mercoledì 31 ottobre 2018

Halloween ad Hill House

12:25
Halloween è il Santo Patrono, qui nella Repubblica di Redrumia. 
Ero già pronta con il consueto elenco delle visioni consigliate, ma la slavina Hill House si è abbattuta su di noi oscurando tutto il resto, e quindi Halloween 2018 si passa dentro alla casa infestata più importante di sempre.
Domani, poi, è festa. Stanotte maratona della serie, luci spente, coperta a coprirvi il naso perché avrete una paura dell'accidenti. Domani mattina che è festa rilassati a letto con il libro, una tisana bollente e i pan di stelle e al pomeriggio maratona film. Non serve alzarsi da letto e divano, per le piaghe da decubito vi mando il mio amico farmacista. A posto, vi ho organizzato un paio di giorni. Non ringraziatemi.
Se invece aveste già visto e letto tutto, ci vediamo domani a Lucca, io sarò quella con una sciarpa immensa e comunque blu dal freddo.


No live organism can continue for long to exist sanely under conditions of absolute reality; even larks and katydids are supposed, by some, to dream. Hill House, not sane, stood by itself against its hills, holding darkness within; it had stood so for eighty years and might stand for eighty more. Within, walls continued upright, bricks met neatly, floors were firm, and doors were sensibly shut; silence lay steadily against the wood and stone of Hill House, and whatever walked there, walked alone

Hill House la conosciamo così, con uno degli incipit migliori della letteratura dell'orrore. Siamo nel 1959 e quello che Shirley Jackson ha pubblicato non diventa solo un successo: fa la storia. 
La trama non serve che la racconti: parla di una casa in cui accadono cose maledette, e davvero non serve sapere altro.
L'ambiente che la Jackson crea non ha bisogno di urla e sangue. Si accontenta di regalare un'atmosfera indimenticabile, un gioco terrificante tra paura e disturbi mentali, costruendo con il solo uso di un'abitazione fatiscente un'ambientazione che diventa parte dell'immaginario del lettore che se lo porta dietro per sempre, perché ogni casa infestata del mondo, poi, diventerà oggetto di paragone con Hill House.
E niente è all'altezza.

Se ne è accorto ben presto anche Robert Wise, che non è esattamente quello che chiamerei l'ultimo degli stronzi. Nel 1963 ne trae il primo film, Gli invasati. Riesce a fare la cosa più bella, quasi insperata: mantiene presente la componente del dubbio, così importante nel libro. Non era scontato, perché è ben più facile parlare di fantasmi e basta, ma la Jackson non è così semplice. Ci sono fantasmi reali e fantasmi della mente, del passato, della paura. E quelli lì non li scacci con un medium. Gli invasati è così fedele al romanzo perché non usa effettacci e lascia che sia la nostra mente a fare tutto. Ci lascia terrorizzare e preoccupare per Eleanor, esattamente come pochi anni prima aveva fatto la sua mamma letteraria. 
Negli anni non ha perso un briciolo di fascino.

Nel 1999 succede una barzelletta. Ci sono Owen Wilson, Liam Neeson e Catherine Zeta-Jones che entrano in una casa infestata.
Ci prova, ma non ci prova neanche fortissimo, Jan de Bont, a riportarci nella nostra casa preferita. 
Per farla breve: era meglio se non ci provava.
Noiosissimo, paura nemmeno per errore, prove attoriali scadenti e nemmeno un briciolo di attrattiva per la casa. Eppure pare un soggetto facile, la casa infestata: vecchie mura cadenti ma antiche quindi splendide, è già inquietante così. Non c'è oscurità, non c'è senso di imminente tragedia, non c'è nemmeno una piccola tensioncina qua e là giusto per ricordarci che dovremmo stare guardando un film dell'orrore.
Da inserire nella maratona giusto per quando dovete andare in bagno a fare la cacca e mangiare magari qualcosina dopo.

Quest anno è stata la volta della miracolosa serie Netflix, la cosa principale di cui volevo parlare in questo post. Mettetevi comodi, temo sarà lunga.
The Haunting of Hill House si allontana moltissimo dalla trama del romanzo. Restano intatti i nomi, i personaggi secondari e lei, la Casa. Poco altro, se non qualche frase messa al punto giusto per lasciare di noi solo un mucchietto di lacrime. Lo sapevamo che sarebbe stata magnifica, perché amiamo tutti Flanagan, e la scorsa volta la coppia Flanagan/Netflix ci aveva lasciati sconquassati per benino, ma chi poteva pensare che avremmo assistito ad una delle serie più belle di sempre? 
Questa volta nella casa ci vive una grande famiglia, che vuole rimetterla a nuovo per venderla e cercare di fare un buon affare. Nessuno esce indenne da Hill House, però. Nemmeno noi.
Si tratta di un racconto di sopravvivenza, di dolori atroci, di traumi e di gestione di tutte queste cose. Come una This is us gotica vediamo i protagonisti in due fasi delicatissime della loro vita, in ognuna delle quali è la perdita a segnare il passare del tempo. Continuare ad esistere portandosi appresso un enorme fardello di dolore non può essere privo di conseguenze, e noi queste conseguenze le vediamo tutte, le vediamo trasformare le vite di cinque personaggi che restano nel cuore dal primo momento. Il loro passato li ha portati alle loro scelte, li ha resi quello che sono. Quello che sono sono adulti frantumati che si tengono insieme per sopravvivenza base. Se gli occhialetti del piccolo Luke non bastassero a rapirvi il cuore, aspettate di vedere il grande Luke. Quello lì ti prende e ti fa l'anima a pezzettini, dal primo all'ultimo episodio. Le loro fragilità sono talmente esposte che si vorrebbe sempre proteggerli, allontanarli dalla casa o dal passato, o anche solo abbracciarli. Vederli piccoli è un colpo al cuore, crea con loro quel legame dato dal senso di protezione, e ci lega indissolubilmente alla serie. Sono bellissimi, profondi, reali. Il loro legame è complesso e mai per un istante viene data l'impressione di una ricercata perfezione. Eppure l'amore è presente e palpabile, e non si può fare a meno di sentirsene parte. L'amore non guida solo loro, ma è il filo conduttore di tutta la serie, che ne è permeata e che lo ritrae in tutta la sua candida semplicità. Amore fraterno, amore genitoriale, amore di coppia, di amici, di amanti passeggeri. Ed è tutto così tristemente dolcissimo, in Hill House, che i pianti che porta, perché li porta e anche spesso, sono reali. Non è solo commuoversi per una scena triste ma è riconsiderare il concetto stesso di amore, di legame, è guardare finalmente ai fantasmi come le splendide malinconiche creature di finzione che sono.
Il tutto, con scene sinceramente spaventose, con monologhi di grande impatto, e con un ultimo episodio magnifico da vedere, e rivedere, e rivedere ancora, per tornare a quelle atmosfere lì, che finiscono per mancare così tanto quando smettono di scorrere sullo schermo. 
The Haunting of Hill House è, semplicemente, il racconto di una vita. Le storie non sono forse sempre e solo questo? Ci vogliono persone molto molto brave a trasformare una cosa così comune in un'opera straordinaria, e abbiamo avuto la fortuna che questa volta a narrarcela fosse una persona dal talento grande. Una storia di esistenze in corso e di vite concluse, nella quale nessuna ha più valore dell'altra, nella quale chi c'è e il ricordo di chi non c'è più sono ugualmente presenti e importanti.  
Una serie di una delicatezza rara, che dà un valore nuovo all'orrore, portandolo ad una sfera intima, e umana, forse a livelli ai quali raramente era giunto prima. lì giù, nel cuore pulsante dello spettatore, che sarà sì estasiato da una tecnica sopraffina (sì, l'episodio sei è una bomba e non devo certo dirvelo io), ma che è graziato da un'emotività così raramente esposta in modo così tangibile. Detto semplicemente: non sembra un prodotto di finzione. Di certo finto non è il nostro coinvolgimento.
Non è da maratona goliardica con amici la notte di Halloween. Per una notte intensissima, però, con paura reale (attenzione a quando le sorelle sono in auto da sole, non è uno spoiler ma un avviso. Ci ho quasi perso la vita.), sentimenti fortissimi e scene indimenticabili, è tutto quello di cui avete bisogno.
Tutte le altre case infestate, da oggi in avanti, dovranno fare i conti con tutto questo.
Buona fortuna.



giovedì 25 ottobre 2018

Preferiti della Redrumia: Ottobre 2018

11:24
Qua si lavora al post di Halloween, ma per non lasciare la blogosfera senza le mie indispensabili parole, anticipiamo di qualche giorno il post dei preferiti, giusto perché chiacchierare qui mi manca un po' e non mi va di aspettare la settimana prossima.



Signore e padrone del mese per me è stata Hill House, come penso per tutto il mondo. E a ragione, perché è uno di quei casi in cui possiamo usare una delle parole più odiate dei cinefili: Capolavoro con la maiuscola.
Ma di quella, appunto, parliamo per Halloween.

L'orrore però è stato comunque protagonista di ottobre (e, come sempre, del mio cuore) perché finalmente ho visto Hereditary.
Sì, ci ho messo troppo. Ma il momento è giunto e la paura più fredda e totalizzante ha preso anche me, e mi ha trascinato negli inferi nei quali evidentemente questo film è stato scritto. Quanta benedettissima paura può fare un film? Dovrei saperlo già, ma ogni volta mi sorprende come la prima. Come mi piace, come mi cago sotto.
Hereditary ha una scrittura che ha dell'incredibile, una regia ipnotica e attori benedetti dalla grazia di una qualche divinità cinematografica. C'è una scena, a mezz'ora dall'inizio. Lo sapete di che scena parlo, voi che avete visto il film. Oltre ad avere lasciato il pubblico con il bisogno di un paio di sedute di terapia per riprendersi, ci ha regalato una prova attoriale che non dimenticherò mai. Alex Wolff, classe millenovecentonovantasette, sta seduto in auto. Sguardo fisso davanti a sé, immobile, incapace di voltarsi per prendere coscienza di quello che è successo. Ma lo sa. Lo sappiamo anche noi, motivo della terapia di cui sopra.
I nostri cuori sono spezzati irrimediabilmente, le nostre menti ammaliate da una scena straordinaria e da un giovane attore che senza fare nulla fa tutto, le nostre anime votate ad una nuova, sfolgorante, divinità: Ari Aster.

Per i podcast è stato, finalmente, il mese di Serial.
Praticamente il più famoso della storia del mondo, e io ci arrivo solo ora.
Un true crime che racconta della morte di una giovane studentessa statunitense e del suo presunto assassino. Che forse assassino non è, o forse sì. Di certo sta scontando una pena che lo terrà per tutta la vita chiuso in un carcere, in uno Stato nel quale grazie al cielo non c'è la pena di morte.
I racconti sono completissimi, approfonditi, ma narrati con il tono di chi, a questa condanna, non crede molto. Immagino sia difficilissimo avere a che fare con giovani condannati senza cercare di vedere in loro almeno un barlume di innocenza, soprattutto quando sono cordiali e disponibili come Adnan Syed.
Un lavoro sopraffino e che immagino sia stato complicatissimo, poco ma sicuro. Il sito è completissimo, tutti i documenti di cui si parla sono a disposizione dello spettatore e chi si appassiona può continuare a 'giocare al detective', se lo desidera. Ma a me non ha lasciato niente, emotivamente, non mi ha coinvolto troppo la storia e non sono riuscita ad empatizzare con i suoi protagonisti. Serial è lungo, articolato, impegnativo.
Solo per veri appassionati di true crime.

Quest estate, poi, è arrivato il nuovo libro di Joyce Carol Oates.
Lei è una dea, lo sapete tutti bene, per me. Lei è il mio nome del cuore quando si parla di Nobel. Lei di solito sa entrarti sotto la pelle con l'inquietudine sporca delle cose brutte e cattive, e non ti lascia più.
Il collezionista di bambole è una raccolta di racconti, uno più cattivo dell'altro, uno più subdolo e viscido dell'altro.
Per quanto mi pesi il cuore ammetterlo, però, non ha fatto su di me lo stesso effetto miracoloso di altri lavori della mia amata, l'ho letto in una seduta che è stata sì bella angosciante ma altrettanto rapida nello scivolare via di dosso a lettura terminata.
Per me un'occasione sprecata.

Su cos'altro ho perso tempo questo mese?
Ah, sì, su un documentario in otto parti.
Su Youtube.
A proposito di Jake Paul.
La cosa divertente?
Non seguo Jake Paul.
Ma Shane Dawson, autore del documentario, sì. Ecco, quindi, come sprecare intorno alle 7 ore della propria vita davanti al pc. Con un documentario su Jake Paul. 
Non me ne capacito.

Vi saluto così, con un'ammissione di idiozia.
Ci sentiamo per Halloween.




domenica 14 ottobre 2018

La trilogia di Cormoran Strike, Robert Galbraith

16:52
Il 18 settembre è uscito Lethal White, il quarto volume della saga di Cormoran Strike, la rinascita di J. K. Rowling con lo pseudonimo di Robert Galbraith.
Pare sia giunta l'ora di parlare dei primi tre.



Alla fine del primo libro, Il richiamo del cuculo, ero certa avrei mollato. Non è che non mi fosse piaciuto in toto, ma nemmeno mi sentivo rapita come devo essere se voglio continuare una saga che nemmeno volevo iniziare.

Facciamo un passo indietro.
Nella Redrumia i gialli sono i libri che leggo quando sto in crisi del lettore, il che mi capita più spesso del previsto ultimamente. Trovo questi sul mio hard disk adorato, li carico e decido che temporeggio con loro.
Risultato: divorati in tre settimane nette.

Cormoran Strike, oltre ad essere il proprietario di un nome pregiatissimo, è un investigatore privato di Londra. Figlio a malapena riconosciuto di una rockstar e di una groupie, privo di una gamba e del suo amore folle che lo lascia proprio all'inizio del primo romanzo, veterano di guerra e con ben pochi legami.
Nella sua vita entra Robin, che lui assume come segretaria e che si rivelerà molto di più.
Niente 'will they, won't they?' non è il romanticismo che ci interessa, e Robin ha un vistoso anello di fidanzamento al dito.
Il legame professionale è più che sufficiente.

Dicevamo, Il richiamo del cuculo. 
Per buona parte della lettura ho pensato di stare leggendo una sceneggiatura, il che non necessariamente è un male dato che è pure uscita la serie e avranno avuto buona parte del lavoro fatta. Però che palle. Dialoghi su dialoghi su dialoghi e interrogatori e consultazioni e incontri e chiacchierate e djesoo solo sa cos'altro avessero da dirsi sti stronzi che gli si saranno bruciate le dita a forza di fare le virgolette.
Il francese è la lingua nazionale in Redrumia, ormai lo saprete.
Però però però.
Alla fine mi ero detta che andava bene così, non avrei continuato la saga e buonanotte, era uscito il nuovo della Oates nel frattempo e potevo recuperare lui. Però a me il giorno dopo Cormoran mancava. E quindi via di nuovo, con il due e il tre.

Io alla fine li ho trovati sinceramente giallini mediocri. I personaggi non portano nulla di nuovo all'immaginario dell'investigatore privato in rovina e tormentato e nemmeno a quello della novella Veronica Mars inconsapevolmente bellissima ma anche brillante e tosta e senza paura.
Dei casi mi interessava francamente poco.
Quindi, vi chiederete, perché siamo ancora qua a parlarne?
Perché c'è una cosa che la Rowling sa fare ed è rendere umani i suoi personaggi in un modo che li fa entrare dentro al lettore e non li fa uscire più. Con una parola, una riga sola, li tira fuori dal cliché in cui rischiano sempre di finire e li rende credibilissimi, tridimensionali, e senza nemmeno accorgersene iniziano a stare a cuore. Con la sua scrittura semplicissima e senza fronzoli sa parlare delle persone in un modo onesto e profondo, e alla fine ci siamo dentro con tutte le scarpe, in questa improbabile coppia inglese bizzarramente assortita.

Il terzo romanzo, poi, parla di violenza sulle donne, tra le altre cose. E lo fa come solo una donna potrebbe fare: con dettagli crudeli, personaggi disgustosi e vittime che da sole devono rialzarsi. E quando si parla di argomenti così importanti in modo impeccabile (vedesi anche Broadchurch stagione 3, indimenticabile), non si può che cambiare idea su quanto detto prima.

Per la Rowling si passa sopra questo e altro.

giovedì 11 ottobre 2018

The Hitchbook: Nodo alla gola

19:08
Ritorniamo a parlare di Hitchcock dopo un po'. Ora che ho finito le scuse per procrastinare (trasloco, niente internet, morte apparente...) è ora di ricominciare a parlare delle cose serie e se non è serio Alfred Hitchcock io perdo ogni certezza.
È il turno di Rope, Nodo alla gola.
Il mio preferito.





Non posso chiamarlo altrimenti che un pasticcio.
Diceva Hitch a Truffaut. Lui di Rope non aveva una gran stima e io, amante dei perdenti dalla notte dei tempi, lo considero uno dei film più grandi del mondo.
Non tanto per l'esperimento tecnico insuperato, di cui parliamo dopo, nè per l'interessantissimo dibattito filosofico che suscita, anche lui più avanti nel post, ma semplicemente per la tensione durissima che mi ha fatto provare. Una gelida mano poggiata sulla schiena che ogni volta mi tiene dritta incollata allo schermo, come se un epilogo o un prologo diversi fossero possibili.
Quando si parla di maestro della suspance per me si parla di quel film qui.

Un minimo accenno di trama poi passiamo alla sviolinata che, ai miei occhi, questo film merita.
Brandon e Philip uccidono un loro amico, David. Mica hanno un movente, solo la voglia di testare cosa si prova a togliere a qualcuno la vita, commettendo il delitto perfetto. Ma Brandon è frizzantino, e non solo non è per nulla sconvolto da quanto ha fatto, ma decide di non liberarsi del corpo e di tenerlo lì, in casa, chiuso in un baule.
In casa, però, sta per svolgersi una festa, e quel baule diventa la tavola su cui viene servita la cena.
Nessuno degli ospiti sa di stare mangiando su un loculo.

Il loculo si trova in uno splendido appartamento, dal quale non ci muoviamo mai. Come in quella meraviglia di The Party, o in Carnage, l'appartamento è quasi un personaggio. Qui forse ancora di più, dato che uno dei pezzi dell'arredo è il protagonista. Lo sguardo, sia nostro che della macchina da presa si sposta di rado da lui, fulcro dell'attenzione e dell'angoscia più attanagliante. Intorno a lui si muovono lusso e raffinatezza, pianoforti, libri, liquori, ospiti eleganti e candele profumate. Quella che si respira, però, è un'aria di cattiveria pura e durissima, che traspare dai dettagli e dai gesti atroci, e che assume le sembianze di Brandon. Giovane rampante dalla presunta (e per nulla rilevante) omosessualità e dall'ideologia estrema, manipola chiunque lo circonda fin nelle cose più apparentemente superficiali, partendo dal metter becco in faccende sentimentali fino ad arrivare all'invitare i cari della vittima ad una festa in cui la vittima è presente, ma in forma di cadavere. Il legare i libri dati al padre della vittima con l'arma del delitto è una raffinata crudeltà, la ciliegina sulla torta di una situazione esasperata ai limiti del grottesco, in cui i dialoghi sembrano registrati in un manicomio.
Invece la follia non c'entra nulla, il movente è solo un esagerato egocentrismo, un senso di superiorità talmente esasperato da rimuovere in maniera totale ogni barlume di lucidità in una mente ormai disumana.
Si parla del legittimare assassini, dell'omicidio come forma d'arte, come una sorta di selezione che è giusto avvenga in un mondo in cui non siamo tutti ugualmente intelligenti e di conseguenza non tutti portatori della stessa dignità. Ascoltare certi dialoghi che avvengono con la freddezza dei vecchi party in casa è agghiacciante. Ascoltarli sapendo che il morto è a due passi ancora di più. Nel più classico degli scenari che creano suspense, lo spettatore è ben consapevole del morto e non riesce a pensare ad altro, perché gli ospiti, ovviamente, non lo sono. Ogni volta che qualcuno si avvicina al baule è una tortura.

Il tutto, con una tecnica sperimentale che è quella che alla fine ha convinto Hitch che il suo film fosse un pasticciaccio. A lui piacciono i film segmentatissimi, cosa gli vuoi dire. Un milione e mezzo di inquadraturine tutte staccate e altrettante bestemmie quando poi il film è da montare, suppongo. Stavolta no. Il montaggio se lo era bello che fatto lui nella testa, e il film è fatto solo di dieci gigapezzettoni tenuti insieme da primissimi piani di raffinatissime giacche scure. Le leggende narrano di operatori imbavagliati e portati a gridare fuori quando pezzi di attrezzatura sono caduti e hanno rotto piedi, bicchieri cadenti afferrati al volo, il tutto per non infastidire la scena che poi era tutta da rifare ed era un macello. Altre leggende ancora ricordano come la luce cambiasse di continuo e allora tutti a correrle dietro e a riprodurla, bobine intere da rifare perché era il primo film a colori e c'era da farci un po' la mano per non avere tutto arancione, e altri simpatici aneddoti che a noi interessano tantissimo da leggere ma che secondo me all'epoca hanno causato solo che un gran numero di originalissime imprecazioni. Risultato? A noi piace un casino, tutto bello fluido come una ballerina di danza del ventre, a lui sta sulle balle.

Ma, diciamoci la verità, ce ne frega qualcosa?

lunedì 1 ottobre 2018

Preferiti della Redrumia: Settembre 2018

17:58
Io l'avevo detto che ci avrei preso gusto a fare il post dei preferiti come nella vera moda dell'Internet del 2012. Anche settembre però è stato infarcito di cose deliziose quindi mi fa piacere condividerle con i miei fan. (Scherzo, scusate, non vi ci chiamo più così.)


La prima: @accidentallywesanderson, l'account Instagram con cui fare bella figura con le ragazze hipsterelle con cui volete provarci. Foto dai toni del regista del cuore delle ragazze da borsa di tela, una più bella dell'altra, che non faranno altro che portare una ventata di serenità e bellezza nel vostro feed pieno solo di foto di emrata. Vi conosco.



Ho quasi vergogna a dirvi quale è stato il mio film del mese. Aprire un blog di cinema senza avere visto il Capolavoro Senza Tempo© di cui sto per parlarvi è un affronto che la categoria dei cinebloggers potrebbe non perdonarmi.
Ho visto solo ora Scott Pilgrim Vs The World ed è stato magnifico. 
Il mio immaginario gli gira intorno da quando l'ho guardato la prima volta. Eppure lo sapevo. Lo sapevo perché Edgar Wright è una delle persone grazie alle quali questo blog esiste. Quando sono una seriosa pigna nel sedere, Wright riprende il mio entusiasmo e lo rilancia tra le stelle, ridonandomi la gioia immensa che solo un certo tipo di cinema mi dà. Scott Pilgrim e i sette evil exes hanno preso il mio entusiasmo e gli hanno fatto fare il giro intero del mondo. Lo AMO. Ho riso fino ai dolori di pancia, mi sono anche un pochino emozionatina e ad un certo punto ero talmente esterrefatta da quello che vedevo da non riuscire manco più a ridere. È tutto talmente tanto da lasciare interdetti, rimbambiti, ma mai che stanchi. Non supera mai il confine che divide il tanto dal troppo, ed è un giocattolone magnifico di quelli per bambini intelligenti. 
Mi sono innamorata, ne vorrei altri mille.




Ho due serie tv in corso di cui parleremo alla fine ma sulle quali devo dire due cose veloci.

Brooklyn Nine-Nine fa un ridere, ma un ridere!
Mentre guardavo (stirando, da brava massaia quale sono diventata) il primo episodio temevo l'allarme idiozia. Io sono detestabile ma l'ironia proprio scemona mi dà fastidio.
Idiota è idiota.
Ma quanto mi diverte non lo so dire. Quanto li prende in giro sti cliché sulle solite serie nei commissariati, quanto non gliene frega niente di niente, solo di dire cagatone e fare un ridere incredibile. Lo adoro.

The Terror, invece, non fa ridere manco per niente. Fa paura, angoscia, sofferenza. Io convinta al mille per mille che non me ne sarebbe fregato niente della storia delle navi bloccate alla ricerca del passaggio a nord ovest, invece quando lo guardo mi sento l'aria mancarmi in gola. La situazione è talmente esasperante da far impazzire anche lo spettatore. E l'inquietudine trasmessa è di grande impatto e molto più intensa di quella di tanti film che sembrano provarci più forte ma riuscirci molto meno. Il freddo poi è il nemico numero uno della Redrumia, e a me The Terror fa sentire male al solo pensiero di quanto freddo avessero questi poveretti. Mi struggo per loro, sotto la mia copertina di pile il primo ottobre.

Infine, solo un accenno velocissimo ai libri perché voglio scrivere un post a parte sul tema: sto divorando come ciliegie i gialli della Rowling con lo pseudonimo di Robert Galbraith. Se ci penso e provo ad essere oggettiva non li trovo eccezionali ma per qualche ragione che ancora non ho messo bene a fuoco non li so mettere giù.
Io, quella che era stufa dei gialli.

Con l'ennesima contraddizione della Redrumia vi lascio al vostro lunedì sera, augurandovi che sia come il mio: camomilla, felpa, librottone da finire e pioggerellina autunnale.
Banalotto, ma che bello.


mercoledì 19 settembre 2018

Sulla mia pelle

20:01
Vuoi non farla l'intro smelensa?
Facciamola.
Mi sono appena trasferita, ma fino ad un mese fa abitavo vicino ad un micro parchetto del paese, classico e anche un po' banalotto luogo di ritrovo di ragazzini con la canna in bocca. Sono ragazzini che ho visto venire su, in un mondo in cui volente o nolente ci conosciamo tutti, li conosco per nome, so le facce delle loro famiglie. Li sentivo ridere e ascoltare la musica fino a notte fonda e spesso ho augurato loro scariche diarroiche debilitanti.
Io ho cambiato casa, ma loro sono ancora là, con le macchine con i finestrini abbassati, le morosine sulle canne della bicicletta e le lattine di birra sempre lasciate in giro.
Non è così scontato, pare.


Le leggo, quelle persone capaci di analisi profonde e utili. Le leggo e le ammiro.
Io no.
Io mi sento ribollire, mi sento come se mi si fosse rotto qualcosa dentro, mi si appiattisce il cervello e riesco solo a pensare 'Ma come?'. Niente parolacce, niente insulti, niente. Solo 'Come?'.
E se esiste un lato di me che ancora per tutelarsi da una realtà così tremenda nega o si distrae (ho dovuto vuotare la lavastoviglie mentre vedevo il film, e preparare la cena, per riuscire a vederlo), l'altro grida internamente che niente di tutto ciò è comprensibile.
E allora, con tutti i diritti, vi chiederete cosa lo scrivo a fare, un post in cui le parole mi scappano via, che non farà altro che unirsi al coro di voci che vi dicono che il film va visto, che Borghi è bravo - bravissimo, eccezionale - e Cremonini pure, che la storia la racconta in modo equilibrato e che spero abbia il riconoscimento che merita.
Ma non ce la faccio a considerare il film, non si può andare oltre, quando si vedono le foto delle anteprime e si vede Ilaria abbracciare i partecipanti, ci si può provare ma non si può.
In tutta questa faccenda io non faccio che pensare a lei, Ilaria.
Ho un fratello più piccolo che ci ha dato qualche pensiero nel corso degli anni, ma che è tutta la vita che ho. E guardo quel donnino piccolo piccolo che ha dovuto fare da parte il suo dolore per combattere per il suo, di fratello, e ogni volta finisco in lacrime che arrivano da posti in profondità e che è difficile far passare con un fazzoletto. Le asciughi, le ricacci indietro, ma sono sempre lì.

A volte mentre facevo trasloco mi sono sentita sola. Parenti e amici tutti impegnati o lontani, mi sono ritrovata tante ore qua da sola in una casa vuota. A volte presa da stanchezza e pensieri ho pianto un po'. Come può essersi sentito un ragazzo morente, per una settimana, senza nemmeno sapere che i suoi cari fuori stavano pensando a lui? Ci penso in ogni momento. Ci penso ogni volta che ho davanti la faccia di Stefano o dei suoi, allontanati da lui. E allontanati, ora e per sempre, dalla speranza di una vita normale. Io spero che ci pensino tutti, ogni persona che in quei giorni di Stefano ha visto la faccia. Spero non la dimentichino mai, spero compaia nelle loro notti insonni, che gli occhi pestati di 'solo un povero tossico' siano ricordo cristallino di quello che non si è stati. Persone.
E se esiste ancora un briciolo, una puntina da qualche parte sepolta nell'anima di chi da questa storia è così toccato, non possiamo che sperare che qualcuno dei coinvolti, oggi, sia cambiato. Che una violenza nata per chissà quale motivo sia diventata, viste le conclusioni, anche lo stimolo per cambiare.
Se non mi sforzo di pensarlo non sopravvivo, in un mondo di persone che quella violenza qui la legittimano.

Pensavo che avrei pianto dal primo momento, dalla prima scena in cui ci si accorge che di Stefano non è rimasto nulla se non un corpo spaccato. E invece no, mi sono inflitta la tortura di guardare tutto senza il filtro delle mie lacrime, senza distrarre la mia mente pensando a dettagli della vita reale mia e di chi mi circonda, senza far entrare nulla d'altro.
Ed è entrato tutto.
Era davvero meglio se dormivi dai tuoi, Ste.

giovedì 13 settembre 2018

Saga

13:44
Io mi rendo conto che arrivo sempre dopo la puzza.
Però se c'è una sola persona la mondo che non avesse letto Saga e, letto questo post, decidesse di iniziarlo, io saprò che qualcosa di buono al mondo l'avrò fatto con questo blog.



La Saga in questione è quella di un universo intero, funestato da una sanguinosa guerra. A combattersi sono un pianeta e la sua luna. I loro abitanti si detestano da generazioni.
Qualcuno, però, si è dimenticato di dirlo a Mako, lunare, e Alana, terrestre.
Sti due hanno l'ardire di innamorarsi.
E di procreare.
E, quindi, di scappare.

I grandi racconti del fantastico hanno una cosa in comune: la capacità di creare mondi indimenticabili. Basta mezza nota della colonna sonora per chiudere gli occhi e sentirsi nella Contea. Basta una saetta per pensare ad Hogwarts, tanto per citare le grandi banalità. Saga costruisce con una semplicità disarmante la storia intera di un universo, in cui convivono creature di mille razze e con caratteristiche diverse, con relazioni politiche e diplomatiche che regolano le leggi dell'universo.
Ha la forza di una storia costruita con tempi narrativi praticamente perfetti e con la passione di chi ha tanto da narrare, ha disegni moderni e coloratissimi ma che ci mettono una tavola sola per diventare potenti ed evocativi, e tirare fuori tutto il cuore del mondo. Ha una varietà di razze così diverse e intriganti, che devono convivere in poche pagine ma che non mancano mai di avere ognuna lo spazio che merita e che sono una più bella dell'altra.

Ma più di ogni altra cosa ha la voglia di pace, di rivolta di fronte a governi malvagi, di tolleranza tra i popoli, la voglia e il bisogno di salvezza per sè e per chi è più piccolo e per questa salvezza ancora non può combattere, ha un amore da tutelare come la più preziosa delle gemme, ha famiglie surrogate e reali che si sacrificano per gli altri, ha tutta la passione di chi per i propri cari smette di avere paura e inizia ad avere coraggio, ha piccoli gesti che parlano più di quelli plateali e ha una sequela di personaggi indimenticabili che sfileranno di fronte ai vostri occhi con le loro storie. Ognuno che porta su di sè a modo proprio le conseguenze di un conflitto non richiesto, ognuno che ha cicatrici che cerca di nascondere ma che diventano inevitabilmente la motivazione per ogni scelta, ognuno con una storia storta da raddrizzare. Sia i principali che i comprimari diventeranno volti amici e compagni di battaglia, la cui sorte diventerà cara come la pelle. Le loro vicende sono così reali e 'terrestri' che non riusciranno mai a sembrarci aliene. Nel bene e nel male.

Saga è un'avventura magnifica, dalla quale riemergere senza lasciare indietro nemmeno un pezzettino di cuore è impossibile.
L'immaginazione, però, ne esce ingigantita, ed è un regalo immenso.
Questo regalo qui, se non l'avete ancora ricevuto, fatevelo.
Sarà un viaggio indimenticabile.



martedì 28 agosto 2018

Notte Horror 2018: Splatters, Gli Schizzacervelli

21:00
La Notte Horror è l'evento più bello della blogosfera.
Per tutti i martedì d'estate ci impossessiamo dell'internet e parliamo di orrore, quindi per me è sempre una grande festa.
Io quest'anno sono in chiusura, con Alessandra di Director's Cult, per i motivi del post precedente. E non potevo che chiudere con Peter Jackson.



Splatters racconta di una scimmia - ratto, di una coppia funestata da una sorte infelice, e di un ninja di Dio.
Ed è tutto quello che ho intenzione di dirvi.

Se una persona se ne esce un giorno con 'Oh ma lo facciamo un film in tre parti da Il Signore Degli Anelli?' quello che verrebbe da fare è prenderlo e rinchiuderlo. Non perché non ci siano speranze, ma perché è una roba da matti. Il risultato è stata una delle più magistrali trasposizioni cinematografiche mai realizzate, ma questo non smentisce la condizione iniziale: essere completamente, irrimediabilmente, fuori di testa.
Avremmo dovuto saperlo, che Peter era un folletto malefico e matto.
E avremmo dovuto saperlo perché prima de Il Signore Degli Anelli c'è stato Splatters. 

Mettiamo una sera di fine estate.
Divano, clima acceso, amici cazzoni. Niente patatine perché porco cane il film fa schifo davvero, non consiglio il consumo di alimenti.
Splatters sulla tv.
Io sono certa che mi divertirei come una cretina.
Perché il condizionale?
Perché i miei amici (che pur amo con tutto il mio cuore) non sono così cazzoni da lasciarmi scegliere una meraviglia della comedy horror, talmente disgustosa che non si può far altro che piegarsi in due. Peter Jackson non si ferma davanti a niente, non ha certo paura di inorridire le signorine nè di esagerare. La prima mano mozzata è al minuto 3.  Da lì in avanti è un susseguirsi, senza un secondo di tregua, di scene una più ripugnanti dell'altra, in una sorta di gara con se stessi per vedere fin dove ci si spinge. Morti che si gonfiano ed espellono sostanze verdi misteriose, cani divorati da anziane nonnine, amplessi zombi con labbra mozzate, preti che fanno kung fu.

Un tripudio di purissima idiozia neozelandese, che non si prende sul serio nemmeno per sbaglio, che non ha paura di esagerare perché parte volendo esagerare, e lo fa con un entusiasmo che è una gioia per gli occhi.

Più Splatters per tutti.

Tutte le (poche) cose che sono riuscita a vedere e leggere in un mese di trasloco.

13:45
Un breve e forse inutile riassunto del mio mese di agosto:
Sto andando a convivere con Erre → mansarda da pulire a fondo, mobili da comprare e montare (perchè croste schifose abbiamo fatto tutto da soli pur di non dare un solo euro inutile al Signor Ikea), idraulici elettricisti padri collaboratori vicini di casa muratori trapani avvitatori polvere nidi di vespe e cadaveri in decomposizione avanzata di piccione da eliminare (triste e agghiacciante storia vera).
Hanno operato mia zia → giri su e giù per ospedali, km in auto e mancanza di ore di sonno.
Lavoro in gelateria, è agosto e ho una collega in ferie per un mese.
Risultato generale: blog chiuso per un mesetto, social dimenticati e una stanchezza profondissima che non riesco a scuotermi di dosso.

Qualcosina, però, sono riuscita a fare comunque, quindi giga post riassuntivo con le cose belle di questo mese!


Con i milioni di chilometri che ho macinato in questo mese, i podcast sono stati un'ottima compagnia, complice l'Iphone che mi ha prestato un'amica quando si è rotto il mio telefono.
Tre i miei preferiti del mese:

  • Morgana, in cui l'adorata Michela Murgia parla di donne. Ogni episodio una signora dalla vita notevole. Fino ad ora ha raccontato di Margaret Atwood, Tonia Harding e la nostra dea Frances McDormand, che a breve sarà proprio Dio in Good Omens e io Non. Vedo. L'Ora. Con ospiti a tema e la solita brillante intelligenza, la Murgia parla di queste moderne Morgane, e del modo in cui ci ricordano che per essere donne non c'è un solo modo. 
  • Ordinary Girls, che seguo praticamente solo per Elena Mariani. Non vi dico altro di lei, seguitela su Instagram e guardate le sue stories ogni giorno. Io lo so che sono tutti convinti che le donne facciano meno ridere degli uomini, è solo che non hanno mai visto le stories di Elena. Mi spacca. Scelte musicali sempre spettacolari.
  • Veleno, un podcast true crime prodotto da La Repubblica. Si racconta di un caso giudiziario che ha coinvolto qualche piccolo comune dell'Emilia Romagna alla fine degli anni '90, una storia tremenda di pedofilia e satanismo. Ammesso, però, che qualcosa sia successo davvero. Un racconto straziante, ma interessantissimo. 
Mi vergogno di ammettere che non ho visto film, con una sola eccezione. Mio fratello, con il ricatto del 'Dai Mari è l'ultima volta che vediamo un film insieme!' mi ha convinta a vedere La forma della voce. Sapete che non sono un'appassionata di Giappone, nè di anime e manga, ma lui lo è. L'ho trovato molto più gradevole rispetto a Your name, più emozionante e con una storia più convincente. Rimane però la mia perplessità sul mondo orientale in genere. Per qualche ragione, c'è sempre qualcosa di irritante che mi allontana, e che nel solo (banale, lo so) Studio Ghibli non trovo. Saranno le espressioni a cui non sono abituata, saranno atteggiamenti dei personaggi che non apprezzo e non riconosco come 'comuni', o sarà che ne so poco e niente, ma non fa per me.
Vorrei anche dirvi che ho visto I kill giants, che è arrivato su Netflix, ma mi sono addormentata a metà.


Non che a libri mi sia superata, comunque: due sole letture, anche se entrambe appassionanti.

  • Io e Mabel è il racconto di come addomesticare un'astore (con apostrofo perché è femmina) sia stata l'ancora di salvezza per l'autrice, Helen Macdonald, che si è trovata a gestire un lutto improvviso. Io sono di un'ignoranza spaventosa sul tema, e quando penso agli uccelli faccio fatica ad immaginarli come creature spaventose e crudelissime. Il libro della Macdonald non solo fa chiarezza, ma racconta questi animali come non avevo mai visto prima fare, con un amore grande che la segue fin da bambina e competenza vera, che non diventa mai spiegone noioso. Il legame complicato con Mabel la costringe ad uscire di casa, a concentrarsi, le dà una motivazione. E per lei è salvifico. Meno successo gli astori hanno avuto con T.H. White, l'autore del romanzo da cui è tratta La spada nella roccia. Il racconto di queste due vite scorre parallelo, e senza nemmeno accorgercene siamo affascinati da questi rapaci anche noi. 
  • Una stanza piena di gente, di Daniel Keyes, è un'altra storia vera. Quella di William Milligan, il primo caso negli Stati Uniti in cui una persona colpevole viene assolta grazie alla diagnosi di disturbo da personalità multiple. Milligan era 'spezzato' in 24 personalità, e la principale non era a conoscenza dei reati commessi. Il romanzo non ripercorre solo il caso giudiziario, che già di per sè è talmente intrigante da poter richiedere un libro a parte, ma in generale tutta la vita del protagonista, partendo dall'infanzia travagliata. Dalla metà in poi mi ha un po' persa, l'ho trovato troppo lungo e prolisso, ma la storia è interessantissima, soprattutto se le cose che succedono nella mente umana vi spaventano da matti.
In un mese così sfiancante la mia insonnia, con il consueto tempismo, è tornata a gamba tesa lasciandomi a fissare il soffitto. Unico sollievo arriva per me con l'ASMR, che anche quando non mi fa addormentare almeno mi rilassa molto. Scoperta grandiosa del mese è il canale ASMRSurge. Insonni, non ringraziatemi. Ve ne faccio dono perchè è quello che si fa con le ricchezze: le si condivide. Fa video mai banali (cosa rarissima nell'asmr) e diversi da chiunque altro, lo amo immensamente.

La vera passione del mese è stata, però, Saga, aka uno dei fumetti più belli della storia del mondo. Lui si merita un post a parte, ne riparliamo.

Stasera, poi, è il mio turno con la Notte Horror, che è la cosa preferita dell'internet estivo. 

Mi sa che di sta cosa dei preferiti ne facciamo una rubrica, come le youtuber nel 2012, perché qui siamo sempre al passo coi tempi.


giovedì 19 luglio 2018

Il segreto del Bosco Vecchio, Dino Buzzati

11:29
Prendetemi pure in giro se volete, lo accetterò.
Io, però, non avevo mai letto Buzzati.
La scuola mi aveva insegnato che la letteratura italiana era tutta stilnovisti e poeti frantumaentusiasmi. Calvino? Sconosciuto. Leopardi? Una noia mortale. Buzzati? Chi?
Sì, sto dando la colpa alla mia prof, che oltre ad avermi rubato la mia copia de Il giovane Holden mi ha fatto credere (inconsapevolmente, era una ciellina nazionalista) che il meglio era tutto all'estero.
E finisce che Buzzati me lo devo leggere a 27 anni.


Il Bosco Vecchio è un terreno ereditato dai Procolo, Sebastiano e Benvenuto da un parente defunto.
Uno è un colonnello in pensione e l'altro un ragazzino orfano e in collegio. Si trovano a condividere un'eredità fatta di piante ma anche di geni, gazze e venti.
E nessuno osserva il mondo in silenzio.

Vi racconto di un pomeriggio.
Erre per lavoro doveva andare in un paesino di montagna. Mi chiede di accompagnarlo, così gli posso fare compagnia durante il viaggio. Di fianco alla farmacia dove lui lavora c'è una pasticceria, quindi lo saluto, mi ordino un cappuccino pieno di schiuma, e mi siedo nel loro terrazzino. Ho una felpa pesante, l'arietta è quasi miracolosa, passano persone sorridenti con cani rumorosi e la tranquillità del paese è da sogno. Un auto ogni dieci minuti quando andava male.
Io e Dino Buzzati siamo stati insieme quel pomeriggio, e la coccola che quella giornata è stata per me è stata indescrivibile. Qualche tempo fa nel sentire la gente parlare di cose così banali mi avrebbe quasi fatto ridere, ma in un anno come quello che sto passando, e che non smette di prendermi e sbattermi ripetutamente contro il muro proprio di faccia, ho rivalutato tutto.
Se potete concedetevi un momento così. Un giro in bici al sole, una visita ad una fattoria con gli asinini e il fieno, una passeggiata di sera, un pomeriggio in montagna.
E se potete, fatelo con Buzzati.

Perché come mi è capitato di dire altre volte parlando del fantastico, nessun altro genere fa quello che fa lui. Ci prende e, pur facendoci godere immensamente del momento, ci prende e ci porta via. E io, con la mia felpa, il mio cappuccino e il cane sopra di me che abbaiava ad ogni passante, ci siamo fatti prendere volentieri. Ci siamo lasciati trasportare in un luogo magico dove le piante sono le padrone di casa, dove i venti fanno le gare e dove le gazze sono guardiani migliori di ogni cane. Dove le persone riscoprono il loro valore, dove i bambini smettono di essere piccoli e dove niente conta più della lealtà. Dove riemerge il buono di ognuno.
Il tutto, in una storia breve e quasi per bambini, di quelle che non hanno paura di parlare di cose cattive perché hanno uno scopo, e perché quello scopo lì è sempre ricordarci che siamo migliori di quanto crediamo.

Dopo quel giorno la mia testa bloccata si è sbloccata. Mi è arrivata un'idea che potrebbe (o forse no, se potete incrociate le dita per il mio futuro) risolvere una situazione brutta brutta. Ho cercato di riprendere in mano le redini del mio cervello e anche se la strada è lunga e spaventa, ogni tanto riesco ancora a pensare di potercela fare.
Non posso credere che Buzzati e quel pomeriggio lì non c'entrino niente.

sabato 14 luglio 2018

Ingmar Bergman Day: Luci d'inverno

14:19
Il solo pensiero di fare una recensione di un film di Bergman mi fa venire il mal di testa.
Le recensioni dei suoi film al massimo se le faceva da solo, io non ho alcuna capacità.
Accade però che oggi sia il centenario della sua nascita, e se è vero, come si dice dalle mie parti, che piuttosto di niente è sempre meglio piuttosto, allora è il caso che oggi, a modo mio e umilmente, si parli di Sua Altezza Reale Ingmar Bergman.
Non sono sola a farlo, in fondo al post trovate i link degli altri blogger che oggi hanno preso un momento per cantare canti di lode e gloria.


Quando ho constatato la data da ricordare e l'ho proposta agli altri, un solo film mi è lampeggiato in mente: Luci d'inverno.
Prevedo post menoso, portate pazienza con la povera vecchia che scrive.

La storia è quella di Tomas, un pastore protestante.
In seguito alla morte dell'amatissima moglie, la fede di Tomas si è andata sgretolando, riducendolo a dire messa recitandola come la preghiera imparata a memoria in quarta elementare. (Che immagino per tutti, Tomas compreso, fosse Il Cinque Maggio, giusto?)
Proprio durante una messa lo conosciamo, mentre svolge il suo lavoro di fronte ad una chiesa piccola, cupa e semivuota. Di quella chiesa quasi si sente l'odore, guardandola.
Dopo la cerimonia, alcune persone entrano in sacrestia, per parlare con Tomas. Succede molto poco altro: si parla tanto, e non serve altro.

Mai come quest anno mi sono sentita vicina a Tomas. Non per la perdita della fede, per quella ormai non c'è rimedio, ma per la perdita delle fondamenta. La morte della moglie lo ha privato della sostanza che lo sorreggeva, che gli dava la forza per essere il pilastro della comunità, ruolo spesso richiesto alla figura sacerdotale. La fede è sparita e il vuoto che ha lasciato è immenso. Ruota tutto intorno a quello, a qualcosa che c'era e ora non c'è più, e che si è portata con sè la speranza. La consapevolezza di essere azzoppato, di non essere più di alcun valore, è quasi più atroce, per Tomas, che la scomparsa della fede stessa.
Non c'è niente di più spaventoso del non riconoscersi, che è un po' il motivo per cui i film di possessione sono quelli che mi terrorizzano anche quando sono brutti: la perdita di sè, l'annullamento dell'identità, l'oscurità. E questo gelo con cui il film è girato e narrato sono perfetti proprio perché glaciale è spesso lo sguardo che si ha su questo nuova identità che non si riesce a riconoscere. L'analisi è lucidissima ma il risultato un incubo.
Perdersi è complicatissimo e niente viene accettato in soccorso. Così per Tomas l'amore di Marta, non ricambiato, è inutile. Non dà sollievo, non allevia le sofferenza, non fa chiarezza nelle tenebre che la mente ci costruisce intorno.

Eppure, per chi ha fede, nessuno può dare più consolazione di Gesù. Gesù si è sentito abbandonato nel momento del bisogno estremo. Gesù è stato messo alla prova. Gesù, meglio di tutti noi, ha sofferto del famoso 'silenzio di Dio'. E se lo ha sentito lui, il silensio, che speranze ha un povero sacerdote di provincia?

Se speranze ce ne sono state, per Tomas, non ci è dato saperlo. Quel che è certo è che per tutto il suo percorso di smarrimento questo film è stato capace di mettere nero su bianco un malessere che spesso non si riesce a mettere in parole. Lui, di parole, ne ha usate tante, e non ce n'è una che non serva.
Buon Compleanno, Maestro.
E grazie.


Le altre candeline sulla torta per Bergman:
Obsidian Mirror - L'ora del lupo
Non c'è paragone - Il settimo sigillo
Solaris - Un'estate d'amore
Il Bollalmanacco di Cinema - Fanny & Alexander


(Edit: i link non funzionano perché la blogger scema è da cellulare, rimedio appena a casa, ma googlate questa gente perché ne vale la pena)

mercoledì 11 luglio 2018

#CiaoNetflix: Hannah Gadsby: Nanette

11:00
Cose che so sulla stand up comedy: zero.
Cose che so sulle lesbiche, lato dell'omosessualità di cui non si parla mai: zero.
E quindi, su consiglio di Cimdrp (che vi consiglio come sempre di cercare su Youtube se siete interessati al tema della parità), oggi ho guardato Nanette, uno spettacolo di stand up di Hannah Gadsby. (Cose che sapevo su Hannah Gadsby: zero.)
Ed è stato eccezionale.


Ci sono tanti modi per parlare di temi fondamentali come la parità, il patriarcato, l'omofobia.
Hannah ne sceglie uno che spiazza e lascia senza fiato: l'onestà.

Dopo una prima parte in cui prende se stessa, il suo background, le sue origini e fa tutto a pezzi piccoli piccoli ridendone e lanciandone i coriandoli per aria (facendo sinceramente divertire, evitando il cringe furioso che causano a me a volte i comedian), con una sterzata che ha colpito dritta dritta in un mio punto debole (l'autodemolizione) si è cambiata aria.
Addio alle battute sul coming out con la nonna e addio al racconto della chiusura mentale e legale della Tasmania degli anni '90.
Non si scherza più.
Quella che sembrava essere un'oretta di risate tranquille è diventata un ritratto ferocemente sincero sulle donne, sul loro ruolo nella storia dell'arte, sulla loro condizione odierna e sul ruolo ancora più complicato delle donne omosessuali, donne a metà.
Se già le donne contano metà dell'essere umano maschio, le lesbiche ancora la metà.
Un quarto di umano.
Senza paura di essere troppo provocatoria - amanti di Picasso siete avvertiti, non ci va giù leggera - l'elenco di cose che Hannah dice è spaventosamente reale. Il tono della commedia è cambiato, e non c'è proprio niente da ridere.
Sembra spesso trattenere le lacrime, ma proprio come chi non ha tempo per lamentarsi ma ha un messaggio fondamentale da lanciare, non piange mai. Sputa fuori aneddoti dolorosissimi, e verità che tutti conosciamo e sulle quali ci siamo spesso accomodati, per paura di combattere.
Ma lei no, lei non ha paura di parlare di violenza, di malattia mentale, di rapporti fratturati, di maschi privilegiati impauriti da chi questi privilegi sembra volerli far vacillare.
Quando parla traspare chiaro - anche se ha dovuto specificarlo, che la gente è scema e non capisce niente a parte quello che vuole - che il suo non è odio verso gli uomini. La capisco bene, io sono nata nella privilegiata sfera dell'eterosessualità. Ed è proprio perché esistono uomini splendidi, rispettosi e intelligenti che quelli che non lo sono vanno combattuti più forte. Proprio perché storicamente li abbiamo costruiti più potenti, più importanti, perché gli abbiamo concesso di fare di noi quello che credevano, oggi qualcuno va aiutato più di altri a capire cosa è giusto. Da quella società qui ci siamo nati tutti, ma qualcuno fa più fatica a scollarsene.
Spettacoli come quello di Hannah Gadsby vanno proiettati nelle piazze, vanno imparati a memoria, vanno inseriti nei programmi scolastici.
Fanno un male cane, ma sono talmente grandi che il loro tema principale è solo uno dei mille a cui certe frasi possono essere applicate.
In Italia, nel 2018, uno spettacolo così è una ventata d'aria fresca.
E siccome questa ventata d'aria fresca fa un male del demonio, pensate a che schifo di opinione ho dell'Italia del 2018.
Vi lascio così, con una frase di Hannah che mi tatuerei, che vorrei affissa nelle classi al posto del crocifisso, di fianco a Sergione Mattarellone, per ricordarci che possiamo essere migliori di quello che stiamo dimostrando in queste settimane.

The only people who lose their humanity are those who believe they have the right to render another human being powerless.

martedì 19 giugno 2018

Horrornomicon: The studio that dripped blood

15:03

Se lascio la Redrumia senza orrore per troppo mi vengono le pustole. Siccome, però, mi sono un po' stancata di scrivere recensioni di singoli film, nuova rubrica! Con la solita cadenza casuale ci saranno un po' di racconti sull'orrore e la sua storia.
Senza volontà di insegnare, solo quella di raccontare la storia più divertente del mondo: quella della paura.



Sacri B - movies! Ogni volta che ce la sentiamo caldissima, piena di grandi film d'autore, loro ci ricordano, con le loro manacce insanguinate e i loro cervelli in formalina, che senza la loro presenza forse saremmo ancora qui, ma molto, molto, meno divertiti.
Il dizionario di Repubblica li definisce così:


Mi sembra un pochino riduttivo, ma facciamocelo bastare, per ora. Dovremmo stare qui a parlare di cosa sia o meno il valore artistico, e non abbiamo tempo. Prima il sangue.
Sapete, infatti, chi ha fatto dei film di serie b non solo il proprio simbolo ma anche il proprio motivo di orgoglio?
La Hammer Film Production.
La mitologica, grandiosa, insanguinata Hammer.
Vorrei il logo su una borsa di tela.

Prima un po' di storia

Anno del Signore 1934.
Nasce Paperino, a Venezia si incontrano per la prima volta Mussolini e Hitler, Pirandello vince il suo Nobel per la Letteratura, viene aperto il carcere di Alcatraz ma soprattutto, il cinque novembre, un signore di nome William Hinds, professione gioielliere, va a depositare un marchio. Non sono certa si dica proprio così, ma insomma, Hinds è andato a dire in modo ufficiale che aveva fondato la Hammer Production Ltd. 
Si potrebbe pensare che fondare una casa di produzione cinematografica alle soglie di una delle guerre peggiori che la storia ricordi sia un minimo azzardato, o quantomeno dotato di una tempistica originale, e si avrebbe ragione. Nonostante si sia messa al lavoro immediatamente, infatti, la prima Hammer è fallita dopo due anni.
Hinds, però, che oltre ad essere un gioielliere lavorava a teatro con il nome d'arte di Will Hammer, non era però così sprovveduto come l'infelice scelta precedente potrebbe far credere. Qualche anno prima, insieme al socio Enrique Carreras, forma la Exclusive Films, una compagnia di distribuzione che sopravvive alla guerra. Exclusive, e le nuove generazioni Hinds e Carreras, danno ad Hammer una seconda possibilità, resuscitandola dai morti.
Quando si ritorna dalla terra dei defunti, però, si portano con sè frattaglie, sangue e corpi decomposti.
Non è un caso, allora, se tra le decine di film della casa inglese, quelli che continuiamo ad amare sono gli horror.
Ce l'avevano scritto nella storia.


E alla fine arriva Quatermass...

Che il fantastico fosse la strada di Hammer lo si è capito con il primo grande successo commerciale, un film che già dal titolo chiariva tutte le sue (cattive) intenzioni: The Quatermass Xperiment. 
No, non Experiment. Xperiment, con la X bella grande e in vista, perché fosse chiaro a tutti che il rating quello era e non si scherzava un cazzo.
The Quatermass Experiment è il film che segna la svolta: la Hammer deve fare orrore e deve farne tanto. Inizia così, con un razzo che arriva sulla Terra (scena in di men ti ca bi le) riportando vivo solo uno dei tre uomini che lo avevano portato tra le stelle. Può questo essere un buon segno?
No. E infatti.
Per quanto mi riguarda il film ha un inizio e una fine strepitosi, e una parte centrale che annoia un po'. Ma ha gli alienoni gommosi che si impossessano delle chiese, ha scienziati che mettono la conoscenza prima di ogni cosa (quella frase finale.....!) e corpi che conducono esseri extraterresti in giro per le nostre città. A questo proposito, si potrebbe tranquillamente guardarlo per l'interpretazione di Richard Wordsworth, eccezionale.
Quatermass non è un folle con manie di grandezza come quel signore di cui parliamo più sotto, ma è un uomo senza scrupoli, in grado di mantenere la calma in ogni occasione, consapevole dei rischi che corre e prontissimo a correrli.


Attraverso un seguito decisamente trascurabile (Quatermass II, I vampiri dallo spazio) si arriva al vero cult fantascientifico di casa Hammer: Quatermass and the pit. In italiano, L'astronave degli esseri perduti. 
Se Quatermass fosse nato oggi saremmo pieni di Funko Pop con le sue fattezze.
In questa terza avventura vengono ritrovati resti umanoidi e un grosso elemento metallico all'interno di una stazione della metropolitana di Londra. Arriva sul posto Quatermass che in più o meno cinque minuti rivela a tutti che si tratta di un'astronave aliena. Avrebbero potuto prenderlo sul serio in quanto gigante esperto mondiale di ciò che mondiale non è, invece no. Militari arroganti e politici raccomandati cercano di minimizzare la faccenda con giustificazioni ridicole. Si arriva a negare il cambiamento climatico, come se fosse stato girato ieri. Incredibile, oh.
Io continuo a non essere una fan della fantascienza, ma Quatermass and the Pit ha superstizioni locali, cittadini spaventati, fantasmi, allucinazioni e anche un accenno a supposte possessioni demoniache. Eppure, in mezzo a questo caos, non ci si confonde mai. Non è mai sovraccarico, mai pesante: è un film di alieni e persone che vogliono sconfiggere gli alieni
E delle persone che vogliono sconfiggere gli alieni ha fatto la Storia.

...che porta con sé un casino di mostri.

Se Quatermass ha suonato alla porta e lasciato l'orrore sull'uscio, pronto ad essere accolto e cresciuto con amorevoli mani, è stato il più folle e sconsiderato dei dottori a farlo esplodere come la bomba che è. L'horror ha fatto il suo ingresso in casa Hammer buttando giù la porta con un calcio, trionfalmente, con le mani pomposamente sui fianchi e strillando che adesso comandava lui. 
La maschera di Frankenstein, del 1957, è il primo dei remake di casa Hammer.
Ed è un film incredibile.
Tanto per mettere fine alla polemica anti-remake ad ogni costo, è giusto ricordare che la Hammer sui remake non ci ha solo campato, ci ha costruito un impero. Prima dai programmi radio, poi dalla tv, infine dalla Universal, i nostri amati lord inglesi prendevano idee qua e là e le portavano sullo schermo con poche sterline e un sacco di voglia di fare.
La storia dello scienziato più famoso del globo è stata presa dalla Hammer e trasformata in uno dei film più importanti della storia british.
Certo, non si partiva in condizioni strepitose: Universal, creatrice del primo film tratto dal romanzo della Shelley, aveva gli occhi puntati sugli inglesi. Una, e una sola, cosa uguale al loro film che non fosse presente nel libro e macumbe, querele, e una scatola piena di glitter fastidiosissimi sarebbero stati lanciati dall'altra parte dell'oceano.
Che non venisse loro in mente, poi, di copiare il trucco della creatura (quella con le viti al collo e il testone piatto che fate ancora ai vostri bambini ad Halloween, per intenderci) che a Karloff sarebbero venute le pustole.
La Hammer allora fa la brava, fa i compitini per bene, e non copia nulla. In compenso, ci va giù pesantissima. Il film lo gira a colori (e che colori! Pare un fumetto), pieno di sangue, organi, volti sfigurati e omicidi. Non facciamoci fregare dai nostri occhi abituati alle peggio cose contemporanee, per l'epoca era roba grossa. Tanto grossa che la critica lo ha demolito senza alcuna vergogna e la gente ha fatto il migliore degli atti rivoluzionari contro i criticoni: lo ha visto in massa.
Un successo così strepitoso non poteva che portare ad altri mostri.
L'anno dopo è la volta di Dracula, sempre per mano del regista Terence Fisher, uno dei nomi di punta della casa.
I due film sono l'inizio di una delle prime bromance cinematografiche: Cristopher Gigantesco Lee e Peter Elegantissimo Cushing. I loro nomi sono stati sinonimo di guadagno certo per la casa inglese.

i due volti simbolo del cinema dell'orrore ritratti in una delle loro interpretazioni più terrificanti

il mio povero cuore 💔
Per la prima volta l'altezza notevole di Lee non fu un ostacolo alla sua carriera ma, finalmente, un valore: la sua creatura è esorbitante e impressionante, con un make up che non è rimasto di culto come quello del suo predecessore Boris Karloff ma che di sicuro si faceva notare. La mano che toglie le bende dalla faccia e la scopre in tutto il suo orrore è di grande impatto anche oggi. E Lee era un gran bell'uomo, quindi per renderlo un mostro gli hanno cacciato tanta di quella roba in faccia da rendergli difficile mangiare e bere.
Ma dicevamo, Dracula. 
Questa volta quello che faceva comodo di Christopher Lee era proprio che fosse figo.
Il suo Conte doveva essere (e ci è riuscito benissimo) attraente, sensuale e minaccioso.
Questo, almeno, è quello che vediamo nel film. Dietro le quinte forse un po' meno. Le lenti che portava lo accecavano quasi completamente quindi spesso camminava completamente a caso, finendo fuori scena, superando la camera...un bambinone sperduto.
Bambinone sperduto, però, che ha contribuito a cambiare il modo in cui i vampiri verranno visti nel mondo da quel momento in poi.
La sua prima comparsa in scena, in cima alle scale del suo castello, è impressa nelle mie pupille dalla prima volta che l'ho vista, e mai come in questo momento le mie pupille rappresentano la storia del cinema dell'orrore tutto.
Date nuove forze a mostri storici, non ci si poteva fermare qui. Dopo scienziati e vampiri arriva il momento di mummie, licantropi...
(Raccomando La mummia soprattutto per i titoli di testa, mi son piaciuti come ad una bimba che ha appena visto il Museo Egizio di Torino per la prima volta!)
Dopo mille sequels dalla qualità variabile (dei quali però se non guardate La vendetta di Frankenstein non possiamo essere amici), si sentiva il bisogno di una rivoluzione. Un pochino, però, non troppo.
E allora, perché non portare Dracula negli anni '70, per esempio? (Dracula AD 1972) 
E se invece i vampiri si mescolassero con le arti marziali? (La leggenda dei 7 vampiri d'oro)
Non c'era niente che non fossero disposti a provare.
Come si fa a non volergli bene?

Non solo gotici


Avremmo potuto passare tutta la vita a guardare film con pipistrelli, ragnatele e castelli?
Vorrei dire di sì, ma le prime difficoltà di Hammer provano il contrario.
Dalla seconda metà degli anni '60, allora, anche loro hanno provato a mettersi in gioco con qualche novità, nella speranza di stare al passo coi tempi.
Ce la faranno?
No, ma chi siamo noi per negargli il merito di averci provato tantissimo?
Per esempio, nel 1973 è uscito un filmettino, negli Stati Uniti. Si chiamava L'Esorcista e ha portato in sala un paio di persone in più del previsto. Poi è arrivato un altro, The Omen. Sempre di diavoli si parlava e sempre soldi si facevano. Allora la Hammer ha colto la palla al balzo e bam! Tre anni dopo esce Una figlia per il diavolo.
Ve lo ricordate vero che vi dicevo che gli inglesi non hanno paura di niente?
Ecco, allora perché non mettere in scena sacerdoti che fanno sesso creativo, suorine adolescenti e sacrifici umani? Il risultato non sarà un film eccezionale, ma ci hanno provato fino alla fine (è il loro penultimo film) e non si può che dargliene atto.
Il mio preferito tra i 'diversi', però, è The Nanny. nel quale una al solito gigante Bette Davis è la governante di una famiglia rovinata dalla tragica perdita della figlia minore. Il figlio più grande la teme come il demonio, ma l'unico demonio di casa pare essere lui. Non è che la Davis sia l'unica cosa bella del film, è proprio che lei è immensa infinita eterna e quindi il film si guarda principalmente per questo.

Un momento di apprezzamento per Peter Cushing


Oggi quello più famoso è senza dubbio Sir Christopher Lee. Non che ci sia qualcosa di sbagliato nella sua fama, è stato un mostro in senso letterale e metaforico, e ha fatto tutte quelle mille cose cool come gli album metal e Il signore degli anelli.
Non posso negare, però, la mia preferenza per Cushing.
Praticamente, per descrivervelo, Cushing era la persona più inglese in tutta la Gran Bretagna dopo la regina Elisabetta, e il secondo posto era dovuto perché poi magari lei lo avrebbe esiliato o cose del genere, se l'avesse detronizzata. Un uomo sottile come un giunco, di un'eleganza semplice ma impeccabile anche quando ha fatto lo scienziato matto nei laboratori, raffinatamente stempiatello, con i lineamenti affilati e degli occhi azzurri incantevoli.
Cushing è stato tutto quello che poteva essere nel modo migliore in cui poteva esserlo.
Un mitologico Van Helsing, un crudele Frankenstein, uno degli Sherlock Holmes più belli e anche il Dottore, in un paio di film.
Chiunque, in articoli, post, documentari, ne parli si riferisce a lui come ad un uomo quieto, gentile e dal cuore grande. 
E con un viso così, non poteva essere altrimenti.

I motivi del successo

Hammer ha avuto un inizio sfortunello e una guerrona di mezzo.
Ha saputo, però, guardarsi intorno con lo sguardo intelligente di chi sa cogliere la realtà e, dopo più di vent'anni dai successi Universal, ha riportato l'orrore in sala.
La gente non aspettava altro. 
Non solo, era pronta a spingersi dove non si era mai spinta prima.
Il sangue era rosso fragola, falso come il mio gatto quando finge di non avere ancora mangiato, ma frattaglie così esposte non si erano ancora viste. Corpi maciullati da uccisioni violente o da possessioni aliene, cadaveri fatti a pezzi, organi in bella vista in vasi di vetro. Quando il sangue non bastava più entrava in azione il sesso, grande motore del mondo: uomini pieni di fascino e donne magnifiche spesso poco vestite, quando possibile vampire e, se si voleva giocare la carta +4 di Uno, poco vestite, vampire E lesbiche. Che si lasciasse pure inorridire la borghesia inglese: i ragazzini erano in visibilio. 
Martin Scorsese, nel documentario The studio that dripped blood, ricorda con una passione percepibile fin dallo sguardo i giorni in cui accoglieva con l'entusiasmo tipico della fase preadolescenziale un nuovo film Hammer. Non fatico per niente ad immaginare ragazzini di una nazione intera cercare di entrare al cinema di nascosto, trovare i film in televisione la tarda notte e fingersi fortissimi davanti agli amici e poi tremare sotto le coperte. Il senso di presentimento, di orrore incombente, erano una meraviglia. La pioggia, la nebbia
Un preadolescente oggi probabilmente di fronte ad un film Hammer riderebbe. Mostriamoglielo con gli occhi di chi la Hammer l'ha vista vivere e non potrà che soccombere al fascino di una manciata di persone affiatatissime, con più cuore che denaro, almeno all'inizio. 
Hanno avuto il coraggio di lanciarsi anche fuori dalla comfort zone del gotico e di provare a modificarlo quando ormai sembrava non funzionare più. Il tutto riciclando cast, crew e set più e più volte per risparmiare e, secondo me, divertendosi un casino e volendosi un gran bene.
Forse il segreto del successo sta tutto lì.

Gli imperdibili
The Quatermass Xperiment
La maschera di Frankenstein
Dracula il vampiro
La vendetta di Frankenstein
Le spose di Dracula
Nanny, la governante

lunedì 11 giugno 2018

Sense8: Amor vincit omnia

21:44
Ho aspettato qualche giorno a guardare l'episodio finale di Sense8 perché sapevo che, una volta visto, l'avrei finito davvero, e per sempre. Non ero pronta, e non lo sono manco ora, a salutare i Sensate, ma l'episodio alla fine l'ho guardato.
Ed è stato, naturalmente, magnifico.


SPOILERS!

Faccio fatica a stare sui social, ultimamente. Ci sto lo stesso, ma sempre arrabbiata.
Con l'attuale governo chiunque era dotato di pensieri sporchi, intolleranti e deviati si sente ancora più legittimato ad esternarli, questi pensieri, con ancora più imbecille convinzione.
In questo panorama desolante e imbruttito, Sense8 si conferma un faro. Uno splendido faro alto, generoso di luce e chiarezza, in un cielo oscurato da chi vuole, con la sua cieca rabbia, far passare per sbagliato chi conserva la sua umanità.

Sarebbe troppo facile dire che è così perché ci sono i ghei e le lelle che fanno il sesso brutto contronatura.
Eh no, mica si ferma lì.
In questo finale dolcissimo la serie più bella della storia del mondo continua ad insegnarci il valore dell'individualità. Ogni personaggio ha un ruolo fondamentale nella risoluzione del 'caso', e se anche uno solo di loro fosse stato un briciolo diverso da quello che è, nessuno si sarebbe salvato.
Se Kala non fosse stata indecisa tra due uomini loro non avrebbero collaborato per salvarla. Se Hernando non fosse stato insegnante d'arte non avrebbero avuto il loro cavallo di Troia. Se Capheus non fosse stato un pilota esperto e soprattutto un'artista dei pullman colorati, col cavolo che avrebbero avuto il furgone della polizia. E ancora Lito, con le sue doti attoriali, Riley e le sue conoscenze giuste, Dani e il passato burrascoso, Will e Nomi con le loro competenze.
Ma soprattutto, se Sun non fosse il Personaggio Migliore di Sempre non avremmo avuto le spettacolari scene di botte da orbi che ci hanno accompagnato dal primo episodio.

Ognuno di noi conta, ognuno di noi ha un valore preciso.
A volte facciamo fatica a vederlo, o a tirarlo fuori, e ci sembra di essere inutili. Eppure c'è, o ci sarà prima o poi, un momento in cui la nostra unicità sarà importante. Potrà essere un momento, un bisogno, o una persona, a tirarlo fuori, ma ci sarà. E forse riconosceremo se quel valore lo abbiamo noi, allora devono averlo tutti. Magari non tutti salveremo cucciolini che annegano, o ribalteremo un politico inadeguato (ma che qualcuno lo faccia, ve lo chiedo per favore), o inventeremo un portentoso medicinale contro il ciclo mestruale doloroso. Magari aiuteremo solo una vecchina con una borsa, o avremo una buona idea, o una parola giusta al momento giusto, ma ce l'avremo, quel momento lì.
Riconoscere che gli altri hanno la nostra stessa importanza non è solo un segno di bontà e apertura verso il prossimo.
Dovrebbe essere la norma.
Con la riappacificazione tra Nomi e la madre ci mostra che a volte basta davvero una piccola spinta per uscire da quella zona di comfort dietro la quale ci nascondiamo quando chiudiamo fuori gli altri. Con questo non intendo dire che dobbiate tutti fare uso di droghe leggere (cosa che evidentemente non volete altrimenti avreste votato diversamente) (adesso potrei aver finito col governo) per uscire dai vostri limiti, per l'amor del cielo. Cioè se volete ok, ma non è dovuto.
La sola cosa che è dovuta è il rispetto, l'apertura, l'abbraccio verso ciò che non capiamo ma che esiste a prescindere dalla nostra comprensione.
Sense8 è questo, un enorme abbraccio globale che include colori, profumi, baci, fuochi d'artificio, passione strepitante, risate di cuore e un amore immenso, verso la vita, l'universo e tutto quanto. Per davvero.

Salutare personaggi di finzione che ci hanno donato così tanto è un colpo al cuore atroce. I Sensate sono una famiglia incredibile da cui non si vorrebbe uscire mai, sono sempre, e questo finale non fa altro che confermarlo, un vortice di emozioni quasi tangibili da cui bisogna essere strappati a forza per tornare alla vita reale. Li lascio avendoli visti diventare uno dopo l'altro persone migliori grazie alla presenza del cluster. I criminali sono diventati uomini di cuore immenso, che hanno abbandonato alle loro spalle la virilità forzata. Le donne algide e glaciali si sono aperte al più tenero dei sentimenti. Le donne timide e pie hanno scoperto lati di sè inesplorati. I giovani e poveri autisti di bus si sono lanciati in politica per il bene del loro popolo.
Avrebbero avuto ancora moltissimo da dirci e lo avrebbero fatto nel modo straordinario a cui ci hanno abituati, e questo non fa che rendere peggiore il saluto.
Ma quella scena finale lì, che ci riporta alla forza del loro legame, ad un gigantesco abbraccio che prende tutto il mondo, è il finale migliore che potessimo sperare.

This is the morning of our love,
This is the dawning of our love.

sabato 26 maggio 2018

Accabadora, Michela Murgia

11:29
Al di là della fama che la precede, ho fatto la conoscenza diretta di Michela Murgia guardandola nel programma di Augias. In particolare, aveva fatto un intervento sul fumetto e il suo ruolo nell'editoria e nella cultura che avevo trovato perfetto, e da quel momento ho iniziato a seguirla sui social e ad adorarla.
Raccomando, in particolare, su Twitter, la sua rubrica #tuttimaschi, dove sottolinea come le prime pagine dei nostri quotidiani abbiano firme femminili quasi solo in casi di articoli di moda e tendenze e culi. Giusto per non farvi venire il fegato d'acciaio come viene a me.
Per completare il quadro mancavano i suoi libri e ho deciso di iniziare da quello che forse è ancora il suo più famoso: Accabadora.


Maria è l'ultima di quattro sorelle, figlia di una madre povera e vedova.
Quando Bonaria Urrai, una vecchia sarta del paese, la chiede come figlia dell'anima, quindi, la madre accetta senza pensarci troppo. Un figlio dell'anima è, come descritto due volte, un bambino nato due volte: dalla povertà di una donna e dalla sterilità dell'altra. Un'adozione senza contratti, enti, e marche da bollo.
Di notte Bonaria esce spesso, e Maria sembra non farsi troppe domande. Il suo 'lavoro' è quello di accabadora, ovvero di accompagnare alla morte le persone in condizioni gravissime. Un ruolo che non può che influenzare il rapporto con la bambina.

Ero certa che avrei trovato Michela Murgia bravissima. Ero molto meno certa che mi sarebbe interessato il tema, invece.

Per me Accabadora è stato fulminante. Divorato in poche ore, lascia dietro di sè la scia di sensazioni fortissime date dalla capacità della Murgia di trasportarci nel cuore di una terra anche le persone che, come me, non la conoscono.
Senza alcuna forzatura, con la semplicità tipica di chi non deve sforzarsi per riuscire bene in quello che fa, la narrazione è intensissima di sentimenti e atmosfera. Si respira l'aria del soffritto che Maria, arrabbiata e confusa, cucina, si vede lo sguardo combattuto di Bonaria, si sente il vomito di Andrìa e si prova il dolore di Nicola. Tutto è forte e vivissimo, descritto con un'efficacia che ha del miracoloso e che solo in lavori come quello della Ferrante avevo visto prima.
I rapporti mi sono sembrati così familiari, così noti, che li ho vissuti come fossero i miei. Bonaria e Maria si abbracciano poco e mai, a volte nemmeno si parlano, ma comunicano con i gesti e la fiducia e l'amore pulito e forte che nasce tra chi non ha legami di sangue ma solo di scelta.

Non è una lettura, è un'esperienza. Come entrare in una sala da tè profumatissima, e lasciarsi coinvolgere dalle storie di chi ci circonda. Come entrare in una chiesa di paese, riconoscerne l'odore di incenso anche dopo anni di lontananza, e sedersi tra le credenze e il folklore delle donne di una volta che accendono ceri e pregano per gli amati.
Certe espressioni della Murgia sono quasi un incanto: parla di 'emigrazione da sè' quando parla del suicidio di un emigrato o di 'furto dell'abito da sposa' quando parla di un matrimonio mai celebrato, per esempio.

La colpa è mia e solo mia, che finisco sempre involontariamente per snobbare la narrativa italiana senza una e una sola motivazione reale. La Murgia è una scoperta stupenda, alla faccia del mio snobismo.
E poi dicono che i social non servono a niente.

mercoledì 23 maggio 2018

Philip Roth

14:56
Non sarò mai brava abbastanza per dire quanto valesse Philip Roth.
Oggi, quindi, per mandargli un saluto colmo di gratitudine, copio il mio brano preferito di Pastorale Americana, perché le sue parole sono immense ed eterne, e se c'è qualcosa che ce lo fa tenere qui ancora un po', sono solo quelle, le parole.
Quando le ho lette per la prima volta ho capito che la mia frustrazione, la mia incapacità di avere a che fare con le persone, non sono solo mie. Sono un malessere diffuso, condiviso, che nessun altro, però, è riuscito a dire così.
Lotti contro la tua superficialità, la tua faciloneria, per cercare di accostarti alla gente senza aspettative illusorie, senza un carico eccessivo di pregiudizi, di speranze o di arroganza, nel modo meno simile a quello di un carro armato, senza cannoni, mitragliatrici e corazze d'acciaio spesse 15 centimetri; offri alla gente il tuo volto più bonario, camminando in punta di piedi invece di sconvolgere il terreno con i cingoli, e l'affronti con larghezza di vedute, da pari a pari, da uomo a uomo, come si diceva una volta, e tuttavia non manchi mai di capirla male.Tanto varrebbe avere il cervello di un carro armato. La capisci male prima d'incontrarla; mentre pregusti il momento in cui l'incontrerai; la capisci male mentre sei con lei; e poi vai a casa, parli con qualcun altro dell'incontro, e scopri ancora una volta di avere travisato. Poiché la stessa cosa capita, in genere, anche ai tuoi interlocutori, tutta la faccenda è veramente una colossale illusione priva di fondamento, una sbalorditiva commedia degli equivoci. Eppure, come dobbiamo regolarci con questa storia, questa storia così importante, la storia degli altri, che si rivela priva del significato che secondo noi dovrebbe avere e che assume invece un significato grottesco, tanto siamo male attrezzati per discernere l'intimo lavorio e gli scopi invisibili degli altri? Devono, tutti, andarsene e chiudere la porta e vivere isolati come fanno gli scrittori solitari, in una cella insonorizzata, creando i loro personaggi con le parole e poi suggerendo che questi personaggi di parole siano più vicini alla realtà delle persone vere che ogni giorno noi mutiliamo con la nostra ignoranza? Rimane il fatto che, in ogni modo, capire bene la gente non è vivere. Vivere è capirla male e male e poi male e, dopo un attento riesame, ancora male. Ecco come sappiamo di essere vivi: sbagliando. Forse la cosa migliore sarebbe dimenticare di avere ragione o torto e godersi semplicemente la gita. Ma se ci riuscite...Beh, siete fortunati.


Ciao, Philippone. 
 

lunedì 21 maggio 2018

Non-Geek Guide: Deadpool 2

14:24
Ieri ho visto Mad Max: Fury Road per la prima volta. Serve che vi dica cos'è? Il mio post sarebbe tutto scritto a versi tipo: ooooooo ppppuuummm sbbbaaaaaaammm e emoji delle bombe.
Oggi, quindi, parliamo di un cretino con la tuta rossa.

Temo che questa cosa ormai abbia bisogno di un suo nome e di diventare una rubrica a tutti gli effetti: una riunione di tutti i post in cui parlo di cose della cultura geek con uno sguardo che più esterno e ignorante non si può.
Questa rubrica è tutta per voi, amici e amiche che venite trascinati in sala a guardare di gente con le tutine, navette spaziali e ragnatele lanciate dai polsi.
Se voglio che il moroso guardi con me Dogman devo fare la mia parte, e questa settimana la mia parte è stata Deadpool 2.


Io lo dico prima della trama così ci togliamo il pensiero: a me Deadpool piace da matti, non so cosa farci. Non mi riconosco nemmeno.

Il tutino in questione è Ryan Reynolds.
Nei primi minuti del film gli succede una cosa tremenda, inimmaginabile, e quello che noi vediamo sullo schermo è quello che succede nella sua vita dopo il fattaccio.

Trama che non dice assolutamente nulla, ora che la rileggo, ma va bene così, perché di questo film non vi dovete rovinare NIENTE.
Niente trailer, niente recensioni (ehm), niente foto dal set. Statene lontani ed entrate al cinema vergini di informazioni. L'espressione che viene sulla faccia di tutti a due minuti dall'inizio è impagabile.

Perché Deadpool è diverso dagli altri e soprattutto perché voi, compagni della squadra Non-Geek, non avete niente da temere?
Perché fa spaccare dal ridere.

Mi piacerebbe avere migliori proprietà di linguaggio per esprimere un concetto così semplice, ma non ce n'è per nessuno: Deadpool fa fare proprio quelle risate grasse da tenersi la pancia, e ad un certo punto del film l'infilata di cagate esilaranti è tanta e tale che non si riesce nemmeno più a ridere, si guarda allibiti lo schermo cercando di capire fino a che punto Reynolds e tutta la squadra possono spingersi nel prendere così selvaggiamente per il culo tutto quello che è arrivato prima di loro.
Intendo TUTTO, arrivare fino alla fine per credere.

Io, i miei DVD di Truffaut presi in biblioteca per guardarli con gli speciali, la mia borsa hipster del New Yorker e la mia bici da uomo possiamo prendere il nostro snobismo e infilarcelo nel borsello da galera (wink wink), perché non se ne esce indenni. Nemmeno l'ironia scoreggiona nella quale inevitabilmente a volte Pool finisce ci possono fare storcere il naso. Ci sono le parolacce, i genitali, la pipì e le chiappe, il pacchetto American Pie al completo.
Eppure funziona, perché le sue vittime non sono gli spettatori, che quando vanno a vedere un film di Deadpool sanno esattamente cosa aspettarsi e non sono presi per i fondelli, ma il mondo intero dei supereroi, nelle loro versioni cartacee e cinematografiche, nei loro strafalcioni e nel loro crederci sempre un pelo troppo. Non si salva nessuno.

Deadpool 2 ha fallito completamente nel trovare in me il minimo coinvolgimento emotivo: non mi sono emozionata per nulla per la tragedia iniziale (per il finale un pochino sì, bisogna riconoscerlo), e con me è un miracolo perché piango sempre.
Ha lasciato fuori la testa e il gusto per i film impegnati e impegnativi, ha dimenticato di prendermi il cuore, ma la pancia, e quel divertimento crasso che mi dimentico spesso quanto bene mi faccia, se li è presi e maciullati.

E siccome oggi sono così easy e giovane e guardo i film di supereroi, il modo per definire sto film è uno solo.
Che figata.



Disclaimer

La cameretta non rappresenta testata giornalistica in quanto viene aggiornata senza nessuna periodicità. La padrona di casa non è responsabile di quanto pubblicato dai lettori nei commenti ma si impegna a cancellare tutti i commenti che verranno ritenuti offensivi o lesivi dell'immagine di terzi. (spam e commenti di natura razzista o omofoba) Tutte le immagini presenti nel blog provengono dal Web, sono quindi considerate pubblico dominio, ma se una o più delle immagini fossero legate a diritti d'autore, contattatemi e provvederò a rimuoverle, anche se sono molto carine.

Twitter

Facebook