14 ottobre 2020

Redrumia30: settimana due e comunicazione di servizio

17:20

 La possibilità che io potessi eguagliare in grandi successi la settimana uno era già bassa in partenza. Se non sapete di cosa sto parlando, questo è il post da leggere. In più, la scorsa settimana è stata costellata da impegni causa compleanno - tra i quali spicca la più fallimentare delle torte fritte che la vostra abbia mai cucinato - e soprattutto dall'uscita della seconda stagione della Serie Migliore Di Sempre.

Ma andiamo con ordine.




Il primo giorno mi sono guardata Freddy vs Jason, che, devo ammetterlo battendomi il petto tre volte, non avevo mai visto. Per chi come me fosse in ritardo rispetto al resto del mondo c'è Netflix, che in mezzo ad un catalogo horror nel complesso dimenticabilissimo, nasconde cose come questa. Il mio insindacabile giudizio sul film è che se non vi piace non si può essere amici. In una settimana di cosine mediocrissime e noiose fino al sanguinamento oculare, un film in cui i due migliori amici del cinefilo dell'orrore si prendono a botte fortissime non può che essere una festa. Protagonista indiscusso è Freddy, il solito sarcastico grilletto che salta e urla e ammazza per tutto il film, il bene che gli si vuole è incontenibile. Jason è il mercenario muto, la controparte "pacata" e silenziosa, lenta e atroce. Non si potevano che mettere uno contro l'altro e il risultato è un film in cui quello che succede è assolutamente irrilevante, vogliamo solo vedere i due amati ammazzarsi di botte e infatti quello ci viene dato. E noi di questo rendiamo grazie.




Sulla scia di Host, guardato e amato la scorsa settimana, ho dato una possibilità anche a Bedeviled. Stava lì su Prime, in attesa di essere guardato. Ecco, col senno di poi poteva aspettare ancora un po'. Io lo dico ogni volta che posso perché non sia mai che mi si prenda sul serio: a me piacciono sì i film autoriali belli seri polpettoni infiniti ma impazzisco anche per i cinemelli scemini con gli adolescenti che sbagliano tutto e muoiono in modi creativi. Questo film poteva regalarmi una piacevole oretta e invece è troppo vuoto, persino per me. Non ci prova nemmeno, ad essere qualcosa di diverso: è un brutto film fatto per cavalcare l'onda dell'horror tecnologico ma che non ha nulla da aggiungere e purtroppo, è fatto per essere dimenticato non appena la visione finisce. Peccato.




Qui ho fatto un errore da principiante, lo ammetto. Widow's walk mi scrutava da Prime da un po'. Aveva questa locandina bella pastello, un bel titolo, aveva la campagna inglese, i fantasmi, una storia di lutto...poteva avere il mio cuore. Non lo ha avuto. 

Quella che avrebbe potuto essere una magnifica, lenta e dolcissima storia di elaborazione del lutto ha il difetto principale di essere vuota. Avrebbe potuto essere un corto, in una ventina di minuti si sarebbe costruito quello che la regista ha tentato di fare qui allungando la minestra con tante, tantissime scene che ambiscono ad un'eleganza e ad una ricercatezza che purtroppo non raggiungono mai. Ci prova, con questa musica, questi colori, questa lentezza che ha, ad essere il film che vorrebbe tantissimo essere, ma per mia opinione fallisce completamente rivelandosi noioso, vuoto e allungato. 

Peccato, parte 2.


E infine, ovviamente, ho iniziato The haunting of Bly Manor.

Ci sarà per ragioni ben più che ovvie un post interamente a lei dedicato, ma per ora, che sono solo all'episodio 5, posso dire qualcosina.

Mike Amore Mio Flanagan non dirige più ogni singolo episodio, ma quella serie qua è roba sua e si vede sempre, perché quando si impara a conoscere il calore che emanano le sue produzioni poi lo si identifica in un attimo, e Bly Manor ne è piena tanto quanto Hill House. Mi spaventa il confronto perché la prima stagione aveva il vantaggio della sorpresa: è stata la prima volta nella mia vita in cui ho così brutalmente empatizzato con qualcosa che guardavo nello schermo ed è stata la prima volta in cui le emozioni hanno toccato picchi mai esplorati prima con un prodotto di finzione. Hill House è per me arrivata là dove nessuno era mai arrivato prima e adesso pensare che sto guardando qualcosa che le è legato ma non è lei mi turba quasi un po'.

La verità è che per ora Bly Manor è altrettanto bella. Quello che tocca, nelle storie di Flanagan, sono le relazioni tra le persone, e in questa è pieno di momenti di vita quotidiana di persone inizialmente sconosciute ma che stanno imparando ad essere l'uno la casa dell'altro. Ci sono sguardi, pasti assaggiati, inside jokes che vedi nascere e quindi inevitabilmente diventano anche tuoi, come lo schifoso tè di Dani. Ci sono i fantasmi che ciascuno porta con sé, e c'è il carico del proprio passato che pesa sul proprio presente. E ci sono due bambini strabilianti. Amo moltissimo che Flora e Miles non siano i bambini di Hill House perché la mia Nellie e il mio Luke non potevano essere altro che loro, così come i due fratelli di Bly si stanno ritagliando un posticino tutto loro nel mio cuore. Quella Flora lì e la sua vocina e le sue frasi meravigliose avrei voluto metterla al mondo io, è un incanto di creatura preziosissima e se qualcosa di male le accade entro la fine della serie non rispondo della mia reazione.

Pensavo mi stesse facendo meno paura di Hill House, che alla prima visione mi aveva messa in difficoltà, ma era solo perché non avevo ancora visto l'episodio 5.

Ne riparleremo prestissimo. 


Vorrei dire che è stata una settimana mediocre dal punto di vista delle visioni ma quando guardi qualcosa che esce dalle mani e dalla testa di Mike Flanagan tutto il resto va fuori fuoco. Settimana spettacolare.



Comunicazione di servizio

Venerdì ho festeggiato il compleanno con gli amici, e mi è stato fatto un regalo di compleanno che mi ha tolto il fiato. Mi hanno preso diverse copie dei miei libri in cartaceo, così che io potessi regalarli a oratori, biblioteche, associazioni giovanili, maestre, scuole, educatrici, baby sitter, tate...

Questo porta a due cose, e la prima è chiedervi l'ovvio: se conoscete o fate parte di una delle categorie di cui sopra e avete piacere a ricevere una o più copie dei miei libretti, scrivetemi. Ve li manderò con tutto il cuore e sapere che qualche bimbo sconosciuto leggerà le mie storie mi riempirà il cuore di gioia. Spargete la voce, se ritenete me lo meriti, o fatemi nomi di realtà che potrebbero essere interessate, perché ho libri da spedire e nessuna paura di farlo!




giovedì 8 ottobre 2020

Redrumia30: settimana uno

10:19

 Ieri la vostra amichevole blogger di quartiere ha compiuto 30 anni e ha chiesto al proprio compagno un regalo particolarmente rognoso e consumatempo, come la leggerissima persona che lei è nota per essere: voglio un horror al giorno per tutto il mese, che uno è il mio compleanno e due, molto più importante, è Halloween, festa nazionale della Redrumia. La regola è solo quella, e sono disposta a giocare un pochino sulla definizione di orrore per andare incontro anche alla mia vittima.

Lui, anima paziente quale è, ha acconsentito al mio capriccio mettendo da parte il fatto che gli horror generalmente gli facciano paura e io per un mese intero non devo fare compromessi sul film da vedere: solo horror, per 31 giorni. Sono scodinzolante come un cucciolo che sente il rumore del sacchetto della pappa.

Ogni 7 giorni sarò qui a fare un resoconto delle visioni.

Giorno 1: Orgoglio e pregiudizio e zombie



Io sono di bocca buona, lo so, mi accetto con tutti i miei difetti e va bene così. Quindi, con questo presupposto, capirete da voi che PPZ mi ha deliziata. Un miscuglio di splendidi costumi e capelli acconciati, spade, cavalli, combattimenti, armi, matrimoni combinati e da combinare e zombie affamati di cervelli. Ci sono tutti i personaggi del romanzo, ci sono frasi estrapolate e riportate letteralmente, e poi ci sono le scene di zombie che sono appiccicate in giro per la trama che tutti conosciamo e amiamo e che onestamente non sono nemmeno cucite in modo troppo maldestro. La Austen al cinema è stata presa e rivoltata come un calzino più volte (guardate anche l'ultimo Emma perché è delizioso!) e in questo caso è stato, secondo il mio modestissimo parere, un modo divertente di rivedere - per l'ennesima volta, che qua di Orgoglio e pregiudizio non ci stanchiamo mai - una storia che in purezza amo moltissimo. Certo, sbagliare mr Darcy è l'errore più grande che si possa fare in un adattamento, ma glielo perdoniamo perché le sorelle Bennet ammazzano di botte i ritornanti e forse questo era quello che tutti ci meritavamo di vedere.


Giorno 2: Tales of Halloween




Per questo ho sbagliato giorno. Questo andava visto il 31, magari con amici poco appassionati del genere, magari con qualche ragazzino. Perché Tales of Halloween è una raccolta di 10 corti che sono talmente perfetti per la notte di Halloween che è stato un dispiacere "sprecarli" prima. Non lo dico solo perché ad Halloween ci sono, effettivamente, ambientati, come poteva vagamente far intuire il titolo, ma anche perché sono storie da raccontarsi sotto le coperte con la torcia sotto il mento, sono raccontini di paura da condividere davanti al fuoco con i marshmallows bruciacchiati da cliché del camping americano, toccando però picchi di cattiveria che mi hanno fatto scuotere più volte la testa in segno di apprezzamento. Carino per chiunque, ma adorabile per chi riconoscerà volti noti e amatissimi del genere che fanno la loro gloriosa comparsa in giro per i crudeli cortometraggi.


Giorno 3: Burying the ex



Erano giorni che Prime cercava di propinarmelo e io, complice la presenza (💔) di Anton Yelchin non ho saputo resistergli. Joe Dante ci offre una commedia divertentissima, bella piena di amore per l'orrore come di consueto e di una malsanissima concezione dei vegani che in fondo per questa volta gli perdoniamo. Davvero un filmetto da nulla, soprattutto considerato cosa lo ha accompagnato durante la settimana, ma una piacevole serata con un po' di risate ce l'ha fatta fare, e a volte va benissimo anche così. 


Giorno 4: The babysitter



Mai sentito nominare il regista, letto poco e niente a riguardo. Lo apro perché mi puzza di horror comedy e infatti di questo si tratta. Una volta accettata la ridicola idea che un 16enne abbia ancora una babysitter ci si mette comodi e ci si gode un film carinissimo, con personaggi idiotelli ma satanisti, con morti esemplari e un protagonista pieno di risorse. 

Giorno 5: L'esorcista



Netflix ha pensato di farmi a sua volta un paio di regalini di compleanno. Il primo è che domani arriva la seconda stagione della miglior serie mai realizzata, il Capolavoro del genere, l'Opera d'arte televisiva nella sua massima espressione. Esce The haunting of Bly Manor e io mi sento male al solo pensiero. L'altro è che si è preso L'esorcista. Ho parlato in lungo e in largo di questo film (e del suo straordinario romanzo) e del rapporto che ho con lui, nello specifico in questo post. Io sono atea da tanti di quegli anni che nemmeno me lo ricordo, ma l'impatto che questo film ha su di me ogni volta che lo vedo è notevole. Per Erre era la prima volta, ed è stato interessante notare come la fama che lo precede non renda per nulla giustizia ad un film che ha in realtà così tanto da dire. Lui si aspettava tutt'altro. Le scene di possessione si sono prese tutto lo spazio e la notorietà, ma sono strette piccine piccine quasi tutte nell'ultima parte del film. Sono notevolissime, iconiche, storiche, quello che volete, ma è tutto quello che si è costruito prima che porta a quel finale che tutti conosciamo e come lo ha fatto Friedkin (e Blatty col romanzo prima) non lo ha mai più fatto nessuno. Ogni visione lo conferma il film immenso che mi aveva sconvolto così tanto la prima volta.


Giorno 6: The invisible man




Arrivo in ritardo sul mondo intero con questo film, lo so. Forse per me è stato meglio vederlo in casa, devo essere sincera, perché è stata un'esperienza che mi ha sopraffatto. Sapevo benissimo a cosa andavo incontro perché il trailer era molto molto chiaro (troppo? dovrei smettere di guardarli? mi sa.) su cosa ci aspettava. Però questo è stato un film che ho sinceramente faticato a vedere, perché mi ha tolto l'aria dai polmoni. Sono stata molto al telefono, devo ammettere. La recitazione della Moss è come sempre una delle cose migliori che siano mai successe al cinema, e l'empatia nei suoi confronti è talmente intensa che davvero ha reso la visione faticosa. La storia è soffocante, difficile da sostenere, di una crudeltà senza pari. E soprattutto è la storia di milioni di donne ogni giorno e forse è questo, insieme a tutto il resto, che la rende così insostenibile. Ci siamo entrambi spesso ritrovati con le mani sulla bocca senza commenti da fare, perché la situazione era talmente atroce che nessuna osservazione ci avrebbe dato sollievo. Ripensandoci a mente fresca è un film strepitoso, una luce nuova e attualissima sul tema dell'uomo invisibile, con attori ottimi (c'è Luke di Hill House e nessuno me lo ha detto, non si scherza così con i sentimenti raga) e scene di un'inquietudine insostenibile. Un lavoro gigante, ma che per me si è rivelato fonte di sofferenza vera. Il cinema fa anche quelle cose qua, ed è per questo che lo si ama così tanto. Solo che quell'amore qua a volte ti mette alla prova. 


Giorno 7: Host




Il 7 è stato il mio compleanno, e siccome sapevo che la sera sarei stata a casa sola mi sono scelta un film che a Erre non interessava particolarmente. Host è nel mio radar da quando la community dell'horror di twitter ne ha tessuto le lodi per settimane. Ho fatto bene ad ascoltarli, ed Erre è stato un pollo. Era rimasto scottato dalle precedenti visioni a tema social (Unfriended su tutti, che gli ha fatto schifo mentre a me ha divertito perché sapete ho un debole per i teen horror, mi piacciono tutti) e questo se lo è saltato volentieri. E ha fatto male, perché Host è un'oretta scarsa di paurella pura. Dal suo punto di vista in effetti si potrebbe dire che ha fatto bene. Come queste amiche possano avere pensato che fosse una buona idea una seduta spiritica tutte lontane l'una dall'altra è per me un grande mistero, ma la sofferenza e il terrore che provano sono reali, tangibili. Bravissime le ragazze, belle le manifestazioni dello spirito, spaventosino il clima. Una bella sorpresa, che conferma sempre di più che noi italiani siamo persone orrende, ma non abbastanza da non meritarci Shudder. 


Sono molto soddisfatta della mia prima settimana. Più commedie di quelle che avrei voluto ma, come vi dicevo, devo essere un po' flessibile o questo mi molla prima del giorno 10. Poi è arrivato il maledetto uomo invisibile e mi ha fatto passare la voglia di ridere per un beeeeeel po'. 

Ci aggiorniamo tra una settimana!


martedì 1 settembre 2020

Notte Horror 2020: Dovevi essere morta

21:00

 Mi sembra passato un secolo dall'ultima volta che da queste parti abbiamo parlato di Wes Craven. Il bene che gli si vuole, però, è immutato, e quindi perché non approfittare della mitologica Notte Horror per tirare fuori dal calderone uno dei suoi film minori?




Dovevi essere morta esce nel 1986, è tratto da un romanzo che non ho letto ed ha una di quelle storiacce che rovinano il cinema. Il regista lo vuole in un modo, chi ci mette i soldi in un altro, il desiderio di continuare a farli, sti soldi, chiede altro ancora e alla fine si fa un pasticcio che non porta niente di buono a nessuno. 

Il risultato? Il film è venuto male, ha perso un sacco di soldi e Wes non era contento. E se Wes non è contento nessuno è contento.

Sorge spontaneo chiedersi allora perché lo abbia scelto per la Notte Horror di quest anno. Perché è tatone.

Lo so, sono una sempliciotta in questi casi, ma ho un debole per i teen horror, l'ho sempre detto. Questo non ama le etichette, perché in quanto pasticcio è difficile anche classificarlo in un genere piuttosto che in un altro, però gli voglio lo stesso bene che voglio a cosine ben migliori come So cosa hai fatto. 


In questo caso il protagonista è Paul, un giovane genio che si trasferisce con la mamma in una cittadina nuova perché è stato ammesso prima del tempo all'università. Paul si è costruito un adorabile robottino che risponde al nome di BB che gli serve per studiare al meglio le possibilità che la tecnologia può offrire per aiutare le persone. Lo sentite già dove sta andando a parare, vero?

Paul fa la conoscenza di Samantha, la vicina di casa, e si prende una cotta di quelle che non te le dimentichi più. (Beh, di sicuro Paul non dimenticherà mai la sua, se non altro) Quando Samantha ha bisogno di aiuto, ecco che intervengono Paul e BB a salvarla. Potrà mai finire bene sta faccenda? E infatti.

In questo film ci sono: l'inizio col trasferimento che io amo, forse perché ho fatto 8 traslochi in tutta la vita ed empatizzo o forse perché amo Casper; la cottarella giovanile, che è sempre adorabile da vedere; l'amico buffo; i bulli che vengono scansati con l'intelligenza e non con le botte; un robottino adorabile e, infine, un giovanissimo Victor Frankenstein, che ambisce a riportare la vita laddove di vita non ce ne sia più. Nel più semplice dei modi possibili, queste sono cose che bastano a farmi affezionare ad un film. Poi, chiaramente, possiamo parlarne seriamente, e dobbiamo dire che il film risente tantissimo delle milioni di modifiche fatte in post produzione: è talmente taglia e cuci che sembra un brutto vestito di Desigual. Nasce come sci fi però poi gli dicono che è troppo poco violento, allora lui aggiunge la violenza, però poi è troppo violento e insomma: una brutta storia. Eppure per qualche ragione ho finito per affezionarmici, forse per il faccino di Paul da piccolo impacciato ma determinato, forse per la comparsa della mamma della banda Fratelli, o forse anche solo per il nome del regista, che stava lì piazzato sulla copertina a dirmi che dentro avrei trovato roba buona. Non è stato oggettivamente così, ma ingannevole è il cuore più di ogni altra cosa. (Scusate, devo uscire dal loop della famiglia Argento, mi serve un attimo)

Volevano che Wes Craven facesse un film più da Wes Craven, e così facendo l'animo di Wes l'hanno affossato insieme a tutti i soldi persi per sta roba. Un peccato, chissà cosa sarebbe stato se gli avessero lasciato fare quello che voleva.

domenica 30 agosto 2020

Horrornomicon: l'Opera di Dario Argento

17:04

 Redrumia oggi parla di tante cose diverse, ma quando è nato era tutto rosso, con un altro nome e parlava quasi solo di cinema dell'orrore, il mio primo grande amore. In tutti questi anni ho parlato di tanti film, tanti autori, tanti sottogeneri, eppure non ho mai parlato di quello che il grande pubblico considera il più importante regista di genere italiano: Dario Argento.



Il motivo è molto semplice: a me Argento sta sulle balle come persona e non piace come regista. 

Mi dispiace se in questo post risulterò ancora più ostile e polemica di quanto già non sia abitualmente, ma ho tante cose da dire e nessun altro posto se non questo blog in cui sfogarmi per bene.

Argento nasce con quello che dalle mie parti chiamiamo il culo nel burro. Sua madre è una delle più famose fotografe della capitale, e dalla parte del padre la famiglia lavora nel cinema da almeno due generazioni. Ha i mezzi e le conoscenze giuste, e parte con una notevole spinta che lo ha portato ad essere oggi conosciuto in tutto il mondo. Da parte sua, questo almeno glielo devo, ci mette un'indubbia passione. Ma andiamo in ordine.

Dario inizia la sua carriera lavorativa come giornalista: scrive di cinema e spettacolo per Paese sera e pian piano si apre alle sceneggiature, cosa che la sottoscritta trova particolarmente buffa considerando che se c'è una cosa che nei suoi lavori che è oggettivamente scadente è proprio la scrittura. Insomma un giorno scrive una sceneggiatura e gliela rifiutano ovunque. L'uccello dalle piume di cristallo non piace. Lui allora corre a piangere tra le braccia di papà il quale prontamente apre una casa di produzione, egocentricamente chiamata SEDA (Salvatore e Dario Argento), e gli produce il film, in barba ai cattivoni che non te lo volevano far fare amore il tuo cinemino. 

Nella sua autobiografia (Paura, edita Einaudi) Argento chiarisce che del comparto tecnico non ne sa nulla, che non ha mai nemmeno assistito alla realizzazione di un film, è come un bambino al primo giorni di scuola che non sa manco tenere in mano una biro. Eppure, con l'arroganza che lo contraddistingue per tutta la durata del libro, specifica che non si è fatto mettere i piedi in testa da nessuno, che non ha accettato consigli da nessuno e che ha comandato lui. Bravo pirla. L'inesperienza non è mai una colpa, l'arroganza sempre, e infatti il film lo mostra chiaramente. Come tutti e tre i film della Trilogia degli animali è noioso e scritto da cani (per restare in tema animalesco). Pone chiaramente le basi per tutti gli elementi che troveremo in futuro in buona parte della sua produzione e chiarisce subito con chi abbiamo a che fare e detto da me non è una cosa positiva in questo caso. Possiamo poi davvero parlare di elementi ricorrenti o si tratta palesemente di riciclaggio di idee che erano già stantie la prima volta? Lascio a voi intendere quale sia la mia opinione. Però il film funziona. Fa un sacco di soldi.

Siccome il cinema è pur sempre un'industria ecco che al film ne seguono immediatamente altri due: Il gatto a nove code e Quattro mosche di velluto grigio. Avete tutta la mia ammirazione se siete in grado di distinguerli uno dall'altro. (Ma anche dai suoi gialli successivi). Tre gialli all'italiana che hanno contribuito sicuramente a mettere a fuoco quelli che con il tempo sono diventati tratti distintivi del genere e che hanno indubbiamente portato a decine di emulatori, ma che sono invecchiati malissimo, che non reggono il confronto con chi realmente del genere è stato pioniere (Mario Bava, parlo di te). Non li posso sopportare e non costringerò mai più me stessa alla visione di questa roba perché la vita è una sola. 

Certo che poi è successo Profondo rosso, che sarei ingiusta a paragonare ai primi 3. Rimane un film che non amo particolarmente, ma è chiaro anche ad occhi che, come i miei, non hanno particolare interesse a guardare, pur essendo uguale su un milione di aspetti ai suoi predecessori (ma i suoi gialli sono tutti fatti con lo stampino, mi ripeto) di sicuro sposta l'asticella un po' più in alto, per cura e interesse e anche banalmente livello di violenza. L'inserimento di almeno un pochino di soprannaturalità (l'autocorrettore non me lo corregge quindi deve essere un termine italiano) è sicuramente un valore aggiunto.

Ed è a questo punto, però, che mi sento di parlare di un'altra faccenda. Pare evidente agli occhi dello spettatore che Argento ha una gran passione per tutto il comparto tecnico, questo glielo devo concedere. Lo ama proprio, fa ricerca, si impegna, gli piace un casino. Il suo periodo d'oro è stato negli anni '70, e bisogna ammettere che l'artigianato dei suoi lavori è una delle componenti più interessanti. Ma è qui che mi casca l'asino. Dario Argento, grazie appunto al papà di cui sopra, ha avuto l'immensa possibilità di circondarsi fin dal primo film di straordinari professionisti del settore. Il direttore della fotografia de L'uccello dalle piume di cristallo è Vittorio Storaro, 3 volte premio Oscar di cui una per Apocalypse Now. Sempre per il suo primo film ha avuto Ennio Morricone per la colonna sonora, e la loro collaborazione si è poi estesa a diversi altri titoli. 4 mosche di velluto grigio è stato montato da Francoise Bonnot, Oscar nel 1970 per il montaggio di Z - L'orgia del potere. Carlo Rambaldi ha curato gli effetti speciali di Profondo rosso. La sua collaborazione con Stivaletti è storica. Ha spesso lavorato con Mario e Lamberto Bava. Forse il mio è un giudizio superficiale e anche cinicamente dettato dalla mia antipatia, ma se non avesse avuto questo sconfinato privilegio oggi noi Dario Argento non sapremmo nemmeno chi è. Nella sua biografia anziché prendere coscienza di questo si pone in una posizione di estrema superiorità rispetto ai suoi collaboratori, parlando spesso di 'sguardi riconoscenti' nei suoi confronti dai suoi amati sudditi che tanto avevano bisogno di lui. Parla apertamente di persone di rilievo nel mondo del teatro che devono a lui la rinascita della loro carriera. Un ego che non ci si crede. Mi sono spesso ritrovata a leggere attonita gli sproloqui di un uomo anziano così pieno di sé da non vedere oltre il proprio naso. Tutto il mondo dello spettacolo debitore nei confronti di Dario Argento. Un modo così gonfio di parlare della propria vita che lascia senza parole.

Però dopo Profondo rosso succede qualcosa che per me ha del soprannaturale: Dario Argento fa un capolavoro. Qualcosa di inspiegabile avviene in Italia nel 1977 e quel qualcosa risponde al nome di Suspiria, uno degli horror italiani preferiti di sempre della sinceramente vostra. Suspiria ha tutto: colori, regia, atmosfera, folklore, ambientazione, storia. L'aria del film è straordinaria a partire dalle primissime scene. Come un lavoro così sia riuscito ad un regista che sia prima che dopo non ha mai soddisfatto le mie aspettative ha per me dell'incredibile. Suspiria è un film che si piazza sotto la pelle, che incupisce l'aria intorno, che non fa la paura canonica ma che molto più elegantemente inquieta e riempie l'atmosfera. Il remake di Guadagnino è una meravigliosa ciliegina su una torta già buonissima, che naturalmente Darione ha dovuto rovinare sputandoci sopra con la presunzione di chi non vuole ammettere che qualcun'altro abbia fatto un lavoro immenso. Peccato per lui, che non sa vedere il bello nemmeno quando glieli cacci sotto il naso come Sherlock Cumberbatch il giorno delle nozze di Watson nella serie tv. La mia opinione da hater è che il contributo della Nicolodi in Suspiria sia molto più importante di quanto Argento voglia farci credere, perché come questa roba sia uscita dalle mani che hanno prodotto Il fantasma dell'Opera del '98 è non solo inspiegabile, è incredibile.

Gli anni '80 rappresentano un gran calderone di roba mediocre. Non si toccano i picchi di orrore (nel senso brutto del termine, non in quello interessante) che raggiungiamo dal '93 in poi, ma di roba buona c'è ben poco. Sono degli anni '80 Opera, uno dei film con i dialoghi più atroci mai visti (ma sono reduce da Tenet, e anche lì a dialoghi...), l'impietoso - e noiosiiiiissimo - sequel di Suspiria, Inferno, ma anche Tenebre e Phenomena. Il primo è uno di quei gialli sempre identici a se stessi di cui sopra e il secondo è pieno di insetti quindi il mio giudizio è di parte: al patibolo. Gli anni '80 sono noiosi, nel complesso trovo i suoi film di questo periodo ripetitivi, poco interessanti, con nulla da dire.

Poi arrivano gli anni '90, quelli con la fama di essere brutti e cattivi per il cinema dell'orrore. Per Dario Argento è l'inizio della fine. Non che per me abbia mai avuto momenti di vero splendore, Suspiria a parte, ma quello che succede da Trauma in poi è una lenta discesa verso gli inferi del cinema. Se per i primi film mi pareva anche giusto spiegare cosa ci fosse di sbagliato, elencare l'orrore che succede nei film dell'ultima fase del regista romano è come sparare sulla Croce Rossa. Non sarò così superficiale da attribuire il considerevole peggioramento solo all'introduzione della figlia Asia in ogni cast dal '93 in poi, non sono così ingiusta. Però è sotto gli occhi di tutti che l'amore genitoriale lo ha accecato e lo ha costretto a usare Asia in ogni film, quando davvero Asia dovrebbe fare un altro lavoro. I film da allora dimostrano che non ci si è messi al passo con i tempi, che non si è adattato il proprio modo di fare cinema ai milioni di passi avanti che l'industria ha fatto dagli anni '70 ad oggi. Parlo di recitazione (che è la critica più banale, ma non dirlo è un po' prendersi in giro), messa in scena, banalmente anche solo scelta musicale. I Goblin stavano da dio sotto a Profondo rosso ma stonano sotto Non ho sonno. Oltretutto, Argento sceglie di toccare temi che alla sottoscritta importano molto, e con La sindrome di Stendhal (film in cui la sindrome che gli dà il titolo è assolutamente irrilevante) lo dimostra facendomi anche un po' girare le cosiddette. Da questo momento in poi i film sono parodie, ultimi sos lanciati da un uomo che vuole tenere alto il proprio nome finendo inesorabilmente per trascinarlo giù con sé. Avrebbe potuto fermarsi, vivere nella gloria del passato, fare il produttore. Ha invece portato avanti questo accanimento terapeutico nei confronti della sua stessa carriera che non mi fa venire voglia di prenderlo in giro, ma piuttosto mi intristisce parecchio. 

Quello che è successo dopo, quando sono arrivati gli anni Duemila, non l'ho guardato. Ho provato a guardare Giallo in virtù di una mia passata passione per Adrien Brody, e ho guardato - e prontamente dimenticato - Non ho sonno, ma la vita è una sola. Non posso usare il mio poco tempo libero per guardare Dracula 3D

Quello che, più di tutto, fa sì che io possa dire con discreta certezza che Dario Argento non mi piacerà mai è che non ha nulla da dire. Non serve leggere la sua autobiografia, che è uno dei peggiori libri che ho letto nel 2020 per cose dette e modo di dirle, basta guardare un paio di interviste. Quando gli si chiede di parlare dei suoi lavori lui ci gira intorno, non argomenta mai nulla. Non ha un messaggio da lasciare, non ha un concetto che gli interessa trasmettere, è un guscio vuoto. Parla in continuazione della 'febbre' che lo coglie quando scrive (il che forse spiegherebbe perché scrive così), di incubi, del mostro che vive dentro di noi ma dentro di lui sta un po' più in superficie, roba che se leggo un'altra volta di un mostro dentro Dario Argento chiamo un esorcista perché è chiaro che serve l'intervento della chiesa cattolica. Parlare di horror come di un genere che deve solo fare paura e far fare gli incubi è una visione limitata e limitante, e se questo è quello che Dario Argento ha da offrire allora grazie, ma io sono a posto così.


giovedì 20 agosto 2020

Ho conosciuto Bong Joon-ho

23:55

 Non di persona, chiaramente, anche se qualcuno potrebbe dire che c'è talmente tanto del suo pensiero nei suoi film che dopo averli visti sembra davvero di conoscerlo di persona. Quello che intendo è che sono arrivata come al solito molto in ritardo sul resto del mondo ma dopo questi chiacchieratissimi Oscar 2020 ho conosciuto quello che in pochi mesi è diventato uno dei miei registi preferiti di sempre. Proprio io, che di cinema orientale so poco e nulla. 

Chiacchieriamone insieme, senza che io abbia la pretesa di recensire le cose grandi che ha fatto ma con la voglia di condividere un nuovo amore, ché si sa che quando le cose sono all'inizio è tutto amplificato.

POSSIBILI SPOILER

Io in realtà di quel bel ragazzo qua con degli occhialetti che sembrano quelli da lettura di Bersani e con la sciarpina da compagno che ascolta De Gregori avevo visto Okja in tempi non sospetti, ovvero subito dopo la sua uscita su Netflix. Oggi lo so che il film è perfettamente integrato in tutta una serie di tematiche care al regista, ma allora mi era "solo" sembrato un modo diverso e freschissimo di affrontare un tema fondamentale come quello degli allevamenti intensivi. Non l'ho rivisto per preparare questo post perché la vostra amichevole blogger di quartiere ha un cuore solo e già è malmesso, infierire sarebbe ancora più masochista dei suoi standard.

Ma insomma arriva il 2019 e arriva Parasite, e il mondo trema. Zitto zitto buono buono, costruendo in silenzio un percorso coerente e in costante crescita, Bong Joon-ho ha tirato fuori il carico da mille e lo ha fatto con una commedia. Vedremo nel corso del post quanto gli piace giocare con i generi e plasmarli in base alle sue necessità, ma per quanto cupissima Parasite è una commedia. Dopo essermi fatta a mia volta investire dalla valanga che questo film è stato per tutto l'Occidente, ho capito che dovevo andare oltre, perché quel signore qua ha tante cose da dire e io le volevo sentire tutte. 

Quella con cui ho cominciato è la summa di tutta una carriera, un film in cui tutti i suoi temi e i suoi ideali sono così narrati a fondo che si scava e si finisce sottoterra, dove vive la famiglia Kim. 

E qui arriviamo al primo tema che torna in ogni film e che ogni volta è esplorato in un modo nuovo: la famiglia. A partire da Mother, le dinamiche famigliari sono le protagoniste. Madri disperate, padri distratti o distrutti, nonni affettuosi, fratelli. La famiglia è il nucleo intorno a cui ruota tutto, che riesce ad essere causa dei problemi e soluzione degli stessi. La mamma di Mother e il papà di Memories of murder, per esempio, si trovano nella stessa situazione: un figlio con una disabilità che nonostante (o forse proprio a causa di) questa viene arrestato e accusato di un reato orrendo. I genitori non mettono mai in dubbio l'innocenza del figlio, e il loro dolore è ritratto sullo schermo con la potenza della disperazione e dell'impotenza. Non che si cada mai nella commiserazione, non parliamo mica di un pivellino. Poi i film prendono due pieghe diverse e le storie si allontanano, ma il rapporto con i figli è il medesimo. Così come lo è quello tra il padre della bambina in The Host e, appunto, sua figlia. (Mi perdonerete se non ricordo i nomi, non ho ancora dimestichezza con il coreano e fatico come una dannata anche solo a riconoscerli). Sempre nel monster movie è da strapparsi il cuore anche il rapporto tra il nonno della bambina e quel figlio disgraziato. In Snowpiercer gli basta poco: una scena sola con la mia amata Octavia Spencer e l'amore di una madre per il figlio è già tangibile. Questo modo che ha di mostrare l'amore familiare è così intimo e quotidiano che non ha bisogno di scene melò con la musica dolce e gli sguardi affettuosi. L'amore si comunica con le azioni e nella condivisione della difficoltà. 

E con questa zompata ci agganciamo al secondo tema: i poveri, i parassiti della società. I suoi protagonisti sono gli ultimi, sempre. Gli ultimi del treno, gli ultimi della catena alimentare, gli ultimi della società. E lui questo ritratto della desolazione lo fa spietato: questo è un uomo che quella condizione lì la conosce. Gli ultimi tali sono e tali devono restare, non importa quanto provino a risalire la scala: basta un acquazzone (Parasite) per riportarli dove il mondo vuole che stiano: in disparte, al loro posto, in fondo al treno. Le scarpe, del resto, non te le metti in testa, come dice Tilda Swinton in quel capolavoro che è Snowpiercer. Mamma come mi piace, non ve lo so spiegare. Con il suo debutto americano poteva fallire e farsi un male cane e invece che bomba di film ha tirato fuori. Gli ultimi sono i poveri economicamente, ma anche i disabili: i protagonisti di Mother e Memories of murder sono due giovani con un ritardo, in difficoltà con la vita degli adulti. E quindi la polizia se li prende, se li tortura, si prende gioco di loro, li accusa per dichiarare i casi chiusi e le proprie coscienze pulite. Quanto non piace la polizia a Bong Joon-ho, quanto ne esce male dalla sua opera. Non sarò io a contraddirlo, poco ma sicuro. Lui, bello come il sole e con quel sorrisino buontempone che ha, ha ritratto poliziotti incompetenti, grotteschi, stupidi, e al tempo stesso tanto vigliacchi da abusare del proprio potere sulla parte più fragile della società. E quindi ecco che il protagonista di Mother viene investito da una macchina e quando va a pescare i proprietari del lussuoso Mercedes che lo ha preso in pieno finisce che il finestrino rotto glielo deve pagare lui. Questo concetto viene poi espanso in The Host, quando sembra essere il governo intero a prendersi gioco della popolazione, creando un virus inesistente. Chiaramente è Parasite l'emblema della lotta di classe, perché porta la conversazione ad un livello ancora più profondo: noi poveri siamo così manovrati da chi sta sopra di noi che finiamo per farci la guerra tra di noi anziché unirci per combattere per un mondo più equo. Entrambe le famiglie povere potrebbero campare sulle spalle dei ricchi e quelli sono così fuori dal mondo che avrebbero potuto non rendersene conto, mai. Eppure siamo così istruiti a volerli raggiungere, questi ricchi, che ci dimentichiamo che non è giusto esistano. Un lavoro di analisi delle ingiustizie della società che parte dal film numero uno e che con l'ultimo gli ha dato uno degli Oscar più meritati di sempre. 

La critica alla società capitalistica nel suo insieme, l'attenzione all'ambiente, i ritratti famigliari, la lotta di classe, la diversità, sono temi che in lui ricorrono sempre. Eppure, il pregio più grande della sua cinematografia è che nel corso del tempo il regista è stato in grado di raccontarcela sempre in un modo nuovo. Bong Joon-ho ci ha parlato di temi fondamentali con un thriller. Poi con un film distopico. Poi con un monster movie. Poi con un giallo. Poi con una commedia nera. E non ne ha sbagliato uno. Prende i generi e li plasma a suo piacimento, tirandone fuori ogni volta qualcosa che sia innovativo nel singolo genere ma perfettamente coerente nel suo percorso. The Host, per esempio. Lo si guarda in una serata cazzona con gli amici ed è un bellissimo monster movie, con un ritmo magnifico, divertente ma con la giusta punta di commozione. (io pianto come un vitello ma so che non faccio testo perché piango sempre) Lo si guarda bene ed è una riflessione profonda sul rapporto tra uomo e natura, su cosa abbiamo sbagliato, su cosa sbagliamo ancora. Snowpiercer, il suo esordio oltreoceano è un film distopico con un'azione serratissima per tutta la durata, che non molla un secondo. Eppure è un immenso film sulla lotta di classe. Forse è sbagliato dire "eppure" perché sembra io prima di Bong escludessi la possibilità a priori, ma lui per primo mi ha mostrato che il cinema è più malleabile dello slime con i glitter dei me contro te. Lo prende, lo gira, lo volta, lo pirla, ci fa quello che vuole, perché così potente è il suo messaggio che troverà sempre il modo di dirlo al mondo. 

Non ce n'è uno dei suoi film che a me non sia piaciuto. Quei dolorosissimi ritratti genitoriali in Mother e Memories of murder non me li dimenticherò mai. La scena dell'allevamento di Okja ce l'ho tatuata nelle palpebre. Il finale di Snowpiercer, quello (che male al cuore pensarci) di The Host, la lettera di Parasite. Il cambio di tono che sa dare alle sue pellicole da un secondo all'altro è sempre nuovo, sempre diverso, sempre efficace. Non lo senti mai arrivare, ma quando arriva ti tramortisce e alla fine sai che hai guardato un film ma è stato come vederne due, tre, dieci. Ci ha dato nel corso del tempo la dimostrazione che non esistono generi leggeri e altri più seri, che chi ha un messaggio da mandare ha un milione di modi per farlo e che se nel farlo ci metti il cuore la differenza si vede eccome. Parte in un modo, finisce in un altro, riscrive le regole dei generi, usa il cinema come una sua marionetta e io di quello spettacolo qui che con la sua marionetta sa dare non sono mai sazia. 

martedì 4 agosto 2020

Chiacchieratina sul True Crime

10:19
Qualche tempo fa ho letto qualcuno su twitter dire che il true crime è la pornografia delle donne bianche. Non sono certa di poter dissentire.
Quel che è certo è che ultimamente ho fatto incetta di prodotti su questo genere: podcast, serie tv, libri..e ho pensato di metterli tutti insieme per parlarne.
Il trigger warning necessario è che si parla di storie vere. Magari in qualche caso romanzate o adattate al media in cui vengono affrontate, ma sono persone reali, casi giudiziari reali, e capirei se la cosa potesse in qualche modo risultare indigesta. Se si è empatici il minimo sindacale per potersi definire umani spesso è una sofferenza.
Perché farlo, allora, si chiederebbe il saggio.
Eh, quando potrò permettermi di andare in terapia ve lo saprò dire.

Photo by Tingey Injury Law Firm on Unsplash

PODCAST

  • Serial è il papà dei podcast true crime. Ogni stagione affronta un singolo caso in così tanti dettagli che viene voglia di aprire il proprio fascicolo delle indagini. La prima stagione è inarrivabile.
  • Veleno. Di lui ho già parlato, ma due cose veloci le dico comunque. Si tratta del podcast di Pablo Trincia, di recente trasformato anche in un libro che non ho letto, che tratta di uno sconvolgente caso avvenuto dalle parti di Modena. Diversi bambini sono stati allontanati per sempre dalle loro famiglie, accusate di reati allucinanti come satanismo e pedofilia. L'indagine su cosa sia davvero successo è da incubi.
  • Bouquet of Madness. Due amiche youtuber (delle quali una è Federica Frezza - prismatic310 -, ormai onnipresente su questo blog) si raccontano casi irrisolti e misteriosi da tutto il mondo. Adorabili loro e scelte benissimo le storie.
  • My favourite murder è quello che mi piace di meno. Ha una struttura molto simile a BoM ma trovo molto meno piacevoli le host. Ridere di cose tremende è per qualcuno accettabile, ma bisogna saperlo fare e non sono certa sia il loro caso.
  • Demoni urbani è tutto italiano, e racconta vicende di cronaca nostrane più o meno note. Interessante ma trovo un po' noiosa la scrittura, lo ascolto a piccole dosi.
I prossimi che ascolterò: Up and vanished, Missing&murdered: Finding Cleo, Believed, Morbid, The lost kids. Se ne conoscete altri io sono aperta ad ogni consiglio possibile!

TELEVISIONE
  • Unsolved Mysteries è una delle recenti aggiunte di Netflix. Sono pochi episodi e tutti (tranne uno) lasciano il cuore a pezzi. Un prodotto ottimo, ma fruirne con cautela, è devastante. Siccome è una nuova stagione di una serie storica, vi verrà la curiosità di scoprire com'era l'originale: sono quindici stagioni, tutte su youtube. Le trovate qui, buon viaggio.
  • Processi mediatici, sempre di Netflix. Nello specifico questo si concentra su come l'attenzione dei media possa influenzare non solo l'immagine pubblica di un reato, ma anche l'effettivo svolgersi del processo. I primi episodi soprattutto sono una bella batosta.
  • Vale se segnalo che su youtube ci sono anche tutte le vecchie interviste di Franca Leosini?
  • Dear Zachary non è una serie ma un singolo documentario. Quando l'ho visto io, tempo fa, era su netflix, non so se ci sia ancora. Con questo cautela assoluta, perché cadere dalla bicicletta e spaccarsi un braccio fa meno male di lui. Bellissimo ma straziante oltre le parole.
  • La scomparsa di Maddie McCann, sempre Netflix, sempre un caso di scomparsa. Questo poi l'ho guardato semplicemente perché era una storia recente che ricordavo personalmente. Senza infamia e senza lode per realizzazione.
LIBRO (perché è solo uno)
  • L'avversario, di Emmanuel Carrère. La ormai mitologica storia di Jean-Claude Romand e dell'omicidio che ha commesso ai danni della sua famiglia per coprire decenni di gravissime bugie. Primo Carrére che leggo, ha uno stile scorrevolissimo e senza fronzoli, che forse è il solo modo per raccontare una storia come questa. La storia è così incredibile da non poter essere altro che vera e il libro la racconta con la semplicità di un giallo da spiaggia.
Che opinione avete del true crime? Lo vivete come un modo per portare nuova luce su qualcosa che merita di essere rivisto o è davvero una voyeuristica mania di guardare la sofferenza altrui?

martedì 21 luglio 2020

I libri che ho letto in spiaggia

11:08
La consueta infarinata di fatti miei che apre ogni post. Io amo l'estate, il caldo, il sole fino alle 9, ma soprattutto amo il mare. Mi fa paura come tutte le cose che mi piacciono di più, ma quando non lo vedo per qualche mese di fila mi manca da morire. Perché vivere una vita del cavolo in una società orrenda ed essere pure costretti a farlo in un posto orribile quando potrei avere la stessa vita ma almeno essere in paradiso? Ho lasciato il cuore in Puglia, durante una cena sulla spiaggia, al tramonto, dove mi sono sentita felice come pochissime altre volte nella mia vita.
Mi dovete scusare, sono in sindrome da rientro, ho il mal di Puglia.
Oltre ad un mare magnifico, paesaggi meravigliosi, cibo che non ci si crede e tramonti che belli così non li ho mai visti, la Puglia mi ha regalato il tempo di leggere, che a casa non è mai quanto vorrei.
Vi racconto quindi cosa mi sono goduta in spiaggia, con il vento che mi agitava i capelli e il profumo della crema solare che mi teneva compagnia.
(La smetto, giuro, sto solo soffrendo)



Febbre, di Jonathan Bazzi.

Uno dei finalisti dello Strega di quest anno è spopolato su Instagram, e mi aveva messo curiosità.
Si tratta dell'autobiografia dell'autore, un giovane di Rozzano. 
Jonathan non sta bene: ha questa antipatica febbriciattola che lo accompagna da troppo tempo e fatica a risalire alla causa. Lo conosciamo adulto, che deve gestire questa rogna, ma nel frattempo incontriamo anche il Jonathan bambino, cresciuto nelle case popolari di Rozzano. Con il tempo impariamo a conoscere lui, la sua famiglia, il suo compagno e soprattutto il percorso che lo ha portato ad essere l'uomo che ci racconta la sua storia. 
Di Jonathan Bazzi non amo lo stile.
Quello un po' drammatico così.
Che va a capo dopo ogni punto perché le frasi sono piene di pathos.
Pathos, quello vero.
Ecco, alla quarta mi comincia un pochino a ballare l'occhio. Lo leggo spesso, questo modo di scrivere, anche banalmente nei post di facebook dei poeti wannabe, e non mi piace mai. A maggior ragione non mi piace qua perché la storia mi ha preso immediatamente, e lo ha fatto perché l'ho sentita mia. Ogni volta che Bazzi parlava del suo passato io rivedevo il mio: le case popolari, le famiglie disfunzionali, il chiasso, le urla, il disagio. Il tutto è descritto in un modo sincero, reale. Mi ha colpito nei miei punti deboli e soprattutto lo ha fatto con la maturità di chi ormai queste cose le sa guardare da una giusta distanza. Questo ti dà modo di essere estremamente lucido nel raccontare anche cose che per me sono ancora nebulose di caos. L'ho trovato efficace, onesto e intenso. 
La storia del Jonathan adulto invece si allontana dalla mia, ma non per questo l'ho apprezzata meno. Il percorso vero la verità è difficile, e spesso le risposte trovate lo sono ancora di più, ma ognuno le affronta con un modo tutto suo, e quello di Bazzi è ammirevole.

Miden, di Veronica Raimo.

Anche questo mi è arrivato dall'Instagram, perché per un periodo ne avevano parlato diversi profili che seguo. Miden è una cittadina dell'orrore travestita da sogno. Il Sogno di Miden è quello di una realtà senza problemi, senza intoppi, con smaglianti sorrisi e mai un disguido. Non ci sono avvocati, a Miden: se un cittadino viene accusato di qualcosa di sbagliato una giuria composta dai cittadini valuta quello che i suoi conoscenti dicono di lui e sulla base di queste testimonianze si giudica se un individuo sia o meno degno di restare in questo luogo incantato. 
Per questo, quando il professore (unico modo in cui viene citato nel romanzo) viene accusato da una studentessa di violenza sessuale, quello che si apre a suo carico è un processo molto particolare, nel quale la sua stessa compagna sarà tenuta a dire la sua. 
Quello che si apre di fronte a noi non è solo il racconto di una società in cui ai cittadini è richiesto di raggiungere e mantenere un determinato livello di etica e di mantenersi degni del luogo, ma anche la storia di come un evento violento (sia esso reale o meno) colpisca la vittima, il carnefice ma anche tutte le persone che stanno loro intorno. La compagna del professore è estremamente turbata da quello che ha scoperto ma non solo nel modo a cui verrebbe più naturale pensare. Il pensiero del compagno che fa sesso con un'altra la scuote, la risveglia da un torpore, la distrae dal fatto principale: quel sesso non era completamente consensuale. Il pover'uomo non aveva capito, non aveva colto, che stava esercitando il suo potere su una persona a lui gerarchicamente inferiore, non gli era manco passato per l'anticamera.
Forse il libro esplora troppo poco questa dinamica di potere, che invece è fondamentale affrontare, e si concentra di più sulle conseguenze che la violenza ha sul carnefice piuttosto che sulla vittima, ma ogni cosa che parla dell'argomento da queste parti è benaccetta: che se ne parli, e che se ne parli sempre, da ogni prospettiva possibile.

I fantasmi di Rowan Oak, di William Faulkner.

Faulkner è uno di quegli autori a cui non mi sono mai avvicinata per soggezione. Ci sono cose che spesso evito di fare per la paura di non comprenderle come vorrei e finisce che giro in tondo non concludendo nulla. Però alla parola fantasmi non resisto, e ho fatto bene a sbloccarmi.
Quelli racchiusi in questa raccolta sono racconti senza tempo, di quelli che si raccontano intorno al fuoco mentre i marshmallow si bruciacchiano tra le fiamme. Si parla di famiglie del sud (degli Stati Uniti, che è ovvio ma non si sa mai), di leggende, di bambini curiosi. Leggo in giro che questo è niente rispetto ai capolavori dell'autore, ma di sicuro è una raccolta deliziosa, gotica, fiabesca.
Si legge in un pomeriggio.

Menzione speciale.

La prima cosa che avevo caricato sul kindle per le vacanze in realtà era I giorni dell'abbandono, della mia adorata Elena Ferrante. Non è arrivato in vacanza, perché l'ho letto nel weekend prima della partenza e ne sono uscita con il cuore spezzato. L'abbandono è quello Olga subisce quando il marito la lascia per un'altra. La storia più vecchia del mondo? Sì, ma è qui che sta il talento della Ferrante. Il suo ritrarre l'intimità delle persone, senza paura che risultino poco sopportabili o fastidiose, è spiazzante. Entra nel cuore dei suoi personaggi con una tale profondità che stupisce non parli sempre di se stessa. Sono persone così vere, per nulla costruite per piacerci ma anzi così forti nel loro essere quasi sgradevoli che ci costringono a chiederci quanto di noi ci sia, in quel ritratto così sincero.
Ora, che Ferrante sia una donna è chiaro perché ha un odio per gli uomini che è lampante, ma se così non fosse non farei fatica a credere che il suo sia uno pseudonimo per Domenico Starnone, perché il ritratto che entrambi fanno delle relazioni sentimentali è così cinico che dopo averli letti mi serve un po' di detox.
Meravigliosi entrambi, ma lei ha qualcosa in più, la trovo sempre eccezionale.

Vorrei dire che dopo questa sequela di letture che quantomeno per temi si sono rivelate tutte piuttosto intense mi sono presa un periodo per qualcosa di più felice e invece no, sto leggendo Il buio oltre la siepe, perché qua felici mai.


venerdì 17 luglio 2020

Parliamo (piangendo) di Hamilton

15:55
Se c'è una cosa che mi piace tanto ma non approfondisco mai sono i musical. Non c'è una ragione precisa per cui non mi metta a studiarli per bene, scelgo solo di dare la precedenza ad altro, ma li guardo sempre tanto volentieri.
Il musical più di successo degli ultimi anni è arrivato su Disney+ e io mi sono gustata due ore e quaranta di schiavisti americani che cantano d'amore e libertà e ho pianto ogni lacrima che avevo.


Prima di iniziare devo specificare una cosa. So di chi parla questo musical e di cosa si sono macchiate le persone che sono qui rappresentate. Lo so e devo ancora capire cosa penso del fatto che, pur con lo sguardo attento di oggi, si scelga di portare in scena personaggi che fanno parte di una pagina sporca della politica americana. Non lo so cosa deve fare l'arte in questi casi, se ha dei doveri o se il discernere cosa è giusto o meno è tutto in mano a noi spettatori. 
Quello che ho cercato di fare io è guardarlo come se fosse interamente una storia di finzione, che ripensandoci è una mossa paracula. 
Ho di sicuro ancora tanto da imparare.

Detto ciò, parliamo di Hamilton.
La creazione è tutta di Lin-Manuel Miranda, che per gli amanti delle serie tv è il fratellone d'oro di Amy Santiago di Brooklyn99. Si è scritto i testi, le canzoni, è lui il protagonista. Tutta farina del suo sacco. La storia è quella di Alexander Hamilton, uno dei padri fondatori degli Stati Uniti, che conosciamo sia nella sfera pubblica che in quella privata.

Ho pianto come una dannata per la storia di uno dei padri fondatori degli Stati Uniti.
Chissà poi cosa me ne frega a me dei padri fondatori degli Stati Uniti, ma chi se ne è mai interessato. Forse manco gli americani stessi. Poi arriva Lin-Manuel Miranda, scrive un musical su un tizio che devo ammettere non avevo manco mai sentito nominare in tutta la mia vita, e io sono qua che da tre giorni sto sotto un treno chiamato AlexanderHamiltooon. 
Perché tocca ammettere che se questo musical è diventato la fissa di tutti c'è un motivo e che il motivo è quello più banale di tutti: è magnifico.
Tutto, in Hamilton è potentissimo: la messa in scena, i costumi, gli attori, le canzoni. 
Il modo in cui una noiosissima storia di giochi politici è stata trasformata in una giostra di emozioni mi lascia ancora senza parole. Basta una singola canzone a chiarire cose che a volte nei film non vengono rese con la stessa efficacia. Le emozioni sono istantanee. Quando ho ascoltato Satisfied per la prima volta non sono manco riuscita a piangere, mi aveva preso alla pancia e stavo come dentro ad una bolla a guardare questa strepitosa attrice cantare come una dea del suo dolore senza interagirci, per godermela tutta. Dal secondo ascolto in poi non sono più riuscita a non piangere, e oggi, due giorni dopo, continuo a piangere ogni volta che la sento. E la ascolto tantissimo, Angelica è il mio personaggio preferito.
(Quando invece ho visto e ascoltato per la prima volta It's quiet uptown ho pianto immediatamente, perché c'è un limite a tutto e il testo di questo pezzo qua è così intenso e delicato e perfetto nel dire quello che vuole nel modo più elegante possibile che davvero sfido a restare a occhi asciutti) 
La musica è hip hop, si rappa molto e gli interpreti hanno un talento che li rende evidentemente creature superiori a noi, perché io e la mia voce da papera di fronte ai suoni che certi umani possono emettere alziamo le mani e ci arrendiamo.

E sì, è chiaro che ci sono le parti in cui compare Giorgio III che fanno riderissimo (lui di un bravo che si fa fatica a crederci), che Jefferson è amatissimo perché esagerato, che Peggy è simpatica e quindi è la preferita di tutti delle Schuyler, che ci sono elementi di leggerezza. Ma nel complesso è una storia di ideali e passione, di amore e società, di strategia, della nascita di una nazione, dell'eredità che si lascia dietro di sè.
Mi ha emozionato come una bambina. 

mercoledì 1 luglio 2020

Ho guardato Sex and the city e ho delle opinioni

10:41
Da un po' di tempo a questo parte la tizia che scrive su questo blog si spacca di esercizio fisico. Mica per passione, per carità. Solo per dovere. Avevo bisogno di una serie leggera che mi tenesse compagnia durante le infinite sessioni di cardio e ho pensato che fosse una buona idea guardare finalmente Sex and the city.
Ho tante opinioni in merito.
Spoiler: temo sarò antipatica e rivelerò ogni singola cosa successa nella serie, lo spoiler alert è ai massimi livelli.


Cominciamo col rant femminista, così ce lo leviamo subito.
La serie si è fatta la fama di essere femminista, rivoluzionaria, estrema per quello a cui si era abituati, e io, che negli anni in cui è uscita facevo le scuole dell'obbligo, non so dire quanto e come questo sia vero. Però l'ho guardata oggi, e se è vero che alcune delle cose di cui parla sono ancora oggi considerate tabù (masturbazione femminile, una su tutte), ha dei limiti enormi, che mi sento di giudicare perché non parliamo mica di roba di 40 anni fa. Ok la contestualizzazione, ma questo non è Via col vento.
Le donne protagoniste sono ricchissime (non fatemi nemmeno cominciare a dire quello che penso sulla parte in cui Carrie si deve ricomprare la casa che Aidan aveva comprato per lei o sbrocco subito), bellissime, bianche come il latte, magre. Non sono rappresentative del genere nella sua complessità nemmeno per sbaglio. E sì, parlo dell'estetica, ma non solo. Come ci si può identificare in Carrie? Una che per campare in un bellissimo appartamento a Manhattan scrive un (uno) articolo a settimana in cui fondamentalmente racconta i cazzi suoi e di tutti quelli che la circondano? Solo perché anche lei soffre per amore? Siamo solo questo? Siamo tutte uguali perché prima o poi nella vita siamo state con uno che non voleva le nostre stesse cose e quindi la comprendiamo?
Non è così, è una visione troppo limitante per essere presa sul serio.
Ma la cosa più grave è che quando la serie prova a parlare di argomenti davvero significativi (non che l'amore non lo sia, non fraintendetemi) non lo fa mai come dovrebbe. Non approfondisce, non esplora, non va mai oltre la singola scena carina che fa da contorno ai discorsi sul sesso.
Miranda e Samantha hanno tanto da dire, e ci provano, ma non vanno mai a fondo. Samantha è una donna di successo, realizzata professionalmente e con una sicurezza in sé tale da permetterle di avere sempre chiaro in mente quello che vuole. Però è più comodo farla passare per quella che vuole solo scopare perché fa più ridere. (personalmente, ma so che io sono antipatica, ho trovato talmente cringe le sue scene di sesso da doverle skippare, sempre) Ma soprattutto alla fine le relazioni le hanno dovute dare anche a lei, non sia mai che una scelga di voler stare senza uomini in pianta stabile.
Miranda è quella che non solo ha l'unico percorso sentimentale degno di nota (quella tra lei e Steve è l'unica relazione costruita con un minimo di senso), ma quella che affronta temi più interessanti. Miranda è un'avvocata di grande successo, che fa carriera ma che vive il suo essere donna nel suo ambiente di lavoro come uno svantaggio. Lei è quella che viene trattata in modo diverso quando single o in una relazione, lei è quella che sta con un uomo che si sente svilito dal fatto che lei guadagni di più, lei è quella che vive una maternità ancora considerata anomala. Ama suo figlio ma non l'aveva cercato, non sa cosa sia il senso materno, non si è mai snaturata in virtù della sua nuova condizione di madre pur avendo accettato che a volte fare compromessi è un buon modo per essere felici. Davvero un peccato che tutto questo sia stato reso come un blando accompagnamento alle ben più importanti relazioni sentimentali.
Charlotte è una macchietta che non si sostiene. Sia chiaro: che una donna desideri la vita "convenzionale", che sia romantica e ingenua mica è da criticare. Dignitosa tanto quanto le altre, anche se c'è sempre da chiedersi quale sia l'origine di certi desideri. Ma insomma, lei è l'elemento classico, con i suoi cagnolini borghesi e il suo straordinario attico pagatole dall'ex marito. Poteva esserlo senza essere una caricatura, e invece sembra una cretina, e questo è un modo manco troppo velato di giudicarle, le Charlotte.
E infine Carrie. Come a questi sia venuto in mente di fare di lei la protagonista è un mistero. Carrie vorrebbe essere quella più simile a noi: non è un estremo in nessuno dei sensi delle sue amiche, non ha alcuna caratteristica degna di nota se non quella di auto considerarsi una 'cavalla pazza impossibile da domare' quando tutto quello che vuole dall'episodio uno è sposarsi, quindi cosa ci sia di indomabile ce lo spiegheranno i posteri. Vorrebbe essere la ragazza comune della porta accanto, ma la ragazza comune della porta accanto non fa il suo lavoro, nella sua città, con i suoi soldi. Carrie è irragionevole, ostinata nelle cose sbagliate e soprattutto protagonista di una delle più brutte storie d'amore mai raccontate. Lei e Big sono due persone orrende e in quanto tali si meritano a vicenda.
Le carriere sono ridicole, o meglio lo è il modo in cui sono mostrate. Miranda aveva qualcosa da dire ma non le è stato dato spazio, Charlotte si licenzia appena si sposa, Samantha si vede solo accennata e Carrie fa passi avanti mostrati come scusa per dare delle feste con tanti cari saluti a tutto il resto.

Ma la serie vuole parlare d'amore e sesso? Parliamone anche noi.
La costruzione delle relazioni in questa serie tv è ridicola. Persone che compaiono e scompaiono alla velocità della luce, senza che si abbia alcun modo di affezionarsi a nessuno, persone che ritornano senza che ci sia una costruzione. Big scompare una decina di volte dalla serie. Si sposa, poi si trasferisce, poi la lascia, e puntualmente, senza alcun perché sensato, ritorna, giusto per farlo tornare. Un esempio su tutti tanto per dare l'idea. Big si trasferisce in California, ci sono grandi addii ed è tutto molto commovente (no). Ritorna a New York perché deve essere operato. Ma che scrittura del cazzo è, non c'è un cardiochirurgo in tutto lo stato della California? Che cavolo di pretesto idiota è per farlo tornare? Ma basta, la loro storia è un ripetersi delle stesse identiche dinamiche per sei infinite stagioni. Lui che per un po' di episodi non si vede e poi ricompare. Per non parlare dell'orrore della terza (mi pare) stagione, in cui Big diventa l'amante di Carrie quando lei sta con quell'uomo meraviglioso che è Aidan. Per quattro episodi consecutivi la puntata si chiude con Carrie e Big che decidono di chiudere e per quattro volte l'episodio successivo si apre con loro che non hanno chiuso davvero. Ci fosse stata una quinta avrei lanciato il pc dalla finestra. Questa serie è talmente scritta male che non ha senso.
Vediamo troppo poco gli amori, nonostante siano il centro delle vicende non sono mai approfonditi. (Con l'eccezione di alcuni di quelli di Carrie) Per dire, se qualcuno alla fine ha capito quale fosse effettivamente il problema di Trey con Charlotte e volesse farmelo sapere, i commenti sono aperti. Sempre parlando di Charlotte: incontra Harry, ci finisce a letto, niente di nuovo all'orizzonte. Due puntate e cinque minuti totali di discorso dopo questa si è convertita per lui, per poterlo sposare. Ma quando è successo tutto? Le cose diventano serie senza che noi le vediamo succedere. La serie si concentra sul modo in cui le amiche si raccontano le cose che succedono loro ma noi spettatori ne vediamo una piccola porzione che rende impossibile il tanto amato concetto di ship. Il famoso show not tell in fumo per sei stagioni.
Giusto Steve e Miranda hanno una costruzione interessante: stanno insieme, non funziona, ma lui non scompare se non per un breve periodo. Steve rimane presente nella vita di Miranda, restano amici e anche se lei stronza capisce di volerlo sempre appena lui cerca di andare avanti, non si separano mai veramente, e il loro matrimonio non è improvviso e inspiegabile come entrambi quelli di Charlotte, nonostante la lente sia puntata su Charlotte e Harry un po' di più sul finale. Tutto il resto? Una nebulosa di persone che passano senza lasciare alcun segno. Direte voi: beh sono donne libere, escono con tante persone, non tutte sono significative. Sacrosanto, viva le storielle passeggere, però non se quando ne parli con le amiche descrivi sentimenti profondi e come sei felice con lui e finalmente è la volta buona.
Questo però non è un bel segno. Volere l'amore è legittimo, perché l'amore è davvero una cosa bellissima. Che tutte e quattro, compresa quella che l'amore non lo voleva, però finiscano accasate e felici è l'happy ending che una serie così non poteva non avere ma che non ha nulla di trasgressivo, diverso, innovativo. Le donne sono complete sono quando sono felici con un uomo e tanto basta a far concludere la serie con un sorriso.
Che desolazione.

Io alla fine a loro quattro mi sono affezionata, perché sono una che si affeziona anche agli oggetti inanimati e a cui basta nulla. Però se questa è la trasgressione, se parlare di pompini a tavola è il solo modo per mostrare le donne sotto una luce inedita allora a me non basta.
Continuo a guardare volentieri le scarpe e i vestiti e a piangere su quanto voglio i capelli di SJP, ma voglio di più.

martedì 9 giugno 2020

Mi son fatta un sito!

08:58
Tre anni fa ho scritto un libro per bambini. Mi era venuta l'idea nel dormiveglia e la mattina dopo avevo la trama abbastanza chiara in testa. Quando l'ho finito, faticando non poco, ho capito che volevo fare quella roba lì: scrivere. 
Non è che non ci fossero tutti i sintomi prima: sono stata la classica bambina che aveva sempre un libro in mano, che era brava a scuola e nei temi, che andava tutti i giorni in biblioteca. Uniamoci che col tempo sono diventata estremamente introversa e con un numero di amici che sta a malapena sulle dita di una mano ed ecco lo stereotipo perfetto. 

Foto di Green Chameleon su Unsplash

Quando scrivo una storia mi fa schifo. Farlo mi rende nervosa, è difficile, mi fa fumare il cervello. Però alla fine regala un senso a tutto il resto, e non c'è niente che valga di più.
Paradossalmente, ai libri ho sempre dedicato pochissimo tempo. Lavoro tante ore e lontanino da casa, ho una famiglia, una casa, un blog (che trascuro sempre), e il tempo per scrivere è sempre poco. Quando ce l'ho poi lo perdo in cagate perché scrivere è difficile. E soprattutto perdo tempo perché non mi prendo sul serio. Penso sempre di stare perdendo tempo e finisce che non concludo nulla.

Io però quella cosa qua delle storie voglio continuare a farla, e voglio continuare a farla sempre, anche se Salani non mi noterà mai e anche se le leggeranno in tre. Se voglio continuare a farla devo prendermi sul serio, e per cominciare mi sono fatta un sito. 
Sì, tutta questa pappardella era per dire solo che mi sono fatta un sito 'ufficiale'.
Lo trovate qui, se voleste farci un giro ne sarei onorata. 
(Sì, la copertina del libro nuovo è provvisorissima)
Pure questa è stata una faticaccia, pure per il sito ho fatto un paio di piantini, però adesso è lì, con il mio nome gigante sopra che sa un po' di ego smisurato e con i miei libri in bella vista.

In futuro ci saranno altre novità, contenuti che siano in esclusiva per il sito, libri in formato cartaceo, newsletter...ma per il momento c'è lui, e va già bene così.

venerdì 29 maggio 2020

Racconto di una maratona MCU

16:37
Mi rendo conto che possa suonare incredibile a chi legge questo blog da tempo, ma l'idea è venuta a me. Ho proposto a Erre, il mio paziente compagno, di vederci tutti i film del Marvel Cinematic Universe. Lui ovviamente li aveva già visti tutti, a me mancava qualcosina e ho approfittato del lockdown.
E quindi eccomi qua, a raccontare un po' com'è andata.
Spoiler: pensavo peggio.
Altro spoiler: il post sarà pieno raso satollo di spoiler.


Non so bene come strutturare questo post perché ho (come sempre) tante cose da dire. Non posso fare review dei singoli film o stiamo qua fino a domani, ma temo comunque sarà lunga. Prendetevi del vino, un negroni, non so. Sarà più un flusso di coscienza. (troppo ambizioso? vero, scusate)

Le origin story sono le mie preferite. Dai vecchi tempi (sembra preistoria, adesso) in cui Sam Raimi e Tobey Maguire portavano sullo schermo il loro Spiderman le storie della nascita di un supereroe mi divertono più di ogni altra cosa che riguardi l'argomento. La fase 1 dell'MCU, quindi, è la mia preferita. Non solo perché si conclude con l'Avengers di Joss Whedon, che è ancora uno di quelli che mi piace di più, ma perché ci mostra quelli che ormai sono i protagonisti della mitologia moderna in un modo più umano, semplice e genuinamente simpatico.
Con l'eccezione di Tony Stark, ovviamente.
Mi dovete perdonare, io sono consapevole di essere pesante, e riconosco anche che il suo sia l'arco narrativo più interessante (per scelta loro, però, io avrei un milione di volte puntato su altri), ma ho un'ostilità per lui che arriva ancora prima dei suoi film. Non solo perché eat the rich è un po' il motto di un'esistenza, non solo perché ho una naturale antipatia per i supereroi il cui potere è il denaro, ma soprattutto perché il suo film si basa su un presupposto così sbagliato e che mi fa così arrabbiare che a volte devo ricordarmi che è solo finzione. Ammettendo che il povero giovane Tony fosse così ingenuo da non sapere l'uso che veniva fatto delle sue armi, ammettendo che esistano delle mani giuste e sbagliate nelle quali potevano finire, ammettendo anche che lui davvero dopo la paraculata che si raccontava (e ci raccontava ad inizio film) per stare con la coscienza a posto si sia redento, anche ammettendo tutto ciò, il film sarebbe dovuto finire al minuto quindici più o meno. Perché se devo accettare tutta questa retorica del menga non mi puoi mettere la peggior scena del mcu e aspettarti che io non me la leghi al dito: Tony, il classista arrogante e cafone, che si salva perché un pover'uomo, la cui famiglia è stata sterminata proprio con l'uso delle fantasmagoriche armi Stark, decide di sacrificarsi per lui, perché ha visto in lui l'intelligenza e le doti che lo hanno reso il supereroe che sappiamo oggi essere. Lo posso dire in francese? Ma vaffanculo.
Dimostrato come sempre la squisita personcina che sono, passiamo alle cose belle: i nazi che prendono le botte brutte. Non è difficile capire quale sia la mia origin story preferita: Capitan America è la rappresentazione di quello che io dovrei odiare, l'ideale americano, ma per qualche motivo, che, sono sincera, esula anche un pochino dai nazi che le prendono, la sua storia mi è piaciuta più di tutte. Per il contesto guerra portato in un cinecomic e soprattutto per l'unica storia d'amore dell'intero universo Marvel che mi abbia emozionato. Non ho visto le serie tv della Marvel, ma potete stare certi che guarderò Agent Carter nella speranza che alla mia adorata Peggy sia stata data una sorte felice. Non come a quel cretino di Cap che poi si è limonato sua nipote, quello non glielo posso perdonare. Per poi tornare indietro da Peggy, di nuovo, ma che horror.
Ah, ecco, c'è un'altra cosa che non posso perdonare! Il trattamento riservato al mio amatissimo Bruce Banner. Ho un debole per i personaggi tormentati. Lui è il più intelligente, riservato, distrutto dalla sua sorte, così carino e gentile, e mi piace così tanto che abbia la faccia di Mark Ruffalo! Mi stringe il cuore. Poi è successo Thor Ragnarok, che a Casa Redrumia si è a lungo chiamato Natale ad Asgard. Con una seconda visione ammetterò di avere rivalutato qualcosa. Waititi mi piace, ma è come se questo film non fosse roba sua. Manca qualcosa, non so se sia sentimento o passione. Da quel momento Hulk è diventato una macchietta. Per amore suo mi ero letta anche Planet Hulk, su indirizzo di Erre che è quello che sa cose sui fumetti, che è la storia da cui parte di Ragnarok arriva, ed è una storia pesantissima e cruda, che nulla ha a che vedere con sta roba con lo zio del tuono. Non mi darò mai pace.
Prima di arrivare a Ragnarok, però, c'è altro di cui parlare.
Che l'Avengers numero uno sia ancora uno dei miei preferiti è fuori discussione. Ho visto però per la prima volta Age of Ultron, che non solo conferma quanto Tony sia un povero deficiente, ma che conferma anche che se un Avengers lo gira Joss Whedon si vede, e a me piace. Devo ammettere a questo punto una generica indifferenza per il personaggio di Thor, anche se penso sia sotto gli occhi di tutti che Chris Hemsworth è nato per fare commedia. Ci prova a fare l'attore drammatico ogni tanto, e a me non dispiace, ma quanto mi piace quando fa il pirlone, lo adoro. E in fondo sono una ragazza basic, se in un film c'è Tom Hiddleston io lo guardo. Quindi i film di Thor danno comunque un significativo contributo alla società.
La fase due è quella che segna la comparsa dei Guardiani della galassia. I loro film sono i preferiti di Erre, per me hanno un principale difetto: hanno aperto la strada all'idiozia. Lo so che sono antipatica quando dico così, ma non mi piacciono quasi mai le cose che vogliono far ridere (vedi opinione su Ragnarok) e sebbene trovi che i loro film siano, effettivamente, divertentissimi, hanno avuto un effetto devastante su quello che è venuto dopo, instupidendo tutto quanto.
Io, che bravamo una back story violentissima su Vedova Nera, per esempio, mi sono ritrovata Ant Man. E qui voglio chiarire una cosa: a me sto film con le formiche stupidissimo ha fatto più ridere dei Guardiani e googlandolo ho capito perché: l'ha scritto Edgar Wright. E sulla Redrumia Wright è venerato in ogni modo, ogni luogo, ogni lago. Però mi stanco velocemente delle cose che fanno ridere, e in un universo così vasto avrei voluto anche altro.
La comicità che piace a me, perché mi fa tenerezza e mi ci affeziono alla velocità della luce, è quella di Spiderman. Questo post è forse una lettera d'amore a Tom Holland? Può darsi. Gli voglio bene come se lo conoscessi a sto pischello, mi piace tantissimo.
Potrebbe anche essere una lettera d'amore alla faccia strabiliante di Benedict Cumberbatch. Dottor Strange è una di quelle persone che risveglia in me gli stessi istinti di Tony Stark, perché si apre agli altri e a quello che non conosce alla prima occasione di bisogno e la me infantile lo avrebbe lasciato a marcire nelle stradine polverose dell'estremo oriente e tanti cari saluti.
A questo punto però, nella mia mente che evidentemente ancora non conosce bene certi processi, iniziano a sorgere delle domande. Principalmente sulle scelte: come viene scelto a chi assegnare una storia intera? Che l'endgame fosse piuttosto chiaro da subito è evidente, col tesseract che fa la sua comparsa insieme a Cap, ed è chiaro a tutti il lavoraccio di collage con Capitan Marvel che hanno fatto in Endgame. Ma come hanno scelto a chi dedicare film singoli? Come si è deciso di inserire nuove facce quando alcune di quelle vecchie erano state trattate a pezze in faccia? Perché Capitan Marvel non è arrivata prima? Perché nessun approfondimento su Vedova Nera o Scarlett Witch che, lo ricordo, ha un potere della madonna? Su queste si poteva fare un lavorone, mica solo la scenetta con le donne che si spostano tutte insieme durante la battaglia di Endgame. Carol Denvers la vediamo ad una certa che, mentre vola, prende un aereo e lo lancia via come se stesse buttando una cicca nel cestino della spazzatura, ma diamo pure tre film al miliardario armaiolo e delle belle tutine di latex a loro, che tanto è questo che ci interessa, no?
Poi, beh, c'è Black Panther. Ho sempre palesato il mio odio per lui dal momento in cui ho visto il suo film, e rivedendoli tutti insieme la questione si è rafforzata. Dunque, alle donne fenomenali poteri cosmici inesplorati, ai neri il contentino di un film (orrendo ma acclamatissimo, perché se lo dicono da soli che sono stati bravi a coinvolgere tutte le minoranze!) tutto per loro e per il resto ruoli secondari irrilevanti. Non lo so se funziona così eh raga. T'Challa è un insostenibile sovranista, relegato nel suo Wakanda che è il più meglio e chissenefrega se nel resto del mondo succede l'inferno. Lui interviene solo per tutelare i cazzi suoi e vendicare suo padre e allora guarda se questo è il tuo intervento restatene pure nel tuo, a posto così. Pagliaccio fino alla fine, fino alla battaglia di Endgame. 
Di sicuro tanti bambini hanno avuto finalmente la rappresentazione che meritavano e tante bambine hanno avuto in Carol, o Natasha, quello che prima mancava, ma la strada da fare è ancora taaaaanta.
Dopo di lui, però, c'è stato Infinity War, che è stato un po' una svolta. Il primo film MCU a finire male. Malissimo. Il primo film in cui i supereroi perdono. Non ce lo aspettavamo, siamo rimasti tutti un po' di sasso, la sala era ammutolita. Certo è che se proprio voglio fare la polemichella (e quando mai mi tiro indietro) si è presa una bella strada paracula: muore metà dell'umanità, ma non i 4 avengers originali. Forse in fondo non poteva che essere così, non potevano che essere lasciati loro 4 a fare i conti con quello che era successo.
Quindi gli Avengers perdono, e a noi resta il sequel di Ant Man. Io, ormai indispettita dalle scelte aziendali, vado su wikipedia e mi leggo un paio di cose. Kevin Feige aveva pensato il progetto Marvel con una schedule precisa: ogni anno un film su un nuovo eroe e uno su un vecchio nome. Appurato che la scelta gli è scappata di mano più o meno al quarto film, ma questo non risponde alle mie domande. Potrei andare a cercarmi interviste e notizie, ma per un po' voglio un detox dai tizi con le tutine.
Infine, ieri sera abbiamo rivisto Avengers: Endgame. 
Lo dobbiamo ammettere, dai: è un pasticciaccio. Non mi piace quasi niente in termini, passatemelo, 'oggettivi'. Non mi piace come è scritto, non mi piace come è montato. La faccenda Capitan Marvel me la sono proprio presa sul personale da tanto che mi è stata antipatica.
Però avrebbe potuto essere tranquillamente l'ultimo film, perché è un bel raccoglitore che strizza l'occhio a tutto quello che è stato e che col tempo il mondo ha amato, perché lo sa benissimo di fare il polpettonone epico ma lo fa bene. Gioca con l'emotività il giusto, conclude l'arco di Tony e di Cap nell'unico modo possibile (almeno per i film, so che per i fumetti il discorso è ben più ampio), fa sorridere e tutto sommato gli si vuol bene.

Lo so che sembra che non mi sia piaciuto niente, ma non è così: l'universo cinematografico Marvel è intrattenimento puro, una grossa famigliona di tutine a cui ci si affeziona facilmente e che avrebbe ancora più da dire di quanto non faccia già.
Il mio giudizio è solo falsato dal fatto che il più bel cinecomic di sempre lo ha fatto il regista della mia vita, e contro Hellboy non c'è universo cinematografico che regga.



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