giovedì 17 marzo 2016

#CiaoNetflix: Big Fish

14:23
Disclaimer: vi ricordate quanto eravamo andati a fondo in una marea di affari di cui giustamente non vi importa quella volta che abbiamo parlato di Harry Potter? Temo siamo dalle stesse parti, oggi. Me ne dispiaccio.

Quando ho deciso che i miei sproloqui sarebbero rimasti impressi in un blog, parliamo di tre anni fa, avevo un amore di quelli forti per un signore: Tim Burton. Avevo anche una rubrica tutta per lui, il Tim Burton Special.
Non che oggi gli voglia un po' meno bene, ma lui con me si è comportato malissimo ultimamente, gli serbavo un po' di rancore.
Ieri, poi, il trailer di Miss Peregrine's Home for Peculiar Children. Non esiste parola inglese che io ami più di peculiar. E non è solo questo, ovviamente, a farmi desiderare ardentemente che sia un bel film.
Lo spero così tanto perché quelle stesse mani lì sono quelle da cui è uscito Big Fish.

Big Fish è una storia fatta di storie. C'è la storia di Will Bloom, figlio messo costantemente in imbarazzo da una figura paterna un po' sopra le righe, e ci sono le innumerevoli storie che quel padre lì, Edward Bloom, ha raccontato per tutta la vita.


È sempre così: quando devo parlare di qualcosa che mi ha toccato in un modo particolare ci penso, ci ripenso, voglio sforzarmi di scrivere un post bello emozionante, per comunicare ad altri l'emozione che ho provato io. Poi apro Blogger, guardo la pagina bianca e mi blocco. Scrivo e cancello, scrivo e cancello.
Come si fa a convincere altri che un film può guardarti in faccia e parlare dritto a te, alle tue esperienze, ai tuoi sentimenti? Perché magari per altri non è così. Magari qualcuno può guardare Big Fish e uscirne indenne e poi magari finire a pezzi da una visione diversa.
Io no.
Io, che incredibilmente per una volta non ho pianto, sono rimasta invischiata fino al collo. Perché io sono Will, e Will è me.
È costantemente messo in imbarazzo da un padre 'troppo' (seguito da nessun aggettivo, troppo e basta), incapace di perdonarlo,  ma vive questo rapporto con il fuoco. Il fuoco di chi vuole sapere, di chi desidera la verità con l'ardore con cui altri la rifuggono. Il fuoco di chi vorrebbe essere in grado di staccarsi per sempre da quel padre così diverso da come lo avrebbe desiderato, così incapace di assecondare i suoi bisogni, ma che non ce la fa. Pur essendogli lontano continua a combattere per ottenere almeno un BRICIOLO della vita che avrebbe voluto.
Sarebbe stato facilissimo, a parole: tornare a casa per vivere gli ultimi giorni del padre, accompagnarlo verso la morte, e lasciar correre il passato. A chi importa delle storie, basta, è tutto finito.
E invece no, Will combatte fino alla fine per avere qualcosa, un briciolo di verità. Con la stessa determinazione, peraltro, con cui Ed continua a raccontare le sue storie.
E stanno lì, due teste una più dura dell'altra, a cozzare eternamente, senza che nessuno dei due provi nemmeno per un istante ad avvicinarsi all'altro. Perché sono già vicini. Sono già la stessa anima, ma mica lo sanno. Lo scoprono in quell'incanto di finale, quando, uno in braccio all'altro, incontrano i volti di quelle storie. Uno per uno, con quel sorriso che si indossa per salutare qualcuno a cui si sarà eternamente grati.
Grati di cosa, poi? Ed era solo se stesso. Meravigliosamente se stesso.


Quanto è difficile rileggere queste parole banalotte cercando di capire di chi sto parlando in realtà. Se di Will o di me stessa, che mi scontro costantemente con una persona da cui avrei voluto molto, molto più di quello che mi abbia mai dato. Che come Will non sono in grado di perdonare, e che per ora, proprio come lui ad inizio film, non voglio nemmeno.
È così labile il confine tra finzione e realtà, in Big Fish. Ora sta a me capire quanto questo prodotto di finzione abbia potuto farmi così male, toccando corde che non tocco mai nemmeno io, parlando di un argomento che non affronto mai, con la delicatezza che avrebbe avuto un caro amico se avesse parlato proprio con me di un argomento che avrebbe saputo essere controverso. Come controversa è la mia opinione sui tempi verbali dell'ultima frase, ma tant'è.

Lo ha fatto con i colori sgargianti delle casette e dell'erba, con un campo sterminato di giunchiglie e con una dolcissima storia d'amore, con dei personaggi incantevoli. L'ha fatto in piena poetica di Burton, elevata all'ennesima potenza. Ha sfoderato una batosta emotiva che non volevo, non in questo momento, non così inaspettata, non proprio legata a questo argomento.
Ma gliene sono grata.


lunedì 14 marzo 2016

Starry Eyes

20:48
INUTILE SPOILER ALERT, IL FILM L'HANNO VISTO ANCHE I SASSI

Riassunto delle puntate precedenti: l'anno scorso, o forse due anni fa, la blogosfera in massa ha parlato di Starry Eyes. Io, come mio solito, ho segnato e recuperato con tempi biblici.
C'è una frase che riassume perfettamente i post degli altri: che protagonista di merda.
Non che non sia brava l'attrice, anzi, è stata bravissima, era proprio il personaggio che era una persona disgustosa.
Per i primi 40 minuti ho pensato che fossero tutti esagerati. Dai, un po' snobbina, un po' troppo sulle nuvole, ma non è così male sta creatura.

La creatura si chiama Sarah Walker ed è una cameriera di Los Angeles, il che sapete, se avete visto almeno un episodio di The Big Bang Theory, che significa che il suo sogno è fare l'attrice. La povera sprovveduta finisce a fare il provino sbagliato.

Cosa succede dopo 40 minuti?
La Sarah, che il giorno prima si era licenziata per seguire il suo SoGnO!!!!1111! torna con la coda tra le gambe nel fast food con il quale campava per riavere il suo lavoro. Il capo, che stupidamente si riprende questo cilindrico pezzo di cacca, le dice 'Sei una ragazza del Taters', e lei lo ripete con un disagio, con una rassegnazione e con un'autocommiserazione che mi hanno causato quasi rabbia cieca.


Analizziamo il mio odio verso questo detestabile umano.
Questa non ha 18 anni, eh, ne ha un po' di più. Penso si possa parlare di una trentenne o quasi. La suddetta trentenne o quasi ha una vita che potrei definire col più banale degli aggettivi: normale.
Ha degli amici (mediocrissimi umanoidi con tanta 'passione' ma poca sostanza, ma ricordiamoci che gli amici te li scegli), un lavoro, e un sogno. Niente di eccezionale.
Potrebbe lavorare sodo per realizzare il suo sogno, potrebbe vivere la sua vita con entusiasmo, potrebbe essere quasi felice. Sia chiaro che non parlo di fastidiose donnette forzatamente gioiose alla hills che sono alive in the sound of music, parlo di semplice approccio migliore alla vita.
E invece no. Lei è talmente concentrata su se stessa e sulla sua malata fissazione per il successo da non vedere nemmeno il mondo che la circonda (perché questa faccenda della setta ci era palese dal primo momento in cui si è visto un - pensate un po'- pentacolo, ma lei no, lei è stronza ma pure un po' tarda), come ci è molto chiaro quando Erin, una delle amiche, accusata di dormire con un amico solo per ottenere una parte, le chiede: 'Non hai mai pensato che potrebbe essere altro? Non hai mai pensato che potremmo piacerci?'.
Eh sì, cara Sarah. La gente vive. E non per il successo, vive e basta.
Se anche tu fossi arrivata in cima, cosa ti sarebbe rimasto? Il nulla. Gente sconosciuta che ti avrebbe amata, magari, ma nessuno vicino se non il tuo stratosferico ego. Per cosa avresti vissuto, allora? Se tutta la tu vita ruotava intorno ad un obiettivo, cosa avresti fatto una volta spuntato questo dalla tua lista delle cose da fare?
Questo non è sognare.
Sognare dà alla tua vita mille sfumature di colore in più, non te la distrugge così.
La sana ambizione è splendida, ti fa alzare la mattina con la voglia di essere sempre la versione migliore di te stessa.


Se solo fosse stata più umile, questa Sarah, quanto avrei pianto la sua triste sorte. Se fosse stata un'umile e ingenua ragazzina con troppa fiducia e troppa poca conoscenza del mondo avrei singhiozzato per giorni.
E invece no.
Sarah era un'adulta troppo convinta e compiaciuta di se stessa, Lei era migliore di quel branco di losers con cui era costretta ad uscire. Lei era brava, lei era arrivata, lei aveva un sogno e lo avrebbe realizzato ad ogni costo, questi bifolchi non facevano altro che tarparle le ali.
Ed è questo che l'ha ridotta in quello stato mostruoso.
(Postilla: il film è stato girato con una banconota da 5€ stropicciata, vorrei tanto abbracciare chi si è occupato del makeup, bravi al cubo. Una scena in particolare mi ha dato i brividi)
Quello che intendo è che era proprio la sua estrema fiducia in sè a causarle quelle devastanti crisi di nervi: Io sono brava, come posso non  avere successo? Come posso proprio IO, che ho un sogno così importante, a non riuscire? Questo è proprio inspiegabile!
E via di capelli strappati.
Eh, ciccia.
Dalla mediocrità ci si può innalzare, si può crescere. Se senti di essere già in cima non puoi salire di più, e finisce molto banalmente che quando poi caschi (e caschi, tranquilla che caschi) ti fai un malone dell'accidenti.

È stato interessante non avere la minima empatia per un personaggio, per una volta. Forse ho anche apprezzato che per una volta la 'vittima' non fosse l'anima innocente.
Ma al momento sto indossando il mantello della giudicatrice di atteggiamenti altrui, e questo è quello che ne esce.

(E il film è bello, che immagino sia la sola che magari in realtà vi interessi)

mercoledì 9 marzo 2016

#CiaoNetflix: The Grudge

16:20
Questo paradisiaco servizio un difetto doveva avercelo. Lo amo a sufficienza da lasciar correre, ovviamente, ma il suo catalogo horror per il momento fa piangere.
Siamo intorno alla trentina di titoli, tutti grossomodo famosi, Saw, Silent Hill, The Ring. . .il filone per ora è quello.
Si trovano anche cosine più intriganti, eh, c'è quella preziosa valle di lacrime che risponde al nome di The Orphanage, ci sta Existenz, e pure Sharknado. Ma siamo lontani dalla sufficienza per ora. SO che col tempo cresceremo insieme, io e Netflix-.

Per dimenticare le faccette della Judith di cui parlavamo ieri mi sono messa a rivedere un horror uscito nei miei anni del liceo, pieno periodo in cui ogni titolo era remake di qualcosa altrimenti non lo facevano uscire.
The Grudge forse è uno dei più famosi, uno di quelli che hanno visto anche i sassi.

Se voi non apparteneste alla specie minerale, mi tocca raccontarvi che è la storia di Sarah Michelle Gellar e Max di Roswell, Lei è un'assistente sociale, grossomodo, va a fare una visita a domicilio ad un'anziana. In casa ci stanno i fantasmi.
Tutto chiaro?
So che è complesso, ma fate uno sforzo.


No, dai che scherzo, non c'è niente di meno complesso di The Grudge.
In un altro momento lo avrei liquidato come FDC, ma in realtà non è riuscito a farmi antipatia.
Ci prova a ricalcare i suoi amici orientali, ma a parte parecchi occhi a mandorla, un paio di fantasmi che più classico di così c'è solo il lenzuolino con i buchi, di jappo ci riesce proprio pochino. Non che io mi consideri un'intenditrice, sia chiaro.
Ma qui è tutto troppo patinato e sbrigativo per riuscire a suscitare anche solo un po' di inquietudine, ci prova lui, povero, ma non gli riesce.
Secondo me è anche colpa del cast di canidi, che sembra spaventato tanto quanto il mio gatto quando parte la centrifuga della lavatrice. Stesso livello di timore, un saltino leggero e fine, livello di consolazione necessaria: rumore della scatola dei croccantini.
Quando le persone parlano dei cliché degli horror tendo ad innervosirmi, ma se ne volete un breve compendio, vi è servito su di un piatto d'argento, tiè, prodotto da Raimi. Il pacchetto comprende anche lo spaventino finale che tanto ci aggrada.

E no, stavolta non mi sono emozionata, nemmeno con la triste sorte dell'amore non ricambiato, non c'è stato verso di prendermi in alcun modo.


Ribadisco, voglio un po' di bene a tutta la faccenda, al periodo a cui è legata, alle colline che hanno ancora gli occhi, ai fantasmi giappo che però sono americani, alle telefonate che ti diagnosticano i tuoi ultimi 7 giorni e al fatto che fossero praticamente tutti dei filmacci tremendi ma che in fondo gli volessimo un po' di bene, perché vederli ci faceva sentire delle femmine toste.
A quell'età, certo.
Anche perché rivisto oggi The Grudge ci regala uno dei peggiori personaggi femminili che si ricordino, in confronto a questa Gellar siamo tutte delle Sigourney Weaver.

lunedì 7 marzo 2016

The Atticus Institute

16:51
Domenica sera, solita cena con i soliti Amici. Si parla di cose varie, tendenzialmente le solite, fino a che un amico mi chiede cosa penso dei demoniaci, io come al solito rispondo che li affronto con il coraggio che contraddistingue i gatti quando incontrano l'acqua.
Girando intorno all'argomento si finisce a nominare The Atticus Institute e io ribadisco il mio non volerlo guardare maimaimai nei secoli dei secoli.
E guai a voi se rispondete amen che proprio oggi non è giornata, eh.

Siccome, come vi dico sempre, la coerenza è il mio animale guida, oggi ho guardato sto benedettissimo film.
Lo sapevo, eh, lo sapevo come sarebbe finita. Perché li ho letti tutti i vostri post a riguardo, tutti quanti, e sapevo che mi avrebbe devastata dalla paura, ma quando si è testine di cazzo lo si è fino alla fine.


Per farla breve, l'istituto che dà il nome a questo stramaledetto film è un laboratorio di psicologia dove gli scienziati pazzi e creduloni esaminano persone che dicono di avere poteri paranormali. Sì, hanno visto qualcosina di vero, qualche truffa, però loro erano proprio appassionati, ci credevano parecchio, continuavano a cercare.
Cerca e ricerca, capita loro tra le braccia, come una manna dal cielo, Judith. Avete presente il momento in cui un nome si trasforma in un incubo? Fino a un'oretta e mezza fa il mio era Reagan, da oggi temo i nomi saranno due. Judith è una donna comunissima che inizia dopo una brutta caduta a fare cose un po' meno comuni. L'istituto non è in grado di gestire una situazione del genere da solo, soprattutto considerato che la presenza di Judith si sta rivelando più pericolosa del previsto, e quindi intervengono i pezzi grossi.

Fin dal primo istante ho saputo che guardarlo sarebbe stato un errore madornale, ma il momento in cui ho prenotato il mio posto per un viaggio di sola andata su Marte è stato quando uno degli intervistati (ne riparliamo, delle interviste) guarda fisso in camera, che gli dovesse mica venire una gobba, e dice qualcosa del tipo: 'Voi che state facendo questo film e voi che lo state guardando state attirando qualcosa di molto brutto nelle vostre vite.'
Boom, pc chiuso di scatto, lanciato fuori dalla finestra, valigia riempita e pianeta abbandonato.

Ma servirebbe? NO perché la stronza di Judith ha sempre controllato tutto e tutti pur apparendo così 'sottomessa'. Io potrei scappare fuori dalla galassia, ma se lei volesse ostacolare la mia respirazione lo potrebbe fare a migliaia di chilometri di distanza. Può fare qualsiasi cosa, in qualsiasi momento. E questi piccoli sprovveduti credevano di controllarla. Pivelli.
Scena (ATTENZIONE SPOILER): Judith legata alla sedia, chiusa in una teca di vetro come un animale da esposizione, le vengono fatte domande a cui lei risponde con versi incomprensibili. I versi vengono interpretati e cosa stava dicendo lei? Stava suggerendo le domande da farle! Cosa???!! Mi sono venuti tre capelli bianchi.
Ci provano con qualche spaventino più 'studiato', ma (incredibile ma vero) con me non è che abbiano fatto particolare presa, sono quelle cose qui che a me lasciano con la voglia di evadere.


Ma parlavamo delle interviste.
Oh, a me sono piaciute tantissimo. Quarant'anni dopo e la gente ancora terrorizzata al solo pensiero di  quella Judith, con i ricordi nettissimi di quanto accaduto perché troppo sconvolgente da rimuovere, persone con ancora un profondo senso di colpa per quanto avvenuto agli altri coinvolti...bravini gli attori e bello il tutto, tiè.

Certo, la povera Judith si è presa qualche accidente da me, me ne dispiaccio. In fondo lei è vittima tanto quanto gli altri. Qualcuno, per fortuna, durante il film se ne è ricordato. C'è stato un rapido 'È un essere umano!' che mi ha un po' riportato sulla faccia della terra.
Poi niente, lei si è messa a strepitare e io pure, dalla paura.

Avrei solo voluto un finale un po' diverso da quello di Paranormal Activity. 

sabato 5 marzo 2016

Non solo cinema: Storia di una vedova

14:00
Ho incontrato JCO per la prima volta nell'amatissima biblioteca del paese. (Amatele ste biblioteche, sono i posti più belli del mondo. Più delle librerie)
Appoggiato su un tavolo stava un libro rosa barbie. Sulla copertina stava una bambina, truccata come quelle bimbe degli inquietanti concorsi di bellezza. (O era una bambola con quelle fattezze? Non mi ricordo e non voglio googlare, vado a memoria).
Ora di quel libro (Sorella, mio unico amore) ricordo poco e niente, vorrei riprenderlo, ma non è questo a importarci ora.
Il succo è che da quel romanzo in poi la Oates è stata la linea parallela che ha accompagnato quella della mia vita.


Storia di una vedova non è un suo romanzo, è un memorial, lo dice il sottotitolo. Racconta, come è facilmente intuibile dal titolo, del momento in cui suo marito è mancato. Dagli ultimi giorni in ospedale fino al dopo, la sua sopravvivenza.

Andiamo con ordine.
Io sono profondamente innamorata. Ho provato con tutte le mie forze ad ostacolare questo problema sul nascere, ma quando poi il sentimento è partito (perché parte) l'ha fatto con un rinculo pazzesco, lasciandomi indolenzita e piena di botte.
Non sono una di quella che vuole le relazioni da film, tutte scombussolate ma romanticissimissime, con i piatti lanciati e poi le scene commoventi sotto la pioggia.
Io amo tantissimo il mio rapporto sano, reale, ma profondo, in cui ci sono giorni che dopo anni il bisogno di un suo abbraccio ancora mi cava il fiato. Amo questo modo di vivere le cose più pacato. Le macchiette da film romantico non mi interessano e non hanno alcun fascino su di me.
Ho al mio fianco una persona, come ce l'hanno altre milioni di persone. È con me quando ho giorni bellissimi, quando ho giornate mediocri, o quando ho momenti terribili, o ancora quando piango a dirotto, per giorni interi, perché un romanzo mi sta spezzando il cuore.
Ed è questo il caso.

In seicento pagine (che pesano come cinquemila), JCO fa un lavoro di esplorazione della sofferenza che credo essere senza precedenti.
Sono quasi certa che nessuno l'abbia costretta usando la violenza a scrivere questo libro. La profondità a cui si va sarà stata sicuramente una sua scelta, avrà ovviamente deciso lei cosa e quanto esporre.
Eppure, per tutto il tempo, ho sentito che era sbagliato. Che non avrei dovuto stare lì, che avrei dovuto lasciarla sola, nella sua sconfinata sofferenza, che mi stavo intromettendo in qualcosa di troppo grande e troppo intimo, che stavo spiando attraverso il buco della serratura una donna piangente.
Perché questo infinito memorial è questo: ogni parola, ogni sillaba, persino la punteggiatura, sono un'infinito - ma composto e dignitosissimo - pianto disperato.
È la mancanza di chi riempiva ogni cosa, che lascia quindi tutto vuoto. Ed è qui che mi ricollego con la mia supercheesy introduzione. Joyce e Raymond hanno vissuto insieme ogni giorno della loro vita per anni, e da quello che traspare dalle parole di lei era proprio una relazione di quelle che amo. Quelli di lui erano gli occhi che guardava la mattina appena sveglia, era sua la bocca per cui cucinava, erano sue le mani con cui ha costruito una carriera. E, all'improvviso, niente di tutto questo c'era più. Il solo pensiero (che durante la lettura ho avuto troppo spesso) di una simile eventualità mi fa saltare un battito.

Inizia un profondo viaggio in un insensato senso di colpa, in un'autoaccusa (che ai nostri occhi sembra assurda) di egoismo che è talmente dura da non riuscire nemmeno più a commuovere. Ray non può mangiare, non mangio nemmeno io. Ray non può più fare questo, non è giusto che lo faccia io. Dio, è insostenibile. È durissimo vederla farsi coraggio, per la voglia di non pesare, e poi vederla crollare. Così come è difficile leggere le sue mail (che esposizione totale, darci in pasto le parole che aveva riservato agli Amici), e sentirla parlare di se stessa in terza persona.
Dall'apertura più totale, quella che usiamo quando parliamo con i nostri compagni di vita, all'uscita da se stessa: Joyce diventa la futura vedova prima, la vedova dopo, e questo passaggio ci è sbattuto in faccia con la delicatezza che la contraddistingue, riuscendo comunque a colpirci durissimo, e noi non possiamo che osservarlo impossibilitati a fare alcunché.

Se cercate un libro commovente, qualche lacrimuccia facile, cercate altrove.
Questo è dolore nella sua forma più pura, spogliato di qualsiasi romanticismo, di qualsiasi voglia di compiacere.
E fa un male cane.





domenica 28 febbraio 2016

#CiaoNetflix: Miss Violence

16:05
Ieri sera ho guardato l'ultimo episodio di Love, sulla nostra piattaforma streaming preferita (onestamente, fatevi Netflix). Dieci episodi di brillantezza forzata e poco frizzante incoronati da un titolo di una presunzione imbarazzante.
Mi serviva un polpettone, allora ho chiamato il mio amico, il solito Netflix, gli ho chiesto cosa passasse il convento e lui mi fa:
'Toh, prova questo!'

Che dovesse mai venire un accidenti a lui, a chi gli ha consigliato il film e a me cretina che non mi informo a sufficienza.

La blogosfera un paio di anni fa è impazzita per sto Miss Violence, volevo mettermi in pari, ma non sono andata a rileggermi i post dei colleghi, NON SIA MAI che qui si parte preparate, noooo, qui ci facciamo investire da autobus emotivi per restarne azzoppati a vita.

Al minuto due di Miss Violence un'undicenne si suicida.
Non è sufficiente? Una bambina, una bellissima bambina dai capelli biondi e dal vestito candido che scavalca una ringhiera, ci guarda dritti negli occhi, sorride, e si lascia cadere giù.
Non è comprensibile il suicidio di un'anima così piccola. La mia mente già al minuto due aveva le balle girate: i bambini non si ammazzano.
Ma toh, Mari, è il mondo reale. A volte sì, i bambini si ammazzano.
Nel tuo mondo bucolico fatto di arcobaleni, giornate assolate, tanti libri ed Harry Potter non sarà così, ma in questo universo scapestrato invece sì.


E perché mai una bimba dovrebbe buttarsi giù?
Perché quello che avrebbe trovato restando si sarebbe rivelato molto peggio della morte.
Avrebbe trovato la disperazione più miserabile, l'umanità più marcia, i mostri sotto al letto che prendono vita e rendono infernale la vita di chi non credeva nemmeno nella loro esistenza.
Lei, quindi, si salva, morendo.
Noi no.
Noi siamo vivi e vegeti, a guardare con gli occhi affamati di curiosità quello da cui lei è scappata, quello che l'avrebbe privata del candore, quello che aveva già distrutto ogni persona intorno a lei. E non avrei voluto vederlo. È un filmone, questo Miss Violence, una elegantissima ballerina di bianco vestita che si muove molto lentamente ma tenendo un coltello in mano, per farti sempre più male ad ogni passo. Immagini statiche e un bianco quasi disturbante per accompagnarci nel nero dell'anima. Ma no che non ve lo consiglio, io mi sento come se mi fossero passati sopra con la macchina.
C'è la violenza vera, quella che causa una rabbia cieca in chi la osserva e soltanto sottomissione in chi la subisce.
Il dolore, tutto quanto, è talmente enorme che nessuno si ferma a piangere la morte di una bambina.

DA QUI IN POI DUE RIGHE DI SPOILER, OCCHIO CHE VI VEDO.

Oggi finalmente ho capito qual'è il filo conduttore che collega le cose che mi sconvolgono di più. Sono terrorizzata dai film di possessione demoniaca, sebbene porti con orgoglio la bandiera del mio ateismo, e nello stesso tempo non riesco a tollerare le scene di violenza sessuale. Quella psicologica mi turba molto, mi fa soffrire, ma quella sessuale proprio non la riesco a guardare.
E quindi, ho fatto due più due.
Non c'è niente di più MIO del corpo che abito. Forse è la sola cosa nell'universo su cui posso davvero avere pretese di possessione esclusiva. Il pensiero che qualcun altro (umano o demone) lo prenda e ne faccia quello che vuole mi disturba in un modo che non credevo possibile.
Poi certo, le ovvietà: lo stupro è una cosa terrificante a prescindere, e i film demoniaci FANNO PAURA A TUTTI, però io ne esco sempre a pezzi.
La pedofilia, poi, è una di quelle cose (pochissime, tbh) di cui nemmeno riesco a parlare.
Immaginate come posso stare dopo avere visto quell'unica, massacrante, scena di sesso che ci sta nel film. Ho avuto bisogno di una boccata d'aria, per non picchiare violentemente lo schermo. Continuavo a implorare nella mia mente di smettere, ho provato un odio cieco che quasi mi ha spaventata. Questo padre, questo nonno, e quella porta chiusa, mi hanno fatto venire voglia di vomitare.
Che gran luogo comune, eh? I pedofili mi fanno venire il vomito.
E allora, se da un lato la parte razionale di me promuove l'educazione anzichè la punizione e blablabla, quella più emotiva, dall'altro lato, vorrebbe solo vomitare addosso a queste persone che persone non sono, che sono il MALE, quello grande, quello in caps lock, Privarli di ogni parvenza di umanità.
Se ti serve un corpo da smerciare usa il tuo, feccia.


Perdonatemi, è solo che ho appena preso un grosso e doloroso pugno nello stomaco.
Guardatelo, ma con cautela.

martedì 23 febbraio 2016

Cloverfield

08:50
Che poderose giornate di merda, signori.
So che le avete anche voi, e non starò certo qui a lamentarmi.
Ma oggi sono incavolata come una iena, quindi esigo mostri giganti che uccidono l'umanità. Voglio vedere gli esseri umani spazzati via dalla faccia della Terra, non li sopporto più, basta, voglio solo voi virtuali che notoriamente non siete persone vere.

Siamo a New York, alla festa che i suoi amici hanno tenuto per salutare Rob, in partenza per il Giappone, dove una sfavillante carriera lo sta aspettando.
Sembra che il problema più grosso della serata sia che il festeggiato si è lasciato scappare la donna dei suoi sogni, fino al momento in cui la terra inizia a tremare, ma non c'è nessun terremoto.

Raramente ho visto found footage COSì sforzati. La camerina a mano per me è l'amica che ti mette in imbarazzo ma che adori, ormai lo sapete bene, ma in questo caso, davvero, abbiamo tirato la corda un pochettino troppo.
Se vogliamo continuare a mettere dita in grosse piaghe, possiamo anche dire che difficilmente si sopravvive ad un elicottero che cade, così come non si corre se si è appena stati infilzati con qualcosa, e sempre nel mondo in cui siamo, la testa della Statua della Libertà non sembrerebbe avere quelle dimensioni.


Credete queste siano critiche mie?
Nossignori.
Stanno in giro sull'internet.
Tutte verissime, per carità, lo so io, lo sapete voi, e ci scommetterei le chiappe che quello che lo sa più di tutti è il signor JJ, che qui indossa il camice del produttore.

Ma onestamente, a qualcuno interessa?
Perché io ero sul divano ad ammirare grattacieli crollati, militari in posizione, una GIGANTESCA bestia che corre anche piuttosto veloce, strutture d'emergenza piene di feriti, pianti e disperazione.
E va bene così!
Questo volevo, oggi, e questo ho avuto.
Ne consegue che Cloverfield mi sia piaciuto.

Magari in un altro momento mi avrebbe fatto pietà, e questa consapevolezza mi porta come sempre a chiedermi perché mi ostino a scrivere dei film senza averci riflettuto nemmeno per un istante. E su quanto la vita reale influenzi il nostro modo di amare ciò che reale non è.
Ero incavolata nera (lo sono spesso, sob), ho visto una cosa che ha sollevato i miei pensieri dalla testa e che ha distrutto l'intera Nuova York, mi sono sentita meglio.
Quindi è vero che il cinema non deve essere solo drammi impegnati e filosofeggianti sul vero e profondo senso dell'esistenza. Ogni tanto vogliamo a tutti i costi mantenere l'allure dei cinefili intellettualoidi e ce lo dimentichiamo. (pluralis maiestatis)


In fondo va anche bene così. Leggiamo riviste sinistroidi che parlano di cinema d'essai dai titoli incomprensibili e dai significati che lo sono ancora meno, e il giorno dopo ululiamo cori da stadio di fronte ad uno dei principali simboli del mondo occidentale che viene decapitato da un mostro gigante.
Si chiama equilibrio, e ci sto lavorando.

domenica 14 febbraio 2016

La spina del diavolo

16:41
OCCHIO PERCHÈ DICO UN PO' TROPPE  COSE

Sto per dire una cosa impopolare: a me San Valentino piace.
Niente baciperugina nè peluche nè rose da queste parti (anche se un mazzo di tulipani sarebbe sempre gradito. Uno oppure trecentosessantacinque, uno al dì come le compresse), non sono il genere di cose che mi fa felice.
Però sono contenta che esista un giorno all'anno in cui ci si può fermare a ridare al volersi bene quell'importanza che a volte la routine fa sfumare. Poche balle, non è vero che si dovrebbe festeggiare l'amore ogni giorno, ci sono il lavoro, le preoccupazioni, gli impegni, che a volte fanno sì che diamo per scontate le cose più belle.
E quindi sono felice che sia San Valentino, così da avere un giorno per prendere tra le mani il viso di chi amo e sentirmi il cuore battere forte come il primo giorno.
Quindi ciao, Guillermo Del Toro, grande amore mio. Mi sei mancato
Come nessun altro hai saputo trovare il modo di entrarmi nell'anima, creando Opere che per qualcuno sono semplici film e che invece io vedo come lettere tanto intense dirette proprio a me, pronte a colpirmi lì, in quell'angolino di cuore a cui nessun altro regista è mai riuscito a parlare così chiaramente.


Siamo sempre nel periodo della guerra civile, e siamo sempre bambini, come in quel Labirinto del Fauno che ha trasformato la mia anima in quella di una persona un pochino migliore. Questa volta, insieme a Carlos, viviamo in un orfanotrofio, gestito da due brave persone, che cercano di tutelarci dall'orrore che sta appena fuori. Stavolta, però, c'è anche un fantasma.

Ogni volta che vedo un film c'è sempre una sequenza che mi fa pensare che nel post dovrei dire una certa cosa piuttosto che un'altra. Questa volta è successo quando i ragazzini sono riusciti ad incastrare Jacinto. Ci viene fatto credere che il Male Vero sia la guerra, cornice che guida il film indirizzando le azioni degli adulti, ma la Crudeltà in realtà risponde al nome di Jacinto. Se per un po' abbiamo creduto che ogni sua azione fosse guidata da una ragione (denaro, denaro e ancora denaro, ma anche un po' di amarezza, un passato complesso, vedetela come volete, ma con queste ragioni si poteva anche spiegare l'omicidio di Santi), ad un certo punto l'uomo si avvicina ad uno dei bambini, restituendogli un 'anello' che il (più o meno) piccolo aveva regalato a Conchita, promessa sposa di Jacinto, ragazza per cui il ragazzino aveva una cotta. Gli fa intendere, così, senza possibilità di dubbio, che lei è morta. Gli spezza il cuore, volontariamente. Gli fa del male con tutta l'intenzione di farlo, per il solo gusto di vederlo soffrire.
E questo è infimo, è viscido, ed è uno di quei momenti di cui parlo quando intendo che Del Toro mi annienta.


Onestamente, però, come si riesce ad isolare una singola scena? Ancora una volta mi sono trovata in balia delle favole di Del Toro, completamente, dall'inizio alla fine. Perché c'era la guerra, sì, e la guerra è inimmaginabile. Però qui ragazzi i problemi grossi erano il fantasma e il bullo. La guerra è servita a noi e agli adulti per dare un senso alle decisioni, ma la nostra concentrazione e quelle di Carlos e i suoi amici stavano tutte sui loro problemi, solo all'apparenza più piccoli. E come al solito la cornice viene presto abbandonata nelle mani di chi se ne può occupare; noi abbiamo altro a cui pensare. Cerco di non fare confronti con quel Labirinto già citato, ma è difficile.
Quello che cambia, però, è che la mia Ophelia era sola. Era circondata di adulti che avevano altro da fare, e solo la sua incantevole mente l'aveva potuta aiutare. Carlos, invece, aveva alle spalle un muro di cinta fatto di scomposti e disordinati orfani, senza niente da perdere ma con tanto da difendere.
Una vita intera, la loro, da proteggere, insieme.
E quindi, come quei freaks di tanti anni fa, anche loro, insospettabili e per niente minacciosi si sono presi una potente rivincita, che si è conclusa con uno spaventoso abbraccio. E io, tra i singhiozzi, in piedi sul divano, ad incitare i miei piccini a picchiare più forte, perché il nemico era uno solo e loro erano tanti, forgiati da un'amicizia di quelle che nascono solo quando si è disgraziati insieme.
E non è vero che, come diceva Jacinto (lui sì, solo per davvero) che nessuno avrebbe mai cercato i poveri piccoli orfanelli.
Si sarebbero cercati l'un l'altro fino alla morte, protetti e difesi insieme, pronti a vendicarsi in ogni secondo.
Come per Santi.

giovedì 11 febbraio 2016

Nosferatu

14:21
Ieri sera, per la prima volta in 25 anni, ho visto un film muto.
L'ho visto in quello che considero il cinema più bello e adorabile dell'universo, per di più.

Non penserete mica che io sia qui a recensire un film del 22, vero?
Non che non lo pensate, non siete mica scemy.


Però due chiacchiere si fanno sempre volentieri, se sono sul cinema ancora meglio.

Fino a qualche tempo fa a me del lato storico e tecnico del cinema interessava quanto mi interessa la politica dell'Islanda. Meno di niente, l'Islanda non è neanche nell'Unione Europea.
Superficialità? Ignoranza? Entrambe.
Volevo andare al cinema e farmela sotto. Oppure emozionarmi, oppure divertirmi (questo meno). Oppure tutto insieme.
Poi è successo, un giorno, che mi sono messa a rosicare perché gli altri sapevano le cose. Capivano le citazioni, i riferimenti, riuscivano a stendere con cognizione di causa una 'poetica' degli autori. E io leggevo i loro post (gli altri generico, chiaramente) e mi sentivo piccola piccola.
Mi ci sento ancora, btw.

Il punto è, e qui so che vorrete dire 'bencaduta dal pero' ma vi prego di trattenervi, queste persone mica sono nate imparate (dai che è dialettale, passatemelo).
Per imparare le cose bisogna studiare, pensate un po'. Leggere, prepararsi, informarsi.
E guardare sempre più film, compresi quelli che si sono sempre ignorati. Sempre per il discorso che la conoscenza non ci entra nel cervello per conto suo. Ce la dobbiamo mettere noi, altrimenti lei se ne sta comoda comoda, stampata sui libri, a riposare.

Per questo motivo ieri sera sono andata a vedere Nosferatu in sala.
Per questo e perché le iniziative intelligenti e stimolanti dei piccoli cinema vanno sostenute, la guerra ai multisala è ancora lunga.
Il 4 maggio, infatti, aspettatevi di leggere qualcosa su Caligari, perché al Filo ci torno.


Certa che sarebbe stato impegnativo da parecchi punti di vista, io, nannimorettiana fino alla morte, amo le parole (motivo per cui, unica cosa che dirò sul film, ho voluto un gran bene agli Odiosi Logorroicissimi Otto), e sono figlia della mia epoca. Nessuno chiederebbe alla mia epoca se sono stata adottata come invece succedeva con la mia madre naturale. Si vede chiaro due chilometri che sono proprio figliola di questo secolo.
Quindi, è stato difficile?
Molto, al punto da rendermi difficile il considerare Nosferatu un film. È stato complesso per me guardarlo ascoltando solo musica, fermandomi a leggere frasi qua e là, è stato strambo approcciarmi per la prima volta alla recitazione così sopra le righe. Ciò su cui si è concentrata la mia attenzione, però, è l'uso dei colori. Filtri (sarà poi corretto dire 'filtri'?) forti, colori che riempiono la scena e lo schermo. Un uso completamente diverso rispetto a quello a cui sono abituata, che però è stato interessante osservare.

Ho immaginato una me stessa degli anni 20. Mi sono immaginata al cinema a vedere un film su un vampiro per la prima volta. Ho guardato la sinistra figura di Schreck avvicinarsi lentamente alle porte, salire le scale, o semplicemente accogliere nel castello il povero Hutter (personaggio dall'entusiamo gilderoyallockiano, se me lo concedete), e sì, me la sarei fatta sotto.

Un'esperienza.
Un primo passo verso quello che voglio costruire, non tanto per il blog quanto piuttosto per mia volontà di completezza. E per sincera passione per qualcosa che finora avevo considerato solo ad un livello più comodo.

Ma tranquilli, il momento in cui su questo blog si inizierà a parlare di espressionismo tedesco è ancora moooolto lontano.

mercoledì 10 febbraio 2016

David Bowie Day - Christiane F.

13:52
Non sono una fan di Bowie. Non nel senso che non mi piace, ma nel senso che non lo conosco bene.
E allora, vi chiederete con buona ragione, cosa ci fai in questa iniziativa dei blogger, stavolta nata dalla mente del caro Obsidian Mirror?
Il punto è che quando muore un talento, un gigantesco talento, al mondo manca la sua dose. L'umanità è privata di qualcosa di grosso, e bisogna ribilanciare. Ognuno di noi, nel suo piccolo, deve fare quanto è nelle sue possibilità per dare il massimo, per cercare di colmare il grande vuoto che la povera Terra ora si ritrova.

Muore la Montalcini? Leggiamo un libro in più, studiamo un po', guardiamo su Netflix un documentario che ce ne sono di eccezionali.
Muore Bowie? Diamoci all'arte. Dipingiamo un brutto disegno su un tovagliolino del bar, scriviamo una poesia che non leggerà nessuno, cantiamo fino a perdere la voce, bruciamoci gli occhi per la quantità di film che vediamo.


E quindi eccomi qui, a logorare ancora un po' i miei occhi già provati, parlando con voi di un film che ho avuto la sfortuna di vedere per la prima volta in un'età decisamente non appropriata, finendo inesorabilmente per detestarne ogni fotogramma, esattamente come avevo detestato il libro, che avevo avuto la brillante idea di leggere.
Riguardarlo con qualche anno di più è stato sicuramente salutare.

Bowie si vede per qualcosa come due minuti. Eppure è un protagonista indiscusso. Quando la musica è una passione forte diventa colonna sonora della vita, momento di emozione irripetibile, amica comprensiva e insostituibile. E Christiane Bowie lo adora. La musica è sottofondo delle azioni quotidiane, da quelle più basilari, ai momenti indimenticabili con gli amici, è l'unico punto di incontro con quel compagno della madre che non le piace molto, è quello che ronza nella testa la prima volta che Christiane passa dalle droghe leggere all'eroina, dopo il concerto, il solo momento in cui David si vede in faccia.


Io negli anni 80 mica c'ero. Ero nei progetti dei miei, ma mancava ancora un po' al mio arrivo. Per mia fortuna, quindi, la devastante 'epidemia' dell'eroina non l'ho vissuta. La conosco di fama, perché è impossibile sfuggirne, perchè siamo ancora circondati da persone che in quegli anni hanno perso qualcuno di amato.
Tecnicamente il film è collocato un po' prima, agli inizi degli anni 70. Per quei pochi che ancora non l'avessero visto ripercorro la storia di Christiane: 13 anni (dico davvero, TREDICI), famiglia un po' scombussolata da genitori separati, sorella che sceglie di stare col padre e madre assente. Inizia a frequentare il Sound, discoteca più famosa di Berlino, dove scopre il mondo delle droghe. (Nella realtà Christiane si è avvicinata al Sound già avviata al mondo delle sostanze illecite, ma il film chiaramente mica poteva durare 6 anni) Conosce qui Detlef, del quale si innamora. La loro storia li farà sprofondare insieme in un vortice senza uscita.

Mah, dire senza uscita poi è sbagliato. Il film si conclude con la sua disintossicazione.
(Non è spoiler, è uscito da qualche tempo un altro suo libro, quindi doveva essere viva, non picchiatemi) In realtà basta informarsi un minimo per scoprire che la sua vita non si è mai allontanata completamente dal mondo della droga. E questo, per me, è devastante. L'eroina è stata la sua compagna di vita. Ha solo avuto più culo di altri, Christiane, parliamoci chiaro. Poteva morire a 14 anni, a 20, a 40. Ne ha 54.

Il film mi ha presa, mi ha afferrata nell'alto del bigottismo in cui mi piace crogiolarmi, mi ha buttato a terra e mi ha picchiata.
Guardavo inorridita il momento in cui, pieno di tranquillità, Detlef confida alla ragazza di prostituirsi, di considerarlo solo un lavoro, niente di che. Lo guardavo accarezzarla, come ha fatto dolcemente per tutto il film, mentre le rivelava una realtà così terrificante, e tremavo. Per lei, perché è stato lì che ha permesso alla droga di prendersi la sua vita: accettare le conseguenze dello stile di vita che ci si è scelti, senza opporvisi neanche per un istante, è come lasciargli la vittoria a tavolino.
E così è andata, sebbene oggi lei sia viva. È comunque un punto per la droga.


Sono troppo perbenista per questo.
Per i locali marci, sporchi, per la prostituzione, per quella massacrante scena di masturbazione in auto, con la vita 'normale' che ti scorre fuori dai finestrini, per il vomito sulle pareti.
L'avevo già detto parlando di quell'Opera d'Arte che risponde al nome di Requiem For A Dream: questi sono i film che vanno proiettati nelle scuole.
Perché gli anni 80 saranno un ricordo, il passato, e l'eroina non è più la peste che era.
Ma è solo il nome a cambiare. Ieri l'eroina, oggi qualcos'altro, domani qualcos'altro ancora.

Sono le nostre debolezze a restare sempre le stesse, ed è questo che dovrebbe farci paura.

Come ogni  - day che si rispetti non sono certo sola, ci sono anche loro:
L’uomo che cadde sulla terra (1976) su In Central Perk
The Elephant Man (1980) su The Obsidian Mirror
ChristianeF. (1981) su Mari’s Red Room
Furyo (1983) su White Russian
Miriam si sveglia a mezzanotte (1983) su Combinazione Casuale
Tutto in una notte (1985) su Non c’è paragone
Labyrinth (1986) su Director’s Cult
C.R.A.Z.Y (2005) su Pensieri cannibali
The Prestige (2006) sul Bollalmanacco di cinema

sabato 6 febbraio 2016

La Cueva

16:01
VI ROVINO IL FILM. LETTORI AVVISATI...


Cara, cara Bego,
io sono te, e tu sei me.
Una rognosa piattola con un bassissimo livello di tolleranza.
Ti ho vista e ti ho amata.
Ti ho vista avere paura di volare, e ti avrei abbracciata, perché devi sapere che a me manca il respiro solo a guardare l'inceneritore di Brescia perché è alto ed azzurro, pensa un po'.
Ti ho vista arrivare a Formentera e anziché lanciarti in banalotto (seppur sempre gradevole) divertimento da spiaggia ti ho vista lanciarti con i tuoi amici all'avventura, in un campeggio abusivissimo e isolato. Le mie avventure rispondono al nome di Airbnb, ma insomma, è lo spirito a valere.
Ti ho visto, che tu in quelle grotte mica ci volevi andare. E io, come te, pensavo a che idea del cazzo fosse entrare in una grotta sconosciuta sperando che le cose finissero bene. Non succede mai.
Certo, hai una compagnia terrificante, Bego, amici infimi e con uno scarsissimo quoziente intellettivo, ma non è questo il punto del nostro disquisire.
Sei stata la più rompicoglioni del film, ma sei stata realissima. Basta con i finti eroi, con l'ostentazione di un sangue freddo che avranno sì e no cinque persone al mondo.
Se ci perdessimo in una grotta e stessimo morendo, la maggior parte di noi persone reali farebbe quello che hai fatto tu: si accoccolerebbe per terra a piangere tutte le proprie lacrime sperando nella Divina Assistenza. Ci lasceremmo morire, salvo poi supplicare pietà nel momento in cui la morte si avvicina davvero. E per questo ti ho voluto bene, e ho sofferto tanto con te. Per te. Per quella scena un po' forzata, forse, ma che non escludo sia possibile. Stavano morendo di fame e parlavano di te come se fossi già carne da macello. E invece eri lì e li sentivi parlare di mangiarti. Anche il destino (o il culo, se vogliamo parlare di cose in cui credo davvero, ché il destino è una cagata cosmica e lo sappiamo entrambe) ti si è rigirato contro.
Ho sofferto con te e con la tua Celia, e anche un po' per quella faccia di merda dell'amico vostro pelato. Ti stava mangiando una gamba, ma ha chiesto di non essere ripreso proprio in quel momento. Come se l'oscurità togliesse realtà a quello che stava accadendo: se non lo vedi non è reale.
Ho voluto bene anche a lei, Celia, silenziosa e senza pretese per tutto il film, da bravo personaggio che doveva contrapporsi a te, per poi tirare fuori un misero e fallimentare tentativo di rivalsa.
E allora via, inseguimenti nelle grotte, minacce di morte, insulti.
Tra esseri umani che avevano invece un bisogno estremo di collaborare.
Meno male che sei morta prima, Bego.
Meno male che non hai visto la bassezza dell'animo umano, quella che tiriamo fuori solo quando salvarci la pelle diventa più importante di qualsiasi altra cosa, della legge statale e di quella morale. Conserva l'immagine dei tuoi amici fuori dalla grotta, cinque pirla dall'ironia un po' infantile e dall'ubriacatura facile.
Quello che c'è dentro quella cueva non ti sarebbe piaciuto.

venerdì 29 gennaio 2016

Mi metto in pari: Maggie

11:56
Questa cosa che gennaio sta giungendo in dirittura d'arrivo deve finire.
Io ho cose da fare, il tempo non può permettersi di scappare così.
Intanto, però, sto continuando a guardare film dell'anno scorso, tanto per avviarmi verso i prossimi undici mesi senza troppe carenze.
Da blogger professionale e con una precisa strategia (lol) vi ricordo anche che sulla pagina Facebook (che sta qua) ogni tanto ci scappano recensionine ultrarapide su film random.


C'è un momento ben preciso, in Maggie, che mi ha fatto dubitare della necessità di questo post.
Meg si dondola sull'altalena, ripensa all'attacco che ha subito. Nello stesso momento, la compagna del padre è in casa a cucinare, e ascolta le persone che alla radio parlano di come andrebbero trattate le persone che stanno per trasformarsi. Chi parla usa una gelida terza persona plurale, quel 'loro' che priva di ogni umanità, che unisce tutti in un terrificante insieme di esseri da eliminare.
Eppure Maggie è lì, è sull'altalena. È sempre lei.
Si sentono i conduttori dire che chi viene morso va ucciso, punto. Sono pericolosi. Nel fotogramma dopo, la compagna del padre corre fuori, e siccome fino ad un secondo prima aveva in mano un coltello, il collegamento è immediato: prova ad ammazzarla.
Invece no, sta correndo a soccorrerla, Maggie è caduta, sembra ferita.
È stato un colpo piuttosto forte: percepite la freddezza di chi da questo virus evidentemente non è mai stato colpito e poi di colpo lei, che dà il titolo al film, che di questo virus ne è vittima. Ed è umana, è come me, ma quelli che parlano di soppressione mica lo sanno. O meglio, mica ci pensano.
A fronte di un momento così intenso, cosa possono le mie parole?

Quale recensione potrà mai rendere giustizia al grandioso Arnold, che guarda negli occhi i suoi vicini di casa, ormai zombie, e li chiama per nome? Li implora di parlare, perché non c'è niente di più umano della comunicazione. Se avesse sentito le loro voci non li avrebbe mai uccisi.
Quale frase potrà spiegarvi quello che si prova nel vedere l'ultimo abbraccio tra due amiche cresciute insieme, che ci è mostrato in una scena così delicata e forte allo stesso tempo, il momento in cui per la prima volta Maggie e suo padre si lasciano andare alle più inconsolabili delle lacrime.
Così come è inspiegabile la situazione di chiunque li circondi. intrappolato nell'incapacità di dire qualsiasi altra cosa che non sia il solito 'Mi dispiace.'
E questi infiniti primi piani di un padre sofferente sono difficili da sostenere. Se un tempo, nei suoi cultissimi action i sottili occhi di Arnold contribuivano a quell'aria da duro che tanto lo avrà aiutato nella sua carriera, qui sembrano appesantiti dal dolore, e vederlo piangere è quasi un'esperienza mistica.


Ognuno in Maggie ha ragione: hanno ragione i poliziotti che hanno una città da proteggere, ha ragione Caroline a scappare, nonostante i suoi innumerevoli tentativi di stare vicino ai suoi amati.
Ma al cuore cosa importa di chi ha ragione? Come si va oltre l'amore più grande che si possa immaginare per fare la 'cosa giusta'?
La mia mente si rifiuta di affrontare un pensiero simile, ci ho provato, ma scappo.
Il colpo di grazia me l'ha dato, di nuovo, Arnie, quando, durante un attacco, la supplica 'non ancora'.
Chi glielo va a spiegare che il momento giusto non arriverà mai?

Lasciate perdere gli sgozzamenti, orde di zombie uccise con precisi colpi alla testa.
Vi sfido a guardarli di nuovo con gli stessi occhi, dopo tutto questo.

martedì 26 gennaio 2016

Mi metto in pari: The Green Inferno

18:28
SPOILER ANCHE QUESTO GIRO PERCHÈ TANTO LO AVETE VISTO TUTTI

Mi piace Roth? No.
Mi piacciono i cannibal movies? Non particolarmente.
Però The Green Inferno lo guardo, perché la coerenza è il faro della mia esistenza.

Ve lo riassumo nel caso non ve lo ricordaste: gruppo di attivisti (categoria umana verso cui nutro profondo timore) parte alla volta dell'Amazzonia a fare il proprio dovere di attivisti ma l'aereo su cui stanno viaggiando ha un guasto e loro finiscono nel bel mezzo della giungla in balia della tribù indigena che erano partiti per proteggere.
Se in 25 anni non ho mai preso un aereo perchè il solo pensiero mi causa profondi attacchi di panico, pensate voi quanta voglia me ne è venuta ora.

DISCLAIMER: Nel post di seguito non troverete nominato quel film là di Deodato perché sapete che lo detesto. Niente confronti, niente caccia alle differenze, niente.

Questo l'ho detestato? NO.
È talmente surreale e inaspettato che mi gira quasi la testa.
Cominciamo dalla locandina italiana?


Ma mi potrai stare più in culo di così?
Se permetti il tuo essere accettabile o meno lo determiniamo noi che vediamo, scusa eh. Aberrante, estremo...
Lo so che serve a portare gente, lo comprendo, ma non mi piace e lo prenderei a ceffoni. Poi guardandolo con fare sprezzante, gli direi: 'Eri efferato quanto i My Little Pony.'
In effetti, però, un pochino forte lo è, per quanto mi pruda l'orgoglio a dirlo. Fermo restando che visti un paio di Saw questo è una passeggiata, va ricordato che siamo nella seconda decade degli anni 2000, se mi mostri un cannibale che strappa i tendini con i denti mi sembra vero e mi fa senso.
R, se stai leggendo, stanne proprio abbondantemente alla larga.

Eppure, non sono state le amputazioni nè le torture a disgustarmi. Credo che a restarmi nella mente a lungo sarà la scena dell'arrivo dei ragazzi nel villaggio degli indigeni. Decine di mani sconosciute addosso, strusciate contro faccia, capelli, spalle, mi toglieranno il sonno per un po'. Che disagio, che urticaria, che voglia di picchiarvi uno per uno, giù le mani maledetti musi rossi o ve le sego con un taglierino che taglia poco.


A parte quello, l'orrore agli occhi di chi ha un minimo di dimestichezza è davvero poco. Un paio di arricciamenti di naso e un singolo momento di tensione che credo però di avere provato soltanto in quanto femmina, perché un coltello da quelle parti lì NON CE LO VOGLIO.
Certo, avrei preso sta Justine a randellate sul naso, ma immagino che anche questo sia responsabilità mia. La bellissima e dolcemente ingenua figliola del funzionario delle Nazioni Unite che scopre il suo lato di sinistra perché crede nella pace del mondo e quindi parte, con uno zaino carico di ideali ma privo di alcuna conoscenza del mondo, per salvare il mondo, mi sta sulle palle. E oltretutto si indispettisce quando scopre che gli altri hanno accettato il fardello della sua presenza per un motivo. Dai, bella, su. E il fatto che si sia salvata perché nella sua sconfinata dolcezza ha conquistato il cuore di un bambino non lo accetto volentieri, Eli.
Ti perdono quella questione della bustarella d'erba per cui tutti ti hanno un po' perculato, ma guarda che questo non mi piace.

C'è anche da dire che tu, vecchio Orso Ebreo, hai perculato tutti i sedicenti attivisti del mondo in una pellicola piena di sangue, quindi chi sono io per giudicarti? Mi hai fatto divertire. Ed è evidente che sia io che te abbiamo 13 anni, perché al 'Una tarantola ha cercato di mordermi il pisello!' ho riso assai.
E anche tu.

domenica 24 gennaio 2016

Cinema Italiano I love You: Shadow

14:41
SPOILEEEEER! NEI SOTTERRANEI, SPOOILEEEER!
Io ve l'ho detto.


Quando i cinebloggers chiamano io sto sempre lì, in prima fila, col braccio alzato a scalpitare per partecipare sempre. Stavolta Alessandra, sempre di Director's Cult, propone il cinema italiano, tanto per ricordare a chiunque bazzichi da queste parti che non siamo solo Checcozaloni.
E io non è che mi drogo.
Shadow è un film italiano davvero, fidatevy.
Diretto dal buon Zampaglione, tanto per darvi conferme.

Premessa, io sono contenta che Zampaglione esista e si sia messo dietro la mdp.
Il catalogo italiano offre commedie che generalmente mal tollero oppure filmoni intensi e importanti pregni di significato e di denuncia sociale. E va bene, queste cose vanno bene, ci vogliono. Ma se sono solo queste è mica vero che al quarto film italiano di fila io devo sbattere ripetutamente la testa contro il muro?
CHE NOIA.
Il mio caloroso benvenuto va quindi a qualsiasi proposta che si discosti da questo percorso che chissà quali circostanze hanno contribuito a creare.


In Shadow abbiamo un reduce di guerra partire per un viaggio per l'Europa, per lasciarsi tutto alle spalle. Durante una gita in bici in montagna incontra una giovane, con la quale metterà i bastoni tra le ruote ad un paio di cacciatori che non la prenderanno molto bene.
La vera morale del film ti insegna che anche quando credi di essere il più cattivo, ci sarà sempre qualcuno più cattivo di me.
E se ti prende sono volatili senza zucchero.

Non mi sono mai messa a parlare dei significati metaforici di un film perché io poetica mai. Non inizierò certo adesso, mi limito a linkarvi questo post de Il Buio in Sala. Nono solo il buon Giuseppe fa una delle sue inimitabili analisi, ma lo stesso Zampaglione nei commenti ha illustrato i suoi intenti.
Niente di quello che potrò mai dirvi io potrà mai valere più di quello che ha detto chi 'sto Shadow l'ha creato.

Quindi, come al solito, parliamo di sensazioni a pelle. (E a proposito di pelle vi comunico che io, sempre sul pezzo, scopro la storia della pelle dei rospi solo guardando questo film, #Zampaglioneperilsociale)
La mia, di pelle, non è ricoperta di droghe, il che è utile se devi lasciarci entrare le sensazioni che ti sta trasmettendo un film. In questo caso avrei quasi preferito di essere un agglomerato di sostanze illecite, perché sotto la pelle mi sono entrati sporcizia, malanno, senso di colpa. Mi è penetrata nei pori l'aria sporca, scura, malsana che si è respirata nell'ultima parte,
Mi si è risvegliata una profonda repulsione per la guerra, che credo sia insita nell'essere umano. Mi è salita la paura, ho sentito il pianto di un bambino e mi sono venuti i brividi.
E quella palpebra tagliata, rivista con la consapevolezza che non fosse una tortura casuale è raggelante.
Con me Shadow funziona, alla grande.


E poi, lo spoiler.
Avete presente quando un film si avvicina al finale e vi ritrovate a dire: 'Adesso è tutto un sogno, eh, minimo!'
Ecco, stavolta lo è davvero.
Incredibile.

Non sono ovviamente la sola ad avere parlato di cinema italiano, però. Ci hanno pensato anche loro:
Solaris: Io sono l'amore
White Russian: Non essere cattivo
Pensieri Cannibali: Non essere cattivo
Director's Cult: Il volto di un'altra
Non c'è paragone: Basilicata Coast to Coast
In Central Perk: Maicol Jecson
Bollalmanacco: Almost Blue
Delicatamente perfido: Italiano medio

lunedì 11 gennaio 2016

Mi metto in pari: Bone Tomahawk

17:45
È iniziato il countdown.
Arriva Tarantino.

Bisogna essere pronti, accoglierlo come merita, dobbiamo abbracciarci e farci forza, per non scaricare quel torrent malefico che circola. Non lo faremo, perché siamo gente per bene. Però soffriamo.
Venite qua, stringiamoci.

Cosa posso fare, nell'attesa?
Stephen Fry mi sta leggendo Harry Potter, vado a lavorare, guardo Macbeth.
Ma non basta.
Mi devo avvicinare al territorio, per soddisfare questa fame che ancora per qualche giorno mi disturberà il sonno.
Da qui, la voglia di recuperare Bone Tomahawk.
Se non altro, c'è Kurt.


Premessa: l'unica cosa che so del cinema western è che non so niente del cinema western.
Sto pensando al recupero di qualche gigaclassico ora che Leone si trova su Netflix, ma non garantisco che me ne sentirete parlare da queste parti.

Bone Tomahawk parla di quattro compari che partono in missione per salvare la moglie di uno di loro da un clan di indiani cannibali che l'ha rapita.
Va bene se la riassumiamo così? Perché lo dovete vedere a prescindere da qualsiasi cosa io possa scrivere in questo ignorantissimo post.
Se il film contiene citazioni speciali o caratteristiche comuni al genere io, per i motivi di cui sopra, non le ho colte. Il mio giudizio è basato su una visione vergine.
Vi dirò di più: il film a cui mi verrebbe da accostarlo è Il signore degli anelli.
Dai, anche stavolta il defollow ve l'ho servito su un piatto d'argento.

Si parte in un luogo tranquillo (non ameno come la Contea, ve lo concedo), e una serie di eventi di apparente poca importanza portano all'inizio di un'avventura.
Se di là avevamo la scomparsa di Bilbo con conseguente ritrovamento dell'Anello, qui abbiamo uno sceriffo che ferisce un presunto criminale e la pseudo dottoressa del luogo che lo deve curare, con conseguente rapimento di tutti i soggetti coinvolti.
Inizia un viaggio, in entrambi i casi, e se per un momento sembra che la destinazione sia la cosa più importante, ci vorrà poco prima di capire che in realtà è la strada a conquistare. Lenti fino all'esaurimento nervoso entrambi, il primo per prenderti di peso e trasportarti (con incredibile successo) altrove, il secondo per farti diventare 'amica' dei quattro. È lungo la strada che li conosciamo realmente, che impariamo ad apprezzarli, che prendiamo per mano Chicory e iniziamo a volergli quel bene forte che si vuole solo ai personaggi così reali.
E la questione della lettura nella vasca da bagno? I feel you, old man.
Come nell'incredibile lavoro di Tolkien, poi, (e badate bene che non li sto paragonando, va bene che questo è bello e c'è Kurt Russell, ma quello là è un mastodontico capolavoro di quelli da farti sudare freddo) è la Compagnia la vera protagonista. Non in quanto insieme di persone, ma in quanto legame che nasce tra chi vive certi sentimenti insieme.


E pensi: 'Oh, cavolo, interessante, elegante sto film, chissà dove mi porta.'
Spoiler, vi porta in un lago di sangue.
Dalla raffinatezza del panciotto di Kurt e dalla bellezza degli abiti di queste donne del West, si arriva al gore estremo (una scena in particolare che se, come me, starete mangiando i vostri biscottini di soia durante la visione, ve li farà posare), capace di mettere a dura prova anche chi credeva di avere già visto le peggio cose (non io, le peggio cose sono ancora lontane da me).
Oddio, io speravo che dopo Salò sarebbe stato per me tutto in discesa, e invece no.

Mi copro ancora gli occhi inorridita come una signorina.

giovedì 7 gennaio 2016

Mi metto in pari: Deathgasm

16:36
Due giorni fa parlavo di un macigno emotivo, un film lento ed elegante.
Io l'unica cosa elegante che ho sono i gatti. E poi in realtà non lo sono manco loro.
Per cui dovevo rimediare. Dovevo riportare del sano panesalamismo in questo blog color del sangue. Per accostamento cromatico mi pareva corretto parlare di un film, sempre tra quelli dell'anno scorso che devo recuperare, che ha messo d'accordo quasi tutti: Deathgasm.

Brodie è un adolescente amante del metallo che si trasferisce a casa degli zii. La passione per la musica è la sola cosa positiva nel complesso della vitaccia del nostro: vittima dei bulli a scuola, amici pochi e superloser (capirete che assistere ad una partita di Dungeons and dragons quando tu immagini te stesso suonare sulle rocce con donnina nuda e avvenente appresso non sarà mai un'esperienza gradevole), madre ricoverata in istituto psichiatrico. Con quei due poveri cretini dei suoi amici e con l'ausilio di una nuova conoscenza che condivide con lui i gusti musicali fonderà una band, ma gli va male anche stavolta.


Penso di essere una dei pochi blogger ad avere visto questo film non avendo mai amato il metal. Sono una pippa, che volete che vi dica. Riconosco il talento di alcuni musicisti, ma proprio non è la mia cup of tea. 
Non so se amare il genere in questione, che in questo caso è uno dei protagonisti della vicenda, mi avrebbe fatto piacere ancora di più il film, ma vi garantisco che non è una condizione necessaria.
Non impressionarsi di fronte al sangue invece lo è.

Perché qua di sangue ce n'è a secchiate. 
Ma non è che ce lo propinano subito, no. Prima abbiamo il metalhead che di duro ha solo la custodia della chitarra. Entrato in un nuovo (orribile) ambiente familiare, a cui mi sento di dire che se il povero cristo fosse stato davvero satanista vi sarebbe stato benissimo, stupidi bigotti, nuova scuola, nuovi amici, circostanze che come vi ho già raccontato conosco (e odio) benissimo. Vuole suonare la chitarra ma non è proprio bravissimissimo, gli piace una ma è proprio la morosa del cugino bullo.
Meno male che ha la passione per la musica a tenerlo in piedi perché qui avremmo gli estremi per una diagnosi di depressione.
Poteva, al nostro povero sfigato, andare bene almeno la band che ha formato?
Ma figuriamoci.
Suona ed evoca dei demoni che prendono possesso di tutta la cittadina.
Chiaramente.


Da questo momento iniziano le botte da orbi.
Vibratori nelle orecchie, motoseghe nel sedere, sberleffi a suon di dildo giganteschi, esageratissime e volgari. Ma quanto si ride? 
Posseduti che sembrano zombi, teste scollate dal collo con tutta la colonna appresso, sembrava di stare dalle parti di Dead Snow.

Se avete altri amici amanti del genere, ve ne prego, guardatelo insieme. Pizza, birra e Deathgasm. Che io ieri sera li avevo entrambi ma con i miei amici guardavo Aldo, Giovanni e Giacomo. 
Se gli faccio vedere una roba del genere mi mollano, più sola e sfigata di Brody.



martedì 5 gennaio 2016

Mi metto in pari: Goodnight Mommy

13:41
HO TRATTENUTO PER SETTIMANE QUELLO SPOILER Lì GIGANTESCO, FATEMI FARE ALMENO QUESTO QUA.

Siamo a gennaio e se come me siete usciti da un tempo (relativamente) breve dalle scuole ricorderete che a gennaio si inizia la maratona per recuperare i debiti.
Su MRR, quindi, approfittiamo del primo mese di questo nuovo anno per recuperare tutto quello (se va beh, tutto) che ci siamo persi l'anno scorso.
Iniziamo con Goodnight mommy, film quasi assente dalle vostre classifiche di fine anno. Il Bradipo, però, lo ha messo tra i migliori. Ad accrescere ulteriormente le mie già notevoli aspettative arriva il trailer.


Due gemelli,  una madre che è la loro ma forse no, una splendida villa immersa nella natura austriaca, pochissime parole (di cui una, 'Lukas', ripetuta fino allo sfinimento), solo un numero impossibile da contare di sguardi.
Un minimalismo incredibile, che in altre circostanze mi avrebbe condotta dritta dritta tra le braccia di Morfeo e che invece questa volta mi ha massacrata emotivamente.

È di una lentezza impegnativa, eh, sto Goodnight Mommy, ma è altrettanto pieno di fascino. È un film in cui si entra nel vivo del dolore, nel punto in cui la ferita fa ancora malissimo, e ci si ficca un gigantesco coltello dentro, e lo si gira, lo si continua a girare con incredibile sadismo.
Non che sia un film bastardo, eh.
Non è di quelli che alla fine ti fanno venire voglia di prendere il dispositivo su cui lo hai guardato per fargli fare la fine della Gabbianella a cui il Gatto ha insegnato a volare.
È piuttosto uno di quelli che ti fa credere di essere una cosa per poi rivelarsi tutt'altro.


Sembra quasi un home invasion, sembra che una sconosciuta si sia presa quel ruolo di madre che non era il suo. E invece è la storia di una donna a cui il ruolo di madre è stato strappato violentemente. E le resta solo la parte più difficile, la ricostruzione di quello che resta a chi è sopravvissuto. Deve farlo in quanto madre, anche se posso solo provare ad immaginare quanto possa essere stato doloroso continuare a preparare i pasti anche per il figlio morto, solo per assecondare il desiderio di quello sopravvissuto.
Ci sono piccoli dettagli che, tornati in mente a fine visione, fanno presa sul cervello e sul cuore: per esempio il momento in cui la mamma per dimostrare l'evidente assenza di Lukas mostra ad Elias come ci sia solo un cambio di vestiti, e mostrare a noi spettatori che quel singolo cambio lo indossano a turno entrambi i gemelli, scambiandosi poi l'abbigliamento a metà film, è stato commovente.

Il centro del tema dell'identità del film sembrava essere questa donna bendata (funzionano un casino ste bende, che angoscia), ma si rivela poi essere Elias, che deve ricostruire se stesso come individuo a sè stante, e non più come fratello di Lukas.
Straziante ed inimmaginabile.


Siamo dalle parti di The Orphanage, qui lo dico e qui non lo nego.


giovedì 31 dicembre 2015

Bilanci un po' emo - 2015

17:24
Di solito faccio anche io i gigapost di fine anno. Non le classifiche che vedete altrove, perché trovo ce ne siano già troppe e scritte da persone con capacità critica e analitica notevolmente superiori rispetto a quelle della salsiccia cinefila che sono io.
In questi giorni sono molto felice, quindi voglio condividerlo con voi, che avete sempre condiviso con me le vostre passioni. 
(Ma non ho intenzione di parlare solo di film usciti quest anno, quanto piuttosto di quelli che ho visto io, durante quest anno)

Ho trovato lavoro, a settembre. Banalmente, faccio la barista. Quello che è straordinario è che amo questo lavoro, amo l'ambiente in cui sono inserita (si tratta di una cooperativa sociale, che ha aperto queste realtà di bar, gelateria, pasticceria e rivenditori equosolidali, è un luogo con dei VALORI), amo le basiche mansioni che svolgo, amo essere chiamata per nome dai clienti e sentirmi dire che vogliono 'il solito', mi sento a casa e non credevo fosse possibile. In questo momento idilliaco, la notizia: assunta a tempo indeterminato.
Se siete qui da un po' l'avete letto in diversi post, è stato un percorso travagliato quello che mi ha condotta qui. E ora che ci sono, qui, piango la notte dalla gioia e dal sollievo.
Le cose non sono ancora perfette (lo sono mai?) ma sto facendo passi avanti.

Da questa frase spunta la mia riflessione: sto come sta il cinema horror. È stata difficile, e un po' lo è ancora, eppure stiamo migliorando.
A volte le belle notizie sono temporanee (sembrava che Saw potesse portare qualcosa di buono, il primo capitolo era intrigante, poi ci ha fatto cadere le braccia), a volte spuntano novità che ti fanno venir voglia di ballare sotto la pioggia (Honeymoon) e  volte ancora accade quello che sembrava impossibile (Babadook al cinema).
A volte casa mia (l'Italia, è una metafora dai, comprendete le mie ricercate figure retoriche) mi ha fatto imbufalire, come tutte le volte in cui ha osannato il passato senza cercare di andare avanti.
Io il passato lo amo, quasi lo divinizzo, ma non di solo Fulci si può campare, sebbene sarebbe (????) un gran bel campare. Serve qualcosa di nuovo, qualcosa che ci faccia guardare al domani con speranza ed entusiasmo. È per questo che non mi sento di demolire progetti come Evil Things, sebbene fallimentari. Ci abbiamo provato, è andata male. Riproviamoci. Ci abbiamo riporvato con quel gran bel progetto di Dylan Dog - Vittima degli eventi, ed è andata bene, ma potevamo migliorare ancora.
E infatti è arrivato Psychomentary, che mi ha fatto quasi venire voglia di abbracciare il pc. La presenza di Zuccon nel cuore degli appassionati poi è viva e vegeta, sono cretina io che ancora non ho recuperato.

Sono un po' orgogliosa di me per essermi spinta un po' più in là del mio confine, sia nella vita privata che cinematograficamente. Quello di Salò rimarrà uno dei post più controversi del blog, ma sono felice di essermi fatta coraggio. Non solo quella volta, però, perché il 2015 per me è stato anche l'anno di The last house on the left per il quale secondo me merito una pacca sulla spalla. E quest anno abbiamo salutato Wes, che si merita innumerevoli pacche sulle spalle. Ho affrontato le mie paure più grandi guardandomi Il signore del male, e non è che lo rimpianga, eh, ma è stata la prova che mi ha dimostrato che per i demoniaci ancora non sono pronta, nessuna intenzione di rivedere quel tale di Friedkin risulta al momento pervenuta.
Sempre del 2015 è stata la visione di Sauna, film lontaniiiiiiiissimo dai miei canoni ma che si è rivelato ben più intrigante del previsto. Sono stata in Spagna con quella gioia di Musaranas, sono stata nel passato e ho recuperato Scream, mi sono goduta un film ambientato in Iran (A girl walks home alone at night) e grazie a Only lovers left alive sono caduta anche io nella trappola per donne che risponde al nome di Tom Hiddleston.

Questo 2015, insomma, lo concludo con il sorriso. L'ho perso ogni tanto per la strada, ma ritrovarlo è sempre il piacere più grande. Arrivo spesso a questo punto dell'anno con l'entusiasmo e la curiosità per le cose che verranno.
Completamente fuori dalle mie consuetudini, attendo non uno ma ben TRE film con gente in calzamaglia. Suicide squad uber alles, e checché ne dicano i veri conoscitori della materia, a me questo Joker piace. Mi piace qualsiasi strato Jared Leto vada a mettere sul suo bel faccino. E poi, le avete viste le prime immagini di Doctor Strange? Non me ne frega assolutamente niente del personaggio che non conoscevo prima di due minuti e mezzo fa, ma Cumberbatch è un figo da confusione ormonale, si necessita visione in sala a dimensioni gigantesche. E infine, e qui sconvolgerò il povero cuore sensibile del mio moroso sostenendo pubblicamente che non vedo l'ora di vedere Deadpool. Il suo supereroe del cuore, me ne parla con toni entusiastici più o meno da quando siamo insieme e credo che le nostre ironie potrebbero trovarsi bene insieme. Dato come è finita con Star Wars, posso fidarmi di Riccardo, anche stavolta.
L'anno prossimo poi arriva The Witch, per il quale mi rendo conto di essere stata un po' insistente su Twitter, ma io ho sopportato di vedere spade laser in mano ai coniglietti Duracell senza fiatare, merito lo stesso trattamento. L'avete visto il trailer? Gongolo come una 15enne media davanti a 50 sfumature di nero, a proposito del quale propongo un incontro tra blogger per andarlo a vedere insieme,a rompere i coglioni in sala come fanno gli altri quando noi vogliamo vedere in religioso silenzio cose interessanti.
E a proposito di nuove uscite, cosa mi sapete dire di quel Lights Out? C'entra quel corto spettacolarmente grottesco di cui si parlava in rete e che a me era tanto piaciuto? Perché guardate che a far crescere un'altra scimmia è un attimo, eh.
Ad aggiungersi a tutte quelle che questo postdi Lucia ha creato proprio oggi.

Se è vero che ogni sorriso, però, è accompagnato da una sensazione dolcemara, come imparato da The Final Girls, il mio entusiasmo è smorzato da tutto quello che mi sono persa e ho lasciato indietro.
Per fortuna che per rimediare arriva il 2016.
E che sia pieno di meraviglie (cinematografiche e non) per tutti.

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