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sabato 30 settembre 2017

...e ora parliamo de L'Esorcista

09:38
Questa, lo giuro, sarà l'ultima volta in cui racconterò del mio primo incontro con il film di Friedkin. Sul blog questa storia è uscita mille volte, ora che ho ripreso in mano la faccenda gli dedico un post e che non se ne parli più.


Anno del Signore 2003.
Anni della Mari: 13.
Situazione: vivevo lontana da casa, in un contesto gestito da suore e coabitato da una mandria di adolescenti, tutte femmine. Un pomeriggio, per qualche infelice decisione presa da chissà chi, si decide di vedere L'Esorcista. Suor Colomba compresa.
Risultato: nonostante un sincero disinteresse durante la visione, che sembrava lasciarmi freddina, ho passato i successivi QUATTORDICI ANNI ad avere una paura maledetta. Tra me e il film nasce un rapporto malato, in cui la mia infinita paura, che si palesava anche solo a fronte di una singola foto di Reagan, si contrapponeva ad un'attrazione sempre viva. Lo detestavo, sto film, ma ci pensavo sempre.

Anno del Signore 2017.
Anni della Mari: quasi 27.
Situazione: sono nel mio rivenditore di libri usati di fiducia. Trovo nascosta tra le altre cose una vecchiotta edizione de L'Esorcista e ne leggo le prime righe. Non quelle del primo capitolo in Iraq, direttamente quelle in America.

Come l'effimera e fulminea fiamma di un'esplosione di soli lascia soltanto bagliori indistinti sulla retina di un cieco, così il momento in cui l'orrore ebbe inizio passò quasi inosservato.
Per poco non mi sono dovuta sedere di fronte alla bellezza della frase che avevo appena letto. Decido comunque di non comprare il libro, convinta che non avrei mai avuto il coraggio di finirlo. Arrivata a casa, però, continuo a pensarci e mi decido. È ora di riprendere il controllo sulla situazione: si legge L'Esorcista. Divorato in pochissimo, letto la mattina prima dell'alba mentre mi trovavo a Londra e rapidamente sostituito con roba ben più divertente (aka Una cosa divertente che non farò mai più di Nostro Signore David Foster Wallace) quando la situazione si faceva insostenibile, poi finito in una grigia domenica mattina di pioggia ascoltando Ludovico Einaudi.
Sono rimasta folgorata.
È una frase che ultimamente mi sentite dire spesso, ma questa volta con ancora più forza del solito: contro ogni mia più rosea aspettativa il romanzo di Blatty si è rivelato una delle letture più belle e potenti mai fatte. Quella domenica sera, comunque, salendo da sola le buie scale del mio palazzo, ho avuto una paura ri di co la.


questo sguardo e io già con le mani sugli occhi

Dopo un inizio così folgorante, tenere alto il livello non era scontato. Il romanzo, però, fa una cosa che sembra impossibile: migliora. Riga dopo riga trascina in un vortice da cui è impossibile separarsi. Si è soliti chiamare i romanzi di questo tipo page turner. Sono quelle storie da cui staccarsi è impossibile, quelle che tengono svegli la notte pur di sapere cosa accade nella pagina dopo. Sempre di solito, però, ad una caratteristica simile si associano romanzi di natura ben più semplice di quello di Blatty: romanzi rosa, gialli, thriller non troppo speciali...romanzi, insomma, in cui lo stile semplice di scrittura si abbina ad una storia che sia niente più che catchy, accattivante, e che tengano così lo scrittore legato alle pagine, senza richiedergli troppo impegno. Per me, per esempio, l'ultimo era stato La ragazza del treno, nonostante non mi fosse piaciuto.
L'Esorcista conserva questa caratteristica di irresistibilità portandola però a ben altro livello. L'aria del romanzo è soffocante, malsana, il male è insito tra le righe ben prima del palesarsi del Maligno e nonostante ciò ci attira a sè con il fascino che solo il Male è in grado di esercitare.
A creare questo fenomeno di romanzo non è solo la scrittura di Blatty (che ad un certo punto parla della fisicità di Reagan definendola esile come una flebile speranza, annientandomi), è un complesso di tematiche, costruzione dei personaggi e messaggio che non potrebbero lasciare indifferente nemmeno il peggiore degli scettici, insieme a dialoghi che hanno dello straordinario. Ho letto poche cose belle come il primo incontro tra Karras e il demonio.
L'autore era cattolico. Ma tanto, anche. Nel senso che non andava in chiesa solo a Natale e Pasqua, per intenderci. Alla sua fede ha dedicato un romanzo monumentale, che traspira Dio da ogni riga pur non nominandolo praticamente mai. La fede del grande protagonista del romanzo, che secondo me è Padre Karras, è messa alla prova sia dal suo generico scetticismo che dalla scomparsa della madre, Chris e Reagan non sono credenti e in tutto il romanzo non si fanno che vedere gli effetti di Satana sul mondo. In una sola, potente frase messa nel punto giusto, però, ecco che tutta la storia prende una piega ben diversa e che Dio si riprende tutto il potere che sembrava perduto nelle pagine precedenti. Sintetizzando la questione, ci troviamo di fronte ad una Chris sconvolta dagli eventi, che non crede in Dio ma che, grazie alla situazione della figlia, crede moltissimo nel Male, che le sta dando prove tangibili della sua esistenza. Non ricordo chi, ma credo lo stesso Karras, le chiede, allora, come si spieghi tutto il Bene del mondo. In una sola domanda Blatty ci ricorda che per lui Dio non ha bisogno di fare il grosso. È nelle piccole cose che ci circondano.
Poi accade che ogni tanto anche alla Santissima Trinità vengano fatte girare le Santissime, quindi servono le maniere forti: Padre Merrin. Zarrogante come solo alcuni vecchi preti sanno essere, Merrin entra in casa, si sistema un attimino poi entra cattivo come l'aglio, con lo sguardo di chi non ha paura neanche del Diavolo in pesona (sguardo molto appropriato al momento) e ribalta Reagan come un calzino per levarle l'invasore.
Peccato che poi il vero esorcismo arrivi proprio per mano dello scettico, del debole, del combattuto Karras, che ricordando vagamente il Figlio del sopracitato Nostro Signore si sacrifica per la salvezza degli altri.
Nello specifico, dell'altra, che come viene spesso sottolineato nel romanzo, lui nemmeno aveva mai conosciuto veramente.
È una storia che parla di dolore, di fede, di scienza (non è un caso che Karras sia uno psichiatra, e che lo sia proprio per volere dei gesuiti), di grande amore per il prossimo.
È un capolavoro.

Il film riesce in un'impresa impossibile: non solo rende giustizia ad un romanzo complesso e straordinario, ma diventa un capolavoro a sua volta.
Rivedendolo, mi sono accorta di come certe immagini fossero rimaste tatuate nella mia mente per tutti questi 14 anni di lontananza, e non parlo di quelle iconiche scene di Reagan posseduta. Parlo di cose ben più sottili: i cani che lottano in Iraq, la testa della bambina ancora sana appoggiata sul cuscino, il momento di gioco tra lei e la madre, l'adorata, da me, figura di Karl. Dopo anni, la colonna sonora si conferma contorcibudella ed elemento fondamentale per la riuscita della creazione di un'atmosfera che non ti lascia nemmeno quando, come ho dovuto fare io, si interrompe la visione per un momento e si cerca di respirare aria fresca. È un'aria che riempie la stanza di marciume nelle scene di Reagan e di desolazione in quelle di Karras.
Tutto, nel film, è perfetto nel ricreare quell'aria che a Londra non mi faceva riprendere sonno, quando mi svegliavo prima dell'alba e leggevo Blatty. Anche solo i colori sono eccezionali: quel blu che riempie le scene sulle scale, in cui la luce non viene mai accesa come se fosse un modo per prepararci all'oscurità che sta dietro la porta, è indimenticabile. È quasi rumoroso da tanto che è d'impatto. In mezzo alla bellezza che solo i Film Grandi portano con sè, ci sono attori straordinari. Oltre alla piccola Blair, è Jason Miller ad essermi rimasto nel cuore. Il suo Damien Karras ha occhi grandi e pieni di cose non dette, è fragile e dolorante come un cucciolo abbandonato di fianco alla strada, intenso come pochi altri.
In più, ho guardato il film in italiano. Per me è insolito, li preferisco in inglese e il primo che mi rompe i maroni per snobismo lo sottopongo ad una Cura Ludovico di soli film di Muccino. Li guardo in inglese perché mi va punto e basta. Ciò ribadito, il doppiaggio de L'Esorcista è esemplare. La sceneggiatura (che a volte riprende paro paro parti del libro, ché Blatty mica c'aveva sbatta di rifare il lavoro due volte, giustamente) è splendida e noi ci abbiamo messo del nostro facendo un lavoro che a me è sembrato ottimo. Ciao Giannini, quando ti sento mi emoziono.

Concludendo, però, non credo rivedrò L'Esorcista a breve. Questa seconda visione non ha fatto che confermare quanto quello di Friedkin sia il mio grande tallone d'Achille, niente mi ha mai terrorizzato altrettanto. Stasera ho una cena con le colleghe e non so come sarò quando tornerò a casa. Sia il libro che il film sono due lavori giganteschi, ma se ognuno di noi ha una fragilità, questa è la mia. È IL film dell'orrore, l'inarrivabile, la Storia.
Ma io mi caco, quindi non lo guardo più.



sabato 12 settembre 2015

3 anni di MRR: Paranorman

17:18
Il primo post mai comparso da queste parti è stata una recensione su un film di Tim Burton. Ai tempi lo amavo moltissimo, non avrei potuto che iniziare con lui. A commentare quel post furono soltanto il mio ragazzo e due amici, una dei quali oggi è uscita silenziosamente dalla mia vita. 
Cerco di non rileggere mai le cose scritte molto tempo fa perché se penso che qualcun'altro oltre a me possa avere messo lo sguardo su certi scempi mi viene un piccolo prurito che mi spinge verso il suicidio.
Poi in realtà sono tutti lì, eh, indicizzati insieme ai post di cui mi vergogno un po' meno. Per me è una questione sentimentale, o tutti o nessuno. Ho lasciato pubblici e mai corretti anche post riguardanti film su cui ho abbondantemente cambiato idea, perché mi dispiace manometterli dopo tutto questo tempo. Mi servono anche per capire se noto dei miglioramenti o meno, ma a voi forse la mia severa autocritica interessa poco.
Per questo mi sembrava carino festeggiare insieme il terzo (terzo? jesoo, mi sembra di avere iniziato da cinque minuti) bloggheanno parlando di un film che ricorda i tempi d'oro del buon Tim solo all'apparenza.
Perché in realtà è molto, molto meglio.


Norman, a cui dobbiamo l'adorabile gioco di parole del bellissimo titolo, è una strambo ragazzetto che parla con i morti. La cosa non lo turberebbe minimamente se a rompergli le scatole non ci fossero praticamente tutti quelli che lo circondano. Smetteranno di prendersi gioco di lui solo quando si accorgeranno che, grazie al suo dono, Norman sarà l'unico in grado di salvare la città. 

Paranorman si prenderà il vostro cuore più o meno al minuto 01.30 e se lo terrà stretto, strettissimo fino alla fine, quando avrete la desolante certezza che il vostro organo vitale non vi sarà mai restituito. Rimarrà a battere lì, su quel furgoncino malconcio (o su quello che ne resta), in quell'archivio comunale oppure, più probabilmente, nella camera da letto di Norman. Perché già l'inizio di questo film sarà sufficiente ad inumidirvi gli occhi. Poi chiaramente non si fermerà lì, ma c'è questa splendente partenza: ragazzino strambo sul divano che parla con la nonna. Niente di più normale, vero? 
È proprio un peccato che la nonna in questione sia defunta da tempo. 


Dal primo rimprovero familiare che ci è mostrato in avanti, la vita di Norman è francamente uno schifo: famiglia che non lo capisce, amici non pervenuti, fantasmi che invece che essere d'aiuto ostacolano la già difficile situazione, bulli molesti e uno zio che spunta dal nulla per dirti che hai giusto qualche ora per salvare tutti quanti.
Come se la meritassero, la salvezza.
L'umanità è ritratta come una becera e bigotta vecchia signora, di quelle detestabili che puzzano di antibiotici e profumi fuori moda. Tutto ciò che è diverso, nella città in cui il bambino si è trovato a vivere, spaventa. E quando qualcosa ti spaventa non solo non ti fai avvicinare, alzi anche difese non necessarie affinché nessuno possa farti male, nemmeno chi di farti male non ne aveva la minima intenzione.

Con chi riesce a comunicare Norman? Con chi, come lui, è differente. Il suo unico amico è vittima dei bulli per il suo peso, lo zio che gli affida il compito è considerato folle (e forse qualche rotella in effetti gli manca) perché ha lo stesso dono del nipote, gli zombie sono notoriamente causa di orrore e raccapriccio. Quello che rende Norman speciale, quindi, non è il suo dono. È la capacità che ha dimostrato, in ogni singola azione compiuta nel film, di saper andare sempre oltre le apparenze, anche quando queste fossero mostruose come quelle dei morti viventi. Ne è intimorito come tutti, non fraintendetemi, è un personaggio umano. Ma è disposto a rivedere la sua opinione non appena gli arriva un segnale positivo. Non si blocca nelle sue convinzioni, ASCOLTA. 
È troppo facile cambiare opinione su una persona nel momento in cui sta in piedi davanti al municipio a salvare le chiappe a tutti quanti. Lui ci arriva prima, si apre alla possibilità che chiunque abbia qualcosa di buono da dargli, che ogni azione negativa compiuta da qualcuno possa avere una motivazione dietro che ti spinga a guardarla con occhi diversi.


Sarebbe altrettanto facile lanciare grandi messaggi come questo, sulla tolleranza e sull'imparare il valore incredibile della diversità, con mallopponi filosofici polacchi in b/n con i subs in cirillico. Invece Paranorman è una perla di comicità, sia molto intelligente che più semplice, di quelle che ti possono far ridere per una grande citazione che di quelle che ti fanno lacrimare per le botte da orbi che sti poveri zombie si pigliano immotivatamente. O per questi personaggi così macchiette che riescono comunque a non essere mai esageratamente caricature. (Lo sono, ma in un modo talmente equilibrato che quasi non te ne accorgi).
E, a proposito delle citazioni, posso togliermi un sassolino nella scarpa? 
Dai, oggi è il nostro compleanno, concedetemelo.
Non me ne frega niente delle citazioni. 
Ma zero proprio.
Sono una chicca gradevolissima per chiunque le colga, ti fanno fare un adorabile 'awwwwwww' quando arrivano, poi basta però.
In questo caso non aggiungono valore al film, Paranorman non ne ha bisogno, sarebbe incantevole comunque. Si farà amare da chiunque, a prescindere che abbia colto quel Mario Bava lì nella prima parte. 
Si piange di quella commozione bellissima che solo i film dolci con personaggi così adorabilmente comici provocano.
Ed è quel tipo di commozione che io amo tanto, e che ricerco in ogni pellicola che vedo.

Per questo mi sento di offrire a voi questa che per me è l'emozione più bella del mondo, nel terzo anno che passiamo insieme, anche solo parlandovi di un film. 
Non c'è modo migliore di festeggiare.

martedì 28 luglio 2015

Tratto da un racconto di Stephen King: Stand by me

23:04
(1986, Rob Reiner)

Ho pensato a lungo su quale potesse essere il film migliore da trattare individualmente perché per quanto ci ostiniamo a dirlo, non è vero che ogni film tratto dai lavori del troppo nominato Stephen King fa pietà.
Alcuni fanno piangere dall'amarezza (Mercy, Mercy, Mercy!!), altri sono minuscole caccolette in confronto alle parole del Meraviglioso, e poi ci sono quelli belli.
Che quando dico belli intendo Belli.
E sarebbe facile stare qua a elencare i motivi per cui ritengo Shining l'unico film al mondo degno di essere chiamato Perfetta Opera D'Arte, oppure ribadire l'intramontabile fascino di Carrie o Misery.
Ma lo sappiamo già.
(Non che ribadirlo faccia male, ANZI, qua siamo a favore del repetita iuvant)
Di fianco a questi colossi dell'horror, però, ci sta Stand by me. 
Che titolo bellissimo, eh?
Stammi accanto.


Non importa a quanti anni si affronti la visione di Stand by me per la prima volta. Non importa che siate stati bambini composti e beneducati o coloriti maschiacci poco puliti. Non importa nemmeno che i vostri film preferiti siano di tutt'altra pasta. E non importa neanche se pensate che il solito autore sia un mediocre essere come tanti altri.
Stand by me è la trasposizione in pellicola del racconto in cui il Nostro ci mostra tutta la sua capacità di prendere l'animo umano e riproporlo in parole. In cui dimostra che non serve essere bambini per raccontare i bambini.
Basta una buona memoria.
Perché non c'è niente di più reale e universale della voglia di avventura (di qualunque tipo essa fosse, non c'è certo bisogno di scappare di casa di nascosto per viverne, anche se lo sognavamo tutti), e del desiderio di viverla con i volti cari dei nostri amici. Quegli stessi amici che prendono il tuo grande dolore e lo stritolano sotto le mani quando ti abbracciano, o quando ti danno un pugno, o quando ti buttano giù da un ponte per impedire che il treno vi investa entrambi.
Il dolore, sì, quello che già a 13 anni senti fortissimo alla bocca dello stomaco, anche quando magari non ne puoi comprendere tutte le implicazioni ma che può comunque rovinarti il funzionamento dell'apparato digerente e il ritmo sonno-veglia.
Essendo così giovane guardo a quell'età con ancora troppo coinvolgimento, non ho il distacco necessario per analizzarla come si deve.
Anche se, in effetti, ci si stacca mai dal noi stesso bambino?
King non lo ha fatto, ma nemmeno Reiner.
Che è riuscito a rendere, in un modo incantevole, tutto lo splendore di quegli anni, quando un secondo prima ti atteggi a uomo vissuto con la sigaretta in bocca e quello dopo preghi i tuoi amici di non raccontare storie dell'orrore perché te la fai sotto.
O quando vorresti trascorrere le giornate in spensieratezza, a cantare canzoncine per insultare le mamme dei tuoi amici (questo non passerà mai di moda) e a scappare dai bulli, come ci si aspetta che tu faccia a quell'età, e invece vivi col tremendo dolore della perdita di un fratello, o con la complicata convivenza con un padre difficile.
Quando vorresti essere già adulto e nello stesso tempo non esserlo mai.


Di tutte le scene iconiche che Stand by me ci regala, quella che preferisco e che credo renda perfettamente in immagini tutto il discorsone fatto sopra è una breve scena in cui i quattro amici stanno camminando in file da due. I ragazzi dietro stanno parlando del loro futuro, dei loro genitori difficili, dei loro desideri anche lavorativi. I due salamotti che stanno davanti, invece, discutono animatamente su chi sia più forte tra Braccio di Ferro e Superman. Entrambe conversazioni che riescono ad essere perfettamente legittimate dall'età dei protagonisti. Teneramente commovente, con quel loro modo di essere così goffi e impacciati, e quel sentirsi già così maturi. E così per tutta la durata di questo sognante e incredibile film, in cui scene dolcemente comiche si alternano a quelle altrettanto dolci ma struggenti.
Quanto è struggente vedere questi ometti entrare nel nero del dolore e cercare di nuotarci in mezzo, perché è proprio qui che stanno imparando come si fa a starci a galla. In un battito di ciglia avranno già imparato a gestirlo, ma ora sono qui e devono sbattere forte le gambe, anche se dopo un po' fa male e vengono i crampi.
Non ci si sveglia un mattino improvvisamente più grandi, saggi e ragionevoli. Si cresce minuto dopo minuto, su quelle rotaie in cui un passo non è mai compiuto dalla stessa persona che ha mosso quello precedente.
E non te ne accorgi mai, che stai crescendo.
Tu vivi, e basta.
Quando ti fermi a riflettere ti accorgi che magari è cambiato il modo di vedere le cose, o che i tuoi interessi non sono più gli stessi, che è mutato persino il tuo modo di rapportarti con le altre persone. Ma quando tutto questo stravolgimento sia avvenuto, tu mica lo sai.
Tu stavi solo passeggiando sui binari.

giovedì 14 maggio 2015

Videodrome

15:46
(1983, David Cronenberg)

Film post - Liebster, vol 3.
A spingere questo blogghettino nelle braccia di Cronenberg non poteva essere altri che Giacomo, il recensore ribelle.
In effetti, non so perchè ci ho messo così tanto, a parlare di quel gentile vecchietto.
(Cronenberg, non Giacomo)
(Anche se vista la somiglianza di quest'ultimo a Pattinson, il legame è lecito)
(scherzo, scherzo)

Max Renn lavora per un canale televisivo specializzato nella trasmissione di programmi a sfondo pornografico. Per il suo pubblico, però, certi film non sono più sufficienti, e andando alla ricerca di materiale più estremo da proporre trova Videodrome, un programma snuff le cui riprese sono scene di violenza reali e non recitate. Peccato che non si limiti a mostrare scene tremende, ma impianti tumori e allucinazioni nel cervello di chi lo guarda.

Siete carini quando mi consigliate film così FACILI da recensire, davvero.



L'avete mai googlato, voi, Videodrome? 
Tra i primi suggerimenti c'è 'Videodrome spiegazione'.
Questo ci dice due cose: la prima è che guardando questo film superficialmente non ci si capisca na mazza. Comprensibile.
La seconda, però, è più pessimista: ci dice che ancora oggi non siamo in grado di prendere una pellicola per quello che è, di farci trascinare, di farci un viaggio allucinatorio infinito e duro, di farci prendere per mano dal regista e di farci condurre dove vuole lui.

E lui, Davidone, ci vuole portare in un mondo tremendo, in cui realtà e allucinazione sono fuse in un nodo senza soluzione, in cui quello che vediamo è vero o forse no.
E ci trasporta con un carisma incredibile, con una pellicola che è in grado di regalare a noi spettatori le medesime sensazioni che il protagonista prova nei confronti di quello che gli sta accadendo.
Curiosità iniziale, intrigo, per poi finire con shock, disgusto e terrore.
Renn trova queste sensazioni nella ricerca di Videodrome  prima e nel tentativo di liberarsene dopo, noi le proviamo fotogramma dopo fotogramma, in una continua discesa verso la confusione, in cui tutto ciò che crediamo reale è messo in dubbio.


Come si può cercare una 'spiegazione' per questo?
Come si può volutamente ricercare qualcosa che rovini l'incredibile clima che Cronenberg ha messo in piedi?
E' talmente credibile quello che stiamo guardando (tante care cose a Baker e ai suoi effetti speciali), talmente ricercato nel suo essere così apparentemente caotico che cercare di dare un ordine a qualcosa che un ordine non ha suona quasi come blasfemia.

Dove inizia e dove finisce la realtà? Dove inizia e finisce la nostra libertà? Fino a che punto i nostri pensieri e i nostri gesti sono guidati dai media? Fino a che punto abbiamo concesso alla tv di prendere posto nelle nostre menti? O a Internet, oggi?
Io non lo so, e credo anche di non volerlo sapere.
Voi, nel dubbio, continuate a chiederlo a Google.

   Morte a Videodrome! Gloria e vita alla Nuova Carne!

venerdì 16 gennaio 2015

Non solo horror: La città incantata

13:10
(2001, Hayao Miyazaki)

Può un film d'animazione giapponese farmi pensare allo zucchero a velo?
Può, se lo firma Hayao Miyazaki.

Ne La città incantata incontriamo Chihiro, che sta affrontando con la famiglia un trasloco.
Giunta nella nuova città, però, il papà intraprende quella che sembra essere una scorciatoia ma che si rivela invece essere una strada chiusa che dà su un tunnel.
Presa dalla curiosità, la famiglia lo attraversa nonostante le proteste di Chihiro, e quello che si troveranno di fronte è un luna park apparentemente abbandonato, in cui però è rimasto attivo un banchetto in cui i genitori di Chihiro si abbuffano.
Peccato che vengano poi trasformati in maiali, e toccherà alla figlia trovare una soluzione a questo incantesimo.

Zucchero a velo, dicevamo.
Io non sono proprio capace di fare da mangiare, sopravvivo a malapena.
I dolci però li so fare, quelli sì. (credo)
E so che lo zucchero a velo non fa altro che addolcire un po' di più, soprattutto se comprate quello vanigliato che è un piacere solo pensarci.
Però se volete che la torta sia più buona ne dovete mettere poco, così è dolcissimo ma non dà fastidio in bocca, non si esagera.


Questo ha fatto questo film.
Ha addolcito la bocca, ha fatto sentire la vaniglia sulle labbra, ha riscaldato il cuore.
Una splendida torta margherita altissima e morbidissima appena sfornata.
Il riferimento alla torta margherita non è certo casuale.

La più semplice in assoluto, la più povera di ingredienti, la più basica.
Ma quanto è buona.
E' strepitosa appena la tiri fuori dal forno, ancora tiepida.
Ma è buonissima anche la mattina dopo, fredda e intinta nel latte.
(Cioè, i normali esseri umani fanno così, io piuttosto che pucciare qualsiasi dolce in qualsiasi bevanda mi ammazzo dal disgusto)

E così La città incantata. Lo guardi una volta, e quanto è bello. Te ne innamori. Poi lo vedi la seconda, la terza, la ventesima. Ed è sempre così incredibilmente bello.



La torta margherita, però, sembra facile ma è infida.
Bisogna saperla fare.
Se non sei capace ti esce stopposa, con i grumi, oppure troppo pastosa che per mandarla giù ci vogliono due scodelle di latte.

Dove voglio arrivare?
Che Miyazaki è un pasticcere strepitoso.
Ha cucinato la migliore delle torte margherite.
Ha sfornato un'opera dalla dolcezza incredibile, ma che non è mai stucchevole. MAI. Ha preparato una torta talmente leggera che mentre la guardi ti sembra che non stia lì, ma che aleggi nell'aria, che il suo profumo riempia la stanza.
E ci ha messo l'AMORE, perché non c'è certo bisogno di guardare la Clerici per sapere che cucinare per qualcuno è una grande dimostrazione d'amore.

Quando i film diventano poesia in immagini c'è ben poco che si possa dire per recensirli.
Si prendono così come sono, con tutte le emozioni che l'Arte, quando è tale, regala a chi ha la fortuna di poterne fruire.





martedì 11 novembre 2014

B/N November: Che fine ha fatto Baby Jane?

17:51
(1962, Robert Aldrich)


Ho un fratello, io, non so se lo sapete.
Litighiamo con frequenza quotidiana, ogni scusa è buona per accusarci a vicenda di essere dei rompicoglioni.
Eppure, è la persona più importante della mia vita.

Quello tra fratelli è un rapporto che può essere semplice o complicatissimo.
Se uno dei due poi è una piccola celebrità, osannata dal papino e dal mondo intero, figuriamoci.
Nemmeno l'affetto della mamma e la fiducia della suddetta nei confronti della figlia 'sfigatina' aiutano a superare l'infelicità, la frustrazione di sentirsi sempre offuscati.

Ma col tempo Blanche ce la fa.
Sorella della celeberrima Baby Jane Hudson, si riscatta dal ruolo di eterna seconda diventando famosa in un'età più consona, da adulta. Proprio quando la bionda, tenera Jane sta iniziando a perdere colpi. Si ritrovano unite una volta che le loro carriere sono sfumate, Blanche disabile a causa di un incidente e Jane infermiera e assistente improvvisata. Le rivalità di una vita intera tornano a galla.
Sempre che se ne siano mai andate.


Dopo grossomodo un'ora e mezza di violenze psicologiche viscide e disturbanti, l'inevitabile violenza fisica, il vortice in cui Jane sta scivolando si inchioda a fronte di un errore irrimediabile.
E lei cosa fa?
Corre da Blanche, a cercare rifugio.
E non una volta sola, ma due.

Perché è così, è sempre stato così.
Quando la piccola Jane è una star, è lei a tenere le redini economiche della famiglia.
Quando crescono, invece, sarà Blanche l'attrice famosa. Come clausola in ogni contratto, però, obbliga i produttori a girare un film con la sorella ogni volta che girano un film con lei.
Invecchiate, eccole di nuovo insieme, a dipendere una dall'altra, a causa di questo benedetto incidente che ha costretto Blanche su una sedia a rotelle.

Sempre legate, in un rapporto che sano del tutto non lo è mai stato, sempre vincolate l'una all'altra.
E così Jane si ritrova ad accusare la sorella di non avere avuto amici o di non vedere i suoi film trasmessi in tv perché ci devono essere quelli della sorella.
Di invidiarla, addirittura, come se nella vita di una ex bambina prodigio dedita all'alcool ci fosse qualcosa da invidiare.
Perché, crescendo, Blanche è cresciuta, si è costruita una carriera, una vita.
E Baby Jane?
Che fine ha fatto?


Ma non è ovvio?
Baby Jane è sempre stata lì.
Non se ne è mai andata, ha continuato a cantare di avere written quella benedetta letter al daddy anche da anziana, in un'agghiacciante scena, in casa, ballando con la bambola di sè stessa.
Per poi guardarsi allo specchio e quasi non riconoscersi, vecchia e con le rughe.
O, ancora più agghiacciante, è lì, in quel finale in spiaggia, a costruire castelli di sabbia.
Per tutto il tempo, ha combattutto tra l'odio invidioso per la sorella e la voglia di condividere il gelato con lei.
Perché questa sorella, pur nel suo squilibrio, l'ha sempre amata. Trattava male il papà che tanto la viziava, ma non Blanche. Ha sempre avuto un bisogno incredibile di lei, professionalmente e non. Nel momento del bisogno, nonostante l'interessata non fosse proprio in condizione di dare aiuto, è a Blanche che si rivolge.
Una vita intera a dipendere dalla sorella, pur essendo lei quella che presta soccorso. Una vita intera a rimpiangere quel successo perduto. Una vita intera come BABY Jane.

Due primedonne incredibili, di quelle che anche dopo anni tutti quanti conoscono i nomi, magari anche chi di cinema non ne sa nulla. Bette Davis è nel mito, come è giusto che sia.
Due personaggi splendidi, così oltre le aspettative, così profonde, così esplorate e così divinamente interpretati. Se è vero che le due divine si odiavano davvero, beh, si vede.

E poi, la rivelazione finale.
Tra l'essere segregati in casa o segregare un orribile segreto, qual'è la vera prigionia?

mercoledì 5 novembre 2014

B/W November: Psycho

10:48
(1960, Alfred Hitchcock)



PIOVONO SU DI NOI SPOILER A CASCATA CHE PARE DI ESSERE A VEDERE LE NIAGARA FALLS

So che siete svegli e con ogni probabilità ci avrete fatto caso: amo i colori.
Mi piacciono la luminosità, gli abbinamenti improbabili e il rosso.
Ma, se ve lo state chiedendo, sì, sono una di quelle che si veste sempre di nero.

Da queste parti, quindi, ho sempre parlato di film a colori, con rariiiiiiiiiissime eccezioni, tipo questa.
Allora, mi sono detta che era giunto il momento di colmare una delle mie innumerevoli lacune.
Quindi, per un mese, solo film in bianco e nero.
E sì, proprio il mese in cui il mondo comincia a vestirsi di lucine colorate e ammmore natalizio.

Potevo iniziare da uno dei millemila capolavori in b/w esistenti, ma perché privarmi della gioia di mettermi alla presa con la recensione impossibile?

Siccome di fare una recensione vera e propria (come se poi io ne facessi) non se ne parla nemmeno perchè va bene essere incoscienti ma proprio stupidi no, per Psycho ho pensato una cosa diversa.
Quando si parla di film molto molto noti, si dà per scontato che tutti l'abbiano visto.
E invece.
Ho parlato con qualche persona di questo film, ed è un esperimento che vi invito a fare.
In pratica, parlando ho rivelato qualche dettaglio, e vi riporto le reazioni.
L'esperimento serve a dimostrare che ciò che spesso diamo per scontato non lo è. Che il cinema ancora non viene considerato 'arte' a tutti gli effetti.
Nomina a qualcuno i girasoli di Van Gogh e a tutti compare in mente il quadro.
Ma quanti hanno visto i capisaldi?


Dunque, ho aperto la conversazione con un banale 'Oggi ho riguardato Psycho, sai, il film. L'hai visto?'
Buona parte ha esordito con un 'Quale, quello di Hitchcock?'
Eh, quello li, sì.
Perchè se non tutti conoscono l'originale, figuriamoci quanti conoscono i sequel o addirittura il remake di Van Sant.
Però almeno conoscevano il regista, cosa che voi che leggete qui darete per scontata ma credetemi, non è così.
Altri, credo la maggior parte, hanno posto la domanda delle domande: Quello della doccia?
Eh si, sempre lui.

Onestamente?
La scena della doccia è geniale da tanti punti di vista che non è necessario stia qui a spiegare io.
Però, nel suo diventare così di culto, così celebre, ha oscurato tutto il resto del film.
E la gente, CREDETEMI che se ve lo dico un motivo c'è, crede di avere visto il film solo perché ha visto la scena della doccia. Che viene ormai utilizzata nei programmi, nei telefilm, nei film.
Docce ovunque. Docce per sempre.

[A proposito delle docce, vi invito a cercare il film su CB01, fonte di saggezza e gioia. Uno dei commentatori dice: 'Si ma si vede che non la pugnala per davvero, almeno prendi la mira'. Non aggiungerò commenti personali, perché rischierei la scomunica, lascio a voi il giudizio]

E niente, l'inizio è andato come immaginavo.
Chiaramente qualcuno l'ha anche visto il film, non annulliamo del tutto la fiducia nell'umanità.

Andando avanti ho raccontato un po' a mozziconi la trama, e nessuno ha sbarrato gli occhi per lo stupore.
Prevedibile anche questo, in fondo non parliamo della più innovativa e sconvolgente delle storie.

Per caso, poi, assolutamente involontariamente, mi sono lasciata sfuggire che la protagonista, o la presupposta tale, muore prima della metà del film.
'Cat, e come va avanti poi?'
Eh, indagano.
'E basta?'
E basta, sì.
'Ma che palle.'
Ma come che palle?
'Che palle.'
'Allora non è un horror, è un giallo.'
'E almeno lo scoprono l'assassino?'
Sì sì, lo sgamano abbastanza alla svelta.
'Allora è un cretino'
Ma no, non è un cretino, è una persona con problemi psichiatrici, volete che vi racconti la fine o no?

Niente, la maggior parte non ha colto che uccidere la nostra Marion a metà film sia stata una chicca geniale, non ce la fanno proprio. Lo vedono come uno spreco. Se il protagonista muore, poi cosa si fa?
Le ho sentite parlare così, alcune persone, anche quando è morta Peppa de 'Il Segreto'.
(No, non guardo Il Segreto, lo guardano nella casa di riposo dove lavoro.)


Ma arriviamo al finale.
M: 'Poi alla fine si scopre che l'assassino non era la mamma, perchè la mamma era morta da tempo uccisa proprio da Norman. L'assassino è lui che soffre di disturbo di personalità multipla, e ha preso la personalità della mamma con cui aveva un rapporto ossessivo, capito? Quindi Norman è Norman ma in realtà nella sua mente lui è la mamma!'

......

'Ma che casino.'

Mi hanno risposto così per davvero, eh.
E pensare che io, cagasotto come sono, ogni tanto quando vado a letto penso agli occhi di NOrman e me la faccio sotto, pensa che scema.

'Sempre con sta cosa delle personalità oh, non è il massimo, ne ho già visti che finiscono così'
Si ma questo ha cinquant'anni.

Voglio precisare, non parlo con degli sprovveduti, o almeno non solo. Ho parlato con persone che di cinema se ne interessano poco o niente, volutamente, per conoscere il vero effetto-Psycho su chi di Hitchcock se ne frega completamente.
Non voglio perdere completamente la fiducia nell'umanità, non ancora.

lunedì 29 settembre 2014

Aspettando AHS Freak Show: Freaks

16:58
(1932, Tod Browning)


Il 7 ottobre è il mio compleanno.
Il giorno dopo c'è la premiere di American Horror Story: Freak Show.

E da queste parti non crediamo alle coincidenze.

Io non ve lo dico nemmeno quanto sto in fissa per questa nuova stagione.
'Na malattia.

Il C I R C O.
Se non facessero un buon lavoro non li perdonerei mai. (Anche se, sinceramente, non mi hanno mai completamente delusa)
Mi hanno già conquistata.
Sono bastati 20 teaser trailer.
Che trovate qui.

Siccome bisogna arrivare preparati, tutti i miei post fino a quel giorno felice saranno sul circo.
O meglio, sugli horror che ruotano intorno al circo.
Il che rappresenta la fusione tra due delle cose che mi affascinano di più al mondo.
Quando si tratta di circo io non capisco più niente. Ritorno bambina in un secondo. Mi attrae in maniera assoluta, dai costumi, ai talenti, agli animali (discorso controverso, lo so), ogni cosa. Un mondo così lontano dal mio, che sono così sedentaria e tradizionalista e assolutamente imbranatissima a fare qualsiasi cosa comprenda l'agilità del corpo, che non può che esercitare su di me un fascino magnetico.
E chiaramente sì, il Circo de los horrores me lo sono persa.

Da quale film potevo iniziare, se non dal re magno, dal capostipite, dal dio incontrastato, dal sovrano amatissimo di tutti gli horror circensi?

Protagonista di Freaks è Hans, persona affetta da nanismo che si innamora perdutamente della trapezista Cleopatra, la quale invece è intenzionata a sfruttarlo solo per il patrimonio da lui ereditato.

Una volta terminato il film, la prima cosa che mi è venuto spontaneo fare è stata cercare delle informazioni sugli attori. Ho letto che Hans e Frida erano fratelli, che Josephine Joseph (la persona per metà di genere femminile e metà maschile) si è sempre dichiarata (dichiaratA in quanto personA, non saprei che genere attribuirgli per parlarne) ermafrodita, ma che non esistono prove a conferma di questa affermazione, ho letto che l'uomo bruco era molto colto.
Ma tra tutte queste informazioni francamente poco importanti, quella che più mi ha colpito è una, ed è in comune per tutti i freak. 
Quelli del film sono i loro veri nomi.
Le gemelle siamesi si chiamano davvero Daisy e Violet. Josephine Joseph è il nome con cui l'ermafrodita si faceva chiamare abitualmente. Il ragazzo senza gambe era davvero Johnny e
Schlitzie interpretava se stesso.
E tutti loro, tutti, lavoravano realmente nei freakshow.

E la consapevolezza di quello che avevo appena visto mi ha preso come uno schiaffo in viso.
Non abbiamo visto un film.
Per quanto si parli di finzione, per quanto la trama sia stata inventata per crearci una storia, noi abbiamo visto persone REALI riportare su uno schermo quella che davvero era la loro vita.
Perché DAVVERO queste persone venivano guardate nei circhi, puntate a dito, davvero suscitavano reazioni di orrore e disgusto.
Perché DAVVERO esistevano i freakshow.


Sapete, è facile parlarne oggi.
Abbiamo una consapevolezza diversa, una cultura diversa, una società diversa.
Ci piace definirci evoluti, saggi, aperti.
Oggi la chiameremmo disabilità.
Ma comunque continuiamo ad utilizzare un termine che rende automaticamente queste persone diverse. Ancora oggi le mamme che scelgono di portare avanti una gravidanza una volta conosciuta una disabilità nel feto vengono guardate dalle altre come 'Che brava donna, ma come farà? Ma che vita gli darà?'.
Hans e Frida erano fratelli. Figli di una stessa madre che ha dovuto crescere più figli disabili nello stesso momento. Figli di un tempo in cui l'aborto non era possibile, e avere figli con dei problemi non era una scelta.
Oggi lo è, eccome.
E sia chiaro che con questo non mi dichiaro antiabortista, anzi.
Sto solo riflettendo a 'voce alta' su quello che siamo oggi rispetto a quello che eravamo 80 anni fa.

Mi fermo poi a pensare ad un altro aspetto.
Io ho la fortuna di essere nata in salute, senza malattie che mi deformassero.
E già così il pensiero di espormi in un film, o anche solo il pensiero di partecipare ad una trasmissione televisiva, o anche solo di parlare a voce troppo alta in un locale e far girare le persone, mi angoscia.
Questione di carattere, certo.
Ma, proprio per il mio carattere, mi chiedo: cosa ha spinto queste persone a partecipare ad un progetto come quello di Freaks?
Ok, erano tutti abituati per via delle loro partecipazioni ai vari circhi, ma cosa ti porta a esporti così?
Erano consapevoli della volontà di critica sociale del regista?
Volevano mandare un messaggio?
O, semplicemente, sognavano una carriera come attori?
Alcuni di loro, il già citato Schlitzie, per esempio, pare avessero anche un grave ritardo mentale.
Quindi mi chiedo: com'è successo? Come si sono trovati tutti lì?
Perché una persona con una problematica tanto grave è stata sottoposta a questo?
Ho mille domande, davvero.
Magari sono stati tutti trattati con i guanti, badate bene che la mia non vuole essere un'accusa.


Ma la cosa che rende questo film GRANDE, lo sapete qual'è?
Che i freaks possono essere cattivi.
Browning non si nasconde dietro un misero velo di compassione, e soprattutto non nasconde loro. (Ma nemmeno li espone come fenomeni da baraccone, appunto, ci sono e basta)
Gli esseri umani, di qualsiasi colore, forma, genere, possono essere persone meravigliose, generose, pure di cuore.
Oppure possono essere crudeli, vendicative, opportuniste.
Oppure, cosa molto più probabile, possono essere piene di sfumature appartenenti all'una o all'altra caratteristica.
Perché siamo PERSONE.
E quando questo termine diventerà l'unica etichetta di cui ci vestiremo, allora avremo raggiunto l'apertura mentale di cui già ora ci stiamo facendo vanto.
Tod Browning, invece, l'aveva capito 80 anni fa.

E ci ha sbattuto in faccia un film fortissimo (e chissà quanto lo era prima dei tagli violenti della censura) per farcelo capire, senza paura delle conseguenze.
Se ancora oggi il personaggio di colore è sempre il primo a morire nei film, pensate a quanto ha scioccato il mondo quest'uomo più o meno quando sono nati i nostri nonni.

Infine, tornando ad American Horror Story, ho capito finalmente dove hanno preso l'ispirazione per Pepper, che, guarda caso, ritroveremo in Freak Show.






martedì 16 settembre 2014

Non solo horror: Taxi Driver

17:57
Ore 6.30 a.m.
'Mariiiikaaaaa, dai che devi andare a lavorare!'
La mamma mi sveglia.
Io non bofonchio nemmeno troppo, di solito sono brava a svegliarmi.
Faccio colazione con mio fratello che deve prendere il treno per andare a scuola.
Saluto tutti, mi accordo con la mamma per il pranzo ed esco.
Abito in condominio, scendendo le scale incontro un paio di vicini mattinieri come me. Scambiamo due chiacchiere mentre vado a prendere la bici con cui vado al lavoro.
Per la strada incontro il proprietario del piccolo market del paese, che mi saluta sempre con un sorrisone e un braccio alzato.
Passando chiamo ad alta voce mia zia, saluto pure lei.
Continuo a pedalare, mi passano vicino delle macchine, qualche collega, qualche conoscente, ci salutiamo, mi suonano il clacson. Al lavoro commentiamo la mia pedalata, parliamo, ridiamo, per 6 ore.
Poi torno a casa, mangio con i miei.
Parliamo della giornata, in modo frettoloso e a volte poco interessato, ma fa parte della routine.
Nel pomeriggio salgo in città, incontro la mia amica, andiamo a fare shopping, lei si sfoga per l'ansia dell'imminente convivenza, io le racconto come va il lavoro, ci diamo al gossip selvaggio e proviamo gli smalti da Kiko.
Alla sera torno a casa, ceno, per poi prepararmi ed uscire col mio ragazzo, andiamo in un pub con altri amici. Abbiamo argomenti consolidati, altri che evitiamo, ricordi che ci raccontiamo per riderne di nuovo come la prima volta.
Vado a letto, stanca morta. Ma è andata bene anche oggi.
Dormo.

Ore 6.30 a.m.
Travis è già sveglio, si rotola nel letto.
Si alza, si prepara una tazza di latte con i cereali, non ha nemmeno voglia di riscaldarselo.
Passa la giornata a oziare, non conclude nulla.
Pranza, cena, le ore scorrono sempre uguali, fino a sera, l'ora di arrivare al lavoro.
Fa il taxista di notte.
Incontra molta più gente di quanta ne incontri io, probabilmente.
Ma non parla veramente con nessuna, se non scambiando parole di circostanza con ogni cliente.
Ascolta le loro parole come se le udisse per sbaglio su un autobus, senza il minimo interesse. Non si ricorda nemmeno più come si fa ad avere una conversazione decente.
Finisce il turno, incontra qualche collega nel solito bar, ma non si trattiene mai troppo. Nemmeno quello che dicono loro riesce a toccarlo.
Torna a casa.
Non dorme.


Due persone, con trascorsi diversi, con vite diverse, con futuri - mi auguro - diversi.
Una ha una vita che si potrebbe definire normale, l'altro vive nella solitudine.
Quella totale, spiazzante, senza via d'uscita.
Quella che si crea continuamente da se stessa.
Meno stai con le persone meno sai starci.
E' per questo che quando inviti una bellissima donna ad uscire e lei per qualche motivo accetta, rovini tutto con un errore che a vederlo sullo schermo sembra un errore davvero da deficiente. Eppure l'hai commesso, perché non conosci più nemmeno le regole base della consuetudine. A nessuno verrebbe in mente di portare una donna al primo appuntamento a vedere un film a luci rosse al cinema, ma a Travis sì. Perché quella è la sua abitudine. Non vivendo le altre persone, come può sapere che quella non è anche la LORO, di abitudine.
E non sapendo come gira il mondo, non ti accorgi che il ragazzo con cui stai parlando non vuole tenerti compagnia, ma solo 'venderti' la sua escort. Perché non sai che le persone abitualmente non girano per la strada chiedendo ai passanti compagnia.

Si stupisce di trovare una escort minorenne (molto minorenne), cosa per il quale lo invidio. Invidio la sua sorpresa a fronte di una cosa così sbagliata. Noi ormai ci conviviamo, con fatti del genere, sono la cronaca quotidiana.
Questo suo starsene fuori dalle vicende del mondo lo ha fatto regredire allo stato infantile, quasi. Non è possibile che una bambina sia una prostituta, non è possibile (quanto è vero, Travis, quanto è vero. Non DOVREBBE essere possibile). Quindi, semplicemente, la salvi.


Pensi che sia sufficiente armarsi fino ai denti, e allenarsi a sembrare minaccioso davanti allo specchio per salvare il mondo da tutte le sue brutture.
Da solo, contro tutti.

Se poi ce la farà, non ve lo dico.
Anche se trovo assurdo che film come Taxi Driver non siano visti da tutti, non vengano trasmessi nelle scuole.

E' un film che ti insegna che l'umanità può anche fare schifo (cit. Fuori Frigo) ma che ne abbiamo bisogno.
Che a modo nostro ne siamo parte anche noi e che non possiamo far finta che non sia così, anche se a volte vorremmo.
Che la solitudine ti corrode, come una malattia, ma lei per davvero, non come la cellulite secondo quelli del Somatoline.

E per quanto riguarda il film, se mi è piaciuto?
Ci sono pellicole che vanno oltre l'essere film soggetti ad opinione pubblica, diventano iconici e tali devono restare.
Ma ovviamente sì, mi è piaciuto.
Molto.


giovedì 14 agosto 2014

Twin Peaks - prima parte

11:42
Parlare di Twin Peaks quando si è una Mari è molto, molto difficile.
Mi spiego meglio.

Sono nata nel 90, quindi per ovvi motivi anagrafici mi sono persa la goduria di vederlo in tv, con episodi distanziati uno dall'altro, mi sono persa la frenesia di terminare un episodio con uno dei suoi tremendi cliffhanger e dover aspettare una settimana per vedere come va avanti, non ho assistito alle reazioni live del pubblico, non ho fatto ipotesi con amici-conoscenti-familiari su chi potesse aver ammazzato sta benedetta Laura Palmer.

Se io nomino Laura Palmer i miei amici pensano ai Bastille, che per quanto dal vivo siano bravini davvero insomma non è proprio la stessa cosa.

Non ho manco potuto cogliere i cambiamenti nel fare serie tv degli anni immediatamente successivi.

E poi, credete sia facile vedere un qualcosa così tanto amato da tutti? Che non ho mai sentito in quasi due anni di blogging la gente usare il termine 'capolavoro' all'unanimità a questa maniera?
E' una responsabilità.
Devi guardarlo tutto concentrata, non puoi perderti manco un battito di ciglia, uno starnuto, perché se poi è quello decisivo? Poi lo giudichi male, non lo capisci.

Ma soprattutto, E SE NON TI PIACE?

Devi rivalutare tutti i tuoi metodi di giudizio, perchè se tutti amano come folli un telefilm e a te fa schifo insomma c'è qualcosa da rivedere.

Quindi mi accingo alla visione di Twin Peaks con una pressione addosso che ve la raccomando.


Premo play, episodio 1.
Ammazza che colonna sonora, è il primo pensiero.
Ma chissà dove l'ho già sentita prima sta roba, è il secondo.
Non mi sono ancora data una risposta.
Comunque, la prima ora e mezza serve per metterci comodi, farci fare un giro del paes..
INVECE NO.
Cinque minuti, ma neanche, e Laura è già in polvere di garofalo, come si dice da queste parti.
Faccina angelica, pare anche essere tanto amata, sta Laura, e tu pensi subito, nel migliore dei clichè populisti, che se ne vanno sempre per primi i migliori.
Allora tutto il paese si muove, pianti e commozione, persino dal preside della scuola, tutti sconvolti per questa morte, eppure qualcosa puzza.
E mica per niente.
Già nella prima puntata l'immagine della vittima è completamente ribaltata. Ce la aspettavamo dolce, tenera reginetta del ballo e invece qua sbucano un sacco di soldi, riviste porno e cocaina.
Hai capito la Lauretta?
In pochi minuti poi succede che un'altra ragazza scompare (ma poi la ritrovano subito ed è viva, non fate neanche in tempo a preoccuparvi), salta fuori un amante di Laura che però due minuti dopo che è morta già si limona la migliore amica di lei (che ha la voce di Lorelai Gilmore e questo, ve lo garantisco, vi urterà) e l'episodio si conclude con un urlo di mamma Palmer.
E in tutto ciò arriva a Twin Peaks un agente dell'FBI a indagare sull'omicidio di Laura che altro non è che ORSON DI DESPERATE HOUSEWIVES.

Iniettatemi in vena l'episodio 2 tipo subito.


Episodio 2.
Pensate che tutta la carne messa al fuoco nell'episodio uno fosse sufficiente a farci 5 stagioni?
E invece stavolta il convento offre:

  • due giovini (di cui uno era il moroso ufficiale di Laura, salutiamo Bobby) che devono dei soldi a uno. 
  • quel qualcuno è il marito della tipa che il sopracitato Bobby si faceva, cornificando la 'povera' Laura
  • metà dei soldi da dare al tipo-marito della tipa- se li è portati nella tomba Laura, tiè.
  • Lo stesso tipo (che non si chiama Tipo ma Leo) dà da lavare alla moglie (amante di Bobby) una camicia sporca di sangue (!!!)
  • Corna come se non ci fosse un domani anche tra personaggi apparentemente-per ora-secondari
  • Vari limoni e amori nascenti
Capite perché non si può smettere di guardare?
Questa serie è malvagia.


Episodio 3.
Qui succede qualcosa di inusuale.
Da apparentemente tranquillo telefilm giallo, in cui la polizia indaga su uno o più omicidi, Twin Peaks si trasforma in una specie di trip allucinogeno.
Quindi accendi, pensi di vedere l'evoluzione delle indagini e invece vedi una ragazza detestabile che balla in mezzo ad una tavola calda con tutta l'aria di essersi sniffata anche l'incenso della chiesa di fronte, un agente dell'FBI che indaga tirando dei sassi contro una bottiglia, un papà balla (qua son tutti danzerini, un mondo pieno di gioia e di Alessandre Celentano) con la foto della figlia, una tipa piratesca esulta perchè le sue tende sono finalmente silenziose e lei e il marito per questo diventeranno ricchi (???) e Cooper fa un sogno assurdo con un nano che non sa parlare ma balla (ma toh) da cui intuisce chi è l'assassino di Laura.
Credete sia finita qui?
Ma no, vi pare?
Compaiono un uomo senza un braccio che recita una poesia e un altro capellone che insinua che ucciderà ancora.
MA CHI SIETE VOI.


Mi ripeto:
Capite?
Capite quanto è subdolo Twin Peaks?
Quando pensate di starci capendo qualcosa lui inserisce elementi nuovi (apparentemente) ad cazzum e vi fa anche incavolare perché cosa mi significa a me che tu hai capito chi è l'assassino?
Come hai fatto?
Da cosa l'hai capito?
Sono stati gli alieni?
E' stato Tyrion Lannister?



venerdì 13 giugno 2014

Halloween - La notte delle streghe

17:05
(1978, John Carpenter)


'Lui non è un uomo.'

Ritorno al blog, proprio di venerdì 13, con questa frase.
Che da sola racconta meglio di ogni altra un film di cui onestamente mi vergogno un po' a parlare.

Notte di Halloween 1963: Michael Myers, un bambino di 6 anni, uccide a pugnalate la sorella che gli faceva da baby-sitter.
Vigilia di Halloween 1978: Michael, ricoverato per anni in manicomio, riesce ad evadere e torna a casa, e sembra che il suo obiettivo sia uccidere altre baby-sitter.

Quanto è sottile la differenza tra l'essere umani dall'essere animali?
Noi diamo per scontata la nostra superiorità, facendoci vezzo del nostro uso della ragione, della nostra proprietà di linguaggio e della nostra capacità di ponderare le decisioni.
Un animale è istintivo, se ha fame mangia, se ha sete beve. Semplice ed essenziale.
Ma se il bisogno dell'animale fosse uccidere?


Ad una visione superficiale, Michael Myers, senza ombra di dubbio il più affascinante di tutti i serial killer della storia della cinematografia tutta, potrebbe sembrare solo questo: un animale, guidato dall'istinto.
Se si prova ad andare più a fondo, Michael Myers è ancora peggio. E' ad un livello ulteriore, ancora inesplorato.
Lui non parla, non comunica. Persino gli animali emettono suoni per comunicare tra di loro.
(Tranne i lombrichi, credo. Comunicano i lombrichi?)
Non dice mai una sola parola. Non la dice durante il film e sappiamo dai racconti del medico che non ha MAI detta una in anni di ricovero.
Ma soprattutto, non ha un volto. Non ha espressioni, e nel nostro comune linguaggio non verbale è praticamente come dire che non ha emozioni. Certo, la faccia ce l'ha, sotto la maschera, ma il fatto che ci sia impedito di vederla è un segnale fortissimo.
Nonché un'idea geniale.
La maschera che Myers indossa è una banalissima maschera umana dipinta di bianco. Senza il rossore delle gote, le sopracciglia, il colorito delle labbra. Una mano di bianco e un volto normale diventa spaventoso. E' la prima cosa che mostriamo, il volto, la prima che ci identifica, quasi più del nome.
Tolta l'umanità al volto, fatta di colori, peli, piccoli o grandi segni, cosa resta?
Michael Myers.
E questo chi cavolo è?
COSA è?

Il Male, a detta del dottore.
E definizione più precisa non può essere data.
'Era come svuotato' - continua il dottor Loomis - 'Non capiva, non aveva coscienza, non sentiva nè gioia nè dolore'
Onestamente, è sconvolgente. Le scene in cui Loomis parla di Michael sono da pelle d'oca, più delle scene d'omicidio. Sono il momento in cui si capisce che per L'Ombra della Strega non ci sarà mai redenzione.
Ma la paura vera si prova a cinque minuti dall'inizio del film, quando, dopo lo storico, indimenticabile e ormai mitico inizio, i genitori di Michael tornano a casa e lo trovano sulla porta di casa, col suo costumino di Halloween, il coltello insanguinato in mano, e gli sfilano la maschera, e lui se ne sta lì, col faccino da bambino di sei anni, a fissare in camera, e io che me ne sto lì, davanti allo schermo, che deglutisco con un brivido ghiacciato sulla schiena.


E in tutto ciò, quello che aveva Carpenter erano pochi spicci, attori quasi tutti di seconda scelta e una maschera del Capitano Kirk di Star Trek.
E dopo anni ancora i brividi.
E le lacrime di amore che colano copiosamente lungo le guance.







martedì 22 aprile 2014

Eden Lake

16:10
(2008, James Watkins)


Un giorno come un altro uscite dal lavoro, trovate una macchina ad aspettarvi, salite e c'è MICHAEL FASSBENDER.
Niente, la giornata assume una piega diversa.
Come se la sua presenza non fosse sufficiente accade che MICHAEL FASSBENDER vi dice: 'Andiamo in campeggio?'
E voi tutte così:


Ma ricominciate a respirare, perché quelle che andranno in campeggio con MICHAEL FASSBENDER non siete voi.
Manco io.
E' una tipa bellissima di nome Kelly Reilly.

Insomma, Kelly e MICHAEL FASSBENDER vanno in campeggio insieme. Tutto bello, tutto paradisiaco, se non fosse che un gruppetto di ragazzini comincia a infastidirli, fino a trasformare questo weekend romantico in un incubo.

E no, il fatto che questo post abbia un incipit così cretino non è affatto casuale.
Sto cercando di sdrammatizzare, perché ad un giorno dalla visione tutte le sensazioni negative che Eden Lake mi ha trasmesso sono ancora lì.


Watkins mi ha fatta arrabbiare, anzi mi ha proprio resa rabbiosa, sbattendomi in faccia il totale nonsense di alcune azioni umane. Di tutto quello che vediamo non esiste un perché. Ed è questo a rendere la vicenda, che di per sè non ha niente di nuovo o eccezionale, un incubo.
Gli aguzzini ci vengono mostrati da subito, non sono altro che ragazzetti, più o meno dell'età di mio fratello, preadolescenti. Se ne stanno lì a bighellonare, importunano un altro ragazzetto timidino, niente di eclatante.
Non sono ragazzini demoniaci, fantasmi, mostri.
Sono solo ragazzini.
Questo è un elemento destabilizzante, tanto quanto in Them, ma senza l'elemento sorpresa finale. Non c'è niente di sorprendente, loro sono lì fin dal principio, quello che è surreale è quanto noi restiamo di sasso nel vedere quanto si spingono in là.

Se in Them alla fine mi sentivo il freddo dentro, alla fine di Eden Lake ho sentito solo una calda, caldissima rabbia.
Siamo in un bosco apparentemente senza fine, sempre di giorno (c'è solo qualche scena finale di sera, ma ormai il grosso era fatto). Eppure, anche senza il grande aiuto del buio ci sentiamo opprimere, siamo all'aperto ma la pressione è tale che sembra manchi l'aria alla gola.
Loro sono ovunque, non puoi nasconderti, non puoi scappare a lungo.
Ma soprattutto sono disposti a tutto.
E gli equilibri di questo gruppetto di microcefali sono così netti che sembra di stare leggendo uno studio antropologico anzichè stare guardando un film horror. Tutti sono sottomessi alla figura carismatica e sicura di sè di Brett, il piccolo boss, tutti desiderosi di soddisfarlo e incapaci di contraddirlo. Figura leader che si manifesta per quello che realmente è (un vero mostro) nella scena, a mio parere una delle più tremende, in cui massacra di botte uno dei suoi stessi amici.
Niente ha più importanza, è solo una folle esplosione di violenza fine a se stessa, in uno scoppio di rabbia furiosa che ha il potere di surriscaldare anche lo spettatore.
Una scena terrificante davvero.


Tanto quanto sono interessanti le interazioni tra i giovani, altrettanto interessanti sono i due personaggi adulti, che in una sola ora e mezza scarsa si evolvono al punto da scambiarsi i ruoli.
Apparentemente forte e sicuro di sè lui, apparentemente timida e dolce lei, a metà visione li troviamo uno mezzo morto e l'altra sporca, stanca e sudata, ma aggressiva e determinata a non lasciarci le penne.
L'istinto di sopravvivenza la riempie di una grinta che non è mai assurda o insensata. Non passiamo da Pollyanna a Wonder Woman, badate bene. Lei rimane la stessa donna di sempre (come si vede nel momento di senso di colpa che ha quando uccide il ragazzino sbagliato), ma vuole vivere e se qualcosa si mette in mezzo tra lei e la sopravvivenza allora lei elimina quel qualcosa. Punto.
Anche se quel qualcosa avesse le sembianze di una bambina.

Per il post numero 100 di MRR non potevo trovare film migliore. Uno dei più intensi visti ultimamente, uno di quelli che imprimono la loro forma nel cuore prepotentemente, uno di quelli per cui la parola capolavoro non è usata a sproposito.

PS. Posso garantire ancora per un po' per mio fratello, coetaneo dei bulletti. E' un po' cretino, ma la gente non la ammazza.
Credo.

venerdì 7 marzo 2014

Suspiria

09:57
(1977, Dario Argento)


Premetto che di Darione non parlo. Leggo molto, ho visto qualcosa ma troppo poco per avere un'opinione precisa, quindi piuttosto che dire cose incomplete e sbagliate lascio da parte il giudizio sul regista per concentrarmi sulla perla che probabilmente gli è valsa già da sola la fama che lo accompagna(va?).

Susy è una ballerina che si trasferisce a Friburgo per frequentare la prestigiosa Accademia di danza. Sul luogo, però, scopre che una delle studentesse è stata appena uccisa e insieme all'amica di quest'ultima indaga sugli eventi strani che accadono nell'istituto.

Nell'ordine Suspiria vanta:
un cast che non offre la sua performance migliore (Miguel Bosè nei suoi giorni di gloria, ragazzi, una specie di visione mistica),
una sceneggiatura imperfetta,
un doppiaggio (im)pietoso,
effetti speciali diciamo agé,
un ritmo abbastanza lento,
e qualche personaggio da prendere a schiaffoni a due a due finchè diventan dispari.

Eppure è IL film simbolo di Argento, una perla dell'horror italiano quando sapevamo come farlo, riconosciuto universalmente come un capolavoro, come uno dei film di cui possiamo andare internazionalmente fieri.
Possibile?
Eccome, perché è così.


Quindi, cosa rende un film così di valore, se pur con i suoi difetti?
Dall'arrivo di Susy a Friburgo c'è nell'aria qualcosa che non va, a partire da quella ragazza che scappa dall'Accademia, a partire da quella porta chiusa, ma lei è appena arrivata, non dà troppo peso a queste cose, poi c'è un tempaccio, trova un posto per la notte e torna il giorno dopo. Il giorno dopo, con il bel tempo e la luce del sole, infatti, tutto sembra meno drammatico, le persone dell'istituto sono accoglienti, le ragazze alla mano, e chi si ricorda più di quella ragazza che scappava?
Peccato che lei sia morta, e che ogni passo all'interno della scuola sembri più strano del precedente. Sguardi troppo lunghi, questo strano malessere, l'essere costretta a stare lì. Non è normale, ma Susy non ci pensa troppo. Si gode la sua occasione. L'amicizia con Sarah, che queste stranezze le vede e sente da più tempo, le aprirà gli occhi, a Susy come a noi, che stiamo continuando a fidarci dell'ambiente, perché sarà sì bizzarro, ma noi siamo innocentisti fino a prova contraria, giusto? Sappiamo per certo che ci sarà qualcosa che andrà storto, perchè sappiamo cosa stiamo guardando, ma cosa, quando e come accadrà, ma soprattutto per mano di chi, sono cose che ovviamente non sappiamo, quindi, di chi fidarsi?
Eppure qualcosa peggiora continuamente, i segreti che Sarah rivela all'amica sono inquietanti, gli eventi sfuggono di mano, la completa comprensione dei fatti arriva quando forse è troppo tardi.

Abbiamo di fronte un film abbastanza lento, ma quando si arriva alla fine ci si chiede 'Ma come, già finito?'. Argento ci butta all'interno dell'Accademia, senza paura che ci facciamo male. Colora tutto di rosso, gioca con i colori come un bambino, ma con il risultato che ogni cosa è meno chiara ma sicuramente amplificata. E accende la musica, questa musica dei Goblin (la cosa ci sorprende molto) che sembra uscita da un carillon, che peraltro è abbastanza pertinente con l'ambiente della danza, e che sembra volerci rassicurare, quando invece avremmo bisogno di qualcuno che ci metta in guardia.


Va poi affrontato un aspetto che riguarda non solo Suspiria ma una bella fetta dei film vintage. Nel 1977 gli effetti speciali non prevedevano uso di pc, computer grafica, niente del genere, E qui viene tutto mostrato, niente è lasciato all'immaginazione dello spettatore, qualche bella scena splatter ce la troviamo. E sono anche fatte bene, nel loro essere agé, come dicevo prima. Questo mi ha fatto riflettere su quanto girare un film horror qualche anno fa dovesse essere molto più difficile. Non solo per il regista che doveva immaginare, studiare, inventare metodi nuovi o sistemi per utilizzare metodi già conosciuti, ma anche per gli stessi attori che sicuramente erano messi più alla prova rispetto ai contemporanei. La strega era una nonnina di 94 anni. Sono partiti avvantaggiati sul trucco, ok, ma capite cosa vuol dire arrangiarsi? Darione si è arrangiato con quello che aveva, l'ha sistemato in modo ottimale e ha ottenuto scene pressochè perfette. Troppo facile mettere un omino davanti al computer a simulare un omicidio, una creatura mostruosa, una scena sanguinolenta. E troppo facile per le persone dire 'Ma si vede che è un manichino!'.



Insomma, mentre riflettevo sui massimi sistemi siamo arrivati a fine film. La spinosa questione streghe (non è uno spoiler, Suspiria è il primo capitolo della trilogia delle madri e sapevate già che parla di streghe quindi non arrabbiatevi con me) viene toccata con una grazia incredibile, non si scade mai nel banalotto o nel fastidioso, soprattutto perché la famigerata parola esce ben dopo la metà del film. La storia viene narrata con semplicità, e io sono contenta che sia stato così.

Dario, vogliamo ricordarti così.

giovedì 13 febbraio 2014

I 5 film che un regista deve vedere prima di girare un film horror

10:56
A me le idee per questi post vengono in doccia.
Perchè in doccia io non canto, quindi ho tempo di pensare.
Anche stavolta, come nel primo post ideato mentre mi lavavo, si tratta di un argomento aperto, che possiamo incrementare con i vostri commenti e le vostre idee, che sono sempre benaccette e molto gradite.
Noterete l'assenza di Carpenter e Kubrik. Voluta, non preoccupatevi. Ho solo immaginato che una persona con la voglia di fare un film horror quantomeno La Cosa l'avesse visto.
Iniziamo!

1 - Un film a scelta, ma se li guardate tutti è tanto di guadagnato, di Ti West o Lucky McKee.






Dovete avere ben chiaro in mente il vostro obiettivo, cari registi novelli. Fare un buon film o la notorietà improvvisa? Siccome questo elenco è pensato per persone serie e non per manici di successo, la seconda opzione non è contemplata. The woman, o The house of the devil, i due esempi che vi ho messo sopra, sono quasi sconosciuti alla maggior parte delle persone che incontrate al cinema al sabato a vedere il nuovo film di Verdone. Eppure sono due film che fanno ben sperare per il futuro del genere. Azzardiamo a dire che sono semi capolavori?
Azzardiamo.
Ricordati, futuro regista, che carry on smiling and the world will smile with you*, tanto per fare una vergognosa citazione. Ma il succo è che se fai un buon lavoro prima o poi qualcuno si accorgerà del tuo talento.
E se non se ne accorgeranno le masse fa niente, se ne accorgeranno i blogger, e pare chiaro che i suddetti hanno certamente più rilevanza ai fini del giudizio.


2 - Hostel, di Eli Roth, 2005.


Ecco invece il sunto di tutto quello che NON dovete fare.
Non avete bisogno di grandi nomi (soprattutto non di Tarantino, non rischiate di fargli fare brutta figura) per farvi pubblicità, non vi servono tette vaganti e personaggi stupidi, non vi serve la violenza a tutti i costi, non vi servono i bambini malefici. Ma soprattutto, non vi servono queste cose tutte insieme. Scegliete il vostro obiettivo.
Volete i soldi?
Via ai nomi famosi in locandina e alle tette.
Volete i personaggi stupidi?
No, non li volete.
Volete la violenza?
Concentratevi su quella, ma fatelo bene. Con uno scopo.
I bambini malefici non sono male, in genere, ma devono essere diversi da quelli di Hostel.
Ma TUTTO INSIEME no, per nessuna ragione al mondo.

3 - E tu vivrai nel terrore: L'Aldilà, di Lucio Fulci, 1981.





Scontato, vero?
Ma un film di Fulci a scelta tra quelli della Trilogia della morte è imprescindibile, per due motivi soprattutto.
Il primo è che saper scrivere non è una conditio sine qua non. Chiariamo subito prima che fraintendiate e non sia mai. L'Aldilà è un film caotico, con una trama appena appena accennata, tanto bastava per tenere in piedi un film. E neppure gli attori erano tutti eccelsi, ecco. Ricordo ai gentili ascoltatori che quello che viene magnato dalle tarantole adesso conduce Elisir. Eppure, quanta paura fa. Con quei giochi di immagini, di colori scuri, poi chiari, e l'atmosfera, questo fare solo ed esclusivamente quello che al regista andava. Oltre le convenzioni, le abitudini del cinema italiano anni 80, Fulci aveva una passione e la rovesciava tutta in film così imcomprensibili, come se la conoscenza completa non ci fosse mai concessa. Perché la paura è un sentimento irrazionale, e come tale va presa e gestita, senza mettere tutti i tasselli a posto.
Il secondo motivo è che tutti quanti, io compresa, dovremmo volere più bene alla nostra Italia, che forse non vive un momento splendido, ma che ci ha regalato la grandezza, nel suo essere così bella e nel fare film horror che Hollywood levati.

4 - Session 9, di Brad Anderson, 2001.





Se siete al vostro primo lavoro è probabile che disponiate di ben poca pecunia. Ma guai al primo che sento che dice che questo è un problema. Session 9 è un gioiello low cost, ma gli esempi sono infiniti. Per non essere affatto scontata potrei anche raccontarvi di come ha fatto Raimi a girare La Casa con un paio di dollari in tasca e un paio di amici cretini. O di come Oren Peli ha sbattuto le porte di casa sua e ha girato un film discutibile, ma che ha avuto un successo incredibile. Oppure ancora del giorno in cui Neil Marshall ha trovato l'idea per The descent e ha creato uno dei film migliori degli ultimi anni.
I soldi non fanno la felicità.
Nemmeno quella dei cinefili.

5 - Il cigno nero, di Darren Aronofsky, 2010.





Io non so nemmeno scattare una fotografia senza farla mossa. Ma se avete in mente di fare un film dovreste avere una certa manualità con macchinari di sorta. Se cercate un uomo da cui copiare il modo di gestire le immagini, quello è sicuramente Darren Aronofsky, che in particolare in quest splendore di film distruggi-anima, gioca con lo spettatore, con la macchina, in una costante danza tra cò che è buono e ciò che non lo è. Riflessi nello specchio, il doppio visto in ogni suo aspetto. Nel contesto di un film praticamente perfetto, per scrittura e interpretazioni, una regia che sfiora il sublime è la ciliegina sulla torta, quel qualcosa in più che eleva Darren al ruolo di genio e me all'adorazione più totale.



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